CIVG Informa N°21 - Chi sta vincendo la quarta guerra mondiale

Un interessante contributo di Cesare Allara alla riflessione ed alla discussione sulle guerre dell'impero

 

Neo-imperialismo, libertà, democrazia, diritti umani

 

Rievocando recentemente il decimo anniversario dell’inizio dell’operazione Iraqi Freedom (20 marzo 2003) tutti i commentatori hanno ribadito che quella guerra è stata per gli Stati Uniti “malaugurata”, “sbagliata”, un “errore”, un “fallimento”, perché ha creato instabilità nella regione e ha allargato l’influenza di Teheran nel Medio Oriente; hanno accusato Bush jr di scarsa intelligenza politica, e i suoi collaboratori di incompetenza, di pressapochismo, per non aver previsto gli sviluppi tragici del conflitto. Commentando il bilancio dell’intervento della “coalizione dei volonterosi” in Iraq, Le Monde Diplomatique-Il manifesto del marzo scorso scriveva in prima pagina: “Se, come confermano documenti recentemente declassificati, l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti aveva come obiettivo il controllo del petrolio, si può dire che essa si conclude con una bruciante sconfitta”.

Dai toni e dagli argomenti usati si suggerisce ai lettori  che gli Stati Uniti a guida repubblicana sono usciti sconfitti dalla guerra contro l’Iraq: in sostanza un grande “ fiasco”, un totale disastro dell’amministrazione Bush jr, che il democratico Obama ha ereditato e si è premurato alla meno peggio di rimediare. Ma stanno veramente così le cose?

Non sarò certo io a mettere in dubbio che l’aggressione del 2003 aveva come obiettivo il controllo del petrolio; scrissi nel settembre 2002 in proposito un articolo intitolato “Asse del male o asse del petrolio?” che fu  pubblicato nel dicembre 2002 all’interno di un ampio “Dossier Iraq”, dal mensile Missioni Consolata. Ma il controllo del petrolio mediorientale era l’unico o il principale obiettivo degli Stati Uniti? Per capire chi ha vinto davvero la partita irachena è indispensabile chiarire con esattezza non solo gli obiettivi che l’amministrazione Bush jr si proponeva di raggiungere con l’operazione Iraqi Freedom, ma soprattutto la sequenza storica in cui quell’aggressione militare era inserita. E cioè all’interno di un’operazione ben più vasta, dentro un nuovo grande conflitto mondiale che alcuni storici hanno definito “quarta guerra mondiale” che è tuttora in pieno svolgimento. Lo scopo di questa quarta guerra mondiale è il dominio degli Stati Uniti su tutto il pianeta, da raggiungersi in modi “pacifici” e “democratici” nei paesi occidentali attraverso un allineamento delle “democrazie” europee e dei modelli capitalistici europei al modello degli Stati Uniti; e per mezzo di aggressioni militari nel resto del mondo laddove persistono governi nazionalisti, autoritari o ritenuti tali, in cui non sono sufficienti ad esempio le cosiddette rivoluzioni colorate. Per comprendere la sequenza storica in cui si inserisce Iraqi Freedom e le circostanze che hanno chiuso la terza guerra mondiale (quella conosciuta come guerra fredda. che ha visto contrapporsi il comunismo al cosiddetto mondo libero e che è costata 22 milioni di morti), dando inizio nel 1991 alla quarta guerra mondiale, occorre a mio avviso partire dal 1979, l’anno in cui gli Stati Uniti toccano il livello più basso nel controllo delle fonti energetiche del Medio Oriente. In quell’anno il più fedele alleato di Washington in Medio Oriente, lo scià Reza Pahlavi II, è costretto a fuggire all’estero e il 1° aprile nasce ufficialmente la Repubblica Islamica dell’Iran. Dopo l’Iraq, che già il 9 aprile 1972 aveva firmato un trattato di amicizia e cooperazione con l’Unione Sovietica e due mesi dopo aveva potuto impunemente procedere alla nazionalizzazione del petrolio estromettendo gli anglo-statunitensi, gli Stati Uniti perdono così il controllo di un altro dei tre maggiori produttori di petrolio del Medio Oriente.

Nell’aprile 1980, gli Stati Uniti, ancora demoralizzati dalla fuga precipitosa dal Vietnam avvenuta solo cinque anni prima,  subiscono un altro piccolo, ma umiliante rovescio militare. Trattasi dell’operazione Eagle Claw, con la quale il presidente democratico Jimmy Carter tenta di risolvere con un colpo di mano la cosiddetta  “crisi degli ostaggi”, 52 persone trattenute dal 4 novembre 1979 nell’ambasciata USA a Teheran da centinaia di manifestanti che in cambio del rilascio del personale dell’ambasciata, chiedono al “Grande Satana” le scuse ufficiali per l’appoggio dato al regime dello scià e la sua estradizione in Iran al fine di processarlo per i crimini commessi durante la dittatura. Nella notte fra il 24 e il 25 aprile 1980, elicotteri USA con a bordo gruppi di commando si dirigono verso la loro ambasciata di Teheran decisi a liberare gli ostaggi, ma due di essi entrano in collisione e precipitano in una zona desertica dell’Iran. Muoiono otto militari e il blitz viene sospeso. Questo epilogo risulterà determinante per la non rielezione di Carter alla Casa Bianca.

Un altro avvenimento sarà altrettanto decisivo, e non solamente per il destino di Carter. Lo racconta sul New York Times del 15 aprile 1991 il professor Gary Sick, docente della Columbia University che nel 1980 era stato il consigliere per l’Iran del presidente Carter. Sick rivela che Bush sr, all’epoca candidato alla vice presidenza con Ronald Reagan, indusse l’Iran il 21 ottobre 1980, cioè due settimane prima del voto per la Casa Bianca, a ritardare il rilascio dei 52 ostaggi. Secondo Sick, questa operazione fu condotta da William Casey - nominato successivamente direttore della CIA durante i due mandati della presidenza Reagan - che offrì all’Iran ingenti somme di denaro e forniture militari per trattenere gli ostaggi ancora qualche mese. La loro liberazione avverrà il 20 gennaio 1981, esattamente venti minuti dopo che Reagan ha terminato il suo discorso di insediamento alla Casa Bianca. Il Congresso degli Stati Uniti dopo lunghe indagini su questi eventi concluderà che le accuse di complotto organizzato da Reagan contro Carter sono infondate in quanto non supportate da prove concrete, ma il riscontro principale della versione di Sick è quello fornito dal presidente iraniano dell’epoca, Abol Hassan Bani Sadr, che nel suo libro di memorie “My turn to speak: Iran, Revolution & secret deals with the United States” cita tutti i personaggi coinvolti, di parte statunitense e di parte iraniana, e il ruolo che ciascuno di essi ha avuto nell’intrigo. Da notare che Bani Sadr scrive il suo libro da esule in Francia, dopo che nell’estate del 1981 fu costretto a fuggire dall’Iran per contrasti con l’ayatollah Khomeini.

Queste vicende legate alla campagna elettorale per la Casa Bianca dell’estate-autunno 1980 forniscono una chiave di lettura completamente diversa sulla guerra Iran-Iraq e sulla successiva operazione Desert Storm del 1991, da quella che ha imperversato per un paio di decenni e che resiste tuttora negli ambienti embedded e politically correct.

Gli Stati Uniti iniziano con la presidenza Reagan una grande offensiva economica, ideologica e militare su scala planetaria. Un’offensiva i cui obiettivi andranno progressivamente assai al di là del semplice controllo delle fonti energetiche del Medio Oriente. Un’offensiva militare, a partire dall’aggressione all’Iraq del 1991, contro quei paesi rimasti dal 1989 orfani della protezione sovietica. Un’offensiva per chiudere definitivamente la parentesi del secolo breve, dei 30 anni gloriosi del capitalismo (1945-1975) e delle esperienze  socialdemocratiche. Un’offensiva per restaurare, espandere e consolidare il sistema capitalistico e l’ideologia neo-liberista su tutto il pianeta, e quindi un’offensiva di classe contro i lavoratori “privilegiati” dei paesi occidentali. E’ da ricordare in proposito lo scontro del neo-eletto Reagan con i controllori di volo che si concluse con il licenziamento di più di 11.000 lavoratori e, qualche anno più tardi, la storica debacle dei minatori inglesi contro il primo ministro Margaret Thatcher intenzionata a chiudere alcune miniere. Sulla disfatta del movimento operaio italiano rimando a quanto scritto nel 2010 in “1980: i 35 giorni che hanno cambiato l’Italia. Cause ed effetti della madre di tutte le sconfitte”. Le aggressioni militari contro l’Iraq, la Serbia, l’Afghanistan, la Libia, la Siria, eccetera, e le contemporanee offensive contro le classi popolari dei paesi occidentali vanno perciò valutate nel quadro di questa guerra per il controllo totalitario del pianeta Terra da parte del grande capitalismo guidato dagli Stati Uniti.

Nell’immediato, per riconquistare al più presto le posizioni perdute dopo le batoste degli anni ’70, l’amministrazione Reagan accentua le difficoltà economiche dell’Unione Sovietica accelerando la competizione nella corsa agli armamenti, con l’annuncio nel marzo 1983 di un nuovo sistema di difesa con basi nello spazio denominato Strategic Defense Initiative, ma più comunemente conosciuto come Scudo Spaziale o Guerre Stellari. Tuttavia, l’Unione Sovietica crollerà più che altro per contraddizioni interne, per mano di una nuova borghesia sedotta dalle prospettive del capitalismo e insofferente delle limitazioni economiche che impone il “socialismo realizzato”. Sul fronte del Medio Oriente, gli Stati Uniti stipulano con Israele, nella persona di Ariel Sharon a fine novembre 1981, un trattato di alleanza strategica che prevede il mantenimento della supremazia militare assoluta in termini qualitativi delle forze armate di Tel Aviv nei confronti dell’insieme delle forze armate di tutti i paesi arabi.

Quando Reagan si insedia alla Casa Bianca la guerra Iran-Iraq è in corso da quattro mesi esatti. Una guerra, quella Iran-Iraq, nata per dirimere una delle numerose dispute sui confini mediorientali disegnati a misura degli interessi occidentali dopo la prima guerra mondiale. Nel caso specifico, la regione iraniana del Khuzestan abitata da una maggioranza araba, e il confine stabilito sull’asse dello Shatt Al Arab (Sponda degli Arabi), fiume che nasce dalla confluenza del Tigri e dell’Eufrate. Il 6 marzo 1975 col Trattato di Algeri l’allora presidente iracheno Hassan Al Bakr fu costretto ad accettare il punto di vista iraniano sui confini fra i due Stati per ottenere in cambio la cessazione degli aiuti militari ai guerriglieri kurdi iracheni del KDP; analogo provvedimento prese l’Iraq nei confronti dei guerriglieri kurdi iraniani.

La guerra Iran-Iraq giunge tutt’altro che inattesa.  Tra febbraio e settembre 1980 viene preceduta da almeno un’ottantina di incidenti di frontiera e da attentati di varia entità. Ricordiamone alcuni: il 1° aprile l’attentato all’università Al Mustansiriya di Baghdad dal quale l’allora vice premier Tareq Aziz esce miracolosamente illeso,  attentato che provoca la reciproca espulsione dei diplomatici dei due paesi; il 12 aprile un atto terroristico contro il ministero dell’Informazione a Baghdad con conseguente repressione di gruppi sciiti iracheni legati a Teheran; a giugno un altro attentato all’ambasciata irachena di Roma; il 10 agosto forze irachene attaccano alcune cittadine iraniane vicine al confine; il 4 settembre il cannoneggiamento dell’artiglieria iraniana su alcune città irachene.

Il 21 settembre 1980 l’esercito iracheno penetra per una cinquantina di chilometri in Iran attaccando ed isolando il terminale petrolifero di Abadan. Finite le scaramucce, inizia così la guerra Iran-Iraq. L’Unione Sovietica accoglie in un primo tempo in silenzio la mossa irachena, ma è assai irritata, per usare un eufemismo, per una guerra fra un suo vecchio alleato (l’Iraq) e il nuovo potenziale alleato (l’Iran) fieramente nemico dell’altra superpotenza. Per ritorsione, l’Unione Sovietica cessa le forniture di armi a Baghdad, per poi riprenderle nel luglio 1982. In questa controversia si insinua l’amministrazione Reagan. Si riallacciano i rapporti fra Stati Uniti ed Iraq che si erano interrotti dopo la “guerra dei sei giorni” nel giugno 1967, e il 20 dicembre 1983 Saddam Hussein accoglie a Baghdad l’inviato speciale di Reagan per il Medio Oriente Donald Rumsfeld, a cui chiede fra l’altro l’interruzione delle forniture militari all’Iran previste nel quadro di quell’accordo sugli ostaggi sottoscritto dagli emissari dell’allora candidato Reagan.

Ufficialmente gli Stati Uniti appoggiano l’Iraq, che secondo la propaganda dei media difende le monarchie del Golfo e l’Occidente dal pericolo dell’estremismo islamico rappresentato da Teheran, ma lo scandalo Irangate venuto alla luce il 6 novembre 1986 dimostra che Reagan - per sua stessa ammissione  - per tutta la durata della guerra ha autorizzato la vendita sottobanco di armi anche al “nemico” iraniano. Questa doppiezza è all’origine di numerosi avvertimenti lanciati dai belligeranti verso gli Stati Uniti, sotto forma di “incidenti” più o meno gravi spacciati come “errori” e seguiti in alcuni casi dalla feroce rappresaglia USA. Come i due missili Exocet sparati da un Mirage iracheno il 17 maggio 1987 contro la fregata USA Stark, che provocano 37 morti e 21 feriti. O l’attacco iraniano a due petroliere statunitensi che affondano nel Golfo nell’ottobre del 1987. O la rappresaglia da parte dell’incrociatore USA Vincennes che il 3 luglio 1988 abbatte con un missile un aereo civile iraniano in volo da Bandar Abbas a Dubai provocando 290 morti, di cui 38 non iraniani e 66 bambini. Fra l’altro, in ottobre  la Vincennes farà rientro in patria e nel porto di San Diego sarà accolta con tutti gli onori, mentre il capitano Will Rogers e qualche altro ufficiale, dopo una breve inchiesta, saranno decorati per l’eroica impresa.

Quella che nelle previsioni irachene doveva essere una guerra-lampo, anche grazie al fatto che un mese prima dell’inizio ufficiale delle ostilità l’Arabia Saudita aveva fornito all’Iraq i testi dei rapporti dei servizi segreti statunitensi sulla posizione, sulla composizione e sui movimenti delle forze armate iraniane, dura invece otto lunghi anni, provoca più di un milione di morti, e si conclude con un cessate il fuoco l’8 agosto 1988. Il regime baathista iracheno celebrerà sempre ogni anno questa data come l’anniversario della vittoria sull’Iran, ma l’unico sconfitto di questa guerra è l’Iraq. 

Gli Stati Uniti, fornendo ogni genere di armi ai due belligeranti affinché si infliggano più danni possibile, centrano l’obiettivo di indebolire economicamente e militarmente due suoi nemici. Israele può tranquillamente stroncare il programma atomico iracheno distruggendo impunemente il reattore nucleare francese Osiraq situato alla periferia sud-est di Baghdad, con un raid effettuato il 7 giugno 1981 da aerei camuffati con insegne giordane. A bloccare sul nascere il programma atomico iraniano ci pensa invece un bombardamento dell’aviazione irachena che il 17 novembre 1987 colpisce ripetutamente la centrale nucleare di Busher in fase di costruzione.

L’Iraq si ritrova al termine della guerra con un’economia quasi al collasso e con un enorme debito estero che nessuno gli vuole condonare: un passivo di 65 miliardi di dollari nei confronti dei paesi occidentali e dell’Unione Sovietica e di 80 miliardi di dollari verso i paesi arabi; ma soprattutto non si è risolto il problema principale che aveva scatenato il conflitto. L’Iraq baathista che ambisce a diventare una grande potenza regionale, per vendere il suo petrolio deve usufruire di oleodotti che non sono sotto il suo completo controllo. Questa situazione è oggettivamente una strozzatura, un ostacolo al dispiegarsi di un maggiore sviluppo economico. Da qui l’esigenza di rivedere i confini stabiliti sotto la supervisione dell’allora segretario per le Colonie Winston Churchill con un gruppo di “esperti” nella conferenza del marzo 1921 all’hotel Semiramis a Il Cairo, con la rivendicazione di un più ampio sbocco al mare in acque sufficientemente profonde, tali da permettere la costruzione di un porto adatto all’attracco delle grandi petroliere.  Invece le posizioni acquisite sul teatro degli scontri nell’agosto 1988 ricalcano i confini sottoscritti nel Trattato di Algeri.

Per risolvere i suoi problemi economici, per rimettere in sesto le sue finanze, l’Iraq avrebbe  bisogno a questo punto di esportare maggiori quantità di greggio, superiori a quelle previste dall’OPEC. Ciò non sarebbe un problema insormontabile visto che già altri paesi produttori come l’Arabia Saudita, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti sforano spesso e volentieri le quote previste dall’OPEC per compiacere i desiderata occidentali.

Sulla questione delle quote di estrazione del greggio e sul suo prezzo di vendita, le posizioni dell’Iraq baathista si sono sempre scontrate con quelle delle monarchie petrolifere del Golfo. Queste ultime, avendo investito buona parte dei proventi petroliferi nelle imprese occidentali, hanno tutto l’interesse a rifornire l’Occidente di tutto il petrolio di cui abbisogna ad un prezzo decisamente basso. L’Iraq baathista che ha puntato sullo sviluppo interno e su un ruolo militarmente egemone nel mondo arabo, ha invece interesse a non svendere il suo bene più prezioso.

Alla fine della guerra con l’Iran, il nodo cruciale dei problemi iracheni è dunque costituito dal prezzo del greggio che è passato dai 20 dollari del 1979 ai 32 dollari il barile in occasione dell’inizio della guerra Iran-Iraq nel 1980. Nonostante le numerose petroliere affondate dai due belligeranti nel corso della guerra nel golfo Persico, il prezzo del greggio cala costantemente fino ai 15 dollari di media del 1988, toccando persino in alcuni giorni la cifra di 10 dollari al barile. Poi, fino al 2 agosto 1990, data dell’invasione irachena del Kuwait, il prezzo del barile varierà dai 14-16 dollari dell’aprile 1990 al picco massimo imposto dall’OPEC dietro insistenza irachena dei 21 dollari del 27 luglio 1990. Il governo di Baghdad, che come si è detto deve incrementare sensibilmente l’esportazione del greggio, si ritrova a dover vendere la sua preziosa materia prima a un prezzo di mercato già ridicolo e che cala ulteriormente anche per effetto della maggiore offerta irachena.

 In una lettera del 16 luglio 1990 indirizzata al segretario della Lega Araba Chadli Klibi, Tareq Aziz accusa apertamente il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti di avere, dietro mandato degli Stati Uniti, inondato deliberatamente il mercato petrolifero internazionale facendo crollare il prezzo del greggio per indebolire l’Iraq. Per Tareq Aziz questo atteggiamento equivale a una dichiarazione di guerra nei confronti dell’Iraq. Nel vertice di Gedda del 31 luglio, l’Iraq ribadisce le sue richieste nel contenzioso con il Kuwait: risarcimento del petrolio abusivamente prelevato con trivellazioni trasversali dal 1980 dai pozzi di Rumayla situati per 4/5 in territorio iracheno, condono del debito di oltre 10 miliardi di dollari contratto durante la guerra con l’Iran, ridefinizione dei confini terrestri fra i due paesi e richiesta d’affitto delle due isolette kuwaitiane di Warba e Bubiyan per avere uno sbocco al mare accessibile alle grandi petroliere. Il rappresentante dell’emiro offre solo un prestito di nove milioni di dollari. Oramai in un vicolo cieco, a Saddam Hussein non resta che andarsi a prendere il Kuwait, considerato da sempre la diciannovesima provincia irachena.

Occorrerebbe a questo punto aprire il capitolo riguardante la questione dei confini dell’Iraq e più in generale del Medio Oriente, che come detto più sopra furono generati dalla fantasia imperialista della Gran Bretagna a misura dei suoi interessi. Rimando il lettore alla encomiabile opera di Filippo Gaja “Le frontiere maledette del Medio Oriente” che resta tuttora, a mio avviso, il miglior libro in assoluto per conoscere e comprendere la storia, le contraddizioni e le tragedie del Medio Oriente. Ma torniamo all’Iraq.

Prima di Saddam Hussein, il generale Abdul Karim Qassem progettò di annettersi il Kuwait nell’estate del 1961. Qassem aveva preso il potere il 14 luglio 1958 con una sollevazione militare appoggiata dalla stragrande maggioranza del popolo iracheno e, deposta la monarchia hashemita che era stata imposta sul trono dalla Gran Bretagna il 23 agosto 1921, aveva proclamato la repubblica. I militari di Qassem avevano fucilato davanti a una siepe nei giardini del palazzo reale tutte le persone presenti in loco, servitù compresa. Della famiglia reale e del suo entourage, solo l’ex principe reggente Abdul Al Illah e l’otto volte primo ministro iracheno Nuri as Said, ex ufficiale ottomano considerato dal popolo “più inglese degli inglesi”,  erano riusciti a fuggire, ma riconosciuti dalla folla erano stati fatti letteralmente a pezzi.

Il messaggio nazionalista e antimperialista che scaturiva da questa rivoluzione era arrivato forte e chiaro all’Occidente. Per evitare che l’entusiasmo suscitato dalla rivoluzione irachena si propagasse in tutto il  Medio Oriente travolgendo altri regimi filo-occidentali,  la Gran Bretagna e gli Stati Uniti avevano immediatamente inviato in Libano e in Giordania navi e truppe. Il 19 giugno 1961, la Gran Bretagna aveva regalato in fretta e furia al Kuwait l’indipendenza, ma la settimana seguente Qassem rivendicò all’Iraq il Kuwait e ne minacciò l’invasione: “Gli imperialisti tentano di prenderci di sorpresa concedendo una falsa indipendenza al Kuwait”. Solo l’arrivo della flotta e lo sbarco delle truppe britanniche in Kuwait, a cui si aggiunsero quelle di alcuni Stati arabi, che si schierarono ai confini con l’Iraq, fecero desistere Qassem dal suo intento.

Gli Stati Uniti che nel 1982 avevano cancellato l’Iraq dalla lista dei paesi fiancheggiatori del terrorismo per inserirlo nell’elenco delle “nazioni più favorite”, terminata la guerra con l’Iran, chiudono rapidamente il rubinetto dei crediti al suo “alleato” iracheno. Anche i rapporti diplomatici, che come già detto si erano interrotti durante la “guerra dei sei giorni” del 1967 ed erano ripresi ufficialmente il 25 novembre 1984 con l’incontro a Washington fra il ministro degli Esteri Tareq Aziz e il segretario di Stato George Schultz, vanno rapidamente degenerando: nell’aprile del 1990, ad esempio, Baghdad espelle un diplomatico statunitense e subito dopo Washington fa altrettanto con un diplomatico iracheno. Nei primi sette mesi del 1990 si registra da parte di Saddam Hussein e dei dirigenti baathisti un susseguirsi di dichiarazioni infuocate, di accuse e minacce nei confronti degli Stati Uniti e di Israele il cui primo ministro Yitzhak Shamir ha ribadito un no definitivo alla nascita di uno Stato palestinese. Richard (Dick) Cheney, allora segretario alla Difesa, avverte: “Il messaggio che mandiamo sia agli amici che ai nemici è che gli Stati Uniti sono disposti a rischiare le loro vite per garantire la sicurezza dei loro amici e alleati” (22 marzo). Esplicito era stato anche il presidente Bush sr in un discorso sulla sicurezza nazionale: “Nuove minacce stanno emergendo aldilà del tradizionale antagonismo Est-Ovest degli ultimi 45 anni. E’ chiaro che in futuro dovremo essere in grado di opporci alle aggressioni, di respingere i missili, di proteggere le rotte marine, fermare gli spacciatori di droga. Per fare ciò avremo bisogno di forze adattabili alle più diverse condizioni: avremo bisogno di agilità, prontezza e determinazione; avremo bisogno di velocità e sicurezza” (7 febbraio).

In quei mesi inizia un embargo non ufficialmente dichiarato su materiali militari, o presunti tali, destinati all’Iraq. Porti e aeroporti europei sono allertati, decine di persone accusate d’essere al soldo di Baghdad sono fermate, arrestate, espulse, e viene sequestrata qualsiasi fornitura sospetta destinata all’Iraq. Ad esempio, l’11 maggio nel porto di Napoli, i carabinieri sequestrano 75 tonnellate d’acciaio prodotte dalla Società delle Fucine di Terni in quanto ritenute parte del costruendo supercannone iracheno. Il suo ideatore, il cittadino statunitense ed esperto balistico Gerard Bull, era stato assassinato con due colpi d’arma da fuoco alla nuca il 22 marzo a Bruxelles, probabilmente dal Mossad. Da non dimenticare infine le prolungate esercitazioni congiunte nel golfo Persico di squadre navali statunitensi e degli Emirati Arabi Uniti.

Quando il 2 agosto 1990 l’esercito iracheno occupa il Kuwait senza incontrare resistenza significativa, il panorama mondiale è completamente diverso da quello di dieci anni prima, all’inizio della guerra contro l’Iran. L’Unione Sovietica, l’ormai ex “impero del male”, è un cadavere in avanzata fase di decomposizione e non è più in grado né ha più la volontà politica di esercitare verso l’altra superpotenza quel potere d’interdizione militare che durante il secolo breve aveva favorito l’emancipazione, l’indipendenza di tanti paesi oppressi dagli imperialismi occidentali. La “voglia di Coca-Cola” sulla fronte dell’ultimo segretario del PCUS Michail Gorbaciov simboleggia a meraviglia il mutamento dello scenario sovietico e internazionale. Gorbaciov poco amato in patria diventa l’idolo dei media occidentali,  un’attrazione del circo mediatico alla stregua del mago Otelma. Tutti comprendono che la caduta del muro di Berlino ha sancito la fine del confronto globale conosciuto come “guerra fredda”, e che una nuova era determinata da nuovi rapporti di forza si sta aprendo.

La domanda principale da porsi dopo avere sommariamente descritto la situazione nell’intervallo fra le due guerre, quella con l’Iran del 1980-1988 e Desert Storm del 1991, è la seguente: è possibile che Saddam Hussein, i dirigenti baathisti e un esperto diplomatico come Tareq Aziz non si siano accorti di queste novità e quindi non abbiano realisticamente valutato le conseguenze dell’invasione del Kuwait alla luce dei nuovi rapporti di  stretta collaborazione intercorrenti fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica?

Dalle dichiarazioni dei massimi dirigenti iracheni si evince chiaramente la consapevolezza che gli Stati Uniti e Israele vogliono colpire l’Iraq. Come nel discorso di Saddam Hussein all’apertura del vertice arabo di Baghdad (28-30 maggio), o nella lettera già citata di Tareq Aziz al segretario della Lega Araba in cui si parla apertamente di complotto contro l’Iraq da parte delle monarchie del Golfo, degli Stati Uniti e di Israele.  Che la guerra sia l’unico sbocco per l’Iraq con l’acqua alla gola è una certezza: Saddam Hussein la definisce “inevitabile” se gli Stati Uniti non provvedono a fermare Israele che continua ad espellere i palestinesi dai territori occupati illegalmente. Come dichiara in un’intervista rilasciata al Wall Street Journal del 28 giugno, oramai la tensione in Medio Oriente ha raggiunto livelli simili a quelli che precedettero la guerra del giugno 1967.

Questo continuo riferimento alla questione palestinese da parte di Saddam Hussein prima e durante l’occupazione irachena del Kuwait vale al presidente iracheno l’accusa quasi unanime di strumentalizzazione della causa palestinese a favore delle sue mire espansionistiche. Analoga accusa il presidente dell’Iraq riceve per la proposta di una grande conferenza sul Medio Oriente che risolva definitivamente tutti i contenziosi aperti nella regione. 

Sui rapporti Iraq-Palestina è opportuno precisare alcune circostanze. L’Iraq è l’unico paese arabo che non ha mai firmato alcun armistizio né tantomeno un trattato di pace con Israele dal 1948,  e quindi risulta a tutti gli effetti ancora in guerra con lo Stato sionista. L’Iraq, a differenza del Libano o della Siria, non si è mai limitato a dare rifugio agli esuli palestinesi relegandoli in squallidi campi profughi, ma ha fornito loro terra, lavoro e case in affitto a prezzi politici. Questo trattamento privilegiato da parte del regime baathista costerà caro ai palestinesi dopo il 2003, perché saranno costretti con la violenza a fuggire dall’Iraq in quanto ritenuti amici dell’ex dittatore. Nella simbologia baathista la bandiera palestinese è sempre affiancata a quella irachena, così come nelle cerimonie ufficiali l’ambasciatore di Yasser Arafat è sempre in prima fila a fianco delle massime autorità irachene. E’ noto infine che Saddam Hussein risarcisce generosamente i familiari delle vittime della repressione israeliana, tanto da risultare il primo finanziatore della resistenza palestinese.

 L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq è quindi l’ultima mossa obbligata di una concatenazione di contraddizioni, di sottovalutazioni, di tragici errori iniziati con l’improvvida guerra contro l’Iran, che come si è visto, da guerra-lampo si era trasformata in una prolungata carneficina per l’imprevista compattezza e reattività dell’avversario. Durante la guerra contro l’Iran, Saddam Hussein comprende ben presto di essersi lanciato in un’avventura senza sbocco e cerca più volte di salvare la faccia proponendo l’armistizio.  Succede ad esempio nel 1982 quando l’esercito israeliano  invade il Libano con l’operazione Pace in Galilea che si concluderà tre mesi dopo con i massacri dei civili palestinesi di Sabra e Chatila. Il 10 giugno, quattro giorni dopo l’invasione del Libano da parte delle truppe israeliane, Saddam Hussein chiede/offre all’Iran un armistizio per andare ad aiutare i palestinesi in Libano contro il comune nemico sionista, ma l’Iran lo respinge con sdegno perché intende “castigare l’oppressore”. Da notare che, quando Saddam Hussein lancia l’appello contro il comune nemico israeliano, l’esercito iracheno è in difficoltà perché le truppe iraniane sono all’offensiva, hanno appena riconquistato la città di Khorramshahr e stanno per attaccare Basrah. Risulta pertanto difficile quantificare obiettivamente il rapporto solidarietà-opportunismo presente nella iniziativa del presidente iracheno.  

La narrazione che tuttora riscuote più successo trascura completamente tutti gli eventi sin qui descritti, e molto semplicisticamente afferma che Saddam Hussein fu indotto all’invasione del Kuwait nel corso del famoso incontro del 25 luglio con l’ambasciatrice statunitense a Baghdad April Glaspie. In sintesi, questa versione presuppone un Saddam Hussein da sempre stretto alleato di Washington, un burattino totalmente nelle mani degli Stati Uniti che in ossequio alla  famosa teoria rooseveltiana del “sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”  lo spingono dapprima alla guerra contro l’Iran, poi se ne sbarazzano fingendo di dare il benestare all’invasione del Kuwait. In quel 25 luglio, nel corso di quell’incontro telefonò il presidente egiziano Hosni Mubarak che annunciò a Saddam Hussein di avere convocato un vertice arabo a Gedda in Arabia Saudita per il 29 luglio, poi spostato al 31, per tentare di dirimere pacificamente la questione. Informata seduta stante di questa novità dal presidente dell’Iraq, l’ambasciatrice rispose: “Non possiamo esprimere opinioni sui conflitti interarabi. Vi auguriamo che possiate risolvere tale problema attraverso la Lega Araba. Tutto ciò che possiamo sperare è che troviate una soluzione rapida”.  Secondo gli estimatori di questa versione, la frase pronunciata dall’ambasciatrice fu interpretata dal presidente iracheno come il nulla osta degli Stati Uniti per l’invasione del Kuwait, ma era invece il tranello preparato per ingolosire Saddam Hussein ed avere poi la scusa per attaccare l’Iraq.

Oltre alle argomentazioni sin qui esposte vi sono almeno altri due elementi che si possono avanzare a confutazione di questa versione. Come fa notare Tareq Aziz in una lunga intervista rilasciata nel 2002 a padre Jean-Marie Benjamin e inserita nei dvd “Iraq, il dossier nascosto” (2002) e “Tareq Aziz, l’altra verità” (2011), l’incontro del 25 luglio avvenne su richiesta del presidente dell’Iraq e non viceversa: cioè era Saddam Hussein che convocava l’ambasciatrice per comunicazioni al governo degli Stati Uniti e non la Glaspie che voleva informare il presidente iracheno sulle decisioni di Washington. Fra l’altro quell’incontro fu registrato parola per parola dagli iracheni, ma non si hanno notizie se ne esiste ancora copia. 

Gli Stati Uniti sanno benissimo che l’invasione del Kuwait è una mossa obbligata per l’Iraq per i motivi che si è già accennato più sopra. L’Iraq non attendeva alcun placet dagli Stati Uniti visti i rapporti tutt’altro che idilliaci intercorrenti fra i due paesi. Un Iraq temuto in Medio Oriente, come dimostra la partecipazione di quasi tutti gli Stati arabi alla coalizione anti-irachena. Un’Iraq che non ha più alleati in Medio Oriente se non l’OLP e la Giordania. Un Iraq  ormai in rotta di collisione col suo ex protettore sovietico. Come succede sempre ai pentiti-neoconvertiti ad altre religioni, Gorbaciov e soprattutto il suo ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze sono i primi a condannare subito l’invasione del Kuwait con un  durissimo e minaccioso comunicato congiunto USA-URSS. Poi il 25 settembre 1990 nel suo discorso all’ONU, Shevardnadze accusa il presidente iracheno di terrorismo non solo nei confronti dei paesi confinanti, ma anche contro il nuovo ordine mondiale che gli Stati Uniti in accordo con l’Unione Sovietica vanno costruendo. Dopo aver definito l’atteggiamento di Saddam Hussein un affronto inaccettabile per l’umanità, conclude: “Se non troveremo la maniera di reagire, il mondo tornerà indietro di mezzo secolo”. Quando il 20 dicembre 1990, Shevardnadze è costretto alle dimissioni dal crescente malcontento dell’opinione pubblica del suo paese e da una parte della Duma che non condivide minimamente la sua linea di politica estera totalmente subalterna ai voleri di Washington, il segretario di Stato James Baker afferma: “Mi sento onorato per aver lavorato con il mio amico Shevardnadze e ne avverto già la mancanza”.

Conseguentemente, per l’aggressione all’Iraq del 1991, agli Stati Uniti basta invocare il ripristino del diritto internazionale e l’applicazione delle risoluzioni dell’ONU. In un discorso tenuto davanti al parlamento giordano il 17 novembre 1990, re Hussein disse a tal proposito: “I nostri sforzi per riconciliare Iraq e Kuwait sono stati frustrati da posizioni estreme e dal dispiegamento di forze militari straniere sul territorio arabo. Da Bush solo un rabbuffo a Israele per l’uccisione di 18 palestinesi davanti alla moschea di Al Aqsa il mese scorso. Nel Golfo invece, escalation militare, posizioni inflessibili, strangolamento economico. Due pesi e due misure. Questa condotta sfacciata e senza vergogna ci conferma che la politica delle potenze non è dettata dalla difesa dei principi o della legittimità. I loro veri obiettivi discendono dal desiderio di controllare il nostro destino e le risorse della nazione araba. Due pesi e due misure anche all’ONU: nessun entusiasmo nel chiedere l’applicazione delle risoluzioni sulla questione palestinese, mentre nel caso del Golfo non solo le risoluzioni sono state approvate, ma sono state seguite con energia e determinazione da misure coercitive come l’embargo economico, il blocco e anche la minaccia di ricorrere all’uso della forza”.    

Per rafforzare nell’opinione pubblica la convinzione che la guerra è sacrosanta e che il Bene sta tutto dalla parte della “migliore nazione della Terra, la più piena d’amore” e il  Male dalla parte del nuovo Hitler, prima dell’inizio dell’operazione Desert Storm (17 gennaio 1991) l’esercito iracheno viene accusato d’ogni sorta di atrocità verso i civili kuwaitiani. La menzogna più famosa è quella dei 312 neonati kuwaitiani tolti dalle incubatrici da baffuti militari iracheni che dopo esserseli palleggiati come palloni da rugby li lanciavano in aria per poterli infilzare al volo con le baionette; poi li lasciavano morire dissanguati sul pavimento dell’ospedale di Kuwait City. Si scoprirà anni dopo che la testimone oculare di simili nefandezze altri non era che la figlia dell’ambasciatore kuwaitiano residente a Washington. Ma qui siamo ancora agli albori della propaganda occidentale sulle atrocità del nemico di turno: la fantasia dei promotori delle guerre umanitarie avrà modo di sbizzarrirsi sempre meglio nelle successive aggressioni.

Spacciare versioni intriganti, come quella della trappola tesa dall’ambasciatrice Glaspie, per spiegare l’origine di un conflitto è certamente uno dei tanti modi per sviare l’opinione pubblica dalle vere motivazioni che  non sono confessabili. La fabbrica dei fumogeni lavora sempre a pieno ritmo. Uno degli ultimi esempi è l’articolo di Fabio Cavalera, corrispondente da Londra del Corriere della Sera, pubblicato il 18 marzo 2013 alle pagine 18-19, per ricordare il decimo anniversario di Iraqi Freedom, intitolato “Bush, Blair e il gioco sporco delle spie. Così ‘nacque’ l’arsenale di Saddam”.  L’affascinante articolo riprende un programma della BBC dal titolo “The spies who fooled the world”, le spie che hanno ingannato il mondo. Non potendo più sostenere la tesi delle mitiche “armi di distruzione di massa” in mano al dittatore iracheno, si avvalora la versione dei servizi segreti imbroglioni che, chissà perché, avrebbero fornito informative false ai malcapitati Bush jr, Powell, Blair, eccetera. L’articolo di Cavalera termina così: “E’ un mosaico di inganni, di bugie, di analisi spregiudicate e superficiali, quello che si era formato alla vigilia del conflitto. Sembra quasi incredibile che l’intelligence britannica abbia dato credito a fonti di terza e quarta mano, mai dirette, addirittura per riportare a Downing Street che il dittatore sarebbe stato in grado di scatenare la sua macchina da guerra chimico-biologica in 45 minuti e con missili a lungo raggio. In verità quelle fonti avevano indicato uno scenario ben diverso di missili a corto raggio e non con testate distruttive. E uno degli informatori non era che un taxista iracheno il quale aveva orecchiato un discorso fra due suoi clienti. Si poteva contare su una ‘risorsa informativa’ del genere? Così è nata la guerra. Con le ‘spie che hanno ingannato il mondo’. Dieci anni dopo tutto è più chiaro”. Dopo le armi di distruzione di massa, ecco la nuova verità che viene a galla: a distanza di dieci anni ci raccontano che la responsabilità dell’aggressione all’Iraq del marzo 2003 è da addebitarsi alla soffiata di un taxista!!! Ma delle sciocchezze e delle menzogne dei dirigenti dell’Impero diligentemente diffuse da giornalisti embedded si parlerà più avanti.

La guerra contro l’Iraq del 1991 da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati travolge le regole, equilibri consolidati. Agli Stati Uniti più nulla è ormai precluso, il dominio mondiale è a portata di mano, e si intravede la concreta possibilità che il secolo XXI possa essere un altro “secolo americano”. I voleri dell’imperatore sostituiscono il diritto internazionale a cui si fa riferimento solo nel caso in cui favorisca gli interessi degli Stati Uniti. Per dribblare le Costituzioni, come quella italiana che ripudia la soluzione bellica nelle controversie internazionali, Desert Storm viene battezzata “operazione di polizia internazionale”. L’ONU, organizzazione ideata da F. D. Roosevelt come strumento al servizio degli interessi degli Stati Uniti, diventa sempre più la copertura legale per qualsiasi tipo di crimine commesso dalle potenze imperialiste occidentali.

Disgustato dal comportamento dell’ONU, l’irlandese Dennis Halliday, vicesegretario dell’ONU, responsabile della gestione del Programma Oil for Food in Iraq (risoluzione ONU 986 del 14 aprile 1995), si dimette il 1° ottobre 1998 dopo 34 anni di servizio accusando la sua organizzazione di genocidio del popolo iracheno causato dal feroce embargo messo in atto. Embargo che in tredici anni provocherà la morte di 1,6-2 milioni di iracheni. In Italia, solo il compianto Stefano Chiarini su Il Manifesto riporta diffusamente le accuse di Halliday, mentre i principali quotidiani ignorano totalmente la sua conferenza stampa. Anche il successore di Halliday, il tedesco Hans von Sponeck darà le dimissioni  nel febbraio 2000 per le pressioni degli Stati Uniti e della Gran Bretagna che giudicano i suoi atteggiamenti troppo concilianti col governo iracheno. Sponeck dichiara: “Non mi va di continuare a giocare una partita che si svolge sulla pelle di un popolo allo stremo. Mi pare più utile parlare chiaro e non perché, come dice il Dipartimento di Stato USA, vogliamo sostenere questo governo. Voglio che si capisca che il nostro sostegno, il mio impegno, sono per il popolo iracheno, una comunità devastata la cui tragedia deve avere fine. Non si può più tacere sul totale fallimento dei programmi umanitari dell’ONU. L’embargo deve finire completamente, la risoluzione Oil for Food è inattuabile”. 

Ma torniamo al 1991. Se gli Stati Uniti, ormai senza rivali, già all’epoca puntavano al dominio mondiale, per quale motivo non si sbarazzarono in quell’occasione di Saddam Hussein? Come mai le truppe della coalizione anti-irachena furono fermate a 150 miglia da Baghdad? In effetti le truppe della coalizione avrebbero potuto arrivare alle porte di Baghdad senza trovare alcuna significativa resistenza da parte del nemico. L’esercito iracheno in rotta risaliva terrorizzato verso nord disordinatamente, sotto il fuoco impietoso dell’aviazione della coalizione.  L’autostrada numero 6 che da Kuwait City va a Basrah venne ribattezzata dai militari della coalizione The highway of doom, l’autostrada della morte. Cinquantamila soldati iracheni furono massacrati mentre scappavano praticamente disarmati verso Basrah.Un pilota statunitense così descrisse gli attacchi: “E’ come sparare a un pesce nel barile”. 

In un’intervista rilasciata alla CNN il 18 febbraio 1998 in occasione della cosiddetta “Crisi dei siti presidenziali” (quella alimentata dal presidente Bill Clinton per distrarre l’opinione pubblica statunitense dallo scandalo Sexigate), l’ex presidente Bush sr elenca i motivi per i quali nel 1991 Saddam Hussein non fu rovesciato: “La nostra era una missione che poggiava sulla legislazione internazionale, che non consisteva nel distruggere la Guardia Repubblicana, non consisteva nel cacciare Saddam da Baghdad o nel tentare di prenderlo da qualche parte: la coalizione si sarebbe sciolta, distrutta istantaneamente. Forse solo Gran Bretagna e Kuwait sarebbero rimasti con noi, ma nel Golfo forse anche l’Arabia Saudita e la Turchia ci avrebbero abbandonati. La Siria se ne sarebbe andata molto prima. Persino il nostro fedele alleato e amico Mubarak sarebbe stato costretto ad abbandonarci. Ci saremmo trovati soli come forza d’occupazione in territorio arabo. La conferenza di pace di Madrid non avrebbe mai potuto essere convocata se noi fossimo stati una forza d’occupazione. Ma c’era un altro motivo di preoccupazione. Al figlio di quale americano avrei potuto dire ‘Vai e metti la tua vita in pericolo combattendo una guerriglia’?Saremmo potuti entrare a Baghdad e in 48 ore si sarebbe scatenato l’inferno, saremmo rimasti soli a trasformare Saddam da tiranno brutale e vinto, in un martire. Avremmo destabilizzato gli equilibri nel Medio Oriente, nell’area fra Iraq e Iran. Sarebbe stata una scelta disastrosa”.

E’ indubbiamente vero che gli alleati arabi, ad eccezione ovviamente del Kuwait, presenti nella coalizione anti-irachena volevano solo ridimensionare sotto tutti i punti di vista le ambizioni dell’Iraq baathista, ma non fu assolutamente il timore di infrangere la legislazione internazionale o il mandato dell’ONU, che prevedeva solo la liberazione del Kuwait, a fermare l’avanzata verso Baghdad delle truppe della coalizione. Durante la guerra del 1991 gli Stati Uniti hanno violato ripetutamente il diritto internazionale, la Convenzione di Ginevra e le risoluzioni dell’ONU. Si può affermare, che l’Iraq fu di gran lunga più rispettoso degli Stati Uniti del diritto e delle convenzioni internazionali previste in caso di guerra. Oltre a un ampio uso di armi non convenzionali all’uranio impoverito, il caso più eclatante, largamente sottaciuto dalla stampa, fu il bombardamento a tappeto e la distruzione di 18 industrie chimiche e tre impianti nucleari iracheni, con conseguenze micidiali sull’ambiente e sulle persone. Ne diede l’annuncio il 30 gennaio 1991 un entusiasta generale Norman Schwarzkopf. Il tutto in spregio al primo protocollo aggiuntivo della Convenzione di Ginevra e ad una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 4 dicembre 1990, approvata col solo voto contrario degli Stati Uniti, che ribadiva che nessun attacco militare poteva essere portato contro reattori nucleari.

Non fu perciò il rispetto per la legalità internazionale a fermare le truppe di Schwarzkopf, ma altri due motivi assai più pratici e convincenti, il primo di ordine militare. Gli Stati Uniti sapevano senza ombra di dubbio che Saddam Hussein possedeva armi chimiche. E ne erano certi perché l’Iraq, quando era stato annoverato fra le “nazioni più favorite” all’epoca della guerra con l’Iran, aveva fatto shopping anche presso ditte statunitensi. L’eventualità che Saddam Hussein una volta intrappolato a Baghdad avrebbe potuto in ultima istanza far uso del suo armamentario chimico era molto di più di una remota possibilità.

Come detto, la quasi totalità dei media di tutto il mondo presentarono il conflitto come uno scontro fra il Bene e il Male. Il pericolo iracheno fu a dir poco enfatizzato dalla famosa dichiarazione dell’allora Capo di Stato Maggiore generale Colin Powell che definì l’Iraq “la quarta potenza militare del mondo”. Da una parte il malvagio dittatore disposto a usare qualsiasi tipo di armi, anche quelle non convenzionali, per vincere la guerra; dall’altra la coalizione guidata dagli Stati Uniti, paladini del diritto e della democrazia, rispettosi della legalità e forti di armi che permettevano di condurre una guerra pulita, la prima della storia, una guerra chirurgica, combattuta dalla coalizione anti-irachena con armi di una tale precisione che permettevano di colpire il famoso ago lasciando intatto il pagliaio. Per questo motivo il portavoce del Pentagono generale Thomas Kelly definì gli antiquati Scud lanciati dall’Iraq su Israele “un’arma di terrore, non un’arma da combattimento”. Ma il 13 febbraio 1991, credendo che Saddam Hussein sia nascosto in un bunker sotto il rifugio numero 25 di Al Ameriya a Baghdad, il Pentagono ne ordina il bombardamento: un caccia Stealth lancia due missili che penetrano il rifugio ed esplodono provocando 408 vittime civili. Dice Cheney: “Saddam Hussein ha messo intenzionalmente dei civili nel rifugio-bunker per causare uno scandalo internazionale”.  E Schwarzkopf: “Saddam sa bene che noi non colpiamo i civili: lo sa così bene che si nasconde fra di loro. Inoltre, in base alle Convenzioni di Ginevra, se un obiettivo civile ne cela uno militare si può colpirlo ugualmente”. Infine, un consiglio del Pentagono: “La nostra strategia non cambia. Se la popolazione irachena vuole essere al sicuro dorma nel suo letto. Saddam non trarrà beneficio dall’incidente da lui stesso provocato”.

L’uso generalizzato di armi all’uranio impoverito nella guerra contro l’Iraq viene tenuto segreto dal governo di Washington per alcuni anni. Le prime notizie cominciano a trapelare verso la metà degli anni ’90 perché 175.000 (dato ufficiale fornito dal governo USA solo quindici anni dopo) reduci statunitensi e i loro familiari sono colpiti dalla cosiddetta Sindrome del Golfo che mieterà almeno 10.000 vittime. I sintomi di tale malattia sono vari: persistente mal di testa, dolori cronici in tutte le parti del corpo, affaticamento cronico, diarrea, problemi al sistema digestivo e respiratorio, eccetera, sino ad arrivare alle gravi malformazioni genetiche riscontrate su un alto numero di figli dei reduci del Golfo. Le associazioni dei veterani affermarono che oltre all’esposizione all’uranio impoverito contenuto nei proiettili usati massicciamente dalle forze armate USA, i militari furono impiegati anche come inconsapevoli cavie per testare nuovi vaccini.

Anche la popolazione irachena esposta ai bombardamenti all’uranio impoverito effettuati dalla coalizione subirà le identiche conseguenze dei veterani, ma non avrà la possibilità di curarsi a causa dell’embargo umanitario decretato dall’ONU, e neppure l’opportunità di informare un’opinione pubblica occidentale peraltro del tutto indifferente alle sorti di un popolo che non fa parte della comunità occidentale. Hai Saddam come capo del governo? Devi essere democraticamente punito con la morte. Il conte Arthur de Gobineau, teorizzatore del razzismo contemporaneo, è sempre vivo e lotta al fianco dell’Occidente.

Ciò che maggiormente spinge Bush sr a fermare le truppe a 150 miglia da Baghdad sono gli allarmanti segnali che arrivano da Mosca. Dopo le forzate dimissioni dell’amico Shevardnadze, Gorbaciov tenta disperatamente di recuperare credibilità nei confronti dell’opinione pubblica del suo paese e un ruolo internazionale da grande potenza. Dopo aver sostituito Shevardnadze con il leggermente meno compiacente  Aleksandr Besmertnykh, l’ultimo segretario del PCUS durante i 43 giorni del conflitto oltre a due appelli al cessate al fuoco propone ben tre piani di pace tutti respinti da Bush sr, invita Tareq Aziz a Mosca, mentre il suo migliore diplomatico Evgenij Primakov si reca a Baghdad e tenta di convincere Saddam Hussein a lasciare il Kuwait. Il timore che una estrema forzatura del mandato dell’ONU in Iraq possa bloccare la decomposizione dell’Unione Sovietica e il cammino verso il capitalismo dell’ex impero del male si materializza qualche ora prima dell’inizio dell’offensiva terrestre contro l’Iraq, quando il ministro della Difesa sovietico Dmitrij Jazov esprime pubblicamente il profondo dissenso suo e dei vertici militari verso la politica estera troppo filo-statunitense di Gorbaciov, sia per quanto riguarda l’Iraq, sia sulle questioni del disarmo internazionale. Jazov è una delle figure di spicco di un “Comitato per lo stato d’emergenza” che il 19 agosto fa arrestare Gorbaciov, che due giorni dopo riesce però a riprendere il suo posto di presidente. L’Unione Sovietica morirà ufficialmente il 25 dicembre. 

Nei limiti imposti dalla situazione, Bush sr non lascia però nulla di intentato pur di riuscire a rimuovere subito Saddam Hussein. In un discorso tenuto il 15 febbraio ad Andover nel Massachusetts ai lavoratori dello stabilimento della Raytheon dove sono fabbricati i missili Patriot, afferma: “C’è un altro modo per porre fine a questo spargimento di sangue, vale a dire che l’esercito e il popolo iracheno affrontino personalmente la questione, costringendo Saddam Hussein, il dittatore, a dimettersi, e si attengano infine alle risoluzioni delle Nazioni Unite, ricongiungendosi alla famiglia delle nazioni amanti della pace”.  Questa dichiarazione che invita chiaramente il popolo e l’esercito iracheno a sollevarsi contro il dittatore, facendo in fondo balenare l’idea che gli Stati Uniti avrebbero soccorso i rivoltosi, viene trasmessa da tutte le reti radiotelevisive mondiali comprese quelle operanti in Iraq, Voice of America e quella clandestina gestita direttamente dalla CIA. Gli sciiti iracheni insorgono, gli Stati Uniti non intervengono, Bush sr dice di essere stato frainteso, e la Guardia Repubblicana reprime sanguinosamente la rivolta. Non essendoci stati testimoni terzi dei fatti, non si hanno notizie precise sugli eventi e sul bilancio dei morti.

La guerra del 1991 contro l’Iraq segna quindi l’inizio di nuova fase nella storia del colonialismo, dell’imperialismo, del neo-colonialismo. L’obiettivo di fondo resta sempre lo stesso da secoli a questa parte, e cioè quello di controllare con la forza, direttamente o indirettamente, economicamente e/o militarmente interi continenti, Stati o l’intero pianeta, al fine di poterne sfruttare e saccheggiare le risorse umane e ambientali. Cambiano in parte solo le motivazioni ideali adottate per giustificare le aggressioni da parte di colonizzatori portatori come sempre di una religione, di  valori etici e di culture considerate superiori a quelle dei paesi da conquistare e dei popoli da sottomettere.

Nel 1857 l’imperatore d’Etiopia Teodoro II aveva compreso benissimo come procedeva il meccanismo coloniale: “Conosco i metodi dei governi europei allorché desiderano ottenere un paese orientale: prima mandano avanti i missionari, poi i consoli a sostegno dei missionari, e infine i battaglioni in appoggio ai consoli”.  Dopo la fine del secolo breve, le aggressioni imperialiste sono giustificate dalla necessità di  esportare la libertà e la “democrazia” nel paese da aggredire,  di far cessare immaginari genocidi o presunte pulizie etniche, o di punire il “feroce dittatore” di turno che ha violato i “diritti umani”. La religione cattolica usata come pretesto ai tempi di Teodoro II è sostituita dalla religione dei “diritti umani”, mentre la politica delle cannoniere è rimpiazzata dai bombardamenti umanitari sulle popolazioni . Naturalmente i “diritti umani” sono violati solo in quei paesi che non sono amici degli Stati Uniti, i rogue States che promuoverebbero il “terrorismo islamico”,  gli “Stati canaglia” i cui dirigenti non hanno alcuna intenzione di privilegiare gli interessi degli Stati Uniti a scapito di quelli nazionali. Nel settembre 2011 ho assistito alla festa del PD di Torino a un dibattito sulle cosiddette “primavere arabe”. Ho domandato ai relatori i motivi per cui la NATO aveva attaccato la Libia di Gheddafi dove i rivoltosi erano armati, e non era intervenuta anche in Bahrein dove manifestanti disarmati venivano massacrati dai tank sauditi arrivati in aiuto alle forze di repressione  del Bahrein. Un senatore del PD, responsabile delle questioni internazionali e attualmente vice ministro degli Esteri nel governo Letta, tale Lapo Pistelli, mi ha gentilmente spiegato che il popolo libico aveva espressamente chiesto aiuto alle potenze occidentali, alla comunità internazionale, i manifestanti del Bahrein no. 

Per svelare l’inganno dei “diritti umani” adottati come pretesto per le aggressioni imperialiste basta leggere  i 30 articoli della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 10 dicembre 1948, dove per ciascun essere umano sono previsti diritti politici, civili, economici, sociali e culturali Dovrebbe essere evidente a tutti che questo corposo pacchetto di diritti individuali è un tutt’uno, e che la non vigenza o la violazione di anche uno solo di questi diritti invalida tutti gli altri. Il trucco degli imperialisti, dei colonialisti, dei neo-liberisti, consiste proprio nel dividere questi diritti in due parti: diritti di serie A, che sono quelli importanti e devono essere quindi sempre esigibili, e diritti di serie B, che sono invece discrezionali, opzionali.  Appartengono al primo gruppo i diritti politici come ad esempio il diritto al voto, alla libertà di parola, alla “democrazia”, naturalmente quella made in USA, eccetera;  mentre fanno parte del secondo gruppo il diritto al lavoro, ad una equa retribuzione, alla salute, alla sicurezza sociale, eccetera.

Nei paesi occidentali, i primi, cioè i diritti civili e politici, sono apparentemente assicurati perché esiste teoricamente la libertà di opinione, di espressione, di riunione, di scegliere da chi essere governati, ma poi le scelte economicamente decisive per il futuro dei popoli sono imposte da organismi internazionali che nulla hanno a che vedere con la democrazia rappresentativa, ma che perseguono solo gli interessi delle banche, della grande finanza, eccetera. I secondi, cioè i diritti al lavoro, alla sicurezza sociale, alla salute, all’istruzione, eccetera, sono invece eventualmente fruibili solo nel caso di una congiuntura economica favorevole.  In Italia, ad esempio,  l’offensiva neo-liberista contro il welfare state, il diritto al lavoro, all’istruzione, eccetera, inizia a svilupparsi a cavallo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta e prosegue tuttora “democraticamente, in modo pacifico”, con la complicità di tutte le forze politiche e di tutti i sindacati di regime.

Nella quasi totalità dei paesi aggrediti militarmente e/o sottoposti a duri embarghi, a partire dagli anni Novanta in poi, esisteva, o esiste ancora in quelli tuttora minacciati di aggressione, un sistema di sicurezza sociale sotto molti aspetti migliore di quelli operanti, ma come detto in via di rapido smantellamento, nei regimi “democratici” occidentali aggressori. E’ interessante notare che la principale accusa, dopo quella di brogli elettorali,  rivolta ai regimi come quello iraniano, definito islamo-fascista, è quella di ottenere i favori popolari attraverso politiche assistenziali. Nella migliore tradizione delle rivoluzioni colorate finanziate dalla CIA, gli oppositori della rivoluzione verde in Iran accusarono Mahmoud Ahmadinejad di essere stato rieletto nel giugno 2009 solo grazie all’aumento dei salari operai per adeguarli all’inflazione e ai contributi a fondo perduto dati ai contadini colpiti dalla siccità.

E’ anche il caso della Bielorussia governata dal 1994 da Alexandr Lukashenko, l’ultimo dittatore europeo, come lo definiscono i media dei regimi “democratici” occidentali. Ecco qui di seguito il passaggio  saliente di un articolo dedicato ai dissidenti bielorussi scritto per Le Monde da Piotr Smolar intitolato “Bielorussia, l’ultimo kolchoz dell’Unione Sovietica”, tradotto in italiano e pubblicato su La Stampa del 21 dicembre 2010: “Una delle ragioni per le quali il regime regge è l’attenzione che ha il governo per il “contratto sociale”, come viene definito a Minsk. Le pensioni sono pagate senza un minuto di ritardo, le scuole e le cure mediche statali restano di buona qualità. All’inizio di dicembre, il presidente Lukashenko ha introdotto i trasporti gratuiti per gli studenti. Qui lo Stato controlla tutto, specialmente i prezzi: pane, latticini, frutta e legumi, la carne, la benzina, i biglietti di treni e autobus. E la vodka. Il nostro sistema è dirigista, molto poco efficiente - nota l’economista Leonid Zlotnikov -. E’ stata creata una società florida soltanto in apparenza, ma la crescita di cui si è vantato il regime per tutti gli anni 2000 non è mai esistita. Le statistiche sono state truccate, i numeri sono stati moltiplicati artificialmente. Invece di investire nella modernizzazione delle strutture industriali, il regime ha usato i soldi per le spese sociali assistenziali e per sostenere le imprese pubbliche alla deriva”.

Il primo corposo documento che indica la strategia militare che gli Stati Uniti devono seguire per giungere al dominio dell’intero pianeta viene redatto dal Pentagono nelle persone dei neo-conservatori Dick Cheney e Paul Wolfowitz e ufficializzato il 16 aprile 1992, dopo che il New York Times dell’8 marzo ne aveva anticipato i punti più rilevanti.  In sintesi, questo documento di 46 pagine intitolato Defense Planning Guidance afferma che gli Stati Uniti devono impedire in ogni modo che qualche potenza ostile possa rafforzarsi dominando una regione cruciale del mondo, nonché l’acquisizione di armamenti nucleari non solo da parte di paesi del terso o quarto mondo o di “soggetti politici irresponsabili”,  ma anche degli Stati nati dalla disgregazione dell’Unione Sovietica e persino degli stessi alleati  occidentali. Il documento raccomanda di non abbassare la guardia nei confronti della Russia  e di non dare all’ONU alcun potere sovrannazionale perché “l’ordine mondiale ha come fondamento ultimo gli Stati Uniti […] le coalizioni potranno servire per casi specifici come la guerra del Golfo, ma gli Stati Uniti si riserveranno il diritto di intervenire unilateralmente in difesa dei propri interessi”, ricorrendo se necessario “all’uso preventivo della forza”. Il Defense Planning Guidance smentisce la versione diffusa dalla propaganda occidentale secondo la quale la guerra preventiva sarebbe stata teorizzata per la prima volta solo il 20 settembre 2002  nel The National Security Strategy of the United States in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, in quanto indispensabile a combattere il “terrorismo”.

Le idee di fondo contenute nel Defense Planning Guidance sono alla base della nascita nel 1997 del Project for the New American Century (PNAC), un istituto di ricerca di Washington che vede fra i suoi fondatori e collaboratori personaggi che si ritroveranno nei posti chiave nei corso dei due mandati presidenziali di Bush jr: Cheney (vice presidente), Rumsfeld (segretario alla Difesa), Wolfowitz (vice segretario alla Difesa e dal 2005 presidente della Banca Mondiale), John Bolton (ambasciatore all’ONU nel 2005-2006), Richard Armitage (vice segretario di Stato), Zalmay Khalilzad (ambasciatore a Baghdad dal 2005), per citare solo quelli più conosciuti. In uno fra i tanti documenti prodotti dal PNAC nel 2000 in corrispondenza con la campagna elettorale di Bush jr, Rebuilding America’s Defences: Strategies, Forces and Resources for a New Century, parlando della profonda trasformazione della strategia di difesa per gli Stati Uniti, si legge la seguente “profetica” considerazione: “Il processo di trasformazione, anche se porterà un cambiamento rivoluzionario, risulterà molto lungo, se non si dovesse verificare un evento catastrofico e catalizzante, come una nuova Pearl Harbor”.

Già nel 1997 Zbigniev Brzezinski, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Carter, nel suo libro The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives scriveva che il maggior ostacolo alle guerre era costituito da un’opinione pubblica tendenzialmente pacifista; chi intendeva fare una guerra doveva dimostrarne la stringente necessità evocando “la presenza di una minaccia nemica enorme, diretta, percepita a livello di massa”. Dopo i tanto auspicati catastrofici eventi dell’11 settembre 2001, il Consiglio di Sicurezza del’ONU con risoluzione 1368 del 12 settembre 2001 riconosce agli Stati Uniti il diritto alla legittima difesa, lasciandoli praticamente liberi di decidere qualsiasi operazione militare contro i presunti autori degli “attentati” e contro gli altrettanto ipotetici sostenitori del “terrorismo”.

Tutta la storia dell’espansionismo degli Stati Uniti nel mondo è stata contrassegnata da due ricorrenti caratteristiche: A) gli Stati Uniti non risultavano mai aggressori, ma reagivano sempre ad attacchi provenienti da nemici militarmente assai più deboli di loro.B) La “giusta” reazione a questi “attentati” aveva sempre come risultato finale l’acquisizione parziale o totale, e/o il controllo diretto o indiretto all’impero USA dei territori degli “aggressori”. Naturalmente ci sono state variazioni sul tema dettate da circostanze specifiche, ma grosso modo le modalità di espansione dell’impero USA hanno seguito questo copione. Si sta parlando qui solo dei casi più famosi, quelli conseguenti ai great american disasters, e si tralasciano quelle 103 “piccole” operazioni militari promosse dagli Stati Uniti per interferire negli affari interni degli altri paesi in un’ottica espansionista compiute fra il 1798 e il 1895, operazioni militari che sono menzionate da Howard Zinn nella sua Storia del popolo americano dal 1492 a oggi.

Ricordiamo in breve i great american disasters. Uno dei miti fondanti dell’impero USA, i 200 “patrioti” texani che nel marzo 1836 si erano asserragliati nella missione di Alamo e che morirono combattendo contro l’esercito messicano, altri non erano che avventurieri senza scrupoli e coloni schiavisti secessionisti che si erano ribellati perché il generale Antonio Lopez de Santa Ana aveva abolito la schiavitù in tutto il Messico, quasi quarant’anni prima che ciò accadesse nei civili Stati Uniti. Il Texas, così come altri Stati che oggi fanno parte degli Stati Uniti (Arizona, California, Colorado, Nevada, New Mexico, Utah), a quell’epoca erano territori messicani. Con la parola d’ordine Vendicare Alamo, Sam Houston sconfisse l’esercito messicano nella battaglia di San Jacinto e avviò l’annessione del Texas agli Stati Uniti.  

 Non si può certo definire un great american disaster la morte di 16 militari statunitensi che il 25 aprile  1846 furono uccisi da una pattuglia messicana sulle rive del Rio Grande, ma era l’“incidente” che il presidente democratico James Polk cercava per montare una campagna per invadere il Messico. In realtà il Messico era già invaso perché le truppe del generale Zachary Taylor si erano provocatoriamente accampate sul Rio Grande, cioè 200 km all’interno del territorio messicano, ma ciò a cui mirava Polk era che fossero i messicani a sparare il primo colpo. Polk indignato dichiarò al Congresso: “Il Messico ha passato il confine degli Stati Uniti, ha invaso il nostro territorio e versato sangue americano sul suolo americano”. Scrive Zinn (op. cit.): “Questa aggressività era accompagnata dall’idea che gli Stati Uniti avrebbero portato a nuove popolazioni i doni della libertà e della democrazia. Entravano in gioco anche idee di superiorità razziale, brame suscitate dalle belle terre del New Mexico e della California, e progetti di iniziative commerciali oltre il Pacifico. Nel 1847 si leggeva sul New York Herald: ‘La nazione yankee universale può rigenerare ed emancipare il popolo del Messico nel giro di pochi anni; e crediamo che la civilizzazione di quel bel paese faccia parte del nostro destino’”. Fra bombardamenti sui civili, carneficine e stupri, come testimoniano gli stessi  militari di Taylor , le truppe statunitensi entrarono infine a Città del Messico. La guerra (aprile 1846 – febbraio 1848) fruttò agli Stati Uniti la California, il New Mexico, mentre il confine del Texas venne avanzato al Rio Grande. Così Zinn (op .cit.) termina il racconto: “Il confine del Texas fu posto sul Rio Grande; il New Mexico e la California furono ceduti. Gli Stati Uniti versarono al Messico quindici milioni di dollari; il giornale Whig Intelligencer poté così asserire: ‘Noi non prendiamo nulla con la forza […] Dio sia lodato’”.

Non si è mai saputo chi abbia provocato la tremenda esplosione che si verificò alle ore 21,40 del 12 febbraio 1898 a bordo dell’incrociatore corazzato USA Maine ormeggiato nel porto de La Habana a Cuba, dove da anni era in corso una guerra popolare di liberazione dal dominio spagnolo. Il bilancio fu di 253 marinai morti e 115 feriti. Gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Spagna ritenendola colpevole dell’attentato, e non si limitarono a prendere possesso di Cuba, ma occuparono anche Portorico; poi dopo aver completamente distrutto la flotta spagnola davanti a Cavite (Luzon) conquistarono le Filippine che era una colonia spagnola, e vi sbarcarono 70.000 uomini per reprimere con tremendi massacri la rivolta del popolo filippino che non aveva alcuna intenzione di passare dal dominio spagnolo a quello statunitense.

Nell’estate 1940, per cercare di fermare l’espansionismo economico e militare giapponese in tutta l’Asia, gli Stati Uniti applicano un embargo su alluminio, pezzi di ricambio per aerei, materiali ferrosi e petrolio riducendo di molto le capacità produttive dell’industria bellica giapponese. Nel luglio 1941 i giapponesi occupano l’Indocina francese, e Stati Uniti e Gran Bretagna inaspriscono l’embargo petrolifero. Il mese successivo il presidente  F. D. Roosevelt chiede al Giappone di ritirare le truppe dalla Cina e dall’Indocina. Il 20 novembre 1941 il Giappone offre agli Stati Uniti il ritiro delle truppe dall’Indocina in cambio della fornitura annuale di quattro milioni di tonnellate di petrolio e della neutralità di Washington nel conflitto cino-giapponese. Roosevelt respinge la proposta. Alle 7,53 di domenica 7 dicembre 1941 la flotta giapponese attacca la base militare USA di Pearl Harbor nelle Hawaii, dove è ormeggiata più di metà della flotta degli Stati Uniti, affonda sei navi e ne danneggia altre dodici. L’attacco provoca 2.273 morti e 1.119 feriti fra militari e civili statunitensi. Robert Stinnet, ex militare statunitense pluridecorato ed esperto della guerra nel Pacifico, nel suo libro Il giorno dell’inganno sostiene, comprovandolo con numerosa documentazione, che Pearl Harbor non fu “un fallimento dei servizi informativi o un’irresistibile mossa giapponese, ma fu deliberatamente pianificato dall’amministrazione Roosevelt per convincere un’America isolazionista a intervenire nel conflitto europeo”, fu insomma “un disastro da non evitare”. Grazie all’entrata in guerra, gli Stati Uniti diventano la potenza egemone nel Pacifico, escono alla grande dalla crisi economica del 1929 e mettono stabilmente piede in Europa diventandone il tutore.

Ma il colpo grosso gli Stati Uniti lo mettono a segno grazie all’attacco alle Twin Towers con i suoi 2.948 morti, una nuova Pearl Harbor, che, come si è visto, era l’evento che il PNAC auspicava per accelerare la corsa alla supremazia mondiale . Dopo le Twin Towers e la risoluzione 1368, la Casa Bianca non ha avuto più bisogno sino ad oggi  di subire “aggressioni” per giustificare plausibilmente una guerra preventiva a qualsiasi paese ritenuto ostile agli Stati Uniti e ai suoi interessi. Le “aggressioni” saranno sostituite dall’esportazione dei diritti umani, della libertà e della democrazia made in USA.

Un documento programmatico di 33 pagine intitolato The National Security Strategy of the United States, presentato al Congresso il 20 settembre 2002 dal presidente Bush jr, descrive i compiti, enuncia i mezzi, fissa gli obiettivi che gli Stati Uniti devono perseguire nei prossimi decenni.  Le parole chiave che vengono  ripetute come un rosario in tutto il documento sono libertà (politica ed economica), democrazia e diritti umani. Gli Stati Uniti sono la nazione che è chiamata a far trionfare in ogni angolo del globo la libertà, la democrazia e i diritti umani, che sono le basi per creare prosperità per tutti i popoli. I mezzi con i quali promuovere e favorire il raggiungimento di questi traguardi sono la libera impresa, il libero mercato e il libero commercio. Gli Stati Uniti e i suoi alleati devono combattere tutti uniti contro il terrorismo che vuole ostacolare questo programma, e lottare contro i tiranni che lo proteggono e che cercano di procurarsi armi di distruzione di massa per minacciare le nazioni democratiche. Contro costoro non è sufficiente la “dissuasione”e la “deterrenza” come nella terza guerra mondiale,  né “possiamo consentire ai nostri nemici di attaccare per primi”, ma è necessaria “un’azione preventiva di autodifesa”. Raggiungendo questi obiettivi “gli Stati Uniti daranno inizio a una nuova era di crescita economica globale”.

Per stabilire chi ha vinto la guerra in Iraq (gli Stati Uniti e la Gran Bretagna contro il popolo iracheno) e chi sta vincendo la quarta guerra mondiale (il modello sociale liberista, la globalizzazione capitalista contro l’umanità) basta vedere se gli obiettivi che gli Stati Uniti si prefiggevano di raggiungere, e descritti in questo documento, sono stati realizzati. Visto che gli Stati Uniti e i suoi alleati si proponevano di diffondere la libertà, la democrazia e i diritti umani su tutto il pianeta, la prima cosa da fare è comprendere quali sono i modelli di libertà e di democrazia a cui si riferiscono i dirigenti degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Per quanto riguarda la strumentalizzazione dei diritti umani si è già visto, ma ripeto, che gli Stati Uniti e i suoi alleati ne prendono in considerazione solo alcuni, mentre tralasciano quelli che confliggono con le teorie liberiste. E quelli presi in considerazione vanno ripristinati, ammesso e non concesso  che siano stati violati, solo in quei paesi governati da regimi ostili agli interessi degli Stati Uniti.

La prima cosa che si osserva, quasi una regola matematica, è che la quantità di libertà e democrazia concessa a un popolo è proporzionale all’importanza strategica del territorio che occupa. Più il territorio è strategicamente importante,  ad esempio per il petrolio o per la sua posizione geografica, e sicuramente di meno indipendenza, di meno democrazia e di meno libertà godranno i suoi abitanti. Si può affermare alla luce di decine di esempi storici, che il petrolio, come qualsiasi altra materia prima essenziale per lo sviluppo dei paesi già sviluppati, è incompatibile con la libertà e la democrazia: dove c’è l’uno è praticamente impossibile la presenza delle altre due.  

Questo è il motivo per cui nell’Africa del Nord, in Medio Oriente e nell’Asia Centrale non sono mai esistiti quelli che noi occidentali consideriamo essere ancora oggi sistemi democratici, ma che nei paragrafi sottostanti si dimostrerà che non lo sono più, sempre ammesso e non concesso che in passato lo siano stati. In quelle regioni, le potenze imperialiste hanno sempre promosso, instaurato e appoggiato regimi fantoccio che con la democrazia non avevano nulla a che vedere, ma che però garantivano in primis gli interessi dell’Occidente. I leader nazionalisti arabi, non a caso quasi tutti militari, Nasser, Qassem, Gheddafi, eccetera, quando conquistarono l’indipendenza per i loro paesi sottraendoli al dominio imperialista, non poterono che prendere e mantenere il loro potere con la forza. Chi non ha seguito questo copione è sempre stato immediatamente rovesciato da colpi di stato organizzati dai servizi segreti anglo-statunitensi. Come Mohammad Mossadeq, primo ministro iraniano dal 1951 al 1953,  che osò estromettere, senza adeguate coperture militari, la Anglo-Iranian Oil Company dallo sfruttamento del petrolio iraniano. Mossadeq fu fortunato perché pagò quella mossa presuntuosa solo con la destituzione da primo ministro, il carcere, e il confino a vita ad Ahmadabad dove morì nel marzo del  1967.

Il giochino del neo-imperialismo è semplice e antico: si tratta di esportare la libertà e la civiltà democratica occidentale a popoli come quello iracheno, libico, siriano e domani a quello iraniano, incapaci di apprezzarne il valore o impossibilitati a goderne perché oppressi da regimi autoritari, ma in realtà, come si è appena detto, governi difensori dell’indipendenza del proprio territorio e del proprio popolo. La libertà che gli Stati Uniti e i suoi alleati vogliono esportare è quella che prevede la libertà di pochi (i grandi capitali occidentali e le borghesie locali colluse) per fare indisturbati i loro affari; mentre la democrazia è  la finta  democrazia tipica dei paesi occidentali per la quale chiunque vinca deve assicurare innanzitutto gli interessi sempre dei suddetti pochi a scapito della maggioranza della popolazione. Anche Mussolini aggredì l’Etiopia nel 1935-1936 adducendo la scusa di voler liberare quel popolo dal tiranno Hailé Selassié e dalla schiavitù ancora vigente in quel paese. Il fronte antifascista in esilio inviò  nel 1938  Ilio Barontini, Domenico Rolla e Anton Ukmar in Etiopia per organizzare la resistenza degli etiopici contro l’occupazione fascista. Il Negus Hailé Selassié nominò Barontini consulente del governo provvisorio e gli conferì il titolo di vice-imperatore, come testimonia Giovanni Pesce, medaglia d’oro della resistenza, in una intervista rilasciata il 10 settembre 2005 al quotidiano Il Tirreno. Altri tempi, altri antifascisti. 

 Gli eventi accaduti in Nord Africa e in Medio Oriente nel 2011 catalogati tutti alla voce “primavere arabe” possono essere grosso modo raggruppati in due tipologie, anche se ogni caso presenta delle caratteristiche peculiari. Nei cosiddetti rogue States, Libia e Siria, sono scoppiate guerre civili fomentate dalle potenze imperialiste che si sono avvalse e tuttora si avvalgono dei servigi dei terroristi di Al Qaeda (sempre disponibili a comparire, sparire e resuscitare per soddisfare puntualmente le convenienze di Washington) per smantellare regimi considerati autoritari in quanto in vario modo ostili all’Occidente. Invece, negli Stati con regimi autoritari espressione degli interessi occidentali, che per questo motivo sino a pochi giorni prima erano definiti “moderati” dalla stampa occidentale (Bahrein, Egitto, Tunisia, Yemen), rivolte popolari causate dal peggioramento delle condizioni di vita della popolazione a seguito della depressione economica indotta dalle politiche liberiste.

In tutti i casi citati, Siria esclusa dove la partita si sta ancora giocando, la nuova classe politica emersa dopo le rivolte è composta da qualche rara faccia nuova assieme a tanti fedelissimi dei vecchi regimi che si sono riciclati. Senza voler dire che il sangue versato dai rivoltosi non è servito a nulla, bisogna però ammettere che i vecchi e nuovi detentori del potere, sapientemente orchestrati dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, hanno cambiato qualcosa per non cambiare nulla. E’ mancato un progetto di società diversa, un’alternativa radicale atta a soddisfare le richieste di cambiamento che provenivano dai popoli, che è esattamente ciò che distingue una rivolta da una rivoluzione. Ma, come si dirà anche quando si parlerà dei Paesi occidentali, occorreva una proposta che prevedesse il rifiuto del mercato, del liberismo, della globalizzazione capitalistica: una proposta rivoluzionaria insomma.  Come detto, la propaganda degli Stati Uniti e dei suoi alleati ha accomunato tutti gli eventi, guerre civili e rivolte popolari, nel termine onnicomprensivo di primavere arabe,  facendo intendere l’inizio di un’era di “libertà” laddove invece c’è solo la prosecuzione di politiche neo-imperialiste in forme solo propagandisticamente più “democratiche”.

Si sono sin qui visti tre tipi di interventi che l’imperialismo degli Stati Uniti e dei suoi alleati ha adottato per giungere a dominare l’intero pianeta: quello dell’aggressione militare contro gli Stati canaglia che violerebbero i diritti umani, governati da nemici giurati degli Stati Uniti che non aprono le porte del loro paese al libero mercato (Milosevic, Saddam, Gheddafi, Assad); la repressione brutale delle rivolte, censurata dai media occidentali, in Stati alleati degli Stati Uniti e  geostrategicamente cruciali (Arabia Saudita, Bahrein); e infine il metodo dell’accomodamento “democratico” sempre nei Paesi amici degli Stati Uniti (Egitto, Tunisia), ma dove il movimento di protesta è stato talmente ampio, seppur non maggioritario, che una repressione in stile Bahrein avrebbe potuto causare, in particolare in Egitto, conseguenze imprevedibili e incontrollabili. Ma come si sta attualmente constatando, in Egitto questo terzo metodo non sta funzionando perché la crisi economica peggiora la situazione e le contraddizioni politiche e sociali vengono acuite.

Appena un gradino sotto stanno le cosiddette rivoluzioni colorate. Questo metodo già più “pacifico” e “democratico” è stato applicato quasi sempre in quei Paesi ex-sovietici, o confinanti con la Russia o comunque dove l’influenza russa è preponderante, dove un intervento militare diretto della NATO avrebbe potuto comportare un confronto diretto con Mosca. La tecnica collaudatissima consiste nel finanziare generosamente,  istruire ed organizzare gruppi di “dissidenti” da candidare alle elezioni. Se poi dalle urne esce vincitore il candidato avverso, si denunciano brogli e si chiede la ripetizione delle votazioni. Il tutto supportato da una martellante campagna mediatica occidentale che denuncia una dittatura inesistente, invoca più democrazia, più libertà, nuove elezioni, eccetera. Le votazioni si ripetono anche più volte nel giro di pochi mesi, finché vince il candidato appoggiato dagli Stati Uniti e la “democrazia” finalmente trionfa. Un caso esemplare è stato quello dell’Ucraina nel 2004, ma questo giochino ha fallito in Iran nel 2009. Dalle considerazioni sin qui svolte, deriva la regola che le elezioni sono da considerarsi regolari e democratiche solo nei casi in cui vince il candidato sponsorizzato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. Come disse il proconsole USA a Baghdad, Paul Bremer, riguardo al rinvio delle elezioni amministrative in alcuni villaggi dell’Iraq nel 2003, “Non sono contrario alle elezioni in linea di principio, ma voglio che avvengano in modo da soddisfare le nostre esigenze”.

Infine ci sono gli Stati che non destano preoccupazioni, quelli europei alleati degli Stati Uniti, dove ormai le politiche liberiste e il dominio del capitalismo sono consolidati. Qui il regime “democratico” è blindato e la “democrazia” consiste in finte contrapposizioni elettorali tipo cristiano sociali/socialdemocratici, centrodestra/centrosinistra, destra/sinistra, conservatori/laburisti,  progressisti/conservatori, eccetera. Le divisioni fra i partiti avvengono solo su argomenti marginali, come il matrimonio gay, perché sulle questioni essenziali, quelle economiche e sociali che toccano la qualità della vita della stragrande maggioranza delle popolazioni, si viaggia ormai col “pilota automatico” innestato dai diktat della Troika europea. Non sono mancate nei cosiddetti paesi periferici dell’Unione Europea, cioè quelli più socialmente devastati dalle politiche liberiste (Grecia, Spagna, Portogallo) innumerevoli e imponenti manifestazioni di protesta, scioperi generali (in Grecia si è perso il conto), ma le mobilitazioni non hanno prodotto alcun effetto.

Dal 1945, la classe politica europea ha accettato con gioia la subalternità politica, militare e ideologica agli Stati Uniti, che da allora possono usare il territorio europeo come una grande base militare per controllare e minacciare quanti in Africa, in Medio Oriente e in Asia Centrale non si adeguano alle direttive e agli interessi di Washington. Questa gara di servilismo nei confronti dell’alleato d’oltre oceano è stata vinta con netto distacco sugli altri concorrenti dalla classe politica italiana, di destra, centrodestra, sinistra  e centrosinistra. In Italia chiunque si sia candidato in passato, o intenda candidarsi oggi  alla presidenza del Consiglio o alla presidenza della Repubblica deve fare, o subito prima o subito dopo l’investitura,  un pellegrinaggio a Washington per ricevere il nulla osta dell’imperatore.  Negli ultimi vent’anni è diventato obbligatorio anche il placet di Tel Aviv per ex fascisti pentiti e riciclati ed ex comunisti pentiti e riciclati oggi a braccetto in nome del comune credo sionista. Infine, per ribadire l’incrollabile fede nei valori e nei diktat nell’Europa liberista, recentemente anche Berlino è diventata meta obbligata di pellegrinaggio della classe politica italiana.

L’Italia è come sempre un caso particolare. Tutti i sindacati più rappresentativi sono parte del sistema, viaggiano sottobraccio con la Confindustria, assecondano tutte le politiche liberiste richieste dall’Europa e varate dalla grande coalizione di governo (centrodestra+centro+centrosinistra), promuovono il precariato e salari da fame, cancellano i diritti dei lavoratori compresi quelli previsti dalla Costituzione, hanno ridotto alla fame milioni di pensionati e abolito le pensioni per le prossime generazioni. Si spiega così il fatto che in Italia, pur essendo uno dei paesi in cui le politiche liberiste imposte dalla Troika europea abbiano colpito più duramente i ceti medio-bassi, non esista un’opposizione capace di organizzare manifestazioni di piazza. L’opposizione è delegata nel migliore dei casi al M5S che per sua natura fa solo una peraltro meritoria opposizione nelle istituzioni. Nel peggiore dei casi lo scontento finisce nell’astensionismo oppure viene incanalato nelle finte opposizioni (CGIL, SEL e l’ala “sinistra” del PD).

Negli ultimi trent’anni i movimenti di massa in Italia  sono stati tali solo quando al governo c’è stato il centrodestra. Nel 1994 quando il governo Berlusconi propose una riforma previdenziale, milioni di persone scesero in piazza, e la Lega Nord fece cadere il governo di centrodestra. L’anno successivo il governo tecnico di Lamberto Dini varò una riforma delle pensioni per molti versi peggiore di quella proposta l’anno prima da Berlusconi, riforma che fu approvata col voto determinante dei “progressisti” (cioè il PDS), quello contrario del PRC e con l’astensione di Forza Italia, ma i milioni di persone che protestavano l’anno precedente rimasero a casa evidentemente soddisfatte. Nel dicembre 2011, col PD che appoggia il governo “tecnico” di Mario Monti, la riforma Fornero che praticamente abolisce la voce pensione dal dizionario della lingua italiana, passa senza neanche qualche capannello in piazza. 

Anche il movimento per la pace ha seguito il medesimo andamento. Nella primavera del 1999,  con il presidente del Consiglio Massimo D’Alema in prima linea a bombardare la Jugoslavia, le piazze rimasero vuote, solo il PRC e altri quattro gatti stavano in piazza a protestare. Invece nel 2003 all’epoca dell’invasione dell’Iraq, governando Berlusconi, le piazze italiane si riempirono di centinaia di migliaia di pacifinti a cui verosimilmente non importava nulla dell’Iraq e degli iracheni. Tutti questi pacifinti non si erano indignati per il criminale embargo all’Iraq costato quasi due milioni di morti, a cui anche i governi di centrosinistra di Prodi prima e D’Alema poi avevano fornito il loro contributo. Il 2011 vede il segretario del PD Pierluigi Bersani, interventista della prima ora e con l’elmetto in testa, preoccupato per il ruolo marginale dell’Italia nella crisi libica, che rimprovera di scarso decisionismo il titubante presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che non vuole aggredire per primo il suo “amico” Gheddafi. Inutile dire che le piazze erano ovviamente desolatamente vuote. Solo qualche imbecille di estrema sinistra, che non aveva capito nulla di ciò che stava succedendo sulla quarta sponda, manifestava contro Gheddafi sotto l’ambasciata romana assieme alle bandiere di re Idris sventolate dai fan dei nuovi padroni della Libia designati da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Del movimento pacifista nessuna traccia, morto e sepolto sotto il peso delle sue gigantesche contraddizioni. Meglio così, che Allah abbia pietà, pace all’anima sua.

Si può affermare a questo punto che il modello capitalistico degli Stati Uniti, pur se in crisi strutturale, sistemica, epocale, la si chiami come si vuole,  si è già imposto ideologicamente in quasi tutto il mondo; gli manca solo di conquistare, come nel gioco del Risiko, alcuni territori, ma la vittoria degli Stati Uniti è da considerarsi netta in Europa soprattutto perché nessuno ha da proporre modelli alternativi credibili e praticabili in tempi non biblici. Persino in Grecia, dove le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione già drammatiche continuano a peggiorare giorno dopo giorno, il partito d’opposizione Syriza non ha altro da proporre se non l’ennesimo tentativo di ricontrattare le condizioni capestro dettate dalla Troika, come se fosse ancora possibile il ripristino del welfare o un onorevole compromesso capitale-lavoro.

Abbiamo sin qui sommariamente esaminato alcuni dei motivi che hanno consentito agli Stati Uniti e al loro modello sociale di stravincere la loro battaglia in Europa dove non era necessaria la forza militare. Dove invece questa è stata necessaria, le cose non sono filate del tutto lisce. In Iraq, ad esempio, le truppe statunitensi non sono entrate a Baghdad  il 9 aprile 2003 soffocati dalla felicità del popolo iracheno fra sventolii di  bandierine a stelle e strisce cucite segretamente nella notte per omaggiare i “liberatori”, come sperava la propaganda di Washington. Anche la famosa scena pro-televisioni della rimozione della statua di Saddam Hussein in piazza Al Fardous vede la presenza di un centinaio di persone, quasi tutte guardie del corpo di leader dell’opposizione rientrati in patria al seguito delle truppe statunitensi. Le uniche scene di giubilo di massa avvengono nel Kurdistan iracheno, peraltro già di fatto autonomo dal 1991-1992.  Dopo dieci anni l’Iraq non è stato ancora pacificato, le truppe statunitensi si sono ufficialmente ritirate, ma restano 15.000 uomini e una grande sede “diplomatica” a Baghdad costruita come un fortino inespugnabile. Non si può certo parlare di grande vittoria perché la resistenza continua, ma nemmeno di “bruciante sconfitta”. Il destino dell’Iraq e del suo popolo dipenderanno dall’esito della guerra in Siria e dall’attacco all’Iran che prima o poi Stati Uniti e Israele lanceranno. 

L’arma principale che ha consentito agli Stati Uniti di intervenire  militarmente in Medio Oriente, nel Nord Africa e in Asia Centrale è stata la comunicazione. Come si è già detto, per scatenare una guerra il primo obiettivo è conquistare le menti e quindi il consenso. Sotto questo aspetto, gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno vinto a mani basse, anzi si può affermare che non c’è stata proprio partita. Già dai primi anni ’20 Mussolini aveva compreso  che “il cinema” era “l’arma più forte dello Stato” e infatti, poco dopo si appropriava de L’Unione Cinematografica Educativa (LUCE) per farne lo strumento principale di propaganda del regime fascista. Nel 1991, durante il primo conflitto contro l’Iraq, Bush sr fa tesoro della lezione del Vietnam, dove i giornalisti presenti sui campi di battaglia avevano rivelato al mondo le atrocità di quella guerra. Bush sr promette perciò che i militari USA non combatteranno più “con una mano legata dietro la schiena”, che tradotto in italiano significa che gli Stati Uniti non tollereranno più la presenza di testimoni dei loro crimini. Ai giornalisti viene impedito di vedere la guerra, e si offre loro in cambio un comodo acquartieramento nella base statunitense di Dhahran in Arabia Saudita dove ricevono dai portavoce militari le notizie sulle operazioni militari. 

Nella rappresaglia contro l’Afghanistan dell’ottobre 2001, il presidente della CNN Walter Isaacson impartiva ai suoi inviati i seguenti dodici comandamenti: “La prima parola chiave è riequilibrare. La seconda parola chiave è contestualizzare. La terza parola chiave è ricapitolare. Ricordare sempre che le azioni militari degli Stati Uniti sono scattate in risposta agli attacchi terroristici che hanno ucciso circa 5.000 innocenti. Non concentrare eccessivamente l’attenzione sulle sofferenze, sulle vittime civili e sulle devastazioni delle città afghane. Raddoppiare gli sforzi per essere certi di non riportare soltanto la prospettiva dei talebani. Parlare del fatto che i talebani usano i civili come scudi umani. Ricordare che i talebani hanno ospitato i terroristi responsabili della morte di circa 5.000 innocenti. Fare in modo di non essere usati come base di propaganda. E’ importante che i telespettatori capiscano che il dolore dei civili in Afghanistan è nel contesto d’un attacco terroristico che ha causato un enorme dolore agli americani. Integrare le immagini con le parole, calcolarne in anticipo le potenzialità e l’effetto. Non usare le immagini di Al Jazeera”.  Questa è l’ultima operazione bellica in cui c’è ancora bisogno delle raccomandazioni, delle veline come all’epoca dell’Agenzia Stefani durante il regime fascista in Italia; successivamente i giornalisti embedded, sia quelli al seguito delle truppe che quelli rimasti a casa, saranno ormai in grado di autovelinarsi.

Joseph Goebbels, gauleiter di Berlino nonché ministro della Propaganda del Terzo Reich consigliava:  “ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà verità”. Sono state 935 le false dichiarazioni sull’Iraq rilasciate dai dirigenti degli Stati Uniti fra l’11 settembre 2001 e il 20 marzo 2003 alla media di 1,7 al giorno, a cui bisogna aggiungere quelle del leader laburista inglese Tony Blair. La classifica finale dei bugiardi vede in testa Bush jr con 259 false dichiarazioni seguito a poche lunghezze dalla “colomba” Colin Powell e poi Condoleezza Rice, Donald Rumsfeld, eccetera.

Queste false  dichiarazioni si possono suddividere grosso modo in due filoni:

A) quelle che vogliono dimostrare il coinvolgimento della dirigenza irachena negli eventi dell’11 settembre 2001 e i collegamenti dell’Iraq col terrorismo internazionale. Ad esempio, il Pentagono afferma d’avere le prove che Mohammed Atta, accusato d’aver dirottato l’aereo che si è schiantato contro la prima delle Twin Towers, ha incontrato a Baghdad Saddam Hussein poco prima dell’11 settembre, mentre la CIA “rivela” a più riprese che lo stesso Atta ha avuto abboccamenti nell’aprile 2001  con il capo dei servizi segreti iracheni Ahmad Al Ani a Praga, “rivelazione” peraltro smentita personalmente dal presidente della Repubblica Ceca Vaclav Havel. L’Iraq è poi accusato di organizzare campi di addestramento per terroristi, e implicato come mandante e/o finanziatore di tutti gli attentati avvenuti nel mondo negli ultimi dieci anni.

B) quelle che accusano l’Iraq di possedere, o di stare progettando e/o costruendo armi di distruzione di massa o comunque di tentare di volersele procurare. Naturalmente il campionario di armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein è vastissimo a sentire i dirigenti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Costoro affermano di sapere esattamente dove Saddam Hussein nasconde queste armi, chimiche, biologiche e nucleari, e/o le località dove gli scienziati iracheni le stanno costruendo, ma sempre rifiutano di passare queste informazioni agli ispettori dell’ONU presenti in Iraq: deve essere Saddam Hussein a confessare dove stanno le armi di distruzione di massa e non gli Stati Uniti a indicare agli ispettori dove esse si trovano. Tra l’altro, poco prima di Natale 2002, il governo di Baghdad invita ufficialmente la CIA a venire in Iraq per ispezionare a suo piacimento i siti sospetti, ma il governo di Washington rifiuta sdegnato. Su queste“bizzarre” posizioni di Stati Uniti e Gran Bretagna rimando il lettore all’articolo di Giulietto Chiesa “La strega Saddam e l’inquisizione di Bush” pubblicato sempre nel “Dossier Iraq” su Missioni Consolata del dicembre 2002.  

  Almeno un paio di volte il parlamento britannico invita Blair a produrre pubblicamente le prove contro l’Iraq, ma il primo ministro risponde sempre che le renderà note al momento che riterrà più opportuno. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non hanno mai, ma proprio mai, sottolineato mai, esibito numero una prova a sostegno delle loro accuse: né prima né durante l’occupazione anglo-statunitense in Iraq sarà mai trovata traccia di armi di distruzione di massa. 

La più comica delle menzogne è quella del dossier britannico di 19 pagine intitolato “Iraq, la sua infrastruttura di occultamento, inganno e intimidazione” presentato da Blair ai Comuni il 27 gennaio 2003. Nove giorni dopo, nel famoso discorso all’assemblea dell’ONU, Colin Powell spaccia per “prove schiaccianti” alcune foto di siti sospetti, ma che in realtà potrebbero essere qualsiasi cosa. Poi come un prestigiatore estrae dalla tasca una fialetta e dice: “Dentro ci sono batteri dell’antrace; una piccola dose come quella contenuta in questa fialetta è sufficiente per uccidere migliaia di persone”, ma non presenta le prove che fialette simili siano in mani irachene.  Per giustificare gli esiti negativi delle ricerche delle armi di distruzione di massa da parte degli ispettori dell’ONU, Powell afferma che Saddam produce micidiali ordigni biologici in 18 “laboratori mobili” montati su camion opportunamente modificati che si spostano da una parte all’altra del paese, su strada o su rotaia, venendo poi parcheggiati in luoghi segreti; ma questi “laboratori mobili” non si trovano perché “Saddam ha un diabolico talento nel nascondere le sue armi”. Quindi asserisce che la prova del collegamento fra Saddam Hussein e Osama Bin Laden è la presenza del gruppo terrorista Ansar al Islam nel Kurdistan iracheno. Infine dichiara: “Vorrei richiamare l’attenzione dei miei colleghi sul bel documento distribuito dalla Gran Bretagna che descrive in minuziosi dettagli gli inganni dell’Iraq”; il bel documento è quello presentato da Blair il 27 gennaio. Due giorni dopo alcuni quotidiani rivelano che quel documento è stato copiato, e non è frutto dell’intelligence britannica. Quattro pagine del dossier ricalcano fedelmente, compresi gli errori di punteggiatura, uno studio dello studente iracheno-statunitense Ibrahim Al Marashi pubblicato nel settembre 2002 dal periodico Middle East Review of International Affairs, basato su vecchi documenti abbandonati in Kuwait dall’intelligence irachena nel 1991. Altre sei pagine del dossier sono ispirate a due articoli accademici di Sean Boyne e Ken Gause pubblicati sulla rivista Jane’s Intelligence Review nel 1997 e nel novembre 2002.

Una figuraccia simile che copre di ridicolo Blair, Powell e i loro complici, avrebbe dovuto quanto meno insinuare qualche dubbio sulla attendibilità dell’impianto accusatorio presentato all’ONU da Powell. Invece la grande informazione democratica del mondo libero si limita a una bonaria tiratina d’orecchi, a qualche titolo ironico del tipo “Agente 007 licenza di copiare” e nulla più. Non manca qualche voce controcorrente, ma viene deliberatamente ignorata. E’ il caso dell’intervista che Scott Ritter rilascia nell’agosto 2002 al giornalista William Rivers Pitt e pubblicata nel settembre 2002 nel libro “Guerra all’Iraq, tutto quello che Bush non vuole far sapere al mondo svelato dall’ispettore ONU Scott Ritter”.

William Scott Ritter, già ufficiale dei marines degli Stati Uniti, durante la guerra contro l’Iraq del 1991 fa parte del team di consiglieri del generale Schwarzkopf, e poi diventa uno dei principali capo-ispettori della United Nations Special Commission (UNSCOM), la commissione creata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con risoluzione 687 del 3 aprile 1991 con il compito di ricercare e distruggere tutte le armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq e i materiali e gli impianti che potrebbero servire a costruirle. Nel 1991 sposa una cittadina dell’Unione Sovietica e per questo motivo sarà indagato a più riprese dall’FBI. Ritter si dimette da ispettore ONU il 26 agosto 1998 e pochi giorni dopo nel corso della trasmissione televisiva Newshour with Jim Lehrer afferma tra l’altro che molti suoi ex colleghi compreso il capo dell’UNSCOM, Richard Butler, più che lavorare per la commissione dell’ONU prendevano ordini da servizi segreti di “vari paesi” a cui fornivano informazioni sull’Iraq. Di fede repubblicana, nelle elezioni presidenziali del 2000 vota per George W. Bush.

Nell’intervista a Pitt, sulle armi nucleari, Ritter afferma: “Quando lasciai l’Iraq nel 1998, dopo la fine delle ispezioni ONU, l’infrastruttura e gli stabilimenti erano stati eliminati al 100 per cento. Su questo non c’è alcun dubbio. Tutti gli strumenti e le fabbriche erano state distrutte. La fabbrica di progettazione delle armi era stata distrutta. L’apparecchiatura di produzione era stata rintracciata ed eliminata. E avevamo la capacità di monitorare - sia su terra sia dall’aria -  i raggi gamma prodotti dal tentativo di arricchire l’uranio o il plutonio. Non abbiamo mai trovato niente. Possiamo dire inequivocabilmente che l’infrastruttura industriale di cui l’Iraq ha bisogno per produrre armi nucleari è stata eliminata […] Il vicepresidente Cheney afferma che l’Iraq potrebbe costruire una bomba atomica in due anni. A meno che sia a conoscenza di informazioni che noi non abbiamo, è una sciocchezza. E non sembra che ne sappia più di noi perché, ogni volta che si fa pressione sul vicepresidente e altri funzionari dell’amministrazione Bush per conoscere su cosa si fondino queste dichiarazioni, loro si rifanno sempre alla testimonianza di Richard Butler, il mio ex capo, un diplomatico australiano, e di Khidre Hamza, un disertore iracheno che afferma di essere il costruttore di bombe di Saddam. Nessuno dei due offre niente più di semplici speculazioni a sostegno della loro tesi. Le continue affermazioni del vicepresidente sulla capacità nucleare dell’Iraq sono semplici speculazioni infondate, specialmente quando abbiamo il verbale dell’ONU sul disarmo dell’Iraq dal 1991 al 1998. Quel verbale è indiscutibile. E’ documentato. Abbiamo eliminato il programma nucleare, e per ricostruirlo l’Iraq avrebbe dovuto intraprendere attività facilmente rilevabili dai servizi di intelligence […] I laboratori emetterebbero radiazioni gamma, insieme a molte altre frequenze. Tutte cose che si possono rilevare. L’Iraq non è in grado di aggirare l’intelligence”.

Delle armi chimiche Ritter dice: “L’Iraq produceva tre tipi di agenti nervini: il sarin, il tabun e il VX. Alcune persone favorevoli alla guerra contro l’Iraq parlano di ventimila munizioni cariche di agenti nervini di tipo sarin e tabun. Questo, però, non è sostenuto dai fatti. Il sarin e il tabun hanno un tempo di conservazione di cinque anni. Anche se l’Iraq fosse riuscito in qualche modo a nascondere una tale grande quantità di armi, ora in magazzino non avrebbe altro che un’inutile, inoffensiva melma. Le armi chimiche erano prodotte nella provincia di Muthanna: era un’enorme fabbrica di armi chimiche che è stata bombardata durante la guerra del Golfo e che gli ispettori hanno poi definitivamente eliminato. Questo vuol dire che l’Iraq ha perso la sua base di produzione di sarin e tabun. […] Abbiamo distrutto migliaia di tonnellate di agenti chimici. […] Abbiamo impiegato un inceneritore che ha lavorato a tempo pieno per anni, bruciando tonnellate di materiale. Abbiamo trasportato bombe, missili e testate cariche di questo agente in luoghi adatti alla loro eliminazione. Abbiamo svuotato le testate dei missili SCUD cariche dell’agente. Abbiamo rintracciato tutto questo materiale e lo abbiamo distrutto. […] Oggi, parlare delle armi chimiche dell’Iraq non ha più senso. Ci si basa sulla speculazione che l’Iraq avrebbe potuto nasconderne alcune agli ispettori ONU. Ritengo che in Iraq il nostro sia stato un buon lavoro di ispezione. Se avessero tentato di nascondere qualcosa, lo avremmo trovato. Ma ammettiamo pure che siano riusciti con successo a nascondere delle armi chimiche. E allora? Ora queste sarebbero inutilizzabili comunque. Non vale neanche la pena parlarne. […] Anche se l’Iraq avesse conservato l’agente VX oggi probabilmente sarebbe degradato. Ci si chiede se l’Iraq sia davvero riuscito a perfezionare il processo di stabilizzazione o meno. Anche una minima deviazione nella formula crea proteine che distruggono il VX nel giro di qualche mese. La domanda concreta è: esiste oggi in Iraq una fabbrica di agente nervino VX? Mai e poi mai”.

Sulle armi biologiche: “L’Iraq era in grado di produrre antrace liquido. Su questo non c’è alcun dubbio. L’antrace liquido, anche in condizioni di conservazione ideali, germina nell’arco di tre anni e diventa inutilizzabile. Quindi, anche se l’Iraq ci avesse mentito e avesse ancora delle riserve di antrace - e non ne esistono prove - si tratta di una pura speculazione teorica da parte di alcuni ispettori. Oggi l’Iraq non è in possesso di armi biologiche, perché sia l’antrace sia la tossina del botulino sono ormai inutilizzabili. […] Abbiamo perlustrato a tappeto tutto il territorio iracheno: ogni singola struttura per la ricerca o la produzione, ogni singola università, ogni ospedale, ogni fabbrica di birra: abbiamo ispezionato ogni struttura in cui potesse avvenire la fermentazione, e non abbiamo mai trovato alcuna prova che dimostrasse ricerca o produzione o conservazione. A volte i controlli sono stati fatti in modo scorretto. Un esempio riguarda Dick Spertzel, che era a capo delle ispezioni biologiche durante l’ultimo periodo della presenza dell’UNSCOM in Iraq. Spertzel era un ex ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti assegnato alla guerra biologica e aveva un ruolo fondamentale nella produzione di armi biologiche offensive americane. Quindi era molto bene informato. Stabilì che non avrebbe condotto i test sulle armi biologiche. Uno dei casi più grossolani fu quello dei palazzi presidenziali iracheni. Quando ci entrammo, nel 1998, l’amministrazione era in piena campagna retorica: il segretario alla Difesa Cohen, per esempio, sollevò un sacchetto di zucchero e disse che se fosse stato antrace avrebbe potuto uccidere l’intera popolazione di Washington. Molte persone dicevano che l’antrace veniva prodotto nei palazzi iracheni. Si arrivò quasi alla guerra pur di farci ispezionare quei palazzi. Una volta all’interno, abbiamo fatto dei test per armi nucleari e chimiche, e non abbiamo mai trovato nulla. Ai biologi, però, fu impedito dai loro superiori di condurre test biologici. Quando gli iracheni ne chiesero la motivazione a Dick Spertzel, lui rispose che sapeva da sempre che non vi avrebbe trovato armi biologiche, ma non aveva voglia di dare agli iracheni il beneficio di un esito negativo del test. […] Gli iracheni gli hanno chiesto ripetutamente di portare con sé la sofisticata strumentazione necessaria a verificare la presenza di agenti biologici. Lui continuava a rispondere che non aveva nessuna voglia di eseguire indagini che avrebbero fornito agli iracheni motivi per dichiarare che non possiedono armi simili”.

Sulle capacità balistiche: “Spesso sento dire che l’Iraq possiede missili multistadio. Ma l’Iraq non ha le risorse per costruirli. Ci hanno provato una volta, nel 1989, quando il paese aveva pieno accesso a questa tecnologia, e il missile scoppiò a mezz’aria. Sento parlare di bombe a grappolo, che l’Iraq ha effettivamente provato a costruire, ma non hanno funzionato. La conclusione è che l’Iraq non ha la capacità di costruire missili balistici ad ampio raggio. Non ha neanche la capacità di costruire missili balistici a corto raggio. Ci stanno provando, ma non ci riescono. Credo che dobbiamo tenere sotto controllo il loro programma missilistico perché le tecnologie sono facilmente intercambiabili, ma l’idea che l’Iraq possa improvvisamente saltar fuori con un missile ad ampio raggio è ridicola. Dovrebbero fare moltissimi test, e questi devono essere compiuti all’aperto. Non riuscirebbero a sfuggire a rilevamenti. […] Nessuno è mai riuscito a rintracciare le prove che l’Iraq stesse facendo una cosa del genere. L’Iraq continua a denunciare i propri test missilistici, e di solito ne fanno dagli otto ai dodici all’anno. Il nostro radar individua i test, noi ne conosciamo le caratteristiche e sappiamo che non c’è nulla di cui preoccuparsi”.

La conclusione di Ritter è chiarissima: “Se io dovessi quantificare la minaccia rappresentata dall’Iraq in termini di armi di distruzione di massa, essa equivale a zero”.

Nel 2002-2003 è evidente a tutti che la banda Bush-Blair sta intenzionalmente mentendo sulle armi di distruzione di massa irachene per attaccare l’Iraq, ma nessuno lo dice per non essere accusato di stare dalla parte di Saddam Hussein. La guerra produce centinaia di migliaia di morti soprattutto iracheni, ma al ridicolo Tribunale Penale Internazionale non passerà neanche per l’anticamera del cervello l’idea di processare e condannare la famiglia Bush, la famiglia Clinton e il loro complice Blair per crimini contro l’umanità. Come abbiamo visto, la colpa della guerra  all’Iraq viene attribuita a un taxista. Il 21 gennaio 2011, nella seconda udienza davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla guerra in Iraq, mentre un centinaio di parenti di militari britannici caduti in Iraq lo contestano gridando “All’Aja, all’Aja”, Blair ribadisce che la guerra fu giusta e legittima, e riesce solo ad esprimere “un sincero e profondo rincrescimento” per la perdita di vite umane.

Non potendo più sfruttare la storiella ormai del tutto sputtanata delle armi di distruzione di massa, l’aggressione della NATO alla Libia nel marzo 2011 è presentata dall’amministrazione Obama come un intervento umanitario per salvare la popolazione libica dalla repressione di Gheddafi. Come dice Ben Rhodes, consigliere sulla Sicurezza Nazionale del presidente Obama a cui scrive parecchi discorsi, l’amministrazione Obama “segue politiche diverse su ogni scenario partendo dalle condizioni sul terreno”.  Ma la finalità degli Stati Uniti, cioè il dominio dell’intero pianeta, non è messa in discussione come nota un editoriale  del Quotidiano del Popolo, organo del Partito Comunista Cinese, apparso in occasione dell’insediamento di Obama alla Casa Bianca nel gennaio 2009: “Dobbiamo sapere che i cambiamenti che si esprimeranno nella nuova politica estera degli Stati Uniti non riguarderanno le finalità strategiche, ma solo il modo di perseguirle”.

La rappresentazione che gli Stati Uniti e i suoi alleati, nonché tutti gli organi di informazione offrono della situazione libica vede  da una parte tutto il popolo che chiede libertà e democrazia e dall’altra il feroce dittatore, sempre descritto nascosto nel suo bunker segreto, come Hitler, da dove sguinzaglia i suoi sgherri ad uccidere la popolazione inerme. Per dare credito a questa versione dei fatti si ignorano o si minimizzano le numerose grandi  manifestazioni pro-Gheddafi che si svolgono in particolare a Tripoli.  Questa situazione, tutto il popolo vs il dittatore, è totalmente fantasiosa in generale,  e non solo nella specifica situazione libica. Non si può governare un paese, qualunque esso sia, se non si ha la collaborazione, il consenso di almeno il 40-50 per cento della popolazione. Di solito sono proprio i regimi autoritari quelli che debbono godere di un più vasto consenso popolare rispetto a quelli ritenuti più democratici. In Italia, ad esempio, mai nessuno avrà più un consenso così ampio come ebbe Mussolini negli anni ’30, quando gli antifascisti erano solo poche decine di migliaia di persone.

Differentemente dalla guerra contro l’Iraq del 2003 dove ancora qualche voce discordante aveva un minuscolo diritto di tribuna, nella guerra contro la Libia, almeno in Italia, tutti gli organi di informazione, di destra, centrodestra, sinistra e centrosinistra parlano con un’unica voce. Quella che risulta quasi subito essere una resa dei conti all’interno della borghesia libica, un conflitto di potere nella dirigenza gheddafiana sobillato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati,  viene trasformato dalla propaganda dei media agli ordini degli Stati Uniti e dei suoi alleati in uno scontro fra popolo e tiranno. Come già detto, per comprendere la natura del conflitto basta scorrere i nomi dei “nuovi” dirigenti libici di Bengasi.Sulle motivazioni dell’attacco alla Libia rimando il lettore all’articolo del professor Jean-Paul Pougala intitolato “Le vere ragioni della guerra in Libia”. Oltre a questo articolo, le uniche analisi in controtendenza giungono dall’America. Il 21 febbraio, l’allora ministro degli Esteri del Venezuela, Nicolas Maduro, dichiara: “Si stanno creando le condizioni per giustificare l’invasione della Libia, e l’obiettivo principale è rubare il petrolio”. Sempre il 21 febbraio, ed erano passati solo cinque giorni dall’inizio della guerra civile libica, Fidel Castro, fra lo stupore della “sinistra” europea, afferma con sicurezza che la NATO si appresta ad attaccare la Libia. Per la cronaca, l’attacco della NATO alla Libia inizierà il 19 marzo.

              Soprattutto nei primi giorni della guerra civile, quando occorreva provocare lo sdegno dell’opinione pubblica internazionale per giustificare l’intervento della NATO, le uniche versioni dei fatti riportate come veritiere sono quelle fornite dai “ribelli di Bengasi”, mentre le posizioni di Tripoli sono presentate come mera propaganda. A due anni di distanza si può affermare con assoluta certezza che era vero il contrario.

Prendiamo ad esempio il numero dei morti, premettendo che, dopo una settimana dall’inizio della guerra civile,  nessun inviato dei grandi quotidiani italiani è ancora sul posto. Eppure il Corriere della Sera del 22 febbraio spara in prima a tutta pagina: “Elicotteri e aerei contro i manifestanti. I diplomatici di Tripoli: un genocidio”. Cecilia Zecchinelli, inviata a Il Cairo, ribadisce in seconda “Guerra civile in Libia, la strage. Elicotteri e caccia seminano la morte nel cuore di Tripoli. L’ambasciatore libico all’ONU: un genocidio”. Nell’articolo, da non meglio precisate fonti trovate su Internet e da notizie ricevute attraverso telefonini,  si parla di bombe gettate su una grande manifestazione contro Gheddafi a Tripoli, di cecchini appostati ovunque che hanno ammazzato decine di manifestanti, di “donne freddate al balcone” . A Misurata gli ospedali sono stati incendiati, mentre “da Bengasi arriva notizia di una fossa comune con un centinaio di cadaveri, soldati passati alla rivolta”.  Anche La Stampa del 22 febbraio spara in prima un “Gheddafi bombarda la folla” e parla di genocidio, mentre tale Giordano Stabile, che non dice da dove confeziona il pezzo, ma si presume comodamente seduto davanti  a un computer a casa sua, scrive che “Il crepuscolo del regime di Muammar Gheddafi si tinge di rosso” e che siccome “l’esercito ha abbandonato il rais”, “a massacrare i manifestanti ci pensano i mercenari, irriducibili dei Comitati Rivoluzionari della Jamariya, squadroni della morte in abiti civili, aerei militari che mitragliano e lanciano razzi contro gli assembramenti più numerosi, davanti al parlamento, nella centrale piazza Verde. Tripoli brucia. Sono in fiamme le sedi del governo, del parlamento, di tv e radio di Stato”.

Il 22 febbraio, secondo Al Arabiya, i morti sarebbero già mille, mentre il figlio di Gheddafi Saif al Islam afferma che sono solo 300 di cui 254 civili. Un medico dell’ospedale di Bengasi invece dice che i morti nella sola capitale della Cirenaica sarebbero 500. La Stampa del 23 febbraio riprendendo un testimone afferma che “i medici parlano di ferite prodotte da armi che non credo siano mai state usate prima contro gli esseri umani”. Dopo genocidio ecco che un blogger libico residente in Svizzera, probabilmente una delle fonti a cui si abbeverano quotidianamente gli embedded nostrani, sfidando coraggiosamente il copyright sionista scrive finalmente: “A Tripoli è in corso l’Olocausto”.

 Il giornalismo italiano esprime al meglio la sua professionalità il giorno 24 febbraio. Il quotidiano super embedded la Repubblica titola a tutta pagina: “La Libia in un bagno di sangue, già diecimila morti, fosse comuni a Tripoli

 

Al centro della prima pagina campeggia una foto a colori in cui si vedono alcune file di fosse individuali scavate nella sabbia in una perfetta forma rettangolare. Delle fosse comuni nessuna traccia. Sotto la foto, un articolo del super embedded Vittorio Zucconi, scritto probabilmente dal cuore dell’impero, dal titolo “IL RITUALE STORICO DELL’ORRORE” rimanda a pagina 4 dove in un’altra foto a colori appaiono sempre le stesse fosse scavate con millimetrica precisione. Accanto, la classica foto dei teschi delle vittime dei khmer rossi (1975), un’altra con i cadaveri dei tutsi del Ruanda (1994) e infine una foto del cimitero di Srebrenica (1995), tanto per far capire che in Libia siamo in presenza di un altro storico genocidio. Dalle foto scattate sulla spiaggia di Tripoli, il super embedded Zucconi deduce che il cimitero di Tripoli è “ormai tracimante e incapace di contenere le troppe vittime della guerra aperta da Gheddafi contro il proprio popolo […] Può darsi che quelle immagini siano state diffuse per accendere lo sdegno del mondo contro il colonnello fuori di senno, anche se la tracimazione di corpi dal cimitero parla chiaro”. Sempre in quarta pagina, nel titolo principale viene ripresa la notizia diffusa da Al Arabiya per cui “I MORTI POTREBBERO ESSERE DIECIMILA” (50.000 i feriti). La cifra di 10.000 morti proviene da una dichiarazione di Sayed Al Shanuka, componente libico della Corte Penale Internazionale. Una testimonianza raccolta dalla BBC parla di “’cadaveri che vengono subito portati via, così come le prove delle sparatorie’ con le squadracce che lavano il sangue delle strade e portano via i bossoli […], ma pochi hanno visto i massacri. Mahmoud Ahmed parla di elicotteri che hanno mitragliato i dimostranti, nel quartiere di Tajura. Poi ammette: ‘In realtà ho visto l’elicottero scendere di colpo verso la folla, ma non l’ho visto sparare’” .

 

In fatto di presa per i fondelli dei suoi lettori anche La Stampa del 24 febbraio non scherza. In prima pagina non parla di fosse comuni, ma solo di fosse scavate sulla spiaggia di Tripoli, essendo esauriti i posti nei cimiteri. Nella foto a centro pagina si vedono le solite fosse geometricamente perfette scavate in riva al mare con una cinquantina di uomini attorno, ma anche qui delle fosse comuni nessuna traccia.

A pagina 2, il solito Giordano Stabile, di cui si continua ad ignorare da dove scriva i suoi servizi, parla invece di fosse comuni scoperte sulla spiaggia di Tripoli, benché la foto pubblicata a fianco lo smentisca chiaramente. Secondo Stabile la prova delle fosse comuni starebbe in un video amatoriale pubblicato sul sito Onedayonearth.org e rilanciato dal quotidiano britannico Telegraph.

 

 

Ci si può fermare qui e svelare a questo punto il numero esatto delle vittime della guerra civile libica, che fra l’altro continua nel silenzio generale. Il numero esatto delle vittime è stato fornito pochi mesi fa dal governo fantoccio in carica oggigiorno in Libia, ma non sono in grado di precisare quanti giornali italiani hanno ripreso la notizia. Antonio Ferrari su Sette, supplemento del venerdì del Corriere della Sera del 21 giugno 2013, ci offre i dati precisi in un articolo brevissimo intitolato “Quanti morti fa davvero una guerra -  Cifra decisiva, spesso manipolata. In Libia si parlò di 50mila, ma furono 10mila. E in Siria, i dati comparati danno da pensare: soprattutto su chi li ha raccolti”. L’autore riprende una ricerca effettuata dal collega spagnolo Miguel-Anxo Murado del Mundo. L’attuale governo libico afferma ufficialmente che i morti sono stati diecimila “divisi quasi equamente fra le due parti, i ribelli e i fedeli al leader libico. Purtroppo è finita, scrive Mundo, come finiscono sempre queste vicende. La pesante correzione al ribasso, non ha avuto alcuna pubblicità. Anzi, la notizia-smentita è stata ignorata proprio perché avrebbe posto qualche fastidioso problema politico a posteriori”.

Questo breve articolo ci svela che anche le vittime del conflitto in Siria sono molte meno di quanto diffuso dai “ribelli”: “All’inizio di giugno […] gli uomini uccisi sono 24.269, le donne 3.048, i bambini 4.788, ne restano da identificare 2.368”. Commenta Ferrari: “Se così fosse verrebbe smentita quell’immagine di bombardamenti feroci e indiscriminati sulla popolazione civile”. Tutti i dati diffusi dai media sono stati presi da una sola fonte, l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, una ONG che si oppone al regime di Bashar Al Assad. Ma, conclude l’articolo, “secondo El Huffington Post spagnolo” questa ONG “per quanto incredibile possa sembrare, ha un solo impiegato, un esiliato siriano che vive a Londra, dove ha un negozio di abbigliamento”.

In Europa la stragrande maggioranza delle maggiori forze politiche è favorevole all’aggressione della Libia. In Francia, ad esempio, solo il Front National di Marine Le Pen e Lutte Ouvrière sono contrari. In Italia, il presidente Giorgio Napolitano incita le forze politiche a votare con convinzione per i raid: “Dobbiamo impedire che vengano distrutte le speranze che si sono accese di un risorgimento nel mondo arabo”. In visita a Torino, il presidente della Repubblica, interrogato dai giornalisti sulle regole d’ingaggio dei nostri aviatori per circumnavigare l’articolo 11 della Costituzione, risponde: “In quell’articolo 11 si parla di interventi coordinati dalle organizzazioni internazionali preposte a garantire la pace e la giustizia […] è tutto chiaro e non c’è niente da circumnavigare” (Corriere della Sera, 20 marzo). Perfino il Vaticano, nella persona del presidente della Conferenza Episcopale Italiana, chiede di “aiutare in modo prudente, ma convinto” le popolazioni della Libia “che aspirano ai diritti fondamentali”, ma non specifica quali siano i modi prudenti, ma convinti. Gli unici quotidiani a dissentire sono quelli di centrodestra: Il Giornale titola: “COSTRETTI ALLA GUERRA”, mentre Libero commenta “CI MANCAVA SOLO LA GUERRA AL BEDUINO”. Alla Commissione Esteri e Difesa del Senato tutti i partiti di centrodestra e centrosinistra danno via libera ai raid aerei italiani sulla Libia, mentre la Lega Nord si assenta e l’Italia dei Valori si astiene. Su La Stampa del 20 marzo, Nichi Vendola, leader di SEL, interrogato sul silenzio dei pacifisti, dà il suo benestare ai  bombardamenti, purché mirati: “La domanda di libertà non può essere repressa con il terrore nel nome della non ingerenza in un paese sovrano. Allora io mi chiedo: siamo capaci, noi mondo multipolare, di soccorrere le popolazioni aggredite?”. Ad eccezione di casi quasi individuali, altri di sinistra non pervenuti.

Per la serie “Le ultime parole famose” la prima pagina de La Stampa del 21 marzo riesce a far concorrenza a La settimana enigmistica che, come recita la pubblicità, è il settimanale di quiz e barzellette che vanta il maggior numero di tentativi di imitazione. Sopra il titolo “Libia, caccia italiani in azione” viene riportata la dichiarazione del presidente Napolitano: “non siamo entrati in guerra”, ma subito sotto una grande fotografia a colori mostra lo scoppio di una bomba o di un missile.  A pagina 10 il presidente, con una frase che è un capolavoro di acrobazia costituzionale, precisa: “E’ una operazione ONU volta a reprimere le violazioni della pace”.

Come sempre, il compito delle forze armate italiane nelle guerre d’aggressione della NATO viene presentato come marginale, di mero supporto logistico, di perlustrazione del territorio nemico, di individuazione degli obiettivi, eccetera, perché i militari italiani sono tradizionalmente amanti della pace, e la guerra vera e propria la lasciano fare ai loro più potenti alleati. Salvo poi, dopo anni, scoprire che nel 1999, ad esempio,  governando il centrosinistra, i nostri pacifici aviatori bombardavano la Jugoslavia al pari se non di più delle altre aviazioni dei paesi della NATO. E Massimo D’Alema si vanta ancora adesso del fatto che quei bombardamenti hanno aumentato il prestigio dell’Italia nel mondo.

 

 

Il generale Giuseppe Bernardis, che all’epoca dell’aggressione alla Libia era capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, presentando il libro edito da Rivista Aeronautica intitolato “Missione Libia 2011. Il contributo dell’Aeronautica Militare” rivela  che “è stata fatta un’attività intensissima (1.900 sortite, di cui 456 di bombardamento vero e proprio) che è stata tenuta per lo più nascosta al padrone vero dell’Aeronautica Militare, che sono gli italiani, per questioni politiche, per esigenze particolari. C’erano dei motivi di opportunità, ci veniva detto, e noi chiaramente non abbiamo voluto rompere questo tabù che ci era stato imposto. Questo è il motivo per cui questo volume esce solo adesso, un anno dopo” (Gianandrea Gaiani, Il generale Bernardis: le notizie sui raid italiani in Libia furono censurate dal governo Berlusconi, 29 novembre 2012).

Il lavoro dell’embedded consiste, come si è visto, nel selezionare le notizie e vendere come veritiere solo quelle fornite dalla NATO e dai “ribelli”, spacciando per propaganda i comunicati dei nemici degli Stati Uniti e dei suoi alleati.  Gli embedded inviati sul campo intervistano quasi sempre oppositori del “regime”, quasi mai i numerosi sostenitori di Gheddafi o di Assad, anche perché come già detto, per gli embedded il popolo si oppone compatto al regime. Per gli embedded che rimangono a casa e che hanno l’obbligo quotidiano di imbrattare con le loro sciocchezze le pagine di un giornale, l’unica difficoltà sta nel ricercare in rete qualche blog, le cui notizie confermino le tesi degli Stati Uniti e dei suoi alleati.

Durante i primi mesi della guerra civile siriana il blog http//damascusgaygirl.blogspot.com/ è stato un validissimo supporto per gli embedded. Su La Stampa del 12 maggio a pagina 13, Francesca Paci da Roma intervista Amina Abdullah Arraf Al Omari, 36 anni, “la blogger più famosa della Siria” che a febbraio ha creato il blog A gay girl in Damascus, “dove ha pubblicato poesie erotiche, racconti franchi e a volte buffi dei suoi innamoramenti e sul rapporto aperto con il padre: ‘Deve pensare che sia meglio una figlia lesbica piuttosto che etero e promiscua’”. Ovviamente Amina Abdullah è un nom de plum per nascondere la vera identità. La Paci ne traccia il seguente profilo: “Nata negli Stati Uniti da padre siriano e madre americana, convertita all’Islam, è cresciuta a cavallo tra due mondi imbarcandosi in un matrimonio ‘fallimentare’ prima di accettare che il suo orientamento sessuale non fosse ‘una malattia’. Lo scorso anno è tornata a Damasco dove insegna inglese e tiene un blog che da due mesi è il faro del dissenso liberal”. Amina dice che quando era negli Stati Uniti si interessava poco di politica, ma pensava che Bashar avrebbe fatto le riforme prima che le chiedesse il popolo: “Ricordo il primo corteo a febbraio, mi guardavo intorno, contavo i poliziotti e vedevo la paura della gente […] Tutti i regimi giocano le stesse carte: Osama sarà pure morto, ma resta utile per spaventare la gente. Il regime vorrebbe che l’opposizione fosse guidata da neo-talebani per convincere la maggioranza dei siriani -  le minoranze religiose e gran parte dei sunniti - di essere l’opzione migliore. Purtroppo per loro chiunque in strada può testimoniare che l’opposizione è composta da persone comuni che chiedono democrazia e unità nazionale […] In buona parte provengono dalla popolazione non rappresentata dal regime. Nel nord-est molti sono kurdi, a Homs è attivo il partito comunista, i Fratelli Musulmani si danno da fare un po’ dovunque e poi c’è la società civile. Non esiste un programma comune, ma chiediamo compatti la fine della dittatura, libere elezioni, l’abolizione della tortura. Vogliamo che il regime com’è oggi se ne vada. Siamo un movimento democratico che non ha leader perché esprime la volontà nazionale […] Non voglio liberarmi di Assad al prezzo di perdere la libertà della Siria. Se un esercito straniero ci invadesse sarei fiera di combattere e morire per Assad. Il ricordo della lotta per l’indipendenza è forte qui. E poi guardate la mappa: la NATO non potrebbe mai lanciare un’invasione da Anbar e l’immagine di soldati occidentali che si congratulano con gli israeliani sul Golan spingerebbe qualsiasi vero siriano a sostenere Assad. Resta solo la Turchia. E’ l’unico paese le cui truppe di terra sarebbero accolte con fiori e non con razzi. Lo sanno tutti qui. L’opposizione ammira i progressi economici e sociali della Turchia e a molti tranquillizza il fatto che gran parte dei Fratelli Musulmani siriani si ispiri all’AKP, Islam e democrazia. Il regime è diviso tra chi la  considera un amico e un modello riformista e chi preferisce Teheran […] Speravo che Bashar fosse un Gorbaciov capace di guidarci dolcemente fuori dalla dittatura. Peccato. Ora la scelta è tra la guerra civile, la rivoluzione totale e un passo indietro del regime”.

Il 5 giugno Amina scrive sul suo blog: “Oggi o domani potrebbe essere l’ultimo giorno per me. Oppure domani potrebbe essere il primo giorno della nuova Siria. Ben Alì se n’è andato, Mubarak pure, e pare sia finita anche per Saleh. Assad non ha ancora molto tempo e prevedo di vederlo andar via”. Il giorno seguente appare sul blog un messaggio della cugina di Amina, secondo cui la blogger lesbica sarebbe stata “rapita” da “tre ventenni armati” che dopo averle tappato la bocca, l’avrebbero costretta a salire su una vecchia Dacia Logan rossa.

Nelle pagine 18 e 19 del Corriere della Sera dell’8 giugno, Viviana Mazza racconta recenti episodi della blogger Amina e ne pubblica una foto: “A fine aprile due giovani dei servizi di sicurezza si sono presentati a casa di Amina, accusandola d’essere un’estremista islamica. Il padre della ragazza ha riso di loro (‘Ma avete letto cosa scrive?’) e li ha convinti ad andarsene. Ma l’hanno cercata a casa ancora. Lei ha rifiutato di raggiungere la madre a Beirut, ma il padre l’ha convinta a nascondersi: ‘Non c’è niente che io possa fare. Va da qualche parte, non dirmi dove. Stai attenta. Ti voglio bene’. Amina è stata in quattro o cinque città diverse, girava velata, una volta si è nascosta in uno scatolone in un furgone -  ha detto al New York Times la sua fidanzata, Sandra Bagaria, che sta a Montreal e ha lanciato l’allarme via Twitter (la pagina Facebook ‘Free Amina Arraf’ ha già oltre 300 sostenitori). Anche in fuga, continuava ad aggiornare il blog. ‘Siamo andati a nord e abbiamo aiutato a diffondere scintille nelle città … abbiamo ascoltato la gente e trasmesso messaggi’. Ha raccontato che alcuni manifestanti, temendo che la repressione riesca a schiacciare le proteste pacifiche, intendevano prendere le armi. ‘Io mi sono opposta: vogliamo una nuova Siria … ma se prendiamo il potere uccidendo e torturando, facendo giustizia sommaria, siamo diversi da loro?’. Pare che l’auto nella quale è stata portata via avesse sul finestrino un adesivo di Basel Assad, fratello maggiore dell’attuale presidente (che era destinato a succedere al padre, ma morì in un misterioso incidente). Saranno stati gli shabiha, i paramilitari fedeli agli Assad a sequestrarla? La cugina scrive: ‘Purtroppo ci sono almeno 18 forze di polizia e numerose milizie e gang di partito. Non sappiamo chi l’abbia presa’”.

 
      

Iniziano ad affiorare i primi dubbi sulla vicenda di Amina. Il Corriere della Sera del 9 giugno a pagina 22, sotto il titolo “GIALLO SULLA BLOGGER ‘RAPITA’” scrive: “Una donna londinese, Jelena Lecic, ha detto che le foto pubblicate sui giornali di tutto il mondo mostrano in realtà lei e non la blogger. Mentre continua la campagna online per Amina, la sua identità e la sua stessa esistenza sono state messe ieri in discussione. I giornalisti che l’hanno intervistata le hanno parlato solo via mail, anche per via dello scarso accesso alla Siria. E sono falliti i tentativi di contattare la cugina”. Maurizio Molinari, corrispondente da New York, su La Stampa del 9 giugno a pagina 19 sotto il titolo “L’accusa degli 007 USA - LA SIRIA SOFFOCA LA RIVOLTA CON LA TECNOLOGIA IRANIANA”, nelle ultime cinque righe scrive: “Alcuni media USA intanto sollevano dubbi sull’esistenza della blogger Amina Arraf che sarebbe stata arrestata a Damasco”.

Viviana Mazza, a cui nessuno ha mai spiegato che fra i compiti del giornalista vi è quello di verificare la veridicità delle notizie che pubblica, sul  Corriere della Sera del 11 giugno a pagina 12, sotto il titolo “LA RETE ‘LIBERA’ E LE SUE TRAPPOLE”, scrive: “Quando a febbraio la Siria consentì l’uso di Facebook - oscurato dal 2007 - gli attivisti non esultarono. Avvertirono che era una strategia per monitorare gli utenti (oggi 580.000) e colpire i dissidenti, molti dei quali sono stati arrestati e costretti a rivelare le password. Mentre l’Egitto di Mubarak staccò la spina a Internet, in Siria l’accesso viene bloccato in modo localizzato, nei luoghi caldi della rivolta. Gli oppositori usano Facebook, Twitter e YouTube? Se ne servono pure gli hacker e gli agenti del regime per fare propaganda e ‘infiltrare’ i dissidenti. Ora alcuni si chiedono se sia possibile che il regime abbia ‘creato’ la blogger Amina. Lesbica, attraente, colta, brava a scrivere (in inglese), sembra fatta apposta per piacere all’Occidente. Il blog antiregime nasce a febbraio. A giugno la ‘cugina’ (introvabile) ne denuncia l’arresto. Ma le foto sul profilo Facebook di Amina erano state rubate a un’altra donna (oltre un anno fa, pare). Una montatura del regime per screditare casi simili (al costo però di creare un simbolo per la rivolta)? O la tattica di un/a dissidente per sfuggire ai controlli? Il mistero resta, la battaglia continua online”.

Su La Stampa del 12 giugno a pagina 13 con il titolo “IL GRANDE INGANNO DI AMINA LA BLOGGER ‘NON ERA IN SIRIA’, Francesca Paci scrive: “Le ultime tracce di A Gay Girl in Damascus risalgono al 6 giugno scorso quando la cugina Rania annota sull’omonimo blog d’aver parlato con gli zii preoccupatissimi per il suo arresto avvenuto il giorno precedente nella capitale siriana. Quelle di Amina Abdullah Arraf Al Omari, alias A Gay Girl in Damascus, si perdono invece nelle viscere di Edimburgo, a migliaia di chilometri dalla guerra civile che minaccia il Paese governato dagli Assad. Sì, perché dopo ricerche, appelli internazionali, tamtam internettiani per la soluzione del giallo, una cosa è certa: se esiste una blogger omosessuale siriana prigioniera del Mukhabarat baathista non si tratta si Amina Abdullah Arraf Al Omari, la ragazza che per mesi ha descritto telematicamente al mondo la rivolta dal punto di vista di una lesbica cresciuta in America e tornata in patria tra il 2009 e il 2010 per sposare la causa riformista. Chi scrive è stata in contatto e-mail con Amina fino a lunedì, quando ha risposto entusiasta all’aggancio procuratole con una casa editrice italiana interessata alla sua storia. Prima di allora c’erano stati aggiornamenti dettagliati sulle manifestazioni, commenti al discorso al mondo arabo del presidente Obama, una lunga intervista del genere al Guardian e a grandi quotidiani americani: scambi regolari e sempre più intimi al limite dell’amicizia. Virtuale. ‘Ci scusiamo con i nostri lettori a proposito di Amina Abdullah’ annuncia il sito http://networkedblogs.com/iZhIM, il provider americano che la aiutò ad aprire e pubblicizzare l’ormai celebre blog. Secondo le informazioni raccolte, la ragazza sarebbe sì una trentacinquenne probabilmente omosessuale con origini mediorientali, ma residente in Scozia. Ci scusiamo anche noi, che pur conoscendo a fondo la Siria per aver raccontato sul campo la nascita della rivolta, dipendiamo ora da informazioni digitali per l’impossibilità di tornare nel Paese. In questi giorni, sebbene nessuno abbia più risposto alla e-mail né ai commenti sul blog, si sono fatti vivi (via posta elettronica) vari conoscenti di A Gay Girl in Damascus. Dalle loro testimonianze incrociate risulta che nel 2006 una trentenne arabo-americana di nome Amina Arraf ha collaborato a distanza, riscuotendo regolarmente gli assegni dello stipendio, con una società di giochi elettronici di Atlanta, Georgia. E’ descritta come ‘colta’, ‘ossessiva sul Medio Oriente’, ‘una geek fissata con la scrittura’ e ‘intellettualmente provocatoria’, caratteristica quest’ultima che, dopo due ammonizioni, le sarebbe costata l’allontanamento dal lavoro ‘per le idee politiche e religiose non apprezzate nell’ambiente prevalentemente ebraico’. Questa Amina, che pare parlasse inglese, arabo, ma anche tedesco e un po’ di ebraico, s’era specializzata in storia del tardo Impero romano e nel 2010 avrebbe dovuto trasferirsi per studio a Edimburgo, città d’origine della madre irlandese-americana. A quel punto, secondo alcuni, avrebbe pendolato tra la Scozia e Damasco, dove aveva vissuto tra i 5 e i 10 anni. Un suo profilo localizzato a Edimburgo era presente fino a venerdì nel motore ‘cerca partner’ di Facebook. ‘Dall’autunno il suo account risultava a Edimburgo, ma lo motivò con una spiegazione tecnologica’ ricorda l’ex datore di lavoro. Chi avrebbe finora sospettato il contrario? ‘La bufala di Amina non aiuta certo i riformisti siriani’ chiosa il giornalista americano Andy Carvin, tra i primi ad avanzare sospetti su Twitter. Chiunque e dovunque sia, l’Amina conosciuta online aveva letto molto, ma non il fotografo di guerra Robert Capa quando scriveva che ‘la miglior propaganda è la verità’”.

Nella stessa pagina, Claudio Gallo recita la parte dell’embedded dubbioso e quasi pentito, ma si giustifica addossando la colpa delle menzogne scritte dal suo giornale al regime di Assad. Scrive Gallo: “La repressione nei Paesi mediorientali, dall’Iran alla Siria, dal Bahrein all’Arabia Saudita, con la sua onnipervasiva e occhiuta censura che impedisce ogni tipo di controllo è il terreno ideale per la creazione di personaggi fittizi, di voci che aspirerebbero ad avere un corpo. Prendiamo la Siria. Ogni giorno arrivano notizie di nuovi massacri appesi all’esile traccia del ‘ha detto un testimone locale’. Ma chi è questo testimone locale? Chi può dire che non sia un’altra Amina che fa ‘disinformazja’ o racconta mezze verità? Certo, abbiamo abbastanza elementi per dire che in Siria è in corso una sanguinosa repressione (le migliaia di profughi in Turchia sono lì a raccontarcelo), ma a essere onesti non riusciamo a farci un’idea dettagliata della situazione. Ad esempio, ‘informatori credibili’ per la CNN dicono che a Jisr al Shugur, la città del massacro dei militari, c’è stato uno scontro con i Fratelli Musulmani che avrebbero ricevuto armi attraverso il confine turco. Altre fonti ‘vicine all’opposizione’ sostengono invece che gli agenti si erano ribellati e sono stati uccisi dalle forze del regime. La differenza è quella tra una guerra civile e una strage di regime. I confini provvisori tra i poli ideali di bene e male si spostano in continuazione, ogni scelta diventa scivolosa. Le possibilità manipolatorie dei social media sono una tentazione che ovviamente non affligge solo i tiranni mediorientali. E’ noto che quasi tutte le intelligence occidentali hanno sezioni che si occupano di ‘PayOps’, guerra psicologica, online. Come tutti i grandi poteri, anche Internet ha il suo lato oscuro. Paradossalmente, questa è una buona ragione perché la rete debba restare senza censure”.

Tutti i quotidiani del 13 giugno riportano la notizia che la blogger Amina è in realtà un cittadino statunitense di 40 anni della Georgia, Tom MacMaster, residente in Scozia, militante pacifista che nel 1991 andò a Baghdad per opporsi alla guerra contro l’Iraq. Dopo essere stato scoperto dal Washington Post, confessa di aver voluto esplorare i confini tra realtà e finzione e scrive sul suo blog: “La voce che narrava i fatti era una finzione, ma i fatti raccontati sono veri, riflettono fedelmente la situazione in Siria, non credo di aver fatto del male a nessuno, ho solo creato una voce importante per sollevare questioni nelle quali credo fermamente”.

 

Tom MacMaster alias Amina

 

Due giorni dopo il Washington Post rivela che Tom MacMaster alias Amina prima di dare vita al suo famoso blog A Gay Girl in Damascus aveva iniziato a scrivere sul noto sito web lesbo “Lez Get Real” e aveva anche flirtato con la direttrice del sito Paula Brooks. I giornalisti del Washington Post avevano chiesto di poter intervistare di persona Paula Brooks che però si era rifiutata. I giornalisti scoprono così che in realtà Paula Brooks è un pensionato di 58 anni, Bill Graber, che confessa di aver adottato online l’identità della moglie, all’insaputa della stessa.

Conclusioni. Nonostante la crisi strutturale, sistemica, epocale che dir si voglia, il capitalismo è all’attacco e, come già detto, non è in campo un’alternativa rivoluzionaria allo stato di cose presente. Questa situazione è particolarmente evidente nei paesi a capitalismo consolidato, dove ormai da almeno quarant’anni anche le forze che si dicono d’opposizione non mettono assolutamente in discussione il sistema capitalistico, ma al massimo mendicano dei cambiamenti per smussarne gli aspetti più odiosi, per limare gli eccessi liberisti, per renderlo “sopportabile” ai ceti popolari medio-bassi più colpiti dalla crisi. Nella grande maggioranza dei casi questa linea politica ha fini elettoralistici ed è funzionale al mantenimento della pace sociale; in altri di casi si può parlare di arretratezza di analisi da parte di chi non ha ancora capito che globalizzazione capitalista, libero mercato, libero commercio, sono assolutamente incompatibili con il diritto al lavoro, ad una equa retribuzione, alla salute, alla sicurezza sociale, eccetera.

In Italia, un clamoroso esempio di come le forze d’opposizione di “sinistra” abbiano introiettato da decenni i valori del capitalismo è offerto dalla famosa frase dell’allora segretario del PCI Enrico Berlinguer quando nel giugno 1976 disse che sotto l’ombrello della NATO il socialismo poteva essere costruito nella libertà. Proprio mentre il capitalismo si stava disponendo a rimettere in pista le teorie liberiste, le forze di “sinistra” ne sposavano le magnifiche sorti e progressive. I nuovi riferimenti ideologici a livello di massa diventano così la “non-violenza” e la famigerata, bertinottiana “spirale guerra-terrorismo” che demoliscono qualsiasi possibilità di comprendere con chiarezza le ragioni dei conflitti.  E quindi i nemici da battere non sono più il capitalismo e l’imperialismo, ma diventano quelli via via indicati dagli Stati Uniti e dai suoi alleati: Milosevic, Saddam, Ahmadinejad, Gheddafi, Assad, eccetera. Come invece si è visto, Barontini e gli antifascisti nel 1938 avevano compreso chiaramente che il nemico principale non era l’imperatore Hailé Selassié, ma Mussolini, e agirono di conseguenza.

Chi sono oggi i nemici principali da battere? Sicuramente gli Stati Uniti e i suoi alleati imperialisti; e in Italia tutti coloro che direttamente o indirettamente appoggiano i diktat europei e gli interessi della grande finanza, cioè tutte le forze politiche presenti in parlamento ad eccezione del M5S. Se non si indicano con chiarezza chi sono i nemici principali non può esserci alcuna speranza di cambiamento, perché è evidente che è  impossibile vincere qualsiasi battaglia se i bersagli da colpire e le coordinate di tiro dell’artiglieria  vengono fornite dal nemico.

 

Torino, 12 agosto 2013

 

I seguenti articoli citati nel testo si possono trovare nell’archivio CIVG:

Cesare Allara, Asse del male o asse del petrolio?

Cesare Allara, 1980 i 35 giorni che hanno cambiato l’Italia. Cause ed effetti della madre di tutte le sconfitte

George W. Bush, The National Security Strategy of the United States of America

Giulietto Chiesa, La strega Saddam e l’inquisizione di Bush

Jean Paul Pougala, Le vere ragioni della guerra in Libia

 

Bibliografia

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Gaja Filippo, Le frontiere maledette del Medio Oriente, Maquis, 1991;

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Preve Costanzo, La quarta guerra mondiale, Edizioni all’insegna del Veltro, 2008;

Rivers Pitt William, War on Iraq, what team Bush doesn’t want you to know, Profile Books, 2002; trad. it. Guerra all’Iraq, tutto quello che Bush non vuole far sapere al mondo svelato dall’ispettore ONU Scott Ritter, Fazi Editore, 2002;

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Taibo II Paco Ignacio, El Alamo: una historia no apta para Hollywood, Planeta Pub Corp, 2012; trad. it. Alamo, per la storia non fidatevi di Hollywood, Marco Tropea Editore, 2012;

Zinn Howard,  A people’s history of the United States, 1492 - present, Longman, 2003; trad. it.  Storia del popolo americano dal 1492 a oggi, Il Saggiatore, 2005.