Somalia e Africa orientale: tra geopolitica ed estremismo religioso. Intervista ad Angelo Travaglini.

 

La liberazione di Silvia Romano ha portato sotto le luci dei media italiani una nazione, la Somalia, che raramente assurge agli onori della cronaca. E insieme a lei emerge un altro elemento, accuratamente rimosso: l’espansionismo turco in questa regione. Una sopresa per molti, anche se l’impero ottomano all’apice della sua espansione lambiva la Somalia; nulla di nuovo insomma. Come si dispiega l’influenza turca in Africa orientale e con quali mezzi?

 

R.: Fin da quando ero in Africa, parlo della fine dello scorso decennio, si sapeva che Ankara intendeva espandere la sua rete in quel Continente. Gli intendimenti si sono progressivamente concretizzati e la Turchia vanta al momento una rete diplomatica nel Continente nero tra le più dense tra i Paesi colà accreditati. Come tu evidenzi non vi è assolutamente alcuna ragione di sorprendersi in proposito. La Somalia, seppur “a failed state”, non poteva mancare all’appello, considerando altresì la accomunante fede religiosa tra i due Paesi ed un luogo di grande importanza nello scontro di interessi e di policy tra la Turchia ed il suo potente alleato Qatar da una parte ed il fronte anti-islamico e vicino ad Israele diretto dall’Arabia saudita e dagli Emirati arabi uniti. Erdogan è un leader autocratico ma è, e lo ha sempre dimostrato con estrema coerenza, un islamista ma non un jihadista come spesso confondono i populisti europei. Vi è una differenza profonda tra le due accezioni, nel senso che un islamista pratica i valori della sua religione rifiutando la violenza mentre il jihadista pratica e combatte per il suo credo.

Da qui l’interesse turco a fornire un supporto a Mogadiscio, attualmente occupato da forze straniere, compresi i detestati etiopi, composte da unità dell’Unione africana appartenenti a Paesi che ben poco hanno in comune con la Somalia. Tra questi il Kenya, l’Uganda ed il Burundi sono particolarmente invisi ai somali ed il primo della lista paga un caro prezzo per la sua presenza in Somalia. Da quel che so la Turchia, oltre ad avere una base militare nei pressi di Mogadiscio, che si aggiunge a quelle già esistenti negli Emirati e in Sudan, gode altresì forti interessi economici nei porti marino ed aereo della capitale somala. Fornisce altresì alla Somalia un’assistenza umanitaria (cibo, medicine ed infrastrutture sanitarie) apprezzata dalla locale popolazione. Inoltre in termini geostrategici occorre tener presente come nella entità, autoproclamatasi Stato, del Somaliland e perfino nella autonoma regione somala del Puntland vi è la presenza degli Emirati arabi Uniti (UAE), particolarmente attivi nei porti di Berbera e Bosaso. Ulteriore ragione perché Ankara consideri la Somalia una pedina essenziale nella sua strategia volta a contrastare un acerrimo nemico come Abu Dhabi. Lo scontro tra la Turchia e gli UAE del resto lo si ritrova in altre contrade, come la Siria ed ora soprattutto in Libia. Gli UAE stanno ad Ankara come l’Arabia saudita sta all’Iran. Questo, come vedi, fa capire la dimensione insanabile del contrasto. Da rilevare che l’Emirato di Qatar affianca la presenza turca in Somalia grazie alla sua potenza finanziaria ed ai contatti che Doha ha saputo attivare a proprio vantaggio nei gangli vitali della realtà politica somala.

 

La Somalia è da decenni in balia di una violenza che non conosce tregua. Una delle ultime manifestazioni di questa violenza è il fondamentalismo islamico sunnita, che si è radicato in profondità qui come in molte altre aree dell’Africa e che trova in Al Shabaab una delle sue manifestazioni più note. Quali sono le caratteristiche salienti dell’estremismo religioso in Africa orientale? Cosa ha in comune e cosa lo differenzia dai movimenti simili nel resto del mondo?

 

R.: L’estremismo sunnita in Somalia è l’unico in possesso dei requisiti indispensabili per rovesciare un governo che al-Shabaab considera asservito agli interessi stranieri. In effetti se al-Shabaab non ha ancora preso il potere lo deve in larga misura alla presenza nel suo territorio di forze straniere. In ogni caso in nessun altro Paese dell’Africa orientale esiste un movimento jihadista strutturato ed impattante sul territorio come quello somalo. All’interno della formazione somala si è riprodotta la faida tra fazioni legate all’ISIS, impegnato in campagne di reclutamento dal limitato successo, propugnante visioni deliranti e segnate dal marchio settario proprie dell’organizzazione creata dal defunto capo, l’iracheno al-Baghdadi, ed altre vicine ad al-Qaeda.inclini a portare avanti una lotta mirata essenzialmente alla cacciata dal suolo somalo delle forze straniere. Mutatis mutandis si è prodotta in Somalia una situazione analoga a quella esistente in Afghanistan dove la rivalità e lo scontro di interessi tra i Talebani, anch’essi vicini ad al-Qaeda, ed il Daesh (termine arabo per ISIS) è tuttora in corso con conseguenze devastanti sulla popolazione civile. In base alle informazioni in mio possesso al-Shabaab orienta la sua azione sul piano nazionale ed il suo obiettivo fondamentale, al pari dei Talebani afghani, è liberare il patrio suolo della presenza straniera, instaurando nel Paese un sistema teocratico basato su una lettura severa ed io aggiungo alquanto degenerata del messaggio coranico. Lo scontro con l’ISIS all’interno della formazione jihadista somala tuttavia è in corso e defezioni verso il Daesh hanno avuto luogo nei ranghi di al-Shabaab. Comunque al momento la battaglia portata avanti in Somalia è una battaglia in salsa nazionalista, e, in misura più marcata rispetto all’Afghanistan, al-Qaeda sembra prevalere sulla branca vicina all’ISIS. In Somalia non si è verificato quel che è avvenuto in Nigeria dove Boko Haram, aderente al Daesh, è la forza jihadista assolutamente prevalente. Non ravviserei quindi una visione “cosmopolita” nella attuale policy jihadista somala, in questo imitando l’approccio di altre formazioni jihadiste africane vicine alla formazione fondata da Usama bin Laden quali ad esempio. quelle operanti con terribile efficacia nel Sahel dell’ovest del continente dove colpiscono in maniera letale obiettivi identificati con la presenza coloniale europea, ancora viva ed esistente nel West Africa francofono.

 

 

La Somalia appartiene allo scomodo passato del colonialismo e dell’imperialismo italiano, e per anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale è restata una sorta di protettorato del nostro Paese. L’Italia gioca ancora un ruolo nella regione? Potrebbe dare un contributo alla sua stabilizzazione?

 

R . Non credo proprio. Il nostro Paese ha perso molta credibilità con i suoi atteggiamenti volti a non scontentare nessuno cercando di accontentare tutti finendo per scontentare tutti. Questa policy abbastanza miope e priva di coerenza e di un minimo di rigore è stata molto spesso una sorta di maledizione della diplomazia italiana. L’ultimo esempio è stato fornito dalla Conferenza di Berlino sulla crisi libica dove l’Italia si è trovata ai margini per aver cercato goffamente di allestire a Roma un incontro tra Sarraj, leader del Governo riconosciuto dalle Nazioni Unite, ed il suo nemico Khalifa Haftar, signore della guerra e dal passato piuttosto controverso. Come si poteva pensare di organizzare un simile incontro all’indomani della strage di cadetti militari alle porte di Tripoli in seguito ad un bombardamento dell’aviazione di Haftar?  Risultato: a Berlino eravamo fuori dei tavoli. Tieni presente anche un altro particolare: il fatto che anche nel Corno d’Africa è in atto una guerra fredda abbastanza “calda” tra Potenze regionali appartenenti al Levante ed al Golfo in uno scenario caratterizzato altresì dal peggioramento dei rapporti tra le Potenze globali (USA, Russia e Cina). Gli spazi per l’Italia, e direi anche per l’Europa, non ci sono, considerando anche il pessimo ricordo lasciato da noi in Somalia con la nostra cooperazione della quale chi scrive è stato triste spettatore. D’altronde la guerra civile in Somalia è iniziata nel 1991 con la caduta del dittatore Siyaad Barre, amico di influenti ambienti italiani; un’amicizia che ha reso ben pochi servizi alla popolazione somala. E’ dal 1991 per l’appunto che inizia lo sfaldamento dell’entità somala, ora considerata dalla narrativa occidentale un “failed state”. Se la Somalia è diventata quel che ora è lo si deve anche agli effetti deleteri di una dittatura che per più di vent’anni ha imposto a quel Paese un sistema basato su un’endemica corruzione ed un violento sfruttamento. Dittatura apertamente appoggiata e manipolata dai centri di potere nostrani.

 

 

Nel 2017 la Cina ha inaugurato la sua prima base militare all’estero a Gibuti e ha così dimostrato la rilevanza strategica di quest'area. In quali modalità il progetto delle “Nuove vie della seta” di Pechino coinvolge direttamente i paesi del Corno d’Africa? La presenza della Repubblica popolare cinese in questa penisola potrebbe rappresentare un fattore di stabilizzazione o di destabilizzazione?

 

R.: Per quel che so la base militare cinese a Gibuti, localizzata a breve distanza da un’impressionante base americana, deve la principale ragion d’essere all’espandersi della cooperazione economica di Pechino nella regione, particolarmente in Etiopia dove il volume e l’incidenza degli apporti cinesi sono di assoluto rilievo. La Somalia è ovviamente al di fuori dei benefici derivanti dalla cooperazione cinese.  

La costruzione della ferrovia collegante la capitale etiopica Addis Abeba al porto di Gibuti ha reso un enorme servizio alle necessità etiopi di avere senza problemi uno sbocco al mare, evitando lo sbocco al mare attraverso il problematico partner eritreo. L’interesse cinese è ovviamente di accedere a mercati dove sussistono condizioni migliori non solo per il reperimento di prodotti primari di cui la Cina ha grande bisogno ma anche per l’approntamento nei Paesi africani di opere infrastrutturali importanti dal punto di vista economico e sociale. La “Belt and Roads Initiative” (BRI) dalla quale il Corno d’Africa non è escluso reitera le caratteristiche proprie della penetrazione economica del gigante asiatico: Realizzazione di iniziative volte a migliorare le condizioni di vita della popolazione, senza esigere condizionamenti di sorta dal negativo effetto sui destinatari degli interventi. L’aspetto positivo di simili interventi sarebbe a parere dei cinesi quello di allentare le tensioni sociali avvicinando vieppiù i governati ai governanti attraverso un diffondersi del benessere ed un accrescimento del potere d’acquisto delle masse. L’Etiopia è stato e continua ad essere di gran lunga il principale destinatario di tali apporti al punto che i rapporti tra i due governi ne hanno tratto un visibile vantaggio.

Tutto questo si è effettivamente tradotto in realtà? In effetti anche in base ad esperienze vissute da chi scrive nell’adempimento delle funzioni istituzionali quel che si può affermare è che non è del tutto così se si approndisce l’osservazione del contesto reale. In sintesi il modello cinese trae la sua ragion d’essere dal fatto di essere sostenuto e direttamente patrocinato dallo Stato cinese. Ergo i suoi interlocutori naturali sono le elite politiche dei Paesi beneficiari con una inevitabile scarsa considerazione riservata alla vasta platea di sudditi il più delle volte esposti a sistemi di abuso e prevaricazione fonte di risentimento e di violenza. In effetti parrebbe che una delle finalità alla base della cooperazione economica di Pechino mirante ad un allentamento delle tensioni attraverso iniziative portatrici di più lavoro e di maggior benessere venga alla fin fine ad essere largamente compromessa da un approccio rigidamente verticistico in ossequio al desiderio cinese, ampiamente apprezzato nel mondo, di non interferire mai nella realtà politica di Paesi terzi.

Il risultato è che molto spesso, come del resto costatato fisicamente dallo scrivente, comunità locali devono sottostare a decisioni assunte di concerto dai decisori politici locali ed i loro interlocutori cinesi che non tengono conto di esigenze basilari delle stesse, soprattutto di quelle residenti in zone rurali, ergo lontane dai centri di potere. Un approccio in definitiva che privilegia le elite e che in quanto tale non può tener conto di problemi esistenti al di fuori dei canali di contatto dai quali i cinesi non intendono distaccarsi.

La conclusione è che se i vertici della piramide politica e sociale dei Paesi beneficiari della cooperazione di Pechino vedono nell’approccio cinese il passaggio ideale per consolidare il loro potere attraverso strumenti sofisticati di soft power che non intaccano equilibri di dominio, per converso il suddetto approccio viene molto spesso biasimato dalla base sociale di quei Paesi per il fatto che legittime istanze vengono ad essere ignorate e misconosciute.

Volendo dunque rispondere alla domanda se la presenza cinese nel Corno d’Africa potrebbe rappresentare un fattore di stabilizzazione o destabilizzazione, la risposta si rivela complessa. Se da una parte tale presenza contribuisce a fornire alle classi politiche locali un utile ed apprezzato supporto  suscettibile di attenuare il loro senso di fragilità nei confronti di altri partner ai quali si rimprovera il desiderio di imporre logiche ed ideologie estranee alla cultura di questi Paesi, dall’altra, come abbiamo visto,  questa stessa presenza secerne i semi di una strisciante instabilità dalla quale il risentimento dei più può a sua volta innescare processi potenzialmente destabilizzanti.

 

 

La Cina viene spesso accusata dai media e dalle ONG occidentali di neocolonialismo in Africa. Lei ritiene petinenti queste accuse? In cosa differisce l’approccio cinese rispetto alle strategie occidentali di penetrazione (passate e presenti)? Quali opportunità la Cina rappresenta per il continente africano?  

R. Assolutamente no. La Cina non ha alcun intento neocoloniale diversamente da alcuni Paesi europei le cui politiche portano ancora lo stigmate di un passato coloniale. Pechino ha intenti prevalentemente economico-commerciali, vuole accedere ai mercati per poter allargare la propria rete di interazioni attraverso le quali alimentare la crescita e lo sviluppo della propria economia. E’ bene ricordare, come sopra sottolineato, che uno dei principi base della politica estera cinese, cui rigorosamente si attiene, rimane e resta la non-interferenza nelle politiche interne dei Paesi con i quali entra in contatto.  La stessa assenza di condizionalità nell’enucleazione della sua proiezione estera rappresenta la più evidente differenza rispetto ad un approccio occidentale che rimane tuttora paternalistico e rifugge da una considerazione del contesto reale dei Paesi con i quali l’Occidente stabilisce relazioni. Pretendere una traslazione sistematica dei cosiddetti valori occidentali di cultura politica in Paesi segnati non solo da sistemi di valore differenti ma anche dalla miseria e dall’esigenza di soddisfare i bisogni primari delle comunità di appartenenza si rivela un assunto fonte di risentimento e diffidenza da parte delle elite politiche pronte a fare la differenza con un approccio cinese scevro da tutto ciò. La Cina rappresenta sicuramente opportunità e vantaggi per il continente africano ma, come sopra delineato, la policy cinese dovrebbe contestualmente essere meno esclusivamente rivolta verso i vertici politici delle controparti africane e riservare nella articolazione delle sue iniziative di sviluppo una maggiore attenzione ad alcune incidenze negative della sua azione sotto il profilo non solo degli interessi delle comunità di base ma anche sotto quello altrettanto importante dell’assetto ambientale di quelle realtà, troppo spesso ignorate o prese in scarsa considerazione.. Le conseguenze di tale approccio si rivelano molto spesso negative e controproducenti. La necessità di una rivisitazione di tali politiche si rivela ineludibile. Alcuni segnali positivi sembrano tuttavia profilarsi da parte cinese nell’occasione della prima articolazione della “Nuova Via della Seta” e l’auspicio è che essi si rafforzino e si concretizzino. Nell’interesse non solo dei Paesi beneficiari delle iniziative cinesi ma anche della stessa immagine e credibilità del gigante asiatico in un frangente così difficile come quello attuale caratterizzato dai colpi terribili inflitti dalla pandemia del coronavirus.