Non vogliamo tornare alla normalità, perché la normalità è il problema

Segnaliamo una nuova iniziativa nata con la collaborazione di alcuni membri del Gruppo CIVG sui “Mondi del lavoro”.

 

 

Oggi l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremo diventare.

M. Foucault

 

Il problema da affrontare non è solo il capitalismo in sé, ma anche il capitalismo in me.

  1. L. Lara

C’era della speranza in loro. Erano tranquilli e lavoravano; ma nel fondo della loro mente era fissa la convinzione che presto o tardi sarebbero sfuggiti al sistema che odiavano.

J. Steinbeck

 

 

1.         In virus veritas.

La crisi innescata dal Covid-19 è solo all’inizio, ma già si delinea l’estensione e l’intensità che raggiugerà nei prossimi mesi.

Questa crisi non è una crisi ‘esogena’, cioè qualcosa che proviene da un elemento esterno (un virus) e investe la sfera economica. È piuttosto una crisi ‘semi-esogena’, legata a doppio filo all’organizzazione capitalistica della produzione, della circolazione delle merci, della distribuzione e dei modi di vita.

 Crisi ecologica, sociale e politica sono i sintomi patologici di un sistema che combina delirio di onnipotenza astratta e impotenza pratica, in nome di un unico obiettivo: l’accumulazione infinita del profitto.

Non c’è dunque normalità alla quale ritornare, quando quello che abbiamo reso normale ieri ci ha condotto alla catastrofe di oggi.

 

2. Non siamo più nel Novecento.

 

Gli occhiali del Novecento, a cui siamo tanto affezionati, non serviranno a interpretare quello che ci sta arrivando sui denti.

Il capitalismo della sorveglianza, di cui si cominciano a vedere i primi sintomi, è un fenomeno senza precedenti. Quando ci troviamo di fronte a qualcosa senza precedenti, lo interpretiamo ricorrendo a categorie familiari, e rendiamo in tal modo del tutto invisibili proprio le sue caratteristiche inedite.

Un esempio classico è la nozione di “carrozza senza cavalli”, usata da chi si doveva confrontare con la stupefacente invenzione dell’automobile.

Il primo passo lungo il nostro percorso di esplorazione deve essere dare il giusto nome alle cose, stabilire dei punti di riferimento e condividere la nostra giusta indignazione.

La storia non finisce mai. Ciascun’epoca è segnata da nuove minacce e da eventi inediti, che obbligano ogni generazione a ridiscutere le mappe ricevute in eredità, e la costringono ad affermare la propria volontà e immaginazione.

 

3. Dove siamo?

 

Spesso gli storici fanno cominciare il XX secolo nel 1914. Allo stesso modo, un domani ci spiegheranno che il XXI è cominciato nel 2020, con l’entrata in scena del Covid-19.

Nei prossimi mesi attraverseremo l’uscio di casa ed entreremo in una società ancora più competitiva, atomizzata, sorvegliata e orientata al profitto.

Ostinarsi a osservare lo stato attuale delle cose, con lo sguardo incollato allo specchietto retrovisore, sarebbe suicida. Non possiamo continuare a pretendere di prevedere il futuro tramite il passato.

Dobbiamo avere l’umiltà di scoprirci concettualmente inermi. E da questa presa di coscienza, provare a formulare nuove categorie che ci permettano di passare dalle semplici narrazioni di ciò che accade a dei veri e propri referti clinici, a delle categorizzazioni di ciò che viviamo.

 

La proposta operativa che avanziamo è la costituzione di un gruppo dedicato allo studio delle trasformazioni del mondo del lavoro accelerate dalla crisi. Un esempio eclatante è il cosiddetto smart working, pratica eccezionale destinata a diventare la normalità: è uno degli casi più evidenti di transizione a un nuovo modo di intendere il lavoro.

Il gruppo potrebbe ad esempio raccogliere testimonianze di smart working, analizzare gli strumenti pratici di controllo in remoto e indagare il ruolo dei grandi monopoli, tramite esperienze concrete o casi di studio. Un passaggio ulteriore potrebbe essere l’esame e la messa a punto di metodi di autodifesa digitale.

 

4. Come ne usciamo?

 

La risposta del sistema alla crisi è: si salvi chi può! Chi ha un sufficiente “capitale” in senso lato – risorse economiche, competenze, reti di conoscenze, capacità di reinventarsi – deve farlo fruttare, in modo da scampare al naufragio e magari porre sulle rovine le basi per la propria futura prosperità, come tante volte è successo nella storia del capitalismo, sempre abile a trarre forza dalle proprie crisi. Per gli altri ci sono i “sacrifici” o lo sradicamento e l’emigrazione verso lidi apparentemente più felici – almeno fino alla prossima crisi.

L’alternativa a questa narrazione non può che essere la solidarietà, la stessa elaborata agli albori del movimento operaio di fronte al capitalismo nascente. Si tratta innanzitutto di 1) ricostituire gli “anticorpi” contro il paradigma antropologico individualista e competitivo e 2) impadronirsi nuovamente di quei saperi, quelle “skill” che sono indispensabili per organizzare qualsiasi progetto collettivo: la nostra generazione non sa pianificare nemmeno un picchetto, figuriamoci la rivoluzione!

 

Dobbiamo cercare altre soluzioni. Possiamo chiamarle forme di resistenza, pratiche di sopravvivenza, soluzioni efficaci o buone pratiche.

Lo scopo sarà fornirsi di un set di casi di studio che potremo replicare, rivedere e copiare,  a partire da quelli più specifici, individuali, fino a quelli collettivi e generali.

 

La proposta operativa che mettiamo sul tavolo è lacreazione di un altro gruppo che si occupi dellamappatura di esperienze solidali e mutualistiche per capire il loro funzionamento.

Occorre essere realistici: dal punto di vista organizzativo siamo stati rispediti alla preistoria, un enorme patrimonio di conoscenze è andato perso, occorre studiare. Anche l’analisi di esperienze del passato può essere utile, perché a volte le ragioni dei fallimenti sono più istruttive di quelle dei successi.

Per ognuno dei casi individuati potremo preparare una scheda che ne illustra sinteticamente le caratteristiche e i meccanismi di funzionamento. La mappatura delle buone pratiche solidali  è un modo per prendere familiarità con le logiche organizzative, i pro e i contro di realtà già esistenti, ed esaminarne i tratti di riproducibilità. 

Da qui andrà costruito un dibattito su come strutturare un nostro progetto, che ci aiuti a passare dalla logica delle buone pratiche alla realtà delle pratiche effettive, dando forma al desiderio di immaginare e praticare collettivamente un’alternativa al modo di vita prevalente.

 

5. Le dernier metro.

 

Questo è il peggiore dei tempi, ma è questo anche il migliore dei tempi.

 

Bisogna sporcarsi le mani, lasciando ad altri le illuminazioni e le conversioni: convincere (o “educare”) il prossimo non è più la priorità all’ordine del giorno.

Dobbiamo essere in grado di rendere attraente (innanzitutto in termini di interesse personale e di aspirazione alla felicità) l’adempimento di un dovere etico e la fatica del lavoro su sé stessi.

Nell’Ottocento e nel Novecento tutto ciò era reso possibile dalla presenza capillare delle organizzazioni del movimento operaio, che praticavano l’aiuto reciproco e la solidarietà di classe. Grazie a loro era possibile sperimentare già da subito un assaggio di comunismo, inteso nel suo significato più elementare: “vita comune” tra “compagni”, cum-panis, coloro insieme ai quali si spezza il pane quotidiano.

In questo modo si era riusciti a scardinare la rima tra interesse personale ed egoismo. La militanza era attraente perché camminava a braccietto con il mutuo soccorso (chi ha letto Steinbeck lo sa bene), ed era viva e allegra perché vissuta nella convivialità delle sezioni e dei circoli.

Anche – e soprattutto – oggi è necessario interrompere la guerra di tutti contro tutti, trovando un antidoto all’atmosfera di diffidenza e competizione in cui siamo immersi. Bisogna reagire all’esperienza quotidiana di divaricazione dei destini individuali, a causa della quale ciascuno di noi percepisce la propria condizione come unica, solitaria, incomprensibile agli altri.

 

Siamo onesti: l’idea secondo cui la mera testimonianza del bene dovrebbe innescare una sorta di contagio e conquistare gli altri è una illusione. La coscienza “illuminata” non modifica automaticamente il mondo. Invece di limitarsi alla predica del bene e alla condanna del male dobbiamo intervenire sulle condizioni oggettive che attualmente rendono la scelta di fare “qui e ora ciò che può renderci felici” un’esperienza per pochi, confinata al numero ristretto dei santi e degli eroi.

Non si tratta di sconvolgere la propria quotidianità per fare largo a chissà quale rivelazione, o mistica del sacrificio di sé, o alla costruzione di una qualche “riserva indiana” in cui vivere beati. Piuttosto, dobbiamo combattere la rassegnazione e l’isolamento.

Dobbiamo fare in modo di sentirci meno fragili, meno esposti alla contingenza, meno soli.

 

Oltre a essere il “futuro del passato”, il mondo attuale è anche il “passato del futuro”.

Cosa saremo disposti a cedere per poter tornare a uscire e incontrarci? Cosa abbiamo già perso? 

Ma soprattutto, come vogliamo tornare a incontrarci?