Yemen: sviluppi in un’area periferica ma nevralgica

27 settembre 2019

 

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Premesse.

L’aggressione contro il poverissimo Yemen dura ormai da più di quattro anni. Una vera catastrofe umanitaria ordita da Mohammed bin Salman, il vero padrone del Regno saudita, figlio dell’attuale anziano e malato re, Salman bin Abdel Aziz, ed avallata dal suo mentore, altro ambizioso autocrate, Mohammed bin Zayed, di fatto alla guida degli Emirati arabi uniti, fratellastro di Khalifa bin Zayed, tuttora nominalmente Presidente, vittima nel 2014 di un grave problema di salute che lo ha, anche fisicamente, allontanato dalla direzione politica del suo Paese.

 

Quale lo scopo di un’avventura, a tutt’oggi rivelatasi fallimentare per il Regno saudita? 

 

Sconfiggere una tribù araba, gli Huthi, che da millenni vive nelle regioni settentrionali e centrali dello Yemen, colpevole di professare un credo religioso, lo Zaidismo, una delle branche dell’Islam sciita, diverso sul piano dottrinale dal credo sciita praticato in Iran. Colpevole altresì di aver appoggiato e sostenuto un movimento popolare di rivolta contro il dittatore Abdullah Saleh, durato al potere in Yemen per circa trent’anni, movimento alimentato dall’onda della Primavera araba che dal 2011 costituisce una sorta di incubo per i regimi autocratici dell’area del Golfo Persico e del Levante.

 

A causa di questo gli Huthi sono stati ritenuti dalla monarchia saudita una quinta colonna dell’espansionismo iraniano e quindi agenti del disegno della Repubblica islamica di penetrare negli spazi della penisola arabica dove il severo ed intollerante sunnismo wahabita, asservito agli interessi della dinastia della casa Saud dominante in quegli spazi, impera in maniera indiscussa.

 

 In tale quadro una domanda appare legittimo porsi: I timori sauditi vanno effettivamente ricercati in ragioni a carattere geo-politico o piuttosto, come sostenuto da alcuni osservatori, nella matrice popolare del sommovimento che ha sconvolto lo Yemen, contagiato dal vento riformatore iniziato a soffiare nel 2011?

 

A tal proposito occorre ricordare come la tribù araba sia stata per tre decenni sottoposta ad una umiliante emarginazione da parte del regime tirannico di Ali Abdullah Saleh, adepto della loro stessa fede Zaydi ma ciò nonostante tollerato da Riyadh che nei suoi confronti, diversamente che nel caso degli Huthi, non ha mai riservato a tale aspetto un rilievo pregiudizialmente negativo.

 

Ciò aiuta a comprendere ancora una volta come le priorità saudite non siano legate tanto ad aspetti d’intolleranza religiosa ma piuttosto alla inflessibile difesa di interessi dinastici volti alla preservazione dell’ordine autoritario assicurato dall’egemonia della casa Saud nella Penisola arabica; un’egemonia conquistata col ferro e col sangue poco meno di un secolo fa coll’aiuto determinante della Gran Bretagna interessata a sostenere i Saud per ricavarne in cambio lucrosi vantaggi sul piano economico-commerciale e contrastare per il loro prezioso tramite il sorgere ed il rafforzarsi del nazionalismo pan-arabo. E’ quel che avvenne in maniera cruenta all’indomani del primo conflitto mondiale quando conseguentemente al crollo dell’Impero ottomano le aspirazioni arabe non ricevettero quel sostegno da parte della corona britannica inizialmente promesso e poi disatteso, in maniera proditoria, per far spazio agli interessi coloniali della Francia nella regione.

 

Questi tratti poco edificanti della presenza occidentale nella regione del Golfo li riscontriamo ancora oggigiorno nella misura in cui la stessa sopravvivenza del ruolo dominante della casa Saud risulta essere in larga misura funzione dello strategico supporto fornito a Riyadh da Washington e Londra, ininterrottamente profuso e raramente lesinato. Questa rattristante verità è stata del resto brutalmente ricordata dal Presidente degli Stati Uniti alcune settimane fa allo stesso anziano sovrano saudita, ricordandogli che, ove l’appoggio del suo Paese dovesse cessare, il Regno saudita “scomparirebbe nello spazio di due settimane” (!). Ed i recenti attacchi alle raffinerie petrolifere nell’est del Paese non smentiscono le brutali affermazioni del Presidente USA.

         

  Quadro iniziale

 La guerra scatenata in Yemen costituisce un ulteriore esempio di quanto sopra delineato. Essa ha avuto inizio nel marzo del 2015 ed ha visto il congiunto intervento delle due alleate case regnanti, quella dei Saud e la dinastia al-Zayed, appartenente alla capitale politica degli Emirati arabi uniti (UAE), Abu Dhabi, il cui autoritario potere, seppur indiscusso, è fonte di covante malanimo negli altri sei Emirati membri della Federazione, a cominciare da quello altrettanto importante di Dubai, la capitale economica del Paese, dove il locale Emiro, Mohammed bin Rashid al Makhtoum, non sempre concorda con le scelte del suo omologo di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed al Nayan (MBZ). Quest’ultimo viene spesso tacciato di “megalomania” e di “irrefrenabile dispotismo”. Parrebbe insomma che gli stessi equilibri interni alla ricchissima minuscola entità siano tutt’altro che idilliaci.

 

 L’aggressione contro lo Yemen rappresenta una delle scelte più scriteriate e meno ponderate della monarchia saudita, posta in essere senza la benché minima valutazione del contesto reale e dei problemi alla base della profonda crisi apertasi in un Paese, lo Yemen, percorso dai venti riformatori della Primavera araba. I movimenti popolari alimentati dai sommovimenti del 2011 erano riusciti a porre fine alla feroce dittatura di una figura politica, Abdullah Saleh, turbolento alleato dell’Arabia saudita, a dispetto, come sopra menzionato, di una fede religiosa considerata dal clero wahabita “apostata”. Ma quel che interessava ai sauditi era avere alla loro frontiera meridionale un “uomo forte” che, seppur non di credo sunnita, fosse in grado di garantire quel livello di stabilità imposta con la forza indispensabile alla frontiera meridionale del Regno, tenendolo al riparo da pericolosi contagi sul piano politico e sociale.

 

La rivolta degli Huthi si inserisce per l’appunto in questo specifico quadro, contraddistinto dall’emergere di forze volte a rimettere in discussione una iniqua sudditanza in linea con le priorità di una casa regnante spaventata da eventi considerati eversivi. Una rivolta, come si può notare, autenticamente laica, priva di connotati settari, sospinta dalla volontà di porre termine ad una situazione di vassallaggio imposta ad una etnia araba professante per assurdo la stessa fede del loro dispotico correligionario.

 

Il torto degli Huthi è stato quello di portare avanti questa legittima battaglia, di concerto con altre componenti yemenite a vocazione democratica, alla vigilia dell’assunzione di poteri all’interno del loro potente vicino di un altro uomo forte, Mohammed bin Salman (MBS), figlio di un sovrano debole e malato. Da quel momento nel regno saudita si viene a delineare una forma di governo altrettanto dispotica e tirannica di quella inflitta per tre decenni da Ali Abdullah Saleh non solo agli Houthi ma anche, come vedremo, ad altre componenti dell’entità yemenita.

 

 

Mohammed bin Salman al Saud

           

Una delle conseguenze di tali mutamenti all’interno della casa Saud è stato l’irrigidimento di Riyadh nei confronti della Repubblica islamica iraniana, comportante la fine di quel cauto processo di “appeasement” lasciato balenare dal precedente re saudita, Abdullah bin Abdelaziz, scomparso nel gennaio 2015.

 

 Né poteva questo peggioramento dei rapporti con Teheran non trarre ulteriore spinta dal cambio di guardia intervenuto alla Casa Bianca con l’ingresso nella scena internazionale di un leader autoritario ed impattante come Donald Trump, determinato inter alia a sabotare quell’accordo con l’Iran, concluso nel luglio 2015, considerato una delle poche “perle” della lunga gestione del suo predecessore, Barack Obama. Per capire quanto determinante ai fini di tale involuzione sia stata la policy dell’attuale Presidente americano basterebbe attirare l’attenzione sul particolare che la prima missione all’estero di Trump, all’indomani della sua assunzione di funzioni, ha avuto luogo per l’appunto in Arabia saudita e non a Londra o in altre sedi di Paesi tradizionali alleati degli USA.

 

Il dramma dello Yemen inizia essenzialmente con il prodursi di questi mutamenti sul piano regionale ed internazionale dai quali beninteso altri negativi sviluppi hanno preso corpo in altre aree del mondo arabo, in primis il venir meno di ogni speranza per una equa soluzione del dramma palestinese e lo scoppio della guerra civile siriana, non ancora terminata, fonte di un’altra catastrofe umanitaria in un Paese come la Siria ricco di storia e di cultura.

 

Lo Yemen non poteva sfuggire a tale infausto destino e la rivolta degli Huthi ha fornito l’esca per un’aggressione motivata dai sauditi come un argine contro l’espansionismo della detestata Repubblica iraniana ma in realtà sprigionata dall’intento di schiacciare un movimento popolare di rivolta alle frontiere del Regno. Essa ha finito per colpire un’etnia araba praticante, come già detto, un credo sciita difforme da quello praticato in Iran verso cui peraltro la tribù yemenita non ha mai mancato nel corso della sua storia di affermare una sua peculiare identità politica e religiosa, al pari del resto di quanto costatabile presso altre comunità arabe nella stessa area per le quali essere sciiti non ha mai significato essere soggetti al volere della teocrazia iraniana. E’ il caso della emarginata maggioranza sciita in Bahrein e della oppressa minoranza sciita residente nelle Province orientali dell’entità saudita per le quali essere sciiti non comporta affatto il venir meno della loro identità e della loro cultura segnate dalla appartenenza all’universo arabo.

         

 Riteniamo sia opportuno tenere a mente questi aspetti per avere un quadro più chiaro di quel che drammaticamente a tutt’oggi ha luogo nel più povero Paese del mondo arabo.

 

 Fallimento saudita

 Come già accennato la Primavera araba ha inciso in maniera profonda in Yemen, più profondamente che in altre realtà arabe, fatta eccezione per la Tunisia. I venti di riforma hanno costituito una spinta formidabile per gli Huthi che a partire dal 2011 hanno dato avvio ad una ribellione che non solo ha finito per sloggiare dallo scanno il dittatore locale ma ha consentito loro nel settembre 2014 di prendere possesso manu militari della capitale Sanaa dove, dopo cinque anni gli Huthi continuano a restare, sostenuti nella parte centrale e settentrionale del Paese da un sostegno popolare alimentato dall’odio maturato contro gli aggressori per via delle terribili conseguenze sulla popolazione civile derivanti dai bombardamenti dell’aviazione saudita. Dall’inizio dell’aggressione più di 20.000 incursioni aeree hanno avuto luogo in Yemen, che continuano a non risparmiare infrastrutture civili, come ospedali, scuole, mercati, moschee e quant’altro, con terrificanti conseguenze su uomini, donne e bambini; ciò dà un’idea delle spaventose incidenze sul piano umanitario con più di 60.000 morti e più di due terzi della popolazione dispersa sul proprio territorio, sull’orlo della fame, in preda ad una disperante   povertà.

 

 Come già segnalato, dopo pochi mesi dalla presa di Sanaa da parte degli Houthi, nel marzo 2015 viene presa la decisione, assunta in via primaria dal Regno saudita, di attaccare lo Yemen “per ripristinare l’autorità di Mansour Hadi ”, capo del governo “internazionalmente riconosciuto”, sostenuto da Riyadh e dal movimento islamista al-Islah, affiliazione yemenita dei Fratelli mussulmani, visti dai sauditi come “terroristi” in altri Paesi arabi, ad esempio l’Egitto, ma considerati preziosi alleati in Yemen: ulteriore prova di come la matrice settaria sia manifestamente strumentalizzata da Riyadh per fini che poco hanno a che fare con finalità religiose.

 

 Una guerra che dura quindi da più di quattro anni e che ha prodotto apocalittiche conseguenze, definita dalle Nazioni Unite la più grave catastrofe umanitaria dalla fine del Secondo conflitto mondiale, fonte di indicibili sofferenze per la popolazione civile con stragi di donne e bambini che hanno suscitato l’orrore delle organizzazioni umanitarie ma che hanno lasciato pressoché indifferenti le cancellerie occidentali, Italia compresa, che hanno continuato ad assicurare il sostegno agli aggressori, con ben scarsi “ritorni” sul piano militare.                  

 

 Quadro internazionale                  

 Nel corso della sua prima visita all’estero in Arabia Saudita nel maggio 2017, pochi mesi dopo il suo ingresso nella Casa Bianca, il Presidente americano Trump si rese protagonista di due iniziative poco nobilitanti: la conclusione di un contratto di vendita di armi ai sauditi, “altamente sofisticate, fiore all’occhiello della nostra tecnologia”, per circa $110 miliardi nonché il roboante annuncio di una Santa Alleanza sunnita contro la minaccia emanante dalla Repubblica islamica.                             

 

Ben poco è cambiato da allora nella improvvisata policy dell’Amministrazione USA, a dispetto delle improvvide iniziative militari e diplomatiche assunte da MBS e dello stato fallimentare della Alleanza sunnita, al momento letteralmente a pezzi.

 

 Il Congresso degli Stati Uniti ha cercato fino ad ora con scarsi risultati di bloccare il sostegno militare al Regno, scontrandosi con l’appoggio assicurato a Trump dagli ambienti evangelici filosionisti e dalla destra repubblicana, ossessionati dalla “minaccia iraniana”. Ciò ha indubbiamente giovato alla potente lobby americana degli armamenti ma ha nel contempo contribuito a minare la credibilità politica di un Paese sempre pronto a richiamarsi alla difesa dei diritti umani ma apparentemente solo quando ciò non contrasta con gli interessi economico-commerciali dell’apparato militare-industriale.

 

 Resta il fatto che simili scelte producono nel migliore dei casi effetti positivi solo a breve termine ma diminuiscono il peso diplomatico di una potenza come gli Stati Uniti che non ha certo brillato, particolarmente sotto la Presidenza Trump, per coerenza e linearità in aree di nevralgica importanza come il Golfo ed il Levante. Ciò non attiene solamente a quel che si è appena esposto ma altresì a quel che concerne la visione di una Santa Alleanza sunnita, considerata a giusto titolo da alcuni commentatori rivelatrice di una scarsa considerazione e conoscenza della complessa realtà medio-orientale. Attizzare il veleno settario in quella parte del mondo è quel che di più controproducente vi possa essere. Ed è quel che in realtà si è prodotto, spianando la strada a scelte e comportamenti, soprattutto da parte saudita, dagli effetti altamente deleteri.

 

A tal proposito desideriamo attirare lo sguardo su due conseguenze negative, le più macroscopiche, derivanti dalla recente policy saudita, una delle quali riguarderà gli inattesi sviluppi prodottisi nel dramma yemenita.

 

  Rottura in ambito GCC

 Nel giugno 2017 quattro Paesi arabi, Arabia saudita, Emirati arabi uniti, Bahrein ed Egitto, uniti dal carattere liberticida della loro governance, decidono, su pressante istigazione di Abu Dhabi, di imporre un blocco terrestre, aereo e navale contro il ricchissimo e minuscolo Emirato di Qatar, anch’esso sunnita e retto anch’esso in maniera autoritaria, ma ritenuto colpevole di attentare alla loro sicurezza attraverso azioni di sostegno ai Fratelli mussulmani, visti dagli Emirati come “una minaccia esistenziale”. Per la stessa ragione la Turchia di Erdogan vede in Qatar un alleato strategico.

 

 Tale decisione ha rappresentato la prima frattura del conclamato fronte sunnita anti-iraniano visto dal mal accorto Trump come il migliore tramite per arginare la minaccia degli ayatollah.  Il non aver valutato nella giusta misura le divisioni politiche covanti all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) ha costituito un errore fatale per l’Amministrazione USA col risultato che proprio i Paesi presi di mira, in primis l’Iran ma anche la Turchia hanno tratto un vantaggio dalle conseguenze scaturenti da decisioni in disarmonia con la realtà profonda di quella turbolenta area. Ciò ha consentito a Teheran di rompere il fronte sunnita anti-iraniano, consolidando le sinergie con Qatar ma allo stesso tempo preservando i suoi rapporti con altri membri del GCC, come vedremo, ed ha fornito l’occasione ad Ankara di rafforzare la propria presenza militare in Qatar.

 

 Doha è uscito indenne dalle misure punitive adottate, potendo contare sull’appoggio non solo dell’alleato strategico, la Turchia, e sul sollecito sostegno della Repubblica islamica sciita, pronta a fornire a Doha, entità sunnita, l’aiuto necessario per sormontare le difficoltà provocate da altre entità sunnite, ma anche sulla “comprensione e solidarietà” degli altri due membri del GCC, Oman e Kuwait, i cui anziani autorevoli leader hanno marcato il loro disaccordo sulle insensate misure. Il minuscolo ma potente Emirato dopo più di due anni di blocco totale continua nella sua profittevole politica di “soft power” nel mondo arabo, attraverso il positivo impatto dei suoi canali informativi (al-Jazeera in primis), apprezzati nella regione, e l’intelligente apertura verso gli apporti provenienti dal mondo esterno. Una dimostrazione di come anche senza il ricorso alla forza armata si possono valorizzare l’immagine e la credibilità nonché promuovere gli interessi di un Paese. Significativa è apparsa la definizione fatta di Qatar da un autorevole commentatore britannico per il quale Qatar figura come “l’unica persona adulta del consesso cui appartiene” (!).

 

 Ma un ulteriore non secondario aspetto merita in proposito di essere considerato, forse non sufficientemente valutato dalle quattro cancellerie, ovverossia che Qatar, oltre ad essere il Paese col reddito pro-capite più alto al mondo, è anche uno dei Paesi arabi più vicini agli Stati Uniti dal punto di vista strategico-militare. In Qatar si trova infatti la più munita base aerea americana nel mondo arabo e Qatar costituisce un anello imprescindibile nella strategia USA volta a preservare i propri interessi nell’intera regione.

 

 Tutto ciò ha portato in definitiva ad una situazione di stallo, avara di risultati per il successo di misure punitive adottate nell’irruente ebbrezza alimentata da un mal meditato sostegno americano a regimi quali in primis l’Arabia saudita e gli Emirati portati a privilegiare, a differenza di Qatar, gli strumenti del “hard power”, con riscontri tutt’altro che appaganti e sicuramente destabilizzanti.

                            

  Fragilità di un’alleanza

 L’intervento saudita in Yemen, ormai in essere da più di quattro anni, rappresenta la seconda terribile conseguenza di come la rozza dirompente politica di dominio portata avanti dell’impulsivo principe saudita, col sostegno dell’Amministrazione Trump, abbia prodotto effetti devastanti, sotto ogni profilo. Un intervento realizzato senza alcuna considerazione delle amare lezioni del passato riservate a coloro che, prima di Mohammed bin Salman, avevano cercato di imporre soluzioni di forza in un Paese considerato da taluni come l’Afghanistan della Penisola arabica per l’impossibilità, alla pari del Paese asiatico, di imporre soluzioni con il ricorso esclusivo allo strumento militare.

 

 L’esempio storicamente più significativo in tale contesto è fornito dal fallimentare intervento militare egiziano degli anni ’60 deciso dall’allora Presidente Gamal Abdel Nasser il cui intento era di sconfiggere le forze monarchiche locali, appoggiate dall’Arabia saudita, per dar vita ad una repubblica modellata sul sistema politico al tempo in essere in Egitto, laica ed ispirata al panarabismo. Il disastro che conseguì a quella avventura militare rimane una delle pagine meno esaltanti della recente storia egiziana al punto che quell’abortito intervento, cui Nasser pose fine per lo scoppio della guerra dei Sei Giorni nel Levante, viene posto da alcuni commentatori sullo stesso piano della triste avventura americana in Vietnam. “Lo Yemen sta all’Egitto come il Vietnam sta agli USA”, secondo l’impattante aforisma che ebbe a pronunciare un generale egiziano all’indomani di quel disastro.

 

 Tutto ciò non è stato tenuto presente da MBS, colui che ha dato l’avvio all’aggressione, dalle cui conseguenze ora non riesce a divincolarsi, avendo in itinere ravvivato altre tensioni ed altre rotture, anche in seno all’alleanza coinvolta in quella avventura.

 

 Aver aggredito un Paese confinante in preda ad una guerra civile determinata dalla volontà di porre termine ad un sistema di dominio portatore di miseria, emarginazione ed abusi di ogni genere, si è rivelato un errore strategico i cui effetti hanno creato alla frontiera meridionale del Regno quella situazione di instabilità ed insicurezza più grave di quella cui con il ricorso alla forza si era cercato di porre rimedio. Una guerra di aggressione imposta dalla necessità di contrastare “la minaccia esistenziale iraniana”, rappresentata dalla mal fondata convinzione che gli Houthi, per il solo fatto di professare un credo affine a quello iraniano, non potevano non configurarsi come “una quinta colonna della Repubblica islamica”. Una distorta approssimativa visione di una realtà più complessa ed articolata. Un esempio, l’ennesimo, di quel che può derivare da scelte frutto di una rozza cultura politica che ripudia la riflessione e non tiene conto dei dati reali di una crisi.

 

 Una guerra dal carattere esistenziale per l’Arabia saudita ma non per il suo “alleato strategico”, gli Emirati arabi uniti, definiti la Sparta del Medio Oriente, dove domina il mentore del principe saudita, Mohammed bin Zayed (MBZ), a capo di un Paese profondamente diverso sotto ogni profilo dal Regno, col quale le relazioni in un passato anche recente si erano rivelate tutt’altro che idilliache, tutt’altro che prive di acrimonia e risentimento.

 

Mohammed bin Zayed al Nayan

 

 Per gli UAE l’attacco allo Yemen fin dall’inizio non ha rivestito i tratti “esistenziali” proclamati da Riyadh. Per Abu Dhabi la decisione di intervenire in Yemen si è rivelata l’occasione propizia per estendere e rafforzare quella presenza militare e finanziaria nella Penisola arabica e nel Corno d’Africa che costituisce per gli Emirati l’obiettivo strategico da conseguire per creare quella rete di collusioni ed alleanze dove far valere la potenza della propria finanza e lo spessore dei propri interessi commerciali.

 

 A distanza di più di quattro anni dall’inizio delle operazioni militari che per Abu Dhabi ha comportato, diversamente da Riyadh, l’invio anche di una forza di terra composta in larga parte da mercenari sudanesi ed eritrei, qual è stato il “ritorno” per Mohammed bin Zayed? Certamente non negativo, in ogni caso più profittevole di quello fallimentare costatato per il suo irriflessivo adepto Mohammed bin Salman. Risultati dunque ben diversi a fronte di finalità strategiche altrettanto ben diverse.

 

  Un retroterra storico importante

 L’unificazione dello Yemen ha avuto luogo nel 1990, ponendo termine alla divisione del Paese ereditata dall’epoca della presenza coloniale britannica.

 

 Nel 1990 cessa la separazione delle due entità yemenite ma il covante irredentismo sudista non per questo si spegne.  Quattro anni dopo esso riesplode con un tentativo di secessione sudista che porta ad una nuova guerra tra Nord e Sud conclusasi negativamente per i secessionisti con la forzata riunificazione del Paese comportante una feroce repressione del movimento sudista da parte del dittatore Abdullah Saleh. Da quel momento nulla sembrava presagire che 25 anni più tardi il Sud yemenita riesplodesse sfruttando il caos apocalittico provocato da una guerra insensata scatenata dal potente vicino saudita.

 

 A tal proposito occorre segnalare che uno Stato yemenita unito ed indipendente non ha mai beneficiato di un atteggiamento benevolo da parte delle autocratiche monarchie del Golfo, timorose che tale entità, laica e repubblicana, potesse costituire un “cattivo esempio” per i sei regimi retti da dinastie assolute. Secondo alcuni analisti britannici, lo stesso tentativo secessionista del 1994 sarebbe stato fomentato dai sauditi, in linea con i timori summenzionati. Ebbene una medesima storia si sta ripetendo al presente, protagonista questa volta l’Emirato di Abu Dhabi, il cui padrone ha saputo carpire la ghiotta occasione ai fini dei suoi disegni di dominio.

 

              Divergenti strategie

 Nulla sembrava presagire, dicevamo, il risveglio di forze che sembravano spente. In effetti non lo erano, pronte a trarre nuovo impeto da aspetti facilitanti insiti in un conflitto in corso da più di quattro anni. Il primo di questi si è rivelato essere la debole e screditata leadership di Mansour Hadi, Presidente di un governo “internazionalmente riconosciuto” ma totalmente soggetto alla volontà di Riyadh. Una leadership corrotta, impopolare, non rappresentativa, al servizio degli interessi di un vicino aborrito, visto dalla maggioranza dei yemeniti come il principale nemico del loro Paese. Hadi risiede costantemente in Arabia saudita per motivi di sicurezza, cacciato da Aden nel 2017 dopo essere stato cacciato da Sanaa nel 2014, pronto ad eseguire qualsiasi direttiva provenga dal suo potente protettore, Mohammed bin Salman.

         

 Indubbiamente la squallida caratura di Mansour Hadi, in passato fedele servitore, in qualità di suo vice, del defunto dittatore Abdullah Saleh fino al momento della sua defenestrazione, ha spianato la strada al fallimento dell’aggressione saudita. Ma a nostro avviso l’elemento che ha maggiormente determinato tale negativo risultato si è rivelato essere la frattura operatasi all’interno della “Saudi-led coalition” ovverossia tra i due primi attori, Riyadh ed Abu Dhabi, capitali di due realtà strutturalmente molto diverse, perseguenti finalità ed obiettivi altrettanto molto diversi.

 

 In realtà anche il tipo di relazione che i due turbolenti alleati intrattengono con l’Iran, l’elemento in teoria più aggregante all’interno della coalizione sunnita, è diverso. Mentre per il regno saudita, in questo sulla stessa linea di Israele, Teheran è il nemico esistenziale, la temuta nemesi dell’entità wahabita e degli interessi dinastici, per gli Emirati ciò non esiste nella misura in cui Abu Dhabi, dove da tempo immemorabile migliaia di imprenditori e commercianti iraniani vivono e prosperano, non ha assolutamente alcun interesse a che le tensioni pericolosamente si aggravino tra le due rive del Golfo Persico. Da ciò scaturisce una conseguenza tutt’altro che irrilevante: il fatto che schiacciare la rivolta dell’etnia Houthi, ha rivestito per gli Emirati un rilievo molto minore che per i sauditi.

 

 Questa guerra dava l’occasione agli Emirati di estendere la proiezione esterna di potenza finanziaria, commerciale ma anche politica della dinastia al-Nayan lungo le rotte navali che dal Golfo Persico attraverso il Mar Arabico ed il Golfo di Aden, solcando il Mar Rosso, giungono fino in Cirenaica dove gli Emirati vantano una base militare. L’occupazione manu militari dell’importante porto di Aden e di ben quattro province del sud-yemenita suona conferma di cosa stesse a cuore ad Abu Dhabi ovverosia mettere le mani sulle ricchezze esistenti in quegli spazi, potenziale fonte di lucrosi investimenti, soffiando sull’anelito irredentista locale.

 In definitiva il minuscolo Stato del Golfo aveva un suo precipuo disegno: rafforzare il suo ruolo nella regione contrastando in tal modo le mire del rivale Emirato di Qatar la cui proiezione esterna basata essenzialmente sul “soft power” costituisce per Abu Dhabi una spina sul fianco dai deleteri effetti. Il sostegno fornito da Doha ai Fratelli Mussulmani, visti come un pericolo mortale dagli Emirati assolutamente ostili ad ogni forma di Islam politico, rappresenta un elemento di contrasto insanabile tra le due influenti entità del Golfo.

 

                    Gli antefatti dell’aggressione

 La strategia degli Emirati ha dunque giovato alle redivive mire secessioniste, che erano riapparse fin dal 2007, prima dell’insorgere della Primavera araba e sotto la feroce dittatura di Abdullah Saleh, con la nascita del “Southern Movement” il cui scopo era di ricordare alla famiglia araba come l’irredentismo del Sud-Yemen era tutt’altro che seppellito. La repressione che si abbatté sul movimento fu spietata ma servì a rinfocolare le ceneri della rivolta, gettando i semi per la nascita del “Southern Independence Movement” che fa irruzione nella scena yemenita in occasione dello scoppio della Primavera araba nel 2011.

 

 Da quel momento la spinta secessionista non è più cessata e la contestazione contro la dittatura ebbe il merito di attirare l’attenzione del mondo, inserendo il più povero Paese del mondo arabo nell’onda rivoluzionaria, laica ed assetata di più ampi spazi di libertà e democrazia, innescata dal sacrificio di un venditore di frutta in una sperduta cittadina dell’interno della Tunisia. In Yemen il movimento popolare ebbe successo con il rovesciamento del regime di Saleh ed il contestuale allargarsi della rivolta Houthi che nasce in quel contesto, anch’essa laica e popolare, priva di connotati settari, in osmosi col quadro politico yemenita del momento.

 Gli Houthi si presentavano anch’essi come portatori di un messaggio di maggiore giustizia e di maggiore inclusione, essendo stati asserviti ed emarginati per decenni. Lo scoppio degli eventi del 2011 forniva l’occasione per riaffermare identità e valori nel segno di un loro reinserimento nel quadro politico dell’entità yemenita.

 

 Il rifiuto del governo di Mansour Hadi di riconoscere le legittime aspirazioni della tribù del Nord Yemen è stata la scintilla che ha dato fuoco alle ceneri con l’occupazione nel settembre 2014 da parte degli Houthi della capitale Sanaa e l’occupazione di larghi spazi dell’ovest del Paese, incluso lo strategico porto di Hodeidah nel Mar Rosso, non lontano dallo stretto di Bab al Mandeb.

 

 L’intervento della coalizione diretta dalla Santa Alleanza di Riyadh ed Abu Dhabi avviene nel marzo 2015 ed il risultato di quell’insana decisione portatrice di una catastrofe umanitaria senza precedenti, come più volte ricordato dalle Nazioni Unite, si è rivelato nel quinto anno di svolgimento della guerra del tutto fallimentare per gli interessi sauditi che appaiono alla luce degli ultimi sviluppi i veri perdenti della immane crisi yemenita. Gli Houthi non solo continuano ad occupare Sanaa, il porto di Hodeida ed altri importanti agglomerati del Paese, ma hanno rafforzato le loro capacità militari, essendo in grado di lanciare missili e droni nello spazio saudita. E come se non bastasse il secessionismo del Sud Yemen appare ora inarrestabile, venendo a beneficiare dell’aperto sostegno degli Emirati in spregio di una qualsiasi considerazione per gli interessi dell’alleato saudita e del suo protetto Hadi.

                                                    

  Il riemergere dell’onda sudista

L’irredentismo del Sud-Yemen ha tratto giovamento dalle difformi strategie perseguite dall’Arabia saudita e dagli Emirati. Una prima saliente differenza emerge sul piano militare, sulla divergente modalità di intervento. Il carattere rozzamente distruttivo dell’aggressione saudita è dimostrato dal ricorso esclusivo alla forza aerea nell’illusione che ciò fosse sufficiente a sottomettere una tribù come gli Houthi perfettamente a conoscenza di un terreno molto accidentato e montagnoso. Gli esempi della disfatta USA in Vietnam ed in Iraq avrebbero dovuto costituire un precedente in tal senso ma il cieco istinto di dominio e di sopraffazione del principe saudita non ne ha tenuto conto.

 

 Diverso è risultato l’approccio militare degli Emirati che, nel perseguimento di strategie altrettanto diverse, fin dall’inizio dell’intervento hanno ritenuto opportuno ricorrere ad una forza di terra. L’intento era chiaro: creare condizioni perché nella parte meridionale del Paese bagnata da importanti rotte marine gli Emirati fossero in grado di stabilite alleanze e collusioni con il contesto locale.

 

 Il riesplodere della secessione sudista ha dunque luogo in questo contesto, caratterizzato da un contrasto che si è andato progressivamente sviluppando tra i due alleati in una guerra tra le più sanguinarie nella storia del mondo arabo.

 

 Nel corso del conflitto le contraddizioni suaccennate si allargano. I sauditi creano sinergie con la branca yemenita dei Fratelli Mussulmani, al-Islah, recanti lo stesso nome dei loro omologhi negli Emirati oggetto di spietata repressione, venendo a beneficiare del loro supporto nello scontro con gli Houthi, ma creando in tal modo un’altra ragione di contrasto con Abu Dhabi. Gli Emirati per converso mostrano una maggiore coerenza ideologica rispetto ai loro alleati, ergo anche in Yemen scatenano la loro repressione contro gli islamisti locali, dando luogo ad una campagna sistematica di eliminazione fisica di esponenti della confraternita nel sud del Paese, contrassegnata da gravissime violazioni dei diritti umani, accompagnata da un appoggio ai secessionisti che per incanto adottano in toto il mantra anti-islamista dei loro protettori.

 

 Tale sviluppo costituisce il primo segnale del contrasto ormai aperto tra i due alleati del Golfo: gli alleati degli uni divengono i nemici del loro partner. In tale sconcertante quadro il movimento secessionista si rafforza e si consolida sul piano istituzionale con la creazione nel maggio 2017 del “Southern Transitional Council” (STC), organo politico, nato dopo la cacciata il mese prima del governatore di Aden da parte dell’impopolare Hadi, per il quale l’STC era del tutto illegittimo, e della sua branca armata “Security Belt Forces” (SBF). E’ a partire da questo momento, caratterizzato da proteste popolari a Aden per le misure coercitive adottate da Mansour Hadi, che un’azione coesa e determinata viene portata avanti dalle due strutture, sostenuta dagli Emirati cavalcanti la tigre sudista, consapevoli dei vantaggi derivanti da tale scelta. In effetti Abu Dhabi non lesina in mezzi e risorse a favore dei suoi protetti.  Il SBF d’altronde è una sua creatura, i suoi combattenti sono addestrati e plasmati militarmente nelle caserme degli Emirati per poi essere rispediti nei campi di battaglia yemeniti.

 

 L’intento dell’ambizioso principe Mohammed bin Zayed è di apparire agli occhi degli Stati Uniti come l’integerrimo esecutore della campagna senza quartiere condotta da Washington contro la minaccia dell’estremismo militante, magari scalzando “in the process” i sauditi, apparendo più coerente ed affidabile.

            

 In definitiva chi appare il perdente in questo inestricabile groviglio, dove a tutt’ oggi gli sforzi delle Nazioni Unite per giungere ad una soluzione negoziata del conflitto si sono rivelati alquanto sterili, risulta essere l’Arabia saudita la cui politica di viscerale distruzione, dettata dalla completa assenza, a differenza del suo alleato del Golfo, di una visione politica, ha portato ad un risultato contrario a quello perseguito da Riyadh all’inizio dell’aggressione. Ed i recenti sviluppi di questo scontro in un’area periferica ma di grande importanza per le incidenze sul piano globale sotto il profilo non solo economico ma anche politico evidenziano vieppiù le dimensioni di tale fallimento, a tutt’oggi rivelatosi pressoché totale.

 

 Conclusioni

 A distanza di quasi cinque anni dall’inizio dell’aggressione il dossier yemenita appare sempre più intrattabile ed intricato in uno scenario dove le divisioni e le frammentazioni complicano notevolmente un conflitto che secondo le previsioni dell’irruento principe saudita si sarebbe risolto in poco tempo.

 

 Anche in questo caso una coalizione sunnita in chiave anti-iraniana è andata in frantumi. Questo è avvenuto – è bene precisarlo -  non solo per la resistenza opposta dalla tribù araba degli Houthi ma forse in misura più rilevante per la difformità delle strategie perseguite dai due leader dello schieramento: Riyadh e Abu Dhabi. Come abbiamo visto ciò ha ravvivato ferite rimaste aperte, come il riaccendersi dell’irredentismo sudista, memore della feroce repressione subita a più riprese per mano del defunto dittatore Abdullah Saleh. Né si può passare sotto silenzio il peso di passate acrimonie tra sauditi ed Emirati, anch’esse non sopite.

 

 Ciò ha rafforzato la posizione degli Houthi in grado di sferrare colpi letali all’aggressore saudita, colpendo più volte obiettivi strategici nel territorio del Regno come recentemente le due più importanti raffinerie dell’Aramco, la più grande compagnia petrolifera al mondo, nell’est del Paese, ponendo in evidenza la sconcertante vulnerabilità dei sistemi di difesa di un Paese acquirente per decine di miliardi di dollari dei più sofisticati sistemi di armamento americano. Aspetto quest’ultimo oggetto di acerbe critiche da parte del partner di Abu Dhabi che dallo scorso agosto ha deciso di ridurre il proprio impegno militare in Yemen per poi cessare quasi del tutto il coinvolgimento nelle operazioni di guerra.

 

 Tutto questo avveniva nel mentre gli Emirati non lesinavano sugli interventi contro le forze del cosiddetto Governo internazionalmente riconosciuto per consentire ai loro alleati yemeniti di mantenere il controllo dello strategico porto di Aden e della vasta area circostante.

 

 Tutto questo è intervenuto in presenza di una silente reazione saudita, apparentemente più interessata a mantenere una propria indiretta seppur fragile influenza nelle regioni dell’est yemenita, ricche di petrolio, dove le pulsioni degli irredentisti di Aden sono meno avvertite, piuttosto che correre il rischio di uno scontro con gli Emirati che una potenza di argilla come l’Arabia saudita non può assolutamente permettersi. Come se un tacito accordo fosse intervenuto tra i due alleati, inclini a spartirsi le spoglie di un Paese che vede la prospettiva di una sua riunificazione allontanarsi nel tempo.

 

 La situazione permane comunque fluida e nuovi sviluppi non sono da escludere. Né un possibile tentativo di mediazione promosso dagli USA ed avviato per consentire una via d’uscita dalla crisi all’alleato saudita appare da escludere, beneficiando del prezioso apporto del Sultanato di Oman, già in passato resosi meritevole del plauso internazionale per aver ospitato contatti tra americani ed iraniani in vista di quell’accordo del 2015, ripudiato da Trump sotto la pressione di Netanyahu e di Mohammed bin Salman. Resta il fatto che in base a quel che è avvenuto in questi ultimi giorni i bombardamenti della coalizione sono ripresi con intensità, colpendo ancora una volta obiettivi civili col solito raccapricciante bilancio di esseri umani innocenti (uomini, donne e bambini) finiti sotto le macerie. E ciò a fronte di una recentissima offerta di ripresa del processo negoziale da parte degli Houthi, caldamente apprezzata dallo stesso inviato dell’ONU per lo Yemen Martin Griffith. Il che lascia presagire una probabile rappresaglia della tribù araba. Le sofferenze di quel popolo martire sembrano destinate a durare.

 

 Il Congresso degli Stati Uniti sembra del resto accelerare i tempi, accrescendo le pressioni sul Presidente perché gli Stati Uniti non solo richiamino Mohammed bin Salman al rispetto degli impegni presi in campo umanitario, stornando i $750.000 forniti dagli USA allo scopo, ma cessino altresì il sostegno militare ai sauditi, colpevoli di esecrabili violazioni di ogni legge di guerra nell’aggressione contro un Paese confinante alle prese con problemi interni verso i quali sarebbe stato saggio avviare una mediazione pacificatrice nel quadro di una solidarietà araba. Del resto la Storia insegna: interferire manu militari nelle faccende interne di un Paese finitimo non è mai risultato “pagante”.

 

 Il risultato per converso si è rivelato di senso diametralmente opposto alle attese dell’impulsivo principe saudita protagonista in un recente passato di roboanti dichiarazioni con le quali pregustava il giorno quando le truppe del Regno avrebbero colpito nel cuore dell’Iran, trovandosi ora ad essere lui il bersaglio di attacchi Houthi che colpiscono nel cuore del suo Paese, senza per di più provocare le stragi causate dagli attacchi sauditi in Yemen. Il non aver compreso come gli equilibri strategici in quella regione stiano mutando anche per via di strumenti bellici, in particolare i droni ma non solo, che permettono a forze con limitata potenza di fuoco di tenere in scacco nemici militarmente più potenti di loro, si è rivelato un errore macroscopico le cui conseguenze sono ora pagate dalla leadership saudita. Gli Emirati per converso hanno preso coscienza di quella che ormai viene definita “guerra asimmetrica”, seppur dopo aver seminato profittevolmente nell’intricato contesto politico yemenita.

 

 Le decisioni assunte hanno visibilmente svilito la credibilità dell’Arabia saudita, inquinando per di più il rapporto strategico con gli Stati Uniti ed anche le relazioni con i Paesi della regione, generando altresì alla propria frontiera meridionale una situazione di estrema insicurezza ben più grave di quella costatabile poco meno di cinque anni orsono all’inizio dell’aggressione.

 

Un bilancio non rallegrante per un giovane leader tanto ambizioso e tirannico quanto sprovvisto di un senso di direzione degli eventi diversamente dal suo abile e politicamente “savvy” mentore degli Emirati. Abu Dhabi può ora avvalersi di un rafforzamento della propria posizione nel quadro regionale, lasciando all’alleato saudita il carico di critiche e biasimo per le efferatezze scaturite dall’intervento, di cui peraltro anche gli Emirati sono parimenti responsabili.

 

 La flessibilità politica ha costituito il tratto saliente della condotta dell’uomo forte di Abu Dhabi che ha saputo orientare il proprio atteggiamento dopo un’attenta analisi del senso degli eventi. Questo si è costatato non soltanto nell’essere stato in grado di stabilire alleanze sul piano locale in Yemen dalle quali trarre cospicui vantaggi ma anche nella regione quando si è astenuto dall’assumere toni bellicisti in presenza degli incidenti occorsi nelle acque del Golfo a danno di naviglio commerciale. In quei frangenti la sua moderazione e la sua disponibilità a mantenere il dialogo con l’Iran sono stati rilevati non solo nell’area di appartenenza ma anche negli ambienti internazionali. Significativo è apparso il suo silenzio all’indomani del micidiale attacco alle due raffinerie saudite del 14 settembre in aperta distonia con la retorica bellicista del Segretario di Stato USA Mike Pompeo, non seguito in ciò neppure dai sauditi.

 

 In definitiva quel che è apparso nel comportamento di Mohammed bin Zayed è stata la capacità di ricorrere al “soft power” ogni volta che la situazione lo richiedesse. E ciò ha vistosamente spiazzato il suo alleato saudita costretto a subire il gioco del suo omologo di Abu Dhabi, anche in presenza dei colpi inflitti dai separatisti del Sud Yemen alle forze del suo debole ed impopolare protetto Mansur Hadi. Quattro province yemenite sono ora controllate dalle unità del “Southern Transitional Council”. Gli Emirati dal loro canto non hanno esitato a bombardare le unità del governo alleato dei sauditi, cacciandoli dalle zone riconquistate; offrendo lo spettacolo di una coalizione di alleati dove gli amici degli uni appaiono divenire i nemici degli altri.

 

Situazione paradossale ma solo in apparenza vista la diversità delle rispettive “agendas”. Quel che colpisce comunque è il fatto che il potente giovane autocrate saudita sia ora costretto a far buon viso a cattivo gioco, limitando le sue prese di posizione a generici appelli alla calma ed al dialogo. Il cieco allineamento saudita alle politiche di Washington ed in maggior misura di Israele nella regione hanno fruttato ben poco a Riyadh che si trova ad essere in difficoltà sul piano regionale, fatta ovviamente eccezione con il vassallo regno di Bahrein, conseguenza di scelte politiche scarsamente meditate.

 

 Il quadro dei rapporti di Riyadh con i vicini della regione lo dimostra: profonda diffidenza, per non dire ostilità, da parte di taluni, Giordania, Oman, Kuwait, inflessibile contrapposizione con Qatar e Turchia mentre con l’alleato di Abu Dhabi una subordinazione ed impotenza lesiva degli interessi sauditi.

                

Idem con i palestinesi consapevoli che poco vi sia da attendersi da una potenza araba apertamente collusa con Israele, un partner arabo dove decine di palestinesi, siano essi accademici, attivisti dei diritti umani, figure di rilevanza politica, marciscono da qualche mese nelle galere saudite, ivi detenuti e torturati, in maniera arbitraria senza giudizio.

 

 Nel mentre il mondo attende una via d’uscita dalla crisi yemenita che ponga termine all’infamia di quella guerra, fa pensare quel che ha recentemente scritto Azzam Tamimi, autorevole giornalista arabo secondo il quale tutto lascerebbe credere che, “ove Mohammed bin Salman dovesse diventare re, probabilmente egli sarebbe l’ultimo sovrano saudita”. Parole tremende quando si pensi all’importanza ed alla dimensione di quel Paese. Parole altrettanto rivelatrici del clima torbido che sembra regnare in seno alla casa Saud dove l’arbitrio di MBS genera risentimento. Parole illuminanti che fanno trasparire come non si approvi la violazione da parte sua di una prassi rispettata dai sovrani sauditi fondata sulla mediazione e sul coinvolgimento in seno alla famiglia reale; in presenza ora di un principe che non ammette alcun dialogo e che calpesta ogni regola oltre chi non condivide il suo modus operandi.

 

Il futuro appare inquietante per un Paese visto come punto di riferimento per la comunità islamica nel mondo, verso il quale l’alleato strategico americano non manca occasione di riversare un malcelato disprezzo ed un senso d’insofferenza.

 

Ma quel che colpisce vieppiù appare il dubbio, esternato dal giornalista, che MBS possa assurgere al trono…. Ove….  Legittima domanda: visti i rancori covanti in seno alla casa Saud, cosa potrebbe accadere alla morte dell’attuale sovrano, padre di MBS, Salman bin Abdulaziz? 

 

 Contrariamente a quanto accreditato dall’Occidente che vede nell’Iran la fonte di ogni male, non è forse l’Arabia saudita la fonte di maggiore inquietudine nel prossimo futuro per la pace e la stabilità del Medio Oriente?  

 

*Angelo Travaglini, Diplomatico in pensione. Membro del Comitato Scientifico del CIVG