La fine della classe media: intervista a un bancario.

Questa intervista fa parte di un ciclo dedicato alle tematiche lavorative. Il gruppo di approfondimento del CIVG intervisterà studiosi e lavoratori per tracciare un quadro dei mondi del lavoro.

 

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Indagini di varia provenienza dicono che su 100 ammalati di stress, 20 lavorano in banca e il 28% fra loro fa uso di psicofarmaci; gli ispettorati e le ASL prendono provvedimenti? Inoltre l’84% dei bancari vive una condizione di disagio, l’82% soffre di ansia, il 59% non riesce ad adattarsi ai cambiamenti continui, l’84% è a disagio ogni volta che deve consigliare un prodotto ad un cliente. Il tutto nonostante sia uno dei settori più sindacalizzati. Come ti spiega questa totale assenza di reazione? Può pesare l’età media alta? Oppure il fatto che i colleghi più anziani godano ancora di condizioni economiche ereditate dal passato come stipendi decisamente più alti rispetto ai giovani, dati da scatti automatici fino al livello di quadro, mentre i “nuovi” vengono spesso assunti con partita IVA?

 

Direi che il mondo bancario è piuttosto variegato, ma fondamentalmente può essere diviso in lavoro di sede e lavoro di filiale. Il primo ha poi numerose diversificazioni in base al grado di complessità delle mansioni, che vanno da quelle più ripetitive e monotone (con relative conseguenze sullo stato psicofisico del lavoratore) a quelle con livelli di professionalità più elevati. Io ho sempre lavorato nel mondo delle filiali e lì c’è una vera emergenza sanitaria, dovuta ai ritmi di lavoro, alle continue modifiche di procedure (spesso mal funzionanti) e soprattutto alle continue pressioni per ottenere risultati commerciali sempre più elevati. Il tema è ben noto e, in teoria, sia a livello di categoria che di singole aziende, è tutto un fiorire di protocolli contro le “pressioni commerciali”, ma nella pratica questi accordi si rivelano inutili e addirittura controproducenti.

I sindacati firmatari (noi li chiamiamo firma tutto) si lavano la coscienza con questi accordi che non hanno nessun reale potere sanzionatorio. Si fa finta di credere che si possano colpire i comportamenti devianti di qualche responsabile che individualmente “esagera”. Il problema è che l’organizzazione del lavoro ed il modello di banca che si è imposto prevedono strutturalmente di pressare il lavoratore a raggiungere gli obiettivi ad ogni costo. Si può dire che conta sempre meno la competenza e sempre di più l’abilità del “venditore”, tenendo però conto che qui si parla dei risparmi dei clienti: ci sarebbe l’art. 47 della Costituzione che li tutela!

Dicevo degli accordi inutili e dannosi. Per quanto a mia conoscenza, solo il sindacato di base (e qualche singolo RLS più volenteroso) ha presentato esposti sul tema dello stress lavoro correlato.

A volte sono le Asl a non intervenire. Ma quelle che lo fanno poi si ritrovano di fronte le banche che hanno buon gioco ad assolversi, sventolando gli accordi firmati con i sedicenti rappresentanti dei lavoratori, a dimostrazione della  loro buona volontà. Addirittura, in alcuni casi, si assiste anche alla mancanza di collaborazione da parte degli RLS dei sindacati firmatari, che negano l’esistenza di problemi seri.

In conclusione, rispetto alle pressioni commerciali, il lavoratore si sente solo di fronte al suo responsabile, che chiede conto dei risultati e lo fa sentire inadeguato se non sono soddisfacenti. E’ una situazione penosa, che il sindacalismo di base fatica a fronteggiare con le sue sole forze.

 

Negli ultimi tempi stiamo assistendo ad una campagna massiccia di esodi pre- pensionamento: la banca incentiva i colleghi più anziani, spesso più competenti e anche più costosi per l’azienda, ad andare in pensione prima che maturino i requisiti di legge, senza formare né tantomeno assumere nuovi dipendenti con uguali competenze. Questo è il preludio della scomparsa della categoria come successe ai metalmeccanici dopo la ristrutturazione degli anni ’80?

 

Come dicevo, sempre più spesso si ha l’impressione che le competenze non servano o siano persino poco apprezzate e che, almeno nelle filiali, l’unica cosa che conta sia vendere. Tutto questo si ricollega al tema dello stress lavoro correlato. Quando vengono aperte procedure di esodo, si apre una vera e propria corsa per andarsene. Prima servivano gli incentivi, oggi la maggior parte dei bancari è disposta a tutto pur di mettere fine all’agonia.

 

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A questo proposito non trovi contraddittorio che economisti e giuslavoristi votati alla crociata liberista, associazioni padronali di tutte le categorie, la stessa UE da un lato pressino i governi per aumentare l’età pensionabile, mentre dall’altra parte stanziano fondi per gli esodi (la stessa e famigerata Elsa Fornero era membro della compagnia San Paolo legata alla Banca Intesa San Paolo)? Tra l’altro nel settore bancario questo tipo di operazioni è stato perfino pagato dai lavoratori con 1 giorno di ferie; secondo i patti quei soldi servivano ad assumere nuove persone in sostituzione degli esodati, cosa che non è avvenuta.

 

Infatti ora il Fondo per l’Occupazione (finanziato con una giornata di ferie obbligatoria dai lavoratori e dai top manager con un contributo economico volontario) servirà anche per facilitare l’assunzione di chi è stato licenziato nel settore. Riguardo l’età pensionabile, il suo allungamento fa parte del gigantesco processo di redistribuzione di reddito al contrario che è andato avanti negli ultimi anni. In questo caso, però, questo provvedimento determina un oggettivo calo di produttività. Aumentando l’età, chi lavora alla catena non ce la fa fisicamente, chi lavora in banca non riesce più a tenere il passo con i continui cambiamenti tecnologici e con le modifiche richieste alla prestazione lavorativa.

 

Perché nel settore bancario non si votano le proprie rappresentanze sindacali?

 

Diciamo che anche negli altri settori c’è un restringimento delle libertà sindacali. Una parte del sindacalismo di base non può partecipare alle RSU perché non si è piegata alla firma dell’Accordo Interconfederale del 2014 sulla Rappresentanza.

I settori bancario ed assicurativo, però, hanno il triste primato di non aver mai potuto eleggere i propri rappresentanti, nonostante qualche contratto nazionale del passato avesse addirittura fissato delle date entro cui farlo. Ma non c’è interesse, il livello di quello che, un tempo, si chiamava consociativismo è elevatissimo. Si può anzi dire che, ormai, i sindacati firmatari siano un’appendice delle aziende.

 

 

Durante le assemblee, ad ogni lavoratore che incita ad avanzare richieste maggiori o migliorative, il sindacato risponde di avere le armi spuntate per colpa delle nuove tecnologie, oltre alla minaccia (già messa in pratica in realtà) di esternalizzazioni. E’ uno spauracchio, un alibi, oppure c’è del vero? Le nuove tecnologie minacciano realmente il lavoro nel settore bancario?

 

Le tecnologie credo minaccino tutti i settori, ma se si parte assumendo già il punto di vista della controparte si è sconfitti in partenza. Il discorso sull’impatto delle tecnologie è complesso e servirebbe la competenza adeguata per trattarlo, ma credo che la prima cosa che si dovrebbe dire e fare è riprendere il tema della riduzione d’orario a parità di salario. Ma questo richiederebbe di avere un punto di vista autonomo dei lavoratori e non subordinato.

Quando i sindacalisti di regime annaspano in assemblea, tirano fuori questo argomento, però nella loro piattaforma il capitolo sulla Digitalizzazione è evaso in 10 righe (proprio dieci) per chiedere, indovina un po’, di creare una commissione mista sull’argomento.

 

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Come mai a fronte del peggioramento delle condizioni di vita del lavoratore bancario le rappresentanze sindacali di Base, le uniche ad opporre resistenza, fanno fatica anche solo a farsi conoscere nel settore?

 

Per quanto a mia conoscenza, la Cub Sallca è l’unico sindacato di base presente nel settore. L’assenza delle RSU determina, da sempre, il fatto che solo i sindacati firmatari godano dei diritti sindacali, a cominciare dai permessi retribuiti. Molto prosaicamente, la vita del sindacalista di base nel settore è dura: qualche permesso non retribuito, molto lavoro fuori orario nel proprio tempo libero. Non sono molti quelli che hanno voglia di impegnarsi in questo modo. Altra cosa che pesa negativamente è anche il fatto di non potere indire assemblee in orario di lavoro.

 

In generale, parlando del mondo del lavoro nel suo complesso, perché si fa fatica a creare un nuovo ed unito grande sindacato? Ragioni politiche, la fatica a comunicare concetti e parole d’ordine che i lavoratori per primi guardano con scetticismo e che spesso giudicano “giurassici”? Oppure la difficoltà sta nella lotta impari per la battaglia delle idee contro un avversario, il capitale, che ha armi culturali molto più potenti rispetto al ‘900?

In Italia c’è un’anomalia che non ho mai sentito commentare: i tre sindacati principali, Cgil, Cisl, Uil, erano divisi in correnti che facevano riferimento ai partiti della prima repubblica. Non è curioso che tutti quei partiti si siano estinti ma i sindacati che ne erano emanazione siano rimasti? Possiamo supporre che alle elites dominanti questi sindacati facciano comodo anche dopo il cambio di rappresentanza politica? Un esempio clamoroso di quanto sostengo è il recente, vergognoso, Appello per l’Europa firmato dalla Triplice insieme a Confindustria.

Il vero problema è la permanente divisione del sindacalismo di base, che avrebbe oggettive possibilità di creare un’alternativa credibile. Qui il discorso sarebbe lungo. Alla base delle divisioni ci sono differenti concezioni del modello di sindacato, qualche interferenza di gruppi e gruppetti politici, anche qualche rivalità personale. In questo momento, poi, c’è il macigno del differente atteggiamento rispetto al ricordato Accordo sulla Rappresentanza.

Osservo, peraltro, la difficoltà, di gran parte delle formazioni del sindacalismo di base, a rinnovare gruppi dirigenti dall’età media elevata, la cui formazione politico-sindacale affonda le radici nel ’77, quando non addirittura nel ’68. Non ripudio certo quelle gloriose stagioni, ma credo che un sindacalismo di base vitale dovrebbe trovare nuovi quadri dirigenti all’interno degli attuali processi produttivi.

Chi riuscirà nell’impresa avrà le carte in regole per affrontare, con le caratteristiche di conflittualità e radicalità che non dovranno mai mancare, le sfide di questa fase storica. Resta il problema di fondo: deve rilanciarsi la fiducia nella possibilità che l’azione collettiva organizzata possa cambiare le cose.

 

Marco Schincaglia vive a Torino e lavora in Intesa Sanpaolo. Ha iniziato la sua attività sindacale negli anni ’80 con la Fisac Cgil. Nel 1999 è stato tra i fondatori del sindacato di base Cub Sallca e fa parte della segreteria nazionale dello stesso.