Un anniversario amaro per il mondo arabo

9 luglio 2018

Una ricorrenza importante

 

 

Lo scorso mese di giugno è stato il primo anniversario della decisione assunta da quattro Paesi arabi, Arabia Saudita, Bahrein, Emirati arabi uniti ed Egitto, di rompere ogni rapporto con il minuscolo emirato di Qatar, il più ricco Paese al mondo in termini di reddito pro-capite, imponendo un blocco economico-commerciale tuttora in essere. Le accuse a base della repentina decisione mosse contro l’Emirato riguardano il presunto appoggio e finanziamento fornito da Doha al terrorismo internazionale e i rapporti intrattenuti con la Repubblica islamica d’Iran. Tale decisione a parere di molti analisti è destinata a segnare la fine del Gulf Cooperation Council, organizzazione composta di sei Paesi del Golfo Persico, oltre all’Arabia Saudita e Qatar, Bahrein, gli Emirati arabi uniti, Kuwait ed il Sultanato di Oman.

        Il GCC fu creato con l’aperto sostegno degli Stati Uniti nel 1981 dall’allora re saudita Khaled, un anno dopo lo scoppio della sanguinosa guerra tra Iran ed Iraq,  allo scopo di rafforzare l’unità delle sei monarchie conservatrici del Golfo all’indomani del rovesciamento in Iran nel 1979 della dittatura filo-occidentale dello Scià Reza Pahlevi. L’incubo del fondamentalismo islamico si manifesta per l’appunto in quell’epoca, come conseguenza del mutamento intervenuto in un Paese, l’Iran, fino al 1979 fedele alleato degli Stati Uniti, in un clima generale permeato dalla Guerra Fredda e dal confronto globale con l’Unione sovietica.

          In effetti il GCC non ha mai preteso di divenire, come spiegheremo più avanti, una unione reale ed effettiva, privilegiando per converso forme di coordinamento intergovernativo incentrate particolarmente sulle problematiche della sicurezza e della stabilità del quadro regionale, in un assetto caratterizzato fino ad un tempo recente dal ruolo preminente della monarchia saudita sulle altre cinque minuscole entità.

 

    Tornando ai nostri giorni è interessante notare come l’improvvida decisione di rompere ogni rapporto con Qatar, detentore di rilevantissime riserve di petrolio e gas naturale, sede della più importante base aerea americana in Medio Oriente, ha avuto luogo poco dopo la prima visita all’estero del neofita Presidente USA, avvenuta in Arabia saudita il 20 maggio 2017, appena due settimane prima della descritta rottura.

Poco è filtrato sul contenuto reale della visita e su cosa ebbero a dirsi il folklorico Donald ed il giovane principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS), considerato da taluni l’effettivo leader del Regno wahabita, visto il precario stato di salute di suo padre, Salman bin Abdulaziz, l’ultimo dei figli del fondatore del Regno a svolgere le funzioni regali. In effetti sembrerebbe, secondo fonti arabe attendibili, che non sia così, dato che l’anziano re continuerebbe a svolgere un ruolo di vitale importanza per il potente figlio i cui “strappi” alla prassi regolante i rapporti all’interno del clan regnante non avrebbero finora comportato conseguenze deleterie per lui a causa della legittimità della quale può beneficiare come figlio del sovrano, pronto talvolta a correggerne le intemperanze.

Quel che è emerso in ogni caso dalla missione di Trump è stata la “grandiosa idea” di dar vita ad una massiccia coalizione sunnita in grado di arginare le azioni “destabilizzanti ed eversive” dell’Iran e delle forze arabe che, per il solo fatto di appartenere alla stessa branca sciita predominante nella Repubblica islamica, sono superficialmente ed arbitrariamente assimilate nella narrativa saudita ed occidentale alla Potenza iraniana. In quella altisonante occasione si è dunque delineata la volontà di dar vita ad una coalizione anti-iraniana,  rivelatasi tuttavia di breve vita, se è vero che pochi giorni dopo, per l’esattezza il 5 giugno, doveva essa rovinosamente sfaldarsi con la decisione assunta dall’Arabia saudita, dal regno vassallo di Bahrein, dagli Emirati arabi uniti, “l’enfant chéri” dell’Occidente dove gravissime violazioni dei diritti umani hanno luogo, e dall’Egitto, economicamente assai dipendente dall’aiuto finanziario dei ricchi Paesi del Golfo, di rompere le relazioni con l’emirato di Qatar, procedendo ad un blocco terrestre, aereo e navale a danno di una delle realtà sunnite più influenti e potenti del mondo arabo, a dispetto delle minuscole dimensioni territoriali. Vi è da ricordare a tal proposito che l’Emirato, assurto all’indipendenza nel 1971, è sede di un canale informativo tra i più prestigiosi al mondo, al- Jazeera (isola in arabo), osteggiato dall’Arabia saudita ed i suoi alleati per la diffusione di programmi ritenuti favorevoli all’Islam politico ed alla formazione politica che di esso si fa interprete, i Fratelli mussulmani; programmi che a nostro avviso mirano al contrario ad elevare il livello di conoscenza e di informazione di opinioni pubbliche arabe, in larga maggioranza sottoposte ad un servaggio fisico ed intellettuale da parte di oligarchie corrotte ed oppressive, la cui unica finalità rimane la difesa di interessi dinastici.

Poco si è scritto sugli eventi preparatori che hanno portato a tale calamitosa decisione se non il dettaglio sopra riportato della contiguità temporale di essa con la visita in Arabia saudita di Trump. Ebbene riteniamo che non sarebbe inutile ricordarli a dimostrazione di una realtà saudita dove la prassi del dialogo e delle soluzioni attentamente concordate a livello della casa reale, un tratto direi quasi fondante del modus operandi della dinastia Saud, appare  essere ora del tutto scomparso per far posto ad un autoritarismo cieco ed intrattabile, alieno mille miglia dai valori fondanti della religione e della cultura islamica, fonte di risentimenti che verosimilmente un giorno peseranno sulla stabilità dell’entità saudita.

In effetti una settimana dopo la visita di Trump una lettera appariva sulla prima pagina di un autorevole quotidiano saudita nella quale pesanti accuse venivano rivolte all’Emiro di Qatar, Tamim bin Hamad al Thani, al potere dal giugno 2013 dopo l’abdicazione del padre. L’aspetto degno di nota riguarda gli autori di tale missiva: niente meno che i discendenti, o presunti tali, ovviamente tutti uomini, di Mohammed Abd al Wahab, il fondatore del wahabismo, la branca più illiberale e, mi sia permesso di aggiungere, la più anti-Islamica della religione del Profeta, nata verso la metà del diciottesimo secolo, ispirandosi ai cui valori  la tribù beduina dei Saud ha preso il sopravvento nella penisola arabica, unificandola  con l’espulsione delle tribù rivali; un cruento processo, macchiato di sangue, cinicamente sostenuto dagli interessi imperiali britannici,  giunto alla sua conclusione agli inizi del terzo decennio del secolo scorso; filiazione, se si vuole, del tradimento perpetrato da Londra alla fine della Prima guerra mondiale nei confronti di un mondo arabo in cerca di libertà ed emancipazione dalle tutele altrui.

Pesanti erano le accuse rivolte contro il capo di uno Stato sovrano: quali erano? Le più gravi che sia dato immaginare nella realtà araba del Golfo ovverossia di non aver seguito il sentiero tracciato meno di tre secoli fa dal fanatico monaco, attraverso comportamenti e movenze da parte dell’emiro qatarino, giudicati eretici, in flagrante contrasto con gli insegnamenti emananti dal fondatore del wahabismo e dei suoi seguaci. 

In definitiva veniva sancita in tal modo la scomunica del giovane emiro dalla quale una conseguenza scaturiva ovverossia la rottura di ogni vincolo di alleanza e di solidarietà, ergo in prospettiva la fine di quel rapporto e comunanza di obiettivi dai quali trentasette anni fa aveva visto la luce il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC).

A tal proposito attiriamo l’attenzione su un dettaglio di primaria importanza, il fatto che la rottura sul piano politico con Qatar sia stata preceduta da un atto di esecrazione poggiante sul credo religioso, garantendo ipso facto la sua irreversibilità, l’impossibilità quindi che un riaggiustamento ed un superamento in chiave politica del contrasto potesse aver luogo in futuro. I contrasti nel campo religioso sono sempre stati nella Storia di più arduo superamento delle dispute politiche se non altro perché i primi poggiano su valori dottrinali a vocazione universale mentre lo scontro a livello politico fa quasi sempre riferimento a questioni e vicende umane legate prevalentemente ad aspetti inseriti in un contesto particolare.

 

Il fallimento di una strategia

Questo avveniva una settimana dopo la visita a Riyadh del Presidente degli Stati Uniti a conferma che la scomunica lanciata dai discendenti del fanatico monaco non poteva non avere una sua matrice politica e si rivelasse un atto di rottura concepito e preparato dall’irruento principe ereditario saudita, sostenuto dal suo omologo degli Emirati arabi uniti, Mohammed bin Zayed al Nayan, giovane, irrefrenabilmente ambizioso ed istintivamente autoritario. Entrambi fino ad ora sono andati incontro nella loro gestione del potere a fallimenti e devastazioni, a cominciare dalla orrenda guerra scatenata contro un altro minuscolo Paese arabo, lo Yemen, infinitamente più povero e vulnerabile del ricchissimo Qatar, dove gli effetti sconvolgenti della loro brama di onnipotenza hanno suscitato il ribrezzo di tutti, salvo ovviamente delle cancellerie occidentali .

In definitiva quel che emerge è che Mohammed bin Salman ed il suo mentore degli Emirati sono i veri artefici del blocco imposto a Qatar, avendo fatto precedere questa improvvida decisione da una lettera redatta da presunti discendenti di Abd al Wahab, cooptati da MBS per conferire una copertura in chiave religiosa ad una iniziativa diplomatica che invero a distanza di un anno si sta rivelando, come le altre assunte dall’autoritario rampollo reale, dannosa e priva di risultati.

Qatar è riuscito a sopravvivere non solo grazie all’unanime solidarietà mostrata dai suoi abitanti verso il loro emiro ma anche grazie agli apporti forniti in maniera impattante dal suo alleato strategico, la Turchia dell’islamista Erdogan, e dal finitimo Iran con il quale Doha, alla pari, come vedremo, di Kuwait ed Oman, ha sempre cercato di intrattenere rapporti dialoganti e collaborativi. E’ bene notare come una delle ragioni di questi rapporti risiede nel dettaglio, di macroscopica importanza, di essere il Qatar comproprietario con l’Iran del più grande giacimento offshore al mondo di gas naturale, denominato South Pars, sul quale la francese Total aveva da tempo appuntato le sue attenzioni prima che Donald Trump complicasse il suo miliardario business con la unilaterale decisione lo scorso maggio di uscire dall’accordo nucleare del 2015.

 

 

 

Scelte inique

      Tornando al Gulf Cooperation Council occorre ricordare che le relazioni tra il Regno saudita e l’Emirato di Qatar sono caratterizzate da contrasti e da mal celato malessere in essere da diverso tempo. Il culmine fu raggiunto nel marzo 2014 quando Riyadh, seguita dal fedele Bahrein e dagli Emirati arabi uniti, decise di richiamare il proprio ambasciatore a Doha. L’Arabia Saudita non ha mai sopportato lo spirito di indipendenza dell’Emirato, tratto che ha sempre contraddistinto la storia della dinastia al-Thani, fin dagli anni in cui gli Stati bagnati dal Golfo Persico, denominati sotto il protettorato britannico “Trucial States”,  aspiravano a scuotersi dalla tutela di Londra per recitare un loro autonomo ruolo nel quadro regionale.

Fu in quell’epoca che la dinastia regnante a Doha oppose un netto rifiuto alle richieste emananti dalla dinastia al-Nayan, dominante ad Abu Dhabi, di affiancare i sette Emirati arabi uniti (UAE), sottoposti oggi all’egemonia dei due clan al-Nayan e al-Makhtoun, governanti rispettivamente la capitale politica Abu Dhabi e la capitale economica Dubai. Qatar rifiutò di farne parte, preferendo darsi un corso indipendente ed alieno da condizionamenti e forme di tutela.

Da allora Qatar non è mai venuto meno a tale linea di condotta, traducendo nei fatti e nelle iniziative assunte i propri autonomi intendimenti. Simbolo di questa volontà d’indipendenza è dato dall’emittente al-Jazeera che occupa uno spazio importante nell’arricchimento formativo ed informativo dell’opinione pubblica araba; in ciò suscitando le ire ed il risentimento di case regnanti dove l’assolutismo politico e l’assoluto diniego di ogni forma di dissenso e di libero confronto di idee mantengono i sudditi in uno stato di asservimento fisico e culturale. L’apertura al capitale internazionale, particolarmente negli Emirati, coesiste con sistemi di dominazione e sfruttamento che non lasciano margini per una reale emancipazione culturale e politica delle masse arabe.

In effetti le politiche repressive adottate in Arabia saudita, a Bahrein e nei sette Emirati uniti (unione caratterizzata dallo squilibrio  a danno degli altri cinque membri dell’unione) sono oggetto da molto tempo della riprovazione di tutte le Organizzazioni umanitarie, in primis Amnesty International e Human Rights Watch, senza beninteso che questo abbia in una qualche maniera inciso sulle politiche adottate dall’Occidente nei confronti delle tre autocrazie del Golfo. Al contrario non solo gli Stati Uniti dell’imperioso e caotico Trump ma altresì la Gran Bretagna, storicamente vicina agli interessi della dinastia Saud, e, naturalmente, la Francia continuano ad appoggiare i loro partner prediletti ai quali solo generiche critiche vengono mosse riguardo a scelte sia di politica interna che estera dagli effetti innegabilmente destabilizzanti.

Per converso è l’Iran cui si continua a rimproverare politiche che in effetti non trovano riscontro nel passato storico di un Paese che negli ultimi duecento anni non ha mai aggredito entità sovrane, a differenza della sua nemesi saudita che in questo decennio ha invaso prima nel 2011 Bahrein per tutelare una casa regnante sunnita che opprime una larghissima fetta della maggioranza sciita della popolazione e poi, appena tre anni fa, ha ritenuto opportuno di scatenare una guerra di aggressione dalle apocalittiche conseguenze sul piano umanitario contro il finitimo poverissimo Yemen alle prese con una guerra civile dai tratti tutt’altro che settari, in ogni caso legati a problemi e dispute interni alla realtà yemenita.

D’altronde è da più di un secolo che le Potenze europee operano con risultati devastanti, perseguendo politiche che hanno seminato morte e distruzione in Medio Oriente e in larga parte del Nord Africa, militando quasi sempre dalla parte di chi ha interesse a mantenere sistemi di dominio inaccettabili, da cui discendono violenza ed una endemica instabilità, grazie ai quali prolifera l’estremismo jihadista che da essi trae linfa e sostegno.

Di ciò abbiamo ricorrente cruenta testimonianza, alla frontiera tra Gaza ed Israele, nell’oppressivo regno di Bahrein, nella stessa Arabia saudita, dove recentemente attiviste donne sono finite in galera per il semplice fatto di esternare un po’ troppo rumorosamente le loro idee relative al riconoscimento di diritti fondamentali e dove la minoranza sciita, abitante nelle Province Orientali, è sistematicamente vilipesa e ghettizzata,  in Giordania dove masse di uomini e donne sono scesi nelle strade per inveire contro le inique misure imposte alla monarchia hascemita dal Fondo monetario internazionale, in Libia dove vige una realtà senza controllo, in Egitto dove il dittatore al potere beneficia del supporto militare e politico di Stati Uniti e Francia, per finire nel più volte menzionato Yemen, sottoposto ai selvaggi bombardamenti sauditi e alle politiche di rapina e conquista degli Emirati arabi uniti nel sud del Paese; tutto perpetrato naturalmente con il fattivo supporto dell’Occidente, coerentemente in linea con quella che la pubblicistica anglosassone definisce “double standard politics”, la politica dei due pesi e delle due misure.

Allargando il discorso, ad ulteriore riprova di quanto esposto, come potremmo passare sotto silenzio la mai risolta ed ora più che mai irrisolta questione palestinese, l’aggressione contro lo Stato sovrano iracheno nel 2003, avallata dalle Nazioni unite grazie alla falsificazione di prove e documenti da parte americana, per terminare al demenziale attacco franco-britannico nel 2011 contro la Libia di Gheddafi, di puro stampo coloniale, realizzato attraverso la flagrante violazione di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con il quale non solo si è distrutta un’entità sovrana ma si sono create le condizioni per dirompenti conseguenze sul retroterra africano e sulla stessa Unione europea, ora insidiata persino nelle sue fondamenta dall’assalto di masse di disperati in fuga dalla spaventosa deriva in termini politici ed umani dispiegantesi nelle aree del Sahel africano?

Non vi è dunque da sorprendersi se attualmente ci si trovi di fronte ad una situazione contraddistinta dallo squallido more solito. Ma torniamo al Golfo Persico dove nuove tensioni, nuovi pericoli si prospettano per la pace e la stabilità dell’ordine internazionale.

 

Asimmetria strutturale del GCC

Quel che a nostro avviso appare un’anomalia del Gulf Cooperation Council è la disparità in termini di potenza e di proiezione esterna tra l’Arabia saudita da una parte e gli altri cinque membri dall’altra. Ciò determina inevitabilmente una divergente visione del sistema di relazioni all’interno dell’organizzazione da parte dei sei partner. L’inclinazione di Riyadh è sempre stata quella di concepire questo club di autocratiche monarchie più come un direttorio orientato verso le priorità dettate dalle esigenze di dominio del Regno wahabita che come una unione di Stati basata sulla paritaria considerazione delle rispettive aspirazioni. Esattamente l’opposto di quanto concepito ed auspicato da quattro degli altri cinque minuscoli membri, fatta eccezione per il vassallo Regno di Bahrein, la cui casa regnante, imparentata con la dinastia Saud, non ha mai ritenuto di smarcarsi dalle parole d’ordine saudite.

Importanti conseguenze non potevano non derivare da tale sbilanciato assetto. La più importante concerne il differenziato approccio nei confronti del divenire e dello sviluppo del Consiglio. Intendiamo riferirci alla resistenza sempre frapposta da Kuwait, Emirati arabi uniti, Qatar ed il Sultanato di Oman ad ogni progetto che mirasse ad una più incisiva integrazione del GCC nei vari campi, fossero essi attinenti ad una difesa comune o addirittura alla creazione di una moneta unica. Tale atteggiamento trovava principalmente la sua ragione d’essere nel timore nutrito dai minuscoli partner che attraverso un processo di integrazione l’Arabia saudita riuscisse a rendere irreversibile un sistema di dominio ritenuto inaccettabile.

In definitiva, mentre da parte dei quattro partner si è sempre vista con simpatia ogni iniziativa che comportasse dialogo e collaborazione tra le varie entità, per converso ogni disegno mirante ad uniformare politiche e strategie, assetti ed istituzioni, ha sempre incontrato una loro più o meno marcata opposizione.

La venuta dell’ambizioso ed autoritario Mohammed bin Salman ha sconvolto una prassi che sotto il profilo della sicurezza e degli interessi geopolitici dell’Occidente si è sempre per converso rivelata appagante. La volontà di dominio ora brutalmente manifestatasi, irresponsabilmente avallata dal caotico presidente USA, non poteva più tollerare l’esistenza di voci discordi, non fedelmente in linea con una visione saudita basata sulla irriducibile contrapposizione contro l’Iran sciita, con il quale ogni possibilità di negoziato deve inflessibilmente rimanere preclusa.

 

Frammentazione

Il risultato è stato una spaccatura in seno all’assetto regionale che molti analisti ritengono ormai irreversibile, alla luce dell’inconciliabilità dei rispettivi interessi. Tre schieramenti si sono formati tra i sei membri del Consiglio.

Innanzi tutto l’Arabia saudita ed i suoi due partner, allineati con Riyadh, seppur differenziati nel perseguimento di divergenti obiettivi e finalità: gli Emirati arabi uniti, dalle mire minacciosamente espansive, e Bahrein, asservito ai desideri della casa Saud, ora proteso in una politica, sempre più manifesta, di apertura verso Israele, verosimilmente promossa dai suoi due potenti finitimi alleati, bramosi di ufficializzare i loro rapporti con l’entità sionista. Tale triangolare alleanza considera l’Islam politico, di cui i Fratelli mussulmani sono l’espressione più evidente, un pericolo mortale alla stessa stregua dell’Iran sciita. Ciò trova la sua spiegazione nel fatto che sia lo sciismo nella sua versione iraniana sia il credo sunnita dei Fratelli mussulmani costituiscono agli occhi delle intolleranti ed oppressive dinastie al potere nei tre Stati un’insidia mortale, assolutamente inconciliabile con gli obiettivi perseguiti dalle tre case regnanti.

In effetti se osserviamo la realtà politica all’interno dei tre Paesi si è colpiti dalla ferocia dei sistemi repressivi adottati e dalle aberranti violazioni dei diritti umani. Questo vale in egual misura per tutte e tre le monarchie, anche se le conseguenze di tali oppressive politiche paiono più destabilizzanti in Arabia saudita dove il jihadismo militante trova terreno fertile in ambienti che non hanno mai cessato di contestare la legittimità del potere della Casa Saud. Recenti episodi di violenza contraddistinti da attacchi armati suonano conferma di covanti pericolose tensioni.

In ogni caso ogni velleità al loro interno di dar vita ad un dibattito o confronto politico genera risposte che si traducono o nella scomparsa fisica dei presunti oppositori o in detenzioni dove la tortura ed ogni altro tormento sono l’efferata quotidianità. Un semplice tweet, mal interpretato o giudicato irrispettoso della suscettibilità degli assoluti detentori del potere, comporta conseguenze a dir poco deplorevoli per il suo autore.

Di questo clima di efferata crudele intolleranza vengono a subire le tristi conseguenze anche quelle migliaia di cittadini del Qatar che per loro sventura vivono e risiedono nei tre Paesi in questione. Al punto che recentemente il governo di Doha ha deciso di adire gli organi competenti delle Nazioni unite per richiamare l’attenzione della comunità internazionale sul moltiplicarsi di prevaricazioni perpetrate da  quelle autorità ai danni dei suoi innocenti connazionali, colpevoli solo di detenere un passaporto rilasciato dall’odiato ex-partner del Golfo.

Sul fronte opposto vi è Qatar dove l’assolutismo della dinastia regnante di al-Thani trae paradossalmente forza e legittimità dall’ampio spazio concesso al pensiero politico islamico, alla diffusione e valorizzazione dei suoi principi, accompagnati dall’apertura al mondo esterno e dal contatto con altre culture. Il paradosso a dir la verità si ferma qui nel senso che in un Paese minuscolo come Qatar, dove la maggioranza della popolazione è composto da stranieri, il portare avanti politiche di apertura risulta certamente più agevole che in altre ben più complesse ed articolate realtà. Ciò non diminuisce beninteso l’intelligenza di scelte che si rivelano sempre più profittevoli in termini di consenso per la dinastia al-Thani.

L’emittente di al-Jazeera rappresenta lo strumento attraverso cui l’Emirato accresce e diffonde l’informazione e la conoscenza lato sensu nel mondo arabo. Fumo negli occhi per la summenzionata triade reazionaria che avverte in questo liberale approccio qatarino l’antitesi esatta di quello che biecamente viene posto in essere all’interno delle tre autocrazie. In effetti tra le condizioni assurde poste un anno fa a Qatar per evitare quella che ormai appare una definitiva rottura figurava per l’appunto la richiesta di sopprimere al-Jazeera, la cui voce ed il cui messaggio rappresentano un veleno da estirpare.

Il risultato è che ormai Qatar opera del tutto al di fuori della defunta GCC , paradossalmente perseguendo in politica estera lo stesso corso osservato dai suoi antagonisti regionali ovverossia il mantenimento di un solido rapporto di alleanza con gli Stati Uniti, rafforzato dalla circostanza tutt’altro che secondaria di ospitare nel proprio suolo la più grande base militare USA nella regione.

Il blocco imposto a Doha si è rivelato a tutt’oggi un completo fallimento. La prova è data non solo dal sostegno compatto di cui l’attuale emiro gode per l’azione ferma e coerente dispiegata per salvaguardare l’indipendenza e la dignità del Paese ma anche dal fatto che tale sostegno si manifesti attraverso una sorta di nazionalismo patriottico, sviluppo che in un’entità come Qatar sarebbe apparso inimmaginabile fino ad un tempo recente. Un “bel successo”, non c’è che dire, per il poco riflessivo principe saudita la cui tentazione di risolvere manu militari il problema cozza, purtroppo per lui, con la circostanza che migliaia di americani in divisa operano e sono presenti nel ricchissimo Emirato. E ciò, accompagnato dai ricorrenti inviti della Casa Bianca a reperire una soluzione diplomatica della crisi, costituisce di per sé la migliore garanzia di difesa per l’emiro Tamim bin Hamad al Thani.

Diverso appare il contesto riferito a Kuwait ed al Sultanato di Oman. Il primo ha sempre visto la propria membership del GCC come il male minore, dovendo venire a patti con la potenza egemone del club retta dalla detestata dinastia Saud. Perché questo? La risposta è data dagli eventi prodottisi dall’inizio degli anni ’90 quando il Kuwait fu invaso dall’Iraq di Saddam Hussein, evento che creò le condizioni per il primo attacco USA a quest’ultimo Paese, dando in tal modo inizio non solo all’operazione “Desert Storm” ma anche alla serie di malaugurate scelte che hanno contribuito agli sconvolgimenti cui assistiamo da anni in Medio Oriente. Il timore dell’anziano emiro al-Jabir al-Sabah, al potere dal 2006, e del suo defunto predecessore, entrambi membri di una famiglia governante il Koweit dal 1756, di subire atti aggressivi da parte del potente vicino iracheno ha costituito una delle ragioni fondamentali per cui Kuwait decise di aderire al GCC nel 1981. L’altra ragione è data da un altro non meno paventato timore, l’Iran, del quale parimenti si temono le mire aggressive, alimentate dalla circostanza di una cospicua comunità araba nel Paese di fede sciita. Una situazione che ricorda quella esistente nello Yemen ma che, per fortuna del piccolo emirato del Golfo, non ha prodotto gli apocalittici risultati di quella povera martirizzata entità destinataria da tre anni dell’insana volontà di dominio dei Saud.

Come avviene spesso nella vita tra due mali si è costretti a scegliere il male minore e questa situazione trova emblematica conferma nella proiezione diplomatica di Kuwait nel Golfo, sempre desideroso di trovare soluzioni ai frequenti contrasti di interessi, sempre disposto a mediare, a cercare di comporre discordie e contenziosi, ripristinando condizioni di pace.

 Esempio di come diversa appaia la realtà nel piccolo emirato è dato dal fatto che i Fratelli mussulmani, aborriti e perseguitati in Arabia saudita e negli Emirati arabi uniti, sono per converso colà riconosciuti, avendo tre loro rappresentanti nel Parlamento nazionale; un Parlamento beninteso dai limitati poteri ma pur sempre un luogo dove dibattiti e confronto di idee e di programmi hanno tumultuosamente luogo, come dimostrato dai sei scioglimenti di cui ha patito l’organo legislativo nell’ultimo decennio.  Ulteriore esempio è stato fornito dall’insensato blocco di Qatar, prodottosi un anno fa, che ha immediatamente dato vita ad una iniziativa di mediazione portata avanti con encomiabile determinazione dal quasi novantenne emiro al-Sabah, appoggiato nei suoi sforzi dagli Stati Uniti, protesi a rimediare i mali da loro stessi generati.

Come dimostrato dagli eventi succedutisi gli sforzi del Kuwait non hanno sortito gli effetti sperati ma ciò non ha affatto comportato un distacco dal potente alleato saudita del quale si continuano ad avallare tutte quelle iniziative ritenute a Kuwait non lesive della volontà dell’emiro al-Sabah di preservare quegli spazi di manovra indispensabili per una indipendenza che non sia in larga misura fittizia come quella di Bahrein.

Un quadro del tutto peculiare lo si riscontra a proposito del Sultanato di Oman, sempre tenutosi fuori dalle faide interarabe dei suoi cinque partner. Il suo reggitore, il sultano Qabous al Said, è il leader arabo più a lungo al potere in un Paese arabo, essendo alla guida del suo Paese dal lontano 1970. Oman è una realtà retta da un regime assoluto, al pari degli altri, ma le politiche poste in essere dal vetusto sultano, molto anziano ed in lotta con un terribile male, rispettato da tutti sul piano regionale ed internazionale, si sono sempre caratterizzate per moderazione e buon senso nelle scelte di politica estera e per una encomiabile considerazione della condizione di vita dei suoi sudditi, i primi a beneficiare del suo illuminato autoritarismo, come personalmente constatato dall’autore di queste note. In estrema sintesi si può affermare che il processo di modernizzazione nel quale l’entità omanita è coinvolta da qualche decennio non ha mai prodotto quegli effetti laceranti sul piano politico e sociale, riscontrabili in quella che abbiamo definito la triade reazionaria. L’apertura al capitale ed alla finanza internazionali non ha mai posto in discussione i principi del credo ibadita praticato nel Sultanato, branca dell’Islam più antica delle due più conosciute sunnita e sciita. L’ibadismo si rivela essere un culto austero ma tollerante, severo ma rispettoso delle altrui differenze. Un Islam dal volto umano, dove un grande rilievo è dato alla cultura ed al sapere, viene praticato nel Sultanato, sicuramente più vicino ai suoi valori di base e ben diverso da quello, fortemente degenerato, in essere nella sua versione wahabita oscurantista ed esclusivista, osservato nel finitimo spazio saudita.

Tale approccio basato sulla comprensione e sul dialogo lo ritroviamo nella politica estera omanita, la cui finalità essenziale è stata fin dall’inizio di tutelare una peculiarità fondata nella Storia e nella cultura politica e religiosa di un Paese, la cui collocazione geografica enfatizza il suo ruolo di “ponte” tra il Medio Oriente, l’Africa orientale e l’Asia meridionale.

Tradotto in termini concreti l’Oman ha sempre mantenuto rapporti di positiva collaborazione con l’Iran con il quale condivide la gestione del congestionato traffico navale attraverso lo Stretto di Hormuz, la porta d’ingresso del Golfo Persico, attraverso cui transita più del 40% del petrolio trasportato per via marina. Né si può dimenticare inoltre il ruolo svolto dall’Oman per facilitare i contatti segreti tra americani ed iraniani nel suolo omanita che portarono alla stipulazione dell’accordo nucleare del 2015; quello stesso accordo che Trump poche settimane fa ha unilateralmente ed illegalmente sotto il profilo giuridico abusivamente stracciato. 

Tutto questo ha inevitabilmente comportato decisioni importanti adottate da parte omanita,, come quella di rifiutare l’appoggio all’insana aggressione saudita e dell’UAE contro lo Yemen e, in segno di malcelata ostilità contro la triade reazionaria, quella di venire in aiuto di Qatar l’anno scorso, affiancando e sostenendo gli sforzi di mediazione di Kuwait, fornendo a Doha supporto e facilitazioni di ogni genere.

 

Conclusioni

Tutto lascia presagire come il Gulf Cooperation Council, nato e sviluppatosi all’indomani della rivoluzione islamica in Iran, baluardo degli interessi occidentali nella nevralgica regione, abbia ormai esaurito la sua funzione, fiaccato dalle dissennate scelte della Amministrazione Trump cui, come si è visto, hanno fatto seguito decisioni che comportano un obiettivo indebolimento del ruolo dell’Occidente nell’area in esame.

L’approccio tenuto dal Presidente USA nei confronti dei suoi interlocutori arabi si è rivelato fallimentare. Il fatto che appena due settimane dopo la sua visita una coalizione diretta dal suo principale interlocutore, l’Arabia saudita, abbia deciso di scardinare il fronte sunnita anti-iraniano, rompendo ogni relazione ed adottando misure punitive verso un Paese, come il Qatar, autentico caposaldo degli interessi americani nella regione, costituisce la prova di come la diplomazia USA  al momento si riveli scarsamente credibile ed avara di risultati.

Riesce soprattutto arduo comprendere la ratio di una politica i cui nefasti effetti hanno alimentato odi settari vecchi di secoli, rinfocolandoli in maniera dannosa ed irresponsabile.

Tutto questo appare tanto più assurdo quando si pensi alla decisione assunta lo scorso maggio dalla Casa Bianca di uscire unilateralmente dall’accordo nucleare con l’Iran, definito in maniera parossistica come “il peggiore trattato mai concluso dagli Stati Uniti”; affermazioni prive di senso, criticate dalla grande maggioranza degli ambienti internazionali, a cominciare da quelli europei.

L’unità tanto goffamente ricercata tra gli alleati arabi della regione è ora a pezzi mentre l’immagine e la credibilità stessa della politica estera USA sono messe seriamente in gioco. Al punto che quel che viene richiesto ed auspicato da Washington ai suoi interlocutori viene molto spesso semplicemente ignorato.

Esempio emblematico è rappresentato dagli sforzi prodigati dagli Stati Uniti di ricreare l’unità del fronte sunnita, favorendo ed appoggiando la mediazione di Kuwait. La voce del potente Trump, trasmessa dai vari emissari USA inviati nelle capitali interessate, non solo non è stata ascoltata ma ha prodotto l’effetto di inasprire le misure che i tre regimi autocratici del Golfo intenderebbero adottare contro Qatar, volte ad accrescere il suo isolamento, facendo venir meno l’unica frontiera terrestre dell’Emirato, quella con l’Arabia saudita. Misure destinate anch’esse a fallire, le cui conseguenze comporteranno  un aggravamento delle tensioni ed un accrescimento dei rischi che prima o poi si possa giungere ad un punto fatale di non ritorno.

Nel frattempo il governo saudita ed il suo principale partner, gli Emirati arabi uniti del bellicoso ed autoritario erede al trono Mohammed bin Zayed al Nayan, hanno ritenuto opportuno dar vita ad una alleanza esclusiva, ulteriore colpo al GCC, ormai privo di sostanza e significato.

L’organismo regionale creato dal re saudita Khalid bin Abdulaziz al Saud  poco meno di quarant’anni fa non è più ora che un luogo contraddistinto da astio e diffidenze, dove si possono ben misurare i fallimenti di una politica condotta oltre-Atlantico senza alcuna conoscenza e considerazione delle peculiarità di una regione ricca di millenni di Storia.

Solo riconoscendo tali aspetti potranno un giorno attenuarsi le tensioni e le guerre che insanguinano da più di un secolo le terre d’Islam.

Peraltro simili speranze al momento sembrano ridursi invece che rafforzarsi mentre la volontà di dominio e l’arrogante ignoranza continuano ad essere i tratti dominanti, con le temute conseguenze che tutto ciò potrebbe un giorno comportare.