Le illusioni di Netanyahu

27 aprile 2018

 

 

Premessa

   Lo scorso 18 aprile si è celebrata in Israele una ricorrenza, denominata il “Giorno della Memoria” (Rimembrance Day), di alto significato simbolico, tragica per gli uni, i Palestinesi, sottoposti da settant’anni a forme di assoggettamento coloniale, per converso vibrante ed intensamente vissuta per tutti coloro orgogliosi di appartenere ad una terra che, seppur non la loro, da settant’anni  lo è diventata, in maniera cruenta e tutt’altro che indolore; un foyer finalmente trovato dopo secoli di astio ed emarginazione subiti dagli ebrei nella vecchia Europa

L’occasione è stata propizia per il Primo Ministro Benjamin Netanyahu di svolgere la parte di prim’attore, esaltando i “progressi” conseguiti nell’affermazione di Israele come Potenza temuta e rispettata nella sua regione di appartenenza e nell’arengo internazionale.

 Netanyahu nell’occasione non si è fermato qui, asserendo con perentoria sicurezza che lo Stato ebraico ha sempre operato “inflessibilmente” nella direzione di un “mondo migliore” e di una società fondata sui “valori”. Un Paese come Israele, secondo il leader israeliano, “è inoltre in grado di percepire i segnali innovativi” presenti nel quadro regionale ed internazionale.

Prima di evidenziare a quali segnali innovativi il leader israeliano abbia inteso alludere, riterrei utile accennare brevemente a quello che ho definito l’alto significato simbolico della ricorrenza. Esso è legato a quel che è accaduto  il 18 aprile di settant’anni fa, nel 1948, quando lo Stato di Israele è diventato entità sovrana, assurto a tale storica soglia beneficiando degli apporti fornitigli dal colonialismo britannico nel ventennio intercorso tra il primo ed il secondo conflitto mondiale, grazie al mandato conferito al Regno Unito dalla Società delle Nazioni all’inizio degli anni venti. Londra operò alacremente in quel periodo per la messa in opera dell’apparato repressivo sionista. In effetti quel ventennio fu contrassegnato da una spietata repressione perpetrata dagli inglesi contro le masse palestinesi della quale a tutt’oggi si ha un evidente scarso interesse a parlare. In ogni caso l’apparato repressivo sionista vide la luce in quegli anni e da quelle sinistre sinergie ha tratto la forza e la brutale efficienza che esso ha dispiegato fino ai nostri giorni.

Tutto ciò creò le condizioni per quella che gli arabi hanno chiamato, con termine altamente significativo,  “Nakba” (catastrofe), culminata per l’appunto in quel mese di aprile 1948, osannato dagli uni e esecrato dagli altri. 750.000 palestinesi furono cacciati dalle terre dove vivevano da secoli, andando a riempire i campi profughi da allora esistenti in molti Paesi della regione, Libano, Giordania, Siria, Iraq, Turchia e via dicendo. Una vera tragedia perpetuatasi nei decenni successivi attraverso guerre scatenate dall’entità sionista, con ricorrenti flagranti violazioni della legalità internazionale, rimaste sistematicamente impunite, e che al giorno d’oggi non mostra assolutamente alcuna via d’uscita, anzi un suo costante peggioramento caratterizzato da una esasperazione delle tensioni e da un ciclo di violenza apparentemente inarrestabile.

Gli sforzi della diplomazia internazionale e le ripetute risoluzioni, in teoria vincolanti, del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, di condanna dell’operato di Israele, non hanno portato a nulla, permettendo a Tel Aviv di consolidare ed estendere il suo dominio, beneficiando della complicità dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti.

Questo è in estrema sintesi il retroterra del 70° anniversario della nascita di Israele la cui attuale politica di sistematica espansione ed occupazione degli spazi palestinesi, che gode ora, più di prima, dell’aperto biasimevole sostegno della Amministrazione USA,  non ha per converso fiaccato l’indomita volontà palestinese di continuare la lotta contro un sistema di abusi e prevaricazione che storicamente appare come la filiazione diretta del colonialismo  europeo in Medio Oriente. Quel colonialismo è biecamente e ciecamente riapparso con la demenziale e criminale aggressione alla Libia di Gheddafi perpetrata nel 2011 da Francia e Regno Unito, le cui devastanti destabilizzanti conseguenze hanno colpito anche il nostro Paese.

 

Illusioni e contraddizioni

Tornando al discorso iniziale, vediamo qual è il contesto concreto al quale Netanyahu fa riferimento. Società fondata sui “valori” e sulle “innovazioni”? E’ veramente così? “Un mondo migliore” al quale Israele aspira? In tale ambito, di grazia, cosa dire dei milioni di palestinesi prigionieri negli angusti spazi di Gaza, ai quali Israele, con la complicità dell’autocratico leader dell’Autorità Palestinese, Mohammed Abbas, nega l’uso di elettricità, acqua ed assistenza medica? Costretti a marcire nel più grande campo di concentramento a cielo aperto, come è stato definito dalle Nazioni Unite? Senza alcuna speranza, almeno fino ad ora, di quel “mondo migliore” del quale il corrotto leader israeliano parla, in una malsana manifestazione di malafede? Cosa dire inoltre di tutti coloro in Israele che, per ragioni di razza, credo politico o religione, non condividono la mantra dominante, subendone le tristi conseguenze in termini di esclusione e anche privazione dei loro diritti? Membri della minoranza araba, quasi il 20% della popolazione, attivisti dei diritti umani, rifugiati politici, militanti di sinistra? Stento a pensare che ai loro occhi la loro vita possa apparire come lo specchio di un mondo migliore, di una società fondata sul rispetto dei “valori”.

E che dire delle “innovazioni”?  Delle nuove linee di tendenza percepite dal leader israeliano nello spazio medio-orientale che gli fanno intravvedere confortanti sviluppi per il divenire dell’entità sionista, alle quali egli ha fatto pomposo riferimento nelle retoriche celebrative allocuzioni pronunciate lo scorso 18 aprile? Non è difficile comprendere a cosa Netanyahu alluda. In primis il nuovo corso in essere in Arabia saudita dove Mohammed bin Salman, l’ambizioso e velleitario figlio del sovrano, di fatto per molti versi il decisore effettivo del Regno, opera per una ristrutturazione dell’economia ed una modernizzazione dei costumi non disgiunte, ahimé, da un rafforzamento della natura autoritaria e settaria del regime: tradotto in termini più trasparenti una feroce repressione di ogni dissenso politico ed un’implacabile contrapposizione all’Iran, visto come il nemico mortale nella regione per gli interessi dinastici della casa regnante Saud.

L’auspicio di Netanyahu è che questo nuovo corso saudita, ovviamente sospinto dall’irresponsabile conduzione politica di Donald Trump, inflessibilmente allineato sulle posizioni dell’estrema destra israeliana, come confermato dalla decisione di trasferire la sede dell’Ambasciata USA a Gerusalemme, possa facilitare una prospettiva di pace con i palestinesi basata sull’accettazione dell’occupazione sionista dei territori arabi, evirando di fatto qualsiasi concreta aspirazione palestinese di poter vivere un giorno in uno Stato indipendente e non sottoposto all’inumano dominio della Potenza occupante.

Prospettiva invero allettante per l’uomo forte di Tel Aviv, seppur in evidente contraddizione con altrettanti sviluppi, prodottisi negli stessi giorni sia sul terreno di lotta alla frontiera tra Gaza e Israele sia sul piano diplomatico nella sede di Dhahran, nell’est del Regno saudita, sviluppi forse meno “innovativi” di quelli cari a Netanyahu ed al suo alleato d’oltre-Atlantico, ma sicuramente di rilevante portata.

Il primo dei due riguarda il riaccendersi alla frontiera di Gaza con Israele della protesta contro l’occupante sionista per riaffermare con forza, pagando l’inevitabile tributo di sangue, il “Diritto al Ritorno”, a distanza per l’appunto di settant’anni dalla Nakba quando più di settecentomila palestinesi furono cacciati dalla loro terra per andare a vivere una vita senza speranza nei campi profughi allestiti nei Paesi della regione. La ricorrenza di settant’anni riguarda dunque anche la “Catastrofe”, che non sarà mai cancellata dalla memoria del popolo palestinese e per la quale l’esplosione di rabbia alla frontiera di Gaza, ormai in essere da più di un mese. costituisce ulteriore prova della determinazione di portare avanti la lotta per quel diritto inalienabile.

Che Netanyahu si ricreda dunque. Sotto il profilo della volontà di un popolo martire di continuare la Resistenza a chi continua a negare la vita, non vi è nessuna novità. In queste settimane a Gaza in occasione di ogni venerdì fino alla fatidica data del 15 maggio, il giorno della “Catastrofe”, uomini, donne e giovani, persino infanti (il fuoco dei cecchini israeliani non risparmia nessuno!) continueranno a far sentire la loro protesta e a morire per affermare che la terra occupata appartiene sempre a chi è stato iniquamente cacciato da essa settant’anni orsono. Questo avviene come solenne smentita delle affermazioni, ipocrite e insultanti, emananti dal leader sionista concernenti gli obiettivi della politica israeliana volti a creare “un mondo migliore fondato sui valori”. Al contrario ci si avvia verso un mondo dove la violenza ed il risentimento accumulatisi nei decenni passati esploderanno con crescente forza a causa della progressiva chiusura di ogni canale di mediazione politico-diplomatica nel quale continuare a sperare. Questa è la realtà nuda e cruda del momento assai preoccupante che stiamo vivendo.

 

Il summit arabo di Dahran

Il vertice della Lega Araba, nella sua 29esima edizione, svoltosi a Dahran, importante agglomerato della turbolenta “Eastern Province” a maggioranza sciita, è l’altro evento dal quale Netanyahu ha subito un’altra cocente smentita alle sue “innovanti” esternazioni. Un evento largamente ignorato dai media israeliani ed in larga misura occidentali, nonostante esso avesse luogo in un contesto infuocato come quello siriano dove, tra le varie minacce esistenti, incombe il pericolo di uno scontro diretto tra l’Iran ed Israele. Uno scontro invero poco desiderato dalle due parti ma dove la spinta antagonistica e la virulenza degli interessi contrapposti potrebbero prevaricare i timori che Tel Aviv e Teheran comprensibilmente provano per uno “showdown” dalle conseguenze imprevedibili.

Nel corso dell’importante assise, emblematicamente definita “il summit di Gerusalemme” (Al-Quds  Summit), il sovrano saudita Salman bin Abdulaziz al Saud ha tenuto la sua allocuzione, in presenza delle altre sedici delegazioni arabe,  significativamente alcune ore dopo che il leader israeliano, inebriato dalle celebrazioni del “Remembrance Day”, pronunciasse quelle mal auguranti esternazioni.

A tal proposito riterrei opportuno riportare un brano di quel discorso che a mio modo di vedere fornisce un’idea sufficientemente chiara di come illusorie si rivelino essere le deliranti valutazioni di Netanyahu:

 

 “ La causa  palestinese  resta la nostra assoluta priorità e così sarà finché

   il popolo Palestinese non si vedrà riconosciuti i suoi legittimi diritti, in

   particolare la creazione di uno Stato indipendente con Gerusalemme-

   est sua capitale”.

 

E’ bene notare come questo discorso fosse pronunciato nel momento in cui  la stampa israeliana si perdeva in effluvi di compiacimento per l’eccellente stato dei rapporti tra Tel Aviv e Riyadh, giungendo da parte di alcuni editoriali a parlare di un “love affair” (sic!) tra i due Governi. Una “relazione d’amore” basata naturalmente sul condiviso sentimento di implacabile ostilità verso un comune nemico, la Repubblica islamica d’Iran.

L’allocuzione del sovrano saudita non è stato l’unico momento in cui a Dahran si sia ritenuto opportuno di riconfermare i succitati irrinunciabili traguardi. Nello stesso comunicato finale redatto al termine dei lavori, mentre in Israele si celebrava il 70mo anniversario di un devastante atto di sopruso ai danni di un popolo inerme, si metteva bene in chiaro quanto segue:

 

“Noi riconfermiamo che la Causa Palestinese (le consonanti maiuscole

 non sono mie) è la principale priorità dell’intera nazione araba, nel

 senso di una riaffermazione dell’identità araba di Gerusalemme Est,

 attualmente occupata,  capitale dello Stato della Palestina”.

 

Messaggio molto chiaro ma corredato di un’ulteriore significativa precisazione riguardante la decisione USA di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Tale decisione viene giudicata “illegale” nel testo sì da giustificare il rifiuto dei 17 Paesi membri di accettarla, ritenendo nel contempo opportuna “l’accettazione unilaterale” di una decisione volta a riconoscere Gerusalemme est quale capitale di un futuro Stato palestinese. Ogni decisione israeliana in senso contrario viene considerata dai Paesi arabi priva di ogni rilevanza giuridica e si invita la comunità internazionale a prendere le opportune contromisure “contro le violazioni perpetrate da Israele ed i comportamenti arbitrari che hanno colpito il luogo sacro di Al-Aqsa e contro le esazioni commesse contro i credenti”.

Leggendo questo solenne testo riesce arduo comprendere come il populista Netanyahu si senta autorizzato a parlare di un “cambiamento nel mondo arabo”. La causa palestinese rimane il fondamento della politica araba e in realtà la posizione dei 17 Stati arabi appare immutata nella sostanza e nella sua formulazione. Tant’è vero che alla fine del comunicato conclusivo si ribadisce con chiarezza che la famosa “Arab Initiative”, elaborata nel 2002 dal defunto sovrano saudita Abdullah al Saud ed approvata da tutta la comunità islamica, contemplante uno Stato palestinese indipendente entro i confini esistenti prima del conflitto del 1967 in cambio del riconoscimento di Israele come Stato sovrano, rimane a tutt’oggi il punto fermo da cui partire per una equa soluzione della questione palestinese. Abbiamo parlato di “comunità islamica” dato che l’iniziativa saudita ha beneficiato e tuttora beneficia del sostegno anche dei 57 Paesi membri della Organizzazione della Cooperazione islamica, “la voce collettiva di 1.6 miliardi di adepti della religione del Profeta nel mondo”.

 

Conclusione

Questa è la ragione per cui riteniamo che il leader israeliano si sia lasciato prendere da un eccesso di ebbrezza populistica in occasione del suo discorso in occasione del “Rimembrance Day”, apparso piuttosto in distonia con la realtà dei fatti.

Le posizioni assunte dall’irriflessivo figlio del sovrano Mohammed bin Salman che potevano far presagire una sorta di aperta riconciliazione con lo Stato ebraico escono platealmente smentite dall’ultima riunione della Lega araba. Il suo anziano genitore ha tenuto a correggere in maniera evidente le intemperanze diplomatiche del figlio, finora in grado di registrare solo fallimenti nelle politiche adottate sul piano domestico e regionale, cogliendo l’occasione di un incontro di tale importanza per farlo.

Ma altre ragioni forse sussistono dietro ad una riaffermazione delle “red lines” arabe, prodottasi non casualmente in coincidenza delle celebrazioni israeliane.

La prima è probabilmente data dalla crescente consapevolezza presso i sauditi che quello che offre Trump non ripaga dell’appoggio che Riyadh dovrebbe fornire agli USA soprattutto nella crisi siriana. Si avrà occasione di ritornare più in dettaglio sul tema ma l’idea esternata dall’uomo forte della Casa Bianca di creare una forza di pace araba in Siria appare una sorta di regalo avvelenato se si considera il carattere approssimativo della proposta che prescinde incredibilmente sia da un contesto siriano dove i primi attori sono tutti esterni al mondo arabo (Russia, Iran e Turchia) e dove ancora consistente è la presenza jihadista nelle sue frange più estreme  sia dalla crisi profonda che tuttora affligge l’Organizzazione dei Paesi del Golfo (GCC) dove la spaccatura vistosa con Qatar, altro “capolavoro diplomatico” di Mohammed bin Salman, è lungi dall’essersi riassorbita; al punto che gli Stati Uniti stanno esercitando pressioni piuttosto pesanti perché essa abbia fine.

Si possono quindi comprendere le perplessità saudite in proposito di fronte alla superficialità ed improvvisazione di una strategia americana indegna di tale nome.

Una seconda ragione è sicuramente data dal tributo di sangue che si registra ogni settimana alla frontiera di Gaza con Israele, il modo infame e criminale con il quale giovani vite vengono stroncate da cecchini israeliani che, sotto gli occhi del mondo, trovano poi il modo di esultare ogni volta che un bersaglio umano, anche di  infanti quindicenni, viene mortalmente colpito. Sono scene di orrore quelle che avvengono a Gaza e il mondo arabo non può più far finta di non vedere, non può più dar prova di cinica indifferenza di fronte a tale scempio, che offende la coscienza civile del mondo.

Una terza ragione infine è data dal dover costatare il riprovevole operato di Israele che di fatto, con la complicità americana, ha boicottato gli sforzi protesi da alcuni Paesi arabi, in primis l’Egitto e la Giordania, perché finalmente si ponga progressivamente fine alla faida, ormai decennale, che divide le due organizzazioni rivali della Resistenza contro la Potenza occupante, Hamas e Fatah, fazione dominante in seno alla Autorità Palestinese, causa di cronica debolezza e di scarsa credibilità dello schieramento politico palestinese. La delusione e la frustrazione provate nelle capitali arabe di fronte alla protervia di Tel Aviv nei confronti di  quella che al Cairo si reputava l’occasione migliore, ancora una volta fallita, per riportare la concordia nel fronte palestinese, grazie anche alle aperture della leadership di Hamas di accedere alle proposte in tal senso emananti dai Paesi della regione, sono state immense, temperate soltanto dalla consapevolezza di poter incidere ben poco, vista la debolezza della controparte araba, su atteggiamenti dettati dalla volontà di dominio di un governo israeliano dove le formazioni dell’estrema destra sionista sono ben presenti e condizionanti.

Non si può dunque non concludere che, in un contesto devastato come quello sopra descritto, le posizioni ferme e inequivocabili  assunte dall’ultimo vertice della Lega araba sono apparse l’unica reazione che si poteva attendere da governi consapevoli di come le vie del dialogo e del negoziato divengano sempre più impervie ed impraticabili. Di tale improvvida involuzione il mondo arabo sta prendendo coscienza.

 

Angelo Travaglini, ex diplomatico, membro del Comitato Scientifico del CIVG