SILK ROAD NOTIZIE – MARZO 2018

 

Una comunità di futuro condiviso per tutta l’umanità

 

A cura di Zivadin Jovanovic, Presidente del Forum di Belgrado per un Mondo di Eguali

La Cina, la seconda economia più forte del mondo, è diventata la guida e il fattore centrale per la costruzione di un nuovo mondo multipolare basato sui principi di sovrana eguaglianza, integrità territoriale, libertà di scelta in politica interna e non-ingerenza. L’economia, la politica e la forza morale della Cina, la sua strategia di pace e dialogo di fronte a problemi e sfide, la sua devozione alla causa delle eque opportunità e della prosperità diffusa, la rendono un partner politico desiderabile e affidabile. I popoli che anelano alla pace e ad una vita migliore sono il punto di riferimento centrale della politica interna ed estera cinese.

I risultati ottenuti dalla Cina nel campo dello sviluppo non hanno precedenti a livello mondiale. Il PIL cinese negli ultimi 5 anni è cresciuto ad un tasso medio annuale del 7.2%, il più elevato di qualsiasi altro paese. Oltre ad aver assicurato un generale ammodernamento e una migliore qualità della vita al proprio popolo, allo stesso tempo la Cina ha investito enormi energie e risorse nel supporto allo sviluppo di altri paesi, in particolare quelli meno sviluppati. Durante la crisi del 2008-2012, la Cina ha intrapreso importanti iniziative e si è assunta la responsabilità di supportare l’economia mondiale, sia attraverso le Nazioni Unite, sia attraverso il G-20 e varie altre organizzazioni finanziarie e regionali. La Cina non è mai stata un semplice osservatore esterno delle disgrazie economiche o umanitarie degli altri paesi, ma piuttosto un partner solidale e aperto alla cooperazione nei momenti di maggiore difficoltà. Sullo sfondo, la convinzione che nessuno su questo pianeta possa bastare a se stesso, che ciascuno di noi appartiene alla stessa comunità umana. Vi è quindi la necessità, specialmente nell’era della globalizzazione, di mantenere e rafforzare interdipendenza e apertura.

Implementando le politiche di riforma e apertura la Cina ha al tempo stesso contribuito alla crescita dell’economia globale per più del 30%, più di Stati Uniti, Euro Zona e Giappone messi assieme. Lo sviluppo economico della Cina ha contribuito ad alleviare in modo sostanziale la povertà e le differenze nello sviluppo fra le diverse regioni del paese, prestando attenzione alle aspirazioni del popolo cinese ad una vita migliore. Questa esperienza si è proiettata a livello globale, costituendo un freno all’ulteriore aggravarsi del divario socio-economico fra ciò che viene convenzionalmente definito ‘Nord’ e ‘Sud’ del mondo.

La Belt and Road Initiative (BRI), storica proposta lanciata dal Presidente Xi Jinping nel 2013, è stata accolta e supportata in tutto il mondo come un nuovo modello di crescita economica, multidimensionale, globale, equa, inclusiva e stabile. Più di 100 paesi e organizzazioni internazionali hanno da subito contribuito alla sua implementazione, ma il numero di aderenti è in continua crescita.

I grandiosi risultati pratici ottenuti dalla BRI nel campo delle infrastrutture, dell’industria, del commercio, dell’energia e in altri settori, hanno dimostrato che questa è la strategia di lungo termine più appropriata per costruire una “comunità di destino condiviso per l’umanità”.

Questi e altri simili messaggi sono stati inseriti, su iniziativa della Cina, in molti documenti strategici delle Nazioni Unite, inclusa la risoluzione n. 55 della Commissione ONU per lo Sviluppo Sociale (UN Commission for Social Development, CSocD) del 2017. Oltre ad essere globale, multidimensionale e inclusiva, la BRI, comparata ad altre forme di integrazione, abbraccia il tema dell’amicizia fra i popoli, attribuendo a questo aspetto una ruolo essenziale.

Nel suo discorso al summit internazionale sulla BRI tenuto nel maggio 2017, il Presidente Xi Jinping afferra la realtà della globalizzazione e le opportunità di pace e miglioramento della qualità della vita: “In questo mondo sempre più multipolare, globalizzato, digitalizzato e culturalmente diversificato, la tendenza verso la pace e lo sviluppo è divenuta più forte e le riforme e l’innovazione guadagnano spazio. Mai abbiamo assistito ad una così stretta interdipendenza fra paesi e ad un così fervente desiderio di miglioramento della qualità della vita, e mai abbiamo avuto così tanti validi motivi per superare le difficoltà”.

Con un approccio così chiaro e positivo al presente, al futuro e alle aspirazioni dei popoli ad una vita migliore, è naturale che la strategia del Presidente Xi Jinping abbia ottenuto un così ampio supporto, in Cina come all’estero. Xi Jinping è pienamente cosciente del crescente divario fra ricchi e poveri, e insiste affinché esso si riduca. La recente ricerca di un team di scienziati internazionali, incluso il rinomato economista francese Thomas Pickett, mostra che l’1% dei più ricchi possiede più del doppio del 50% delle persone più povere del mondo. Ciò non è chiaramente tollerabile. Innanzitutto perchè tutto ciò è incompatibile con gli standard minimi di umanità, cultura e civiltà. Secondariamente, poiché tale situazione può diventare un terreno fertile per lo sviluppo di estremismi, terrorismo e di diversi tipi di disagio sociale. È logico concludere che la comunità globale si trovi di fronte alla necessità di esplorare nuove vie per fermare l’aggravarsi del divario socio-economico, prima che sia troppo tardi. Non c’è dubbio che importanti azioni finanziarie siano necessarie per garantire questo genere di assistenza umanitaria, nell’ambito di una governance innovativa dell’economia mondiale. In particolare, un aspetto di questa strategia non deve mai essere dimenticato, ovvero l’insistenza sullo sviluppo aperto, inclusivo e bilanciato, col debito supporto delle istituzioni finanziarie internazionali e dei singoli governi. Un tema che è già effettivamente messo in pratica nel quadro della BRI.

Appellarsi al protezionismo, all’isolazionismo, all’unilateralismo e all’egoismo significa disconoscere la realtà dei processi economici globali e l’interdipendenza fra stati e nazioni, e non saper individuare la via corretta per lo sviluppo del proprio paese. Bisogna inoltre comprendere che la BRI è un progetto di sviluppo globale e aperto, e che qualsiasi approccio o ragionamento strettamente geopolitico perderebbe di vista il senso reale dell’iniziativa.

Le caratteristiche della BRI

  • Uguaglianza, apertura, inclusività al posto del protezionismo
  • Mutuo beneficio, cooperazione di tipo ‘win-win’
  • Rispetto reciproco, non-ingerenza negli affari interni degli stati
  • Rispetto dei più alti standard tecnologici ed ecologici
  • Rispetto delle realtà e delle priorità dei paesi coinvolti
  • Coordinamento politico al posto dell’unilateralismo
  • Rispetto delle leggi e dei regolamenti nazionali e internazionali
  • Compatibilità con gli accordi fra Europa e Cina, con gli standard europei e con gli obblighi dei paesi membri dell’Unione Europea

L’aderenza a questi principi rende la cooperazione nell’ambito della BRI diversa dalle altre forme di cooperazione e integrazione economica. La conformità a questi principi ha suscitato crescente interesse, iniziative e supporto da parte dei paesi partecipanti scoprendo così nuovi potenziali sinergie per future collaborazioni non soltanto fra i 16 paesi dell’Europa centrale ed orientale (16 CEE) e la Cina, ma anche fra gli stessi paesi CEE e tutti gli altri paesi coinvolti nella BRI.

L’inserimento della BRI nello Statuto del Partito Comunista Cinese in occasione del suo 19° Congresso è stato accolto come una decisione molto importante e significativa, che ha confermato la BRI come progetto di lungo termine globale e multidimensionale, e ha trasmesso un messaggio di incoraggiamento ai paesi partecipanti così come ad altri potenziali membri.

La Cina, sia da sola che in cooperazione con altri partner, ha stabilito nuove istituzioni di grande importanza per la governance internazionale nell’era di un ordine mondiale di tipo multipolare: il Fondo per la Pace e lo Sviluppo Cina-ONU (China-UN Peace Development Fund), il Fondo per la Cooperazione Sud-Sud per i Cambiamenti Climatici (China South-South Cooperation Fund on Climate Change), il Fondo di Assistenza Sud-Sud (South-South Cooperation Assistance Fund), il Fondo per la Via della Seta (Silk Road Fund), la Banca Asiatica per gli Investimenti e le Infrastrutture (Asian Infrastructure Investment Bank). La Cina è fra i primi paesi ad aver adottato un piano nazionale dedicato all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Sostenibile. Inoltre la Cina, in cooperazione con altri membri dei BRICS, ha istituito la Nuova Banca dello Sviluppo (New Development Bank). Tutto ciò conferma l’impegno cinese per la governance globale e la ferma intenzione a mantenere le proprie responsabilità di grande paese.

Negli ultimi quattro anni da quando la BRI è diventata realtà, molte infrastrutture transfrontaliere di importanza strategica sono state costruite, specialmente per l’integrazione euroasiatica. La Cina e molti paesi asiatici lungo la Nuova Via della Seta sono stati connessi con l’Europa tramite numerosi corridoi, ferrovie, vie marine e nuove linee aeree. Treni cargo regolarmente funzionanti partono dalla Cina per raggiungere Germania, Polonia, Francia e altri paesi dell’Europa occidentale. Linee espresso via terra e via mare stanno mettendo in comunicazione i più grandi porti cinesi con il cuore dell’Europa, attraverso il porto greco del Pireo e da qui via treno attraverso la FYROM, la Serbia, l’Ungheria, l’Europa centrale e occidentale. Nel biennio 2014-2016, l’ammontare complessivo dei traffici commerciali fra Cina e paesi della Belt and Road ha raggiunto la cifra di oltre 3 mila miliardi di dollari. Gli investimenti cinesi in questi paesi eccedono i 50 miliardi di dollari. In 20 paesi le compagnie cinesi hanno stabilito 56 parchi industriali e aree economiche, impiegando oltre 180.000 lavoratori e generando entrate fiscali per oltre 1.1 miliardi di dollari.

Una coppia di motori

Cina e Unione Europa sono partner strategici cooperanti su tematiche bilaterali e internazionali nell’ambito del quadro congiunto delineato nell’Agenda Strategica per la Cooperazione Unione Europea-Cina 2020. I tre pilastri della loro cooperazione sono: 1) politiche strategiche; 2) economia e commercio; 3) scambi fra popoli. L’Europa rappresenta il più importante partner commerciale della Cina, e la Cina a sua volta è il secondo partner commerciale per l’Europa. Nel 2014 l’Unione Europea ha importato 302 miliardi di euro di beni dalla Cina e ha esportato 164 miliardi di beni verso la Cina. Gli scambi di servizi nello stesso anno hanno raggiunto i 50 miliardi di euro.

Durante la sua visita in Europa nel 2014, il Presidente Xi Jinping ha affermato che la Cina vorrebbe cooperare con l’Europa al fine di integrare i mercati europeo e asiatico, rendendo Cina ed Europa i due motori della crescita economica globale. Come ha evidenziato il Presidente della Commissione Europea Jean Claude Junker, l’Europa può trarre beneficio dall’interazione con la Cina nel quadro della BRI.

La Cina ha definito tre potenziali aree prioritarie per la cooperazione economica, ovvero infrastrutture, alta tecnologia e tecnologie verdi, tutte facenti parte anche della strategia dell’Unione Europea.

A scala globale vi è la necessità di una ancor più intensa cooperazione fra Europa e Cina per cercare soluzioni appropriate su temi come il lento recupero dell’economia globale, la crescente disoccupazione, il terrorismo internazionale, il riscaldamento globale etc.

Il piano di cooperazione 16+1 è stato sin dall’inizio assolutamente compatibile con la cooperazione fra Cina ed Europa. Tale compatibilità è parte essenziale del piano 16+1, e garantisce che sia la cooperazione fra Cina ed Europa nel suo complesso, sia quella fra Cina e paesi aderenti al piano 16+1, possano progredire sul lungo termine.

La compatibilità, compresa quella con gli obblighi previsti per ciascun paese europeo nei confronti dell’Unione, è anche la precondizione affinché dalle strategie di cooperazione possano emergere nuove sinergie in grado di rafforzare ciascun progetto. Fra i 16 paesi dell’Europa centrale e orientale coinvolti nel piano 16+1, 11 sono membri dell’Unione Europea mentre 5 sono, formalmente o di fatto, candidati a diventarne membri (Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Montenegro e Serbia).

Se i paesi membri dell’UE sono chiaramente tenuti a osservarne le leggi, i candidati membri non sono legalmente vincolati all’Unione, sebbene in linea di principio siano interessati a intraprendere negoziati per entrarne a far parte. Inoltre, aldilà di ogni obbligo formale, è ovviamente nel loro interesse osservare gli standard europei in economia, commercio, sicurezza alimentare, protezione dell’ambiente ed energie rinnovabili, etc.

È importante notare che ciascuna delle cinque linee guida per la cooperazione fra Cina e paesi dell’Europa centrale e orientale (Bucarest, Belgrado, Suzhou, Riga, Budapest) pone la massima attenzione al rispetto delle leggi europee, dei regolamenti e delle obbligazioni dei paesi membri dell’Unione Europea. Infatti, tutti i partecipanti al programma 16+1 puntano alla creazione di sinergie fra la Belt and Road Initiative, il programma 16+1 e i piani, le agende e gli obiettivi europei. Un approccio aperto e costruttivo è chiaramente riaffermato nelle linee guida di Suzhou, in cui si legge che i partecipanti “accolgono e supportano l’importante accordo fra i leader della Cina e dell’Unione Europea sullo stabilimento della piattaforma di connettività Cina-UE, così come sullo sviluppo di sinergie fra Belt and Road Initiative cinese e  piano di investimenti europei, oltre che sul programma di cooperazione 16+1”.

Né la Cina né i paesi dell’Europa centro-orientale hanno intenzione di provocare concorrenza interna o indebolire la coesione europea. Il loro obiettivo è di implementare la cooperazione, fornire risorse aggiuntive per la modernizzazione di infrastrutture ed economia, aprire nuovi mercati lungo la Nuova Via della Seta e portare lo sviluppo dei paesi coinvolti al livello delle regioni europee più avanzate.

Il summit Cina + 16CEEC tenutosi nel novembre 2017 a Budapest ha chiaramente riaffermato posizioni costruttive rispetto all’Unione Europea. Le linee guida emerse a Budapest riportano: “I partecipanti ritengono che la cooperazione 16+1 rappresenti una parte importante della generale cooperazione fra Cina ed Europa. Da parte cinese, si dà grande importanza alla creazione di legami strategici fra Cina ed Europa e di percorsi di integrazione scelti in modo indipendente dai paesi membri dell’UE, ci si auspica un’Europa unita, stabile e prospera, e si supportano le relazioni fra Cina ed Europa per la pace, la crescita e le riforme.  Gli stati membri dell’Unione e quelli candidati a diventarne parte e coinvolti nel piano 16+1, sono impegnati nel rafforzamento della partnership Europa-Cina e dell’Agenda UE-Cina 2020, attraverso la promozione di pratiche di cooperazione nell’ambito della Piattaforma di Connettività UE-Cina e del Piano di Investimento per l’Europa, e supportano la conclusione di un accordo per gli investimenti, ambizioso e di vasta portata, fra Unione Europea e Cina.

Il caso serbo

In Serbia, un paese relativamente piccolo e in via di sviluppo, membro del piano di cooperazione Cina+16 CEEC nell’ambito della Belt and Road Initiative, le compagnie e le banche cinesi hanno investito più di 6 miliardi di dollari in numerosi progetti industriali, infrastrutturali ed energetici. Fra tutti, il più importante è il progetto che coinvolge Cina, Serbia e Ungheria, e che prevede la costruzione (inaugurata nel 2017) di 350 km di ferrovie ad alta velocità fra Belgrado e Budapest. Per molti anni le compagnie cinesi sono state coinvolte nella modernizzazione dell’autostrada del Corridoio 11, che connette Belgrado con l’Adriatico meridionale (Montenegro). Il primo ponte costruito dai cinesi in Europa connette ora le due sponde del Danubio, a Belgrado; la prima fabbrica cinese di acciaio si trova a Smederevo, a 40 km da Belgrado; il primo porto fluviale cinese si trova sui fiumi Danubio e Sava (Smederevo, Kostolac, Sabac); la Serbia è il primo paese in Europa ad aver abolito il regime dei visti per i cittadini cinesi; la sede serba della Banca Nazionale Cinese a Belgrado si occupa delle pratiche di più di una dozzina dei paesi europei circostanti. Oltre 15.000 persone in Serbia sono attualmente impiegate in progetti sponsorizzati dalla Cina. Molti nuovi progetti, fra cui la creazione di due zone economiche (parchi industriali) lungo il Danubio (Smederevo e Belgrado), fabbriche per la purificazione delle acque, un altro impianto energetico (Pancevo) e un’autostrada di circa 300 km, sono in fase di attuazione. Ciò significa che, fra uno o due anni, il numero degli impiegati nei progetti legati alla Belt and Road Initiative potrebbe raddoppiare, fornendo un contributo significativo al miglioramento della vita di molte famiglie serbe. A riprova che la cooperazione economica si accompagna agli scambi fra i popoli, Serbia e Cina hanno stipulato accordi per la promozione di centri culturali. Un centro cinese è in costruzione a Belgrado e la Serbia ha ottenuto un centro di promozione culturale a Pechino. Al contempo, gli scambi fra università, scuole, teatri, gallerie d’arte, istituzioni scientifiche, produzioni cinematografiche, organizzazioni sportive e think tank sta aumentando grazie al continuo rafforzamento della cooperazione fra i due paesi.

La Belt and Road Initiative si sta dimostrando un percorso di pace, sviluppo, prosperità e comprensione reciproca, una prospettiva concreta per tutta l’umanità.

 


 

A scuola di Cina da Giuliano Marrucci

 

Una recensione di “Cemento Rosso”: guida agile for dummies per chi vuole saperne di più sul gigante asiatico

A cura di Pacifico (Redazione CIVG)

Sul finire del 2017, è uscito nelle librerie italiane un agile e interessante manuale che, senza panegirici, né stereotipi, descrive l’imponente processo di sviluppo che sta interessando la Cina.

Il libro presenta innumerevoli dati, statistiche, nonché un elenco enorme di fatti concreti che permettono al lettore di andare al di là della vulgata mass-mediatica sinofoba e razzista.

Viene descritto il processo di urbanizzazione che ha portato un enorme paese, essenzialmente agricolo, a spostare 600 milioni di persone nelle aree urbane, divenendo la più potente economia industriale del mondo. Per fare ciò, sono stati costruiti, a partire dal 1995, 129 milioni di edifici, nonché infrastrutture, città spuntate dal nulla, edifici pubblici, sono state persino riforestate intere aree. I primati cinesi riguardano strade, ferrovie ad alta velocità, porti, metropolitane e soluzioni ingegneristiche all’avanguardia per ridurre i tempi di costruzione. In pochi decenni la Cina, a differenza dell’India, è diventata il centro del mondo, permettendo a milioni di persone nell’arco di 40 anni di uscire da un medioevo di villaggi e agricoltura di sussistenza, a una modernità fatta di giungle di cemento da 15 milioni di abitanti l’una. La Cina ha affrontato la crisi del 2007 con una serie di stimoli senza pari al mondo, usando un approccio completamente diverso da quello dei paesi occidentali: il pacchetto di stimoli che l’Impero di mezzo ha messo in campo è quantificabile con 600 miliardi di dollari, pari al 12% del PIL dell’epoca.

Il libro esamina quindi a 360° il processo di modernizzazione più grande della nostra epoca, che non ha riguardato solo la sfera puramente economica, ma anche quella sociale: vengono citati, ad esempio, i casi in cui a fronte di calamità naturali o altri gravi disastri l’organizzazione pubblica si sia data da fare con estrema efficienza, per implementare i piani di emergenza e per prendere tutte le misure di ricostruzione e prevenzione necessarie. Marrucci accenna inoltre al giro di vite nei confronti dei funzionari corrotti, responsabili dell’aggravamento dei disastri. Se si confronta l’azione del governo cinese con quanto avviene in Italia in occasione di analoghe circostanze, la differenza è subito piuttosto evidente…

Certo le contraddizioni in un processo di sviluppo così rapido non possono mancare: come quelle delle città fantasma, frutto della legge che requisisce i terreni dati in concessione se non si costruisce in tempi brevi al fine di impedire la speculazione, costruite e già obsolete; le espropriazioni, i prezzi degli affitti che nei centri urbani volano, contadini che si arricchiscono a dismisura approfittando del sistema delle licenze di edificazione... Rimane aperta anche la questione degli Hukou, i certificati di residenza che legano l’accesso ai servizi pubblici di base come la sanità e l’istruzione al luogo di nascita, e che però, d’altro canto, garantiscono la possibilità a molti lavoratori emigrati nelle città di avere qualche garanzia una volta tornati nel paese d’origine. A differenza dei paesi in via di sviluppo, ove gli slum si sviluppano in terra di nessuno occupata abusivamente dai migranti che arrivano in città, la terra dei villaggi urbani e degli edifici ivi costruiti, sono di proprietà dei villaggi stessi. E mentre nel resto del mondo le baraccopoli sono abitate da intere famiglie, costrette ad emigrare in città, dopo che la terra gli è stata scippata dal latifondista di turno e che quindi non hanno più casa dove tornare, in Cina i villaggi urbani sono occupate da persone che da sole sono andate via in cerca di un salario migliore. Quindi questo processo non ha portato, a differenza di altri paesi, al sorgere di baraccopoli e bidonvilles, o al proliferare di una feroce microcriminalità. A ciò contribuisce anche la quasi totale assenza di armi da fuoco (4,6 ogni 100 mila abitanti, mentre negli USA ve ne sono 88).

Nel libro di Marrucci vengono anche narrati i copiosi sforzi per rispondere al divario fra macroregioni. A questo proposito, una notevole sfida è rappresentata dallo sviluppo economico dello Xinjiang, territorio martoriato dal terrorismo islamista. Ciò ha finora portato a buoni risultati, come dimostra il crollo del numero dei lavoratori che dalle province dell’entroterra emigrano verso la costa. La legge sul lavoro del 2008 ha portato ad un aumento dei salari, che hanno raggiunto livelli comparabili con quelli di Grecia e Portogallo… Altro che Job’s Act!

A fronte di questi risultati così brillanti, Marrucci non si astiene dal citare anche i contraccolpi: se costruendo 10 mila metri quadrati di superficie si producono tra le 500-600 tonnellate di rifiuti, quando si demolisce se ne producono tra le 7 e le 12 mila. Se la produzione dei rifiuti preoccupa molto la popolazione cinese, non da meno è la qualità sempre più scadente di acqua e aria. Va però fatto notae che tra le 10 città con maggiore concentrazione di PM 2.5/metro cubo, 6 sono indiane, 4 pakistane, e nessuna cinese.

Oltre all’economia, per la Cina è centrale la politica estera. Creando un’economia sempre più interconnessa e interdipendente con quella di altri paesi, si crea di fatto una comunione d’interesse e non ci si affranca dal rischio di implosioni (come nel caso dell’URSS), o di eventuali ricatti o aggressioni imperialiste.

Non poteva mancare il riferimento alla Via della Seta, cioè ai numerosi progetti infrastrutturali necessari a favorire gli scambi commerciali via terra (oltre 1000 miliardi in 10 anni) e via acqua con la Russia, l'Europa e il sud-est asiatico, potenzialmente in grado di spostare l’asse del commercio dall’Occidente al continente euroasiatico.

Personalmente mi sento di consigliare “Cemento Rosso” a tutti coloro che vogliono saperne di più sulla Cina. È un saggio molto leggibile, che finalmente descrive senza pregiudizi una realtà estremamente dinamica, non più analizzabile con le lenti deformate con cui si è abituati a parlare di ‘cose cinesi’ dalle nostre parti…

 


 

La Via della Seta e i porti italiani

Intervista a Ettore Sequi, Ambasciatore italiano in Cina

6 febbraio 2018

Fonte: Marx XXI, da agi.it (http://www.marx21.it/index.php/internazionale/cina/28745-la-via-della-seta-ed-i-porti-italiani)

Sebbene le recenti elezioni abbiano stabilito un netto cambio di passo nella politica nazionale, con un inevitabile riverbero (non scontato) sulle relazioni fra il nostro paese e la Cina in relazione alla costruzione della Nuova Via della Seta nell’area mediterranea, crediamo che le considerazioni espresse da un diplomatico come l’Ambasciatore Ettore Sequi e dallo studioso Francesco Maringiò restino attuali e di grande interesse.

Nota introduttiva di Francesco Maringiò

Negli scorsi giorni l’Ambasciatore italiano in Cina, Ettore Sequi, ha rilasciato una intervista all’Agi in cui spiegava le opportunità per l’Italia del progetto cinese One Belt One Road, comunemente ribattezzato Nuova Via della Seta.

Nel riproporre questa intervista ai lettori di Marx21.it, abbiamo chiesto a Francesco Maringiò un breve commento che vi presentiamo.

Le parole del nostro Ambasciatore a Pechino sono molto interessanti. Innanzi tutto perché confermano “l’ingresso a pieno titolo dell’Italia nell’iniziativa”, come ripetuto anche dall’Ambasciatore cinese, Li Ruiyu, che ha affermato come “le autorità e le aziende cinesi hanno già preso contatti con i porti di Trieste, Genova e Venezia per sviluppare nuove opportunità di cooperazione”.

E questo è molto importante. L’Italia è stata vista, a lungo, come un paese incerto rispetto al progetto della nuova Via della Seta, spesso oggetto di interesse e discussione nella business community o promossa grazie all’attivismo delle realtà locali (pubbliche e private), che non dal dibattito politico, dove è stato pressoché assente.

In secondo luogo l’Ambasciatore nel corso della sua intervista ha illustrato i punti di forza del Belt and Road cinese lungo la sua rotta artica, aerea, ma soprattutto terrestre e marittima ed ha collocato l’Italia come hub logistico nel Mediterraneo per intercettare i crescenti volumi di merci movimentati dai portacontainer. Inoltre, egli ha legato la posizione geostrategica del nostro paese alla possibilità di utilizzare la leva economica e del commercio per la stabilizzazione di aree affacciate sulla sponda sud del Mediterraneo, mostrando in questo lungimiranza e proiezione strategica.

Le parole dell’Ambasciatore sono pertanto un segnale molto importante che marca la giusta direzione che il paese dovrebbe prendere nelle sue decisioni strategiche in materia di politica estera ed economica.

Rimane tuttavia più di qualche interrogativo sulla linea assunta dal Governo in tutta questa partita. I porti “scelti”, infatti sono tutti collocati nel nord del Paese: Venezia è molto attiva – e fa bene -  nella promozione del porto offshore, che tuttavia deve essere costruito mentre i commerci sono già iniziati; Trieste e Genova hanno alcuni problemi logistici (risolvibili con investimenti) ma soprattutto il primo, per la sua condizione di extraterritorialità doganale e collegamento ferroviario con l’Europa centrale ed orientale ne fa un porto in grado di servire il resto del continente più che il nostro paese.

Nessun cedimento sciovinista, ovviamente. Quello che balza agli occhi è l’assenza di una proposta che coinvolga uno dei grandi porti del sud Italia (Taranto in primis) in grado di inserire tutta l’Italia in un progetto di trasporto e logistica e capace di evitare l’andata e ritorno delle grandi navi lungo il corridoio adriatico.

Come ha ricordato più volte il sinologo Francesco Sisci, “la Cina è una maratona, ma l'Italia ogni volta sembra ricominciare da zero pensando che sia una corsa di cento metri”. Pertanto quello che serve all’Italia è: pianificare, rendersi protagonisti (per non doverla subire) della strategia della Nuova Via della Seta (come ha esortato l’Ambasciatore Sequi) e far diventare questo tema uno dei punti qualificanti del dibattito politico.

Intervista AGI, a cura di Alessandra Spalletta

In questa intervista all’Agi Ettore Sequi fa il punto sulle concrete opportunità per l’Italia con la Nuova Via della Seta, offre un primo bilancio a cinque dal lancio dell'iniziativa e a quasi un anno dal Forum di maggio scorso, che ha visto l'Italia entrare a pieno titolo nel progetto, e delinea prospettive future.

L’Italia è uno dei partner commerciali più importanti della Cina all’interno dell'Unione Europea, l’export è cresciuto del 25% nel 2017. Quali sono le opportunità che si aprono per l’Italia con la Nuova Via della Seta?

Ce lo siamo chiesti al quarto raduno degli imprenditori italiani in Cina, a Yanqi Lake, a nord di Pechino. L’iniziativa Belt and Road, oltre ad avere una fortissima componente infrastrutturale, delinea la proiezione internazionale di Pechino. Ne è prova l’enfasi con cui Xi Jinping, nel suo rapporto al diciannovesimo Congresso del Pcc nell’ottobre scorso, ha più volte evocato il progetto, che è stato inserito nello statuto del Partito come strumento di crescita globale e di cooperazione internazionale. Il presidente cinese lo ha menzionato anche nel suo discorso di fine anno. Bri si conferma come l’elemento centrale del cambiamento storico che la Cina sta vivendo nel quadro di una progressiva apertura in tutti i fronti. Pechino ha tradizionalmente una visione sul mondo lunga, ma che sta diventando sempre più ampia.

 

Diamo qualche numero

Stando ai dati ufficiali cinesi, l’interscambio tra Cina e i Paesi attraversati dalla Nuova Via della Seta ha superato i 400 miliardi di dollari dal 2014 al 2017. Solo lo scorso anno ha oltrepassato quota 110 miliardi di dollari, in pratica un quarto del commercio estero cinese. Secondo le previsioni del presidente di Bank of China, Chen Siqing, nei prossimi 5 anni il 45% della crescita mondiale proverrà dai mercati interessati dai progetti targati Bri. Le basta?

 

L’Italia come si posiziona in questo quadro?

E’ un processo irreversibile che andrà avanti con o senza di noi. Come si faranno i bandi internazionali? Che tipo di regole si applicheranno? Oggi si stanno definendo le regole del gioco, abbiamo tutto l’interesse a entrare nel progetto in questa fase. Le recenti visite istituzionali, dal presidente Mattarella con i ministri Alfano e Delrio nel febbraio dello scorso anno, a Paolo Gentiloni come unico leader G7 presente al Forum di Pechino del maggio scorso, hanno dato un forte impulso alla nostra partecipazione. Abbiamo garantito all’Italia l’ingresso a pieno titolo nell'iniziativa.

 

Perché i cinesi dovrebbero investire nei nostri porti?

Abbiamo tutto l’interesse a valorizzare il nostro sistema portuale. Anche in questo caso basta snocciolare alcune numeri per capire la dimensione del fenomeno. Il 90% dei traffici tra Cina ed Europa passa lungo la Via della Seta marittima. Un terzo del volume mondiale di container transita attraverso i porti della Cina, che detiene i due terzi dei maggiori porti mondiali. Stando ai dati elaborati da Deloitte, la Cina nel 2016 ha investito 20 miliardi di dollari nei porti stranieri, il doppio rispetto al 2015. Risultato? I cinesi partecipano alla gestione di circa 80 porti in tutto il mondo. Nel Mediteranno il numero di navi porta container è cresciuto negli ultimi 5 anni del 20%.  A questo si è arrivati grazie al raddoppio del Canale di Suez, al flusso di investimenti nei porti stranieri, e al fenomeno del gigantismo navale (maggiore capienza dei portacontainer).

 

L’Italia è dunque in una posizione strategica...

I flussi si dirigono nel Mediterraneo, specificamente nell’aerea denominata MENA (Middle East and North Africa, una regione che include circa 22 Paesi).  Si calcola che in questa area tra il 2001 e il 2015 il flusso commerciale si sia decuplicato, e nello stesso periodo i volumi di traffico nel Canale di Suez siano aumentai del 124% . Oltre alla possibilità di intercettare commerci, nessun Paese più dell’Italia ha interesse a puntare sullo sviluppo economico e alla stabilità di aree quali MENA, Africa e Mediterraneo.

Il surriscaldamento globale spingerà i cinesi a usare la rotta artica per raggiungere il Nord Europa (il governo cinese ha pubblicato la settimana scorso il Libro Bianco sulla via della seta polare), e secondo una ricerca danese il Mediterraneo  rischia di perdere centralità…

Speriamo che i cinesi, che hanno ribadito l’impegno nella lotta al cambiamento climatico e molto stanno investendo in questo campo, aiutino piuttosto a ritardare lo scioglimento dei ghiacci…

 

Torniamo ai porti italiani

La portualità italiana ha una importanza potenzialmente enorme, è ovvio…

 

Cosco ha investito nel Pireo. Ci spieghi meglio

È vero: i cinesi hanno fatto forti investimenti nel porto greco, ma il governo italiano non considera il Pireo in contrasto con l’offerta dei nostri porti, anzi, sono complementari. 

 

Perché?

Non solo perché abbiamo acquistato le ferrovie greche e lo sviluppo di flussi commerciali ci fa comodo. Dal Pireo per arrivare all’Europa centrale e occidentale, bisogna costruire infrastrutture che hanno un costo elevato e che attraversano una serie di Paesi, alcuni di questi europei con precise regole di procurement (la linea ferroviaria Belgrado-Budapest al momento ferma e in fase di revisione per presunte irregolarità rispetto alle normative dell’Unione Europea, ndr). Noi invece abbiamo un sistema portuale efficace, con procedure di sdoganamento tra le più veloci in Europa, e siamo più vicini al centro Europa. Sia il sistema dell’Alto Adriatico che dell’Alto Tirreno hanno interconnessioni ferroviarie già pronte ed efficaci da mettere a disposizione dei cinesi.

 

Ferrovia e porti servono mercati diversi…

Esatto, non sono in competizione. Partiamo dai volumi di traffico. L’Ocse prevede che nel 2030 trasporti ferroviari tra Asia ed Europa saranno in grado di movimentare non più di un milione di container all’anno, una cifra che impallidisce se raffrontata ai 20 milioni che già oggi potenzialmente transitano via nave. Secondo dati elaborati dall’Ambasciata, dei 12 milioni di container da 20 teu che nel 2016 hanno viaggiato tra Cina ed Europa, solo una parte limitata può essere trasportata su strada ferrata.

 

Qual è il vantaggio di spedire le merci via treno?

La ferrovia è più veloce della nave (si risparmiano circa 40 giorni di viaggio). Il 17 dicembre è arrivato a Chengdu il primo treno merci partito dal polo logistico di Mortara. Trasportava macchinari, componenti, prodotti di metallo, mobili, piastrelle, automobili. Il treno è un’ottima opzione per i prodotti deperibili, come quelli alimentari (la compagnia logistica Changjiu Group ha detto che si doterà presto di container refrigerati, ndr) o che hanno tempi di consegna ridotti, come la moda. Abbiamo interesse a sviluppare questo segmento. A Yanqi lake è stato firmato un importante accordo tra Italferf e il colosso statale China Railway Signal & Communication per una collaborazione nei paesi terzi. Un tema di cui hanno parlato il 12 dicembre scorso a Roma il ministro Calenda e il vice Primo Ministro Ma Kai, il quale ha confermato l’interesse della Cina a rafforzare il rapporto bilaterale nel quadro Bri, a partire da specifiche intese per la realizzazione di progetti in paesi terzi.  Un aspetto delle relazioni bilaterali passato in rassegna anche dal ministro degli Esteri Alfano e l’omologo cinese Wang Yi alla ottava riunione del comitato governativo Italia-Cina a Pechino. Questo è importante perché significa che abbiamo anche noi una visione ampia. 

 

Di quali paesi terzi parliamo?

Africa, Balcani, e America Latina. L’ accordo di Italferr, ad esempio, è ideale per lo sviluppo di progetti nei Balcani.  Sono molte le aziende italiane interessate a investire in progetti infrastrutturali, e sfruttare le opportunità che derivano dai progetti Bri, come emerso  dalla tavola rotonda organizzata il 26 gennaio dal MEF e da Confindustria a cui hanno preso parte anche il ministro Padoan e Jin Liqun  il Presidente dell'Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB, uno dei bracci finanziari di Bri di cui l’Italia è azionista).

Mattarella, Delrio, Alfano (visita di stato a febbraio), Gentiloni (maggio), Calenda (dicembre), Scalfarotto (dieci missioni solo l’anno scorso). Diciamo la verità: la diplomazia ha giocato un ruolo decisivo nello sviluppo del business, abbiamo imparato a fare sistema.

A Pechino abbiamo un caso unico in tutta la rete diplomatica: un funzionario del ministero dell’Economia e delle Finanze incardinato presso l’Ambasciata con il compito di raccordarsi con l’Aiib, favorire i contatti con le nostre imprese, e un bravissima diplomatica che lavora a tempo pieno sui trasporti e i progetti che riguardano la collaborazione in paesi terzi.

 

Non si parla invece mai del trasporto aereo

Non è ancora sviluppato come dovrebbe. I cinesi vogliono trovare il mix ideale in termini di tempi, costi e quantità tra ferrovia e cargo. Più aumenta la connettività, maggiore il numero di merci che per tempistica ha più senso far volare. Bri può contribuire a migliorar la connettività digitale con lo sviluppo dell’e-commerce che favorisce una serie di servizi, come l’e-banking. Non a caso si parla già di una via della seta digitale.

 

Per oggi di concreto c’è il 40% di Cosco a Vado Ligure 

Abbiamo fatto grandi passi avanti definendo la proposta globale della nostra portualità. Ora dobbiamo tradurre l’input politico in un output concreto. Tenendo presente che Bri da un lato consentirà l’espansione del commercio attraverso migliori infrastrutture tra Paesi che sono già partner commerciali, dall’altro svilupperà anche altre rotte liberando potenzialità inespresse. Non solo porti e ferrovie: un aspetto importante riguarda le infrastrutture istituzionali, ovvero tempi di sdoganamento, regolamenti più standardizzati, e così via. La Via della Seta dà una spinta generale a essere più efficienti, più veloci. Ed è con la carta dell’efficienza che si gioca la partita della connettività e dell’integrazione eurasiatica.

 


 

La Cina invita l'America Latina a prendere parte al “One Belt, One Road”

CNBC - 22 Gennaio 2018

La Cina ha invitato l'America Latina e i paesi dei Caraibi a unirsi al “One Belt, One Road” come parte di un accordo per approfondire e integrare la cooperazione economica e politica in una regione dove è storicamente forte l'influenza statunitense.

Il Ministro degli esteri cinese Wang Yi ha detto che la regione è un naturale sbocco per l'iniziativa e in questa prospettiva Pechino intende approfondire la cooperazione con le nazioni in via di sviluppo. Al meeting fra la Cina e i 33 paesi membri della Comunità dell'America Latina e dei Caraibi, il Ministro ha affermato che “La Cina sarà sempre fedele alla strategia intrapresa dello sviluppo pacifico e della cooperazione di tipo win-win per aprirsi e condividere con gli altri stati i risultati del processo”.

I rappresentanti della Cina e del CELAC, blocco latinoamericano formato in Venezuela nel 2011 e che non include Usa e Canada, hanno così siglato un accordo estero per aumentare la cooperazione fra di loro.

Nonostante abbia pochi dettagli nello specifico, l'accordo è parte della politica estera cinese in evoluzione nell'America Latina, dal momento in cui gli Usa sotto Donald Trump hanno intrapreso la strada del protezionismo. Il progetto “One Belt, One Road", proposto nel 2013 dal Presidente cinese Xi Jinping, promuove un'espansione dei collegamenti fra Asia, Europa e Africa, con miliardi di dollari investiti nelle infrastrutture. Weng ha posto l'accento sui progetti che incentivano i collegamenti fra mare e terra, e ha citato la necessità di costruire insieme nuovi reti della logistica, dell'elettricità e dell'informazione.

La cosiddetta Dichiarazione di Santiago, siglata fra la Cina e i delegati del CELAC, riguarda anche un accordo per rafforzare le azioni da intraprendere contro il cambiamento climatico. Il Ministro degli esteri cileno Heraldo Munoz, il quale in passato ha criticato molto Donald Trump, ha affermato che lo storico accordo è l'inizio di una nuova era del dialogo fra la regione e Pechino.  “La Cina ha detto qualcosa di molto importante, ovvero che desidera essere il nostro partner più affidabile nell'America Latina e nei Caraibi e noi diamo molto valore a questa affermazione” ha dichiarato Munoz. “Questo meeting, inoltre, rappresenta un ripudio categorico verso il protezionismo e l'unilateralismo”.

La Cina ha ricercato un maggiore ruolo oltre Oceano da quando Trump è stato eletto. Infatti la Repubblica popolare ha presentato il suo “Regional Comprehnsive Economic Partnership Trade Agreement” come alternativa al TPP che gli Stati Uniti hanno deciso di abbandonare.

Pechino sta già mettendo alla prova il dominio Usa in America Latina offrendo alla regione un programma di investimenti da 250miliardi da realizzare nei prossimi dieci anni. È de facto il miglior partner commerciale di diversi stati nell'area inclusi Brasile, Cina e Argentina. In tale quadro, Wang ha voluto affermare che “Non ha niente a che fare con la competizione geopolitica, la logica di Pechino è finalizzata al raggiungimento di una crescita condivisa, attraverso la discussione e la collaborazione. Non è altro che un gioco a somma zero”.

Negli ultimi anni le imprese cinesi sono passate dal comprare materie prima dall'America Latina a una diversificazione in molteplici settori, come la manifattura automobilistica, l'e-commerce e anche il business tecnologico.

“Le nostre relazioni con la Cina sono molto ampie, il CELAC è un ulteriore percorso con il Brasile per lavorare con la Cina. Insieme abbiamo identificato diverse aree di cooperazione” ha dichiarato ufficialmente il vice-ministro degli esteri brasiliano Marcos Galvao.

 


 

Andrea Fais, direttore di “Scenari Internazionali”: “Relazioni fra Italia e Cina solide, ma il nostro paese è in ritardo”

 

22 gennaio 2018

Fonte: opinione-pubblica.com

“Le riforme della nuova era” è il titolo dell’ultimo numero di “Scenari Internazionali. Rivista di Affari Globali”, fondata e diretta da Andrea Fais. Al direttore chiediamo subito: perché un nuovo numero sulla Cina, dopo quelli già pubblicati in passato? E, soprattutto, perché quest’attenzione rivolta alle grandi riforme portate avanti dall’attuale presidente cinese Xi Jinping? Quali potrebbero essere il loro impatto sugli affari e sulle vicende mondiali, oltre che ovviamente cinesi?

 

Le riforme della nuova era è il nono numero di Scenari Internazionali, ed il terzo sulla Cina. In pratica, un terzo dei nostri numeri cartacei totali ha finora riguardato il Paese asiatico. Sebbene Scenari Internazionali mantenga un’apertura sul mondo a 360 gradi, riserviamo tuttavia un occhio di riguardo alle economie emergenti, grandi e piccole, allo scopo di colmare un vuoto presente nell’informazione italiana, spesso viziata da pregiudizi o timori infondati. Anche il nostro è ovviamente un punto di vista europeo ed occidentale, ma aperto alla condivisione. Quando realizziamo un’inchiesta non facciamo mai un semplice report, ma ci “immergiamo” all’interno di un Paese o di una regione per comprenderne i rispettivi punti di vista, cercando poi di “riaffiorare” in superficie con una nuova ricchezza di informazioni, dati e sensibilità.

Questa pubblicazione prosegue sulla scia degli altri due numeri dedicati alla Cina: il primo, col quale debuttammo nell’autunno 2014, cominciò a parlare di “Nuova Via della Seta” quando quasi tutti in Italia ancora ignoravano o marginalizzavano l’argomento; il secondo, uscito nel giugno del 2016, si era invece concentrato sul 13° Piano quinquennale che, tra le altre cose, ha sistematizzato la riforma strutturale dell’offerta, incentrata sulla riduzione fiscale e sulla semplificazione burocratica a vantaggio di decine di milioni di piccole e medie imprese, in particolare per incentivarne l’upgrade tecnologico. Si tratta di un passaggio fondamentale nel quadro economico cinese, che vede il Paese passare da un modello di crescita basato sull’alta intensità di manodopera, trainato dall’export, ad un modello basato sui servizi e sull’innovazione, trainato dai consumi. Questo passaggio chiarisce anche la fase di nuova normalità cominciata oltre tre anni fa in Cina. Chi oggi si stupisce dei recenti dati sulla crescita del Paese nel 2017 (+6,9%), in risalita rispetto agli anni precedenti, evidentemente non aveva ben compreso le decisioni della leadership e le dinamiche della trasformazione industriale in atto in Cina.

Lotta alla povertà, tutela dell’ambiente, governance della globalizzazione così come del web, senza dimenticare la nuova visione dei rapporti internazionali introdotta proprio dalla Cina, e i cui frutti sono maggiormente rappresentati dalla Nuova Via della Seta: come potremmo riassumere tutto questo? Quale può essere il collegamento con le riforme di Xi Jinping?

L’iniziativa Belt and Road, finalizzata alla ricostruzione in chiave moderna delle antiche direttrici terrestri e marittime della Via della Seta, è stata ufficialmente lanciata nell’autunno del 2013. Non a caso fu introdotta da un discorso che Xi Jinping, da pochi mesi nominato presidente, tenne all’Università Nazarbayev di Astana, in Kazakhstan. Si tratta di un piano estremamente ambizioso, che modificherà radicalmente la prospettiva delle relazioni internazionali, riportando l’Asia al centro dell’economia mondiale, come è stato per molti secoli in passato.

Chiaramente, il nuovo dinamismo della Cina, del Subcontinente indiano, dell’ASEAN e delle altre economie emergenti asiatiche guarda anche all’Europa dove, malgrado le crisi e i fenomeni di instabilità, si concentrano ancora i risultati di almeno tre secoli di costituzionalismo, sviluppo economico, scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche. Si tratta dunque di una grande opportunità di rilancio anche per l’Italia, non soltanto in materia di commercio ed investimenti ma anche per quanto riguarda la logistica e il turismo. La Cina non ha mai nascosto il suo interesse ad investire sui porti di Venezia e Trieste, inquadrati come potenziali snodi intermodali tra la Via della Seta marittima, proveniente dal Mar Rosso via Bab el Mandeb-Suez-Pireo, e quella terrestre, proveniente da Rotterdam via Istanbul-Mosca-Duisburg.

Le riforme indicate da Xi Jinping stanno rendendo e renderanno la Cina sempre più semplice, più trasparente, più orientata al mercato, più aperta agli investimenti esteri, più innovativa, più efficiente e più green, venendo incontro a tutta una serie di requisiti ritenuti indispensabili per attuare i propositi indicati nell’Agenda Strategica 2020 per la Cooperazione UE-Cina. Al contempo, tuttavia, Bruxelles dovrà cambiare atteggiamento, mettendo da parte quella saccenza che talvolta la rende insopportabile anche agli occhi di molti cittadini europei.

Quali sono, a suo giudizio, le aree mondiali in cui la Cina di Xi Jinping sta ottenendo i risultati più soddisfacenti, per ambo le parti? Certamente, l’Africa è il Continente dove l’impegno cinese, in questi anni, è risultato più massiccio o quantomeno più visibile, ma sappiamo benissimo che Pechino vuole coltivare un rapporto proficuo col mondo intero. Da questo punto di vista, cosa possiamo dire dei rapporti fra la Cina e l’Europa, considerando anche certi recenti dissapori come quello sulla negazione del riconoscimento dello status di economia di mercato?

Come dicevo prima, Bruxelles dovrà cambiare atteggiamento. Uno degli ostacoli principali è proprio questo. Alla fine del 2016, stando ai termini dell’accordo-quadro del 2001, l’UE avrebbe dovuto riconoscere alla Cina lo status di economia di mercato, come hanno già fatto oltre 80 Paesi membri del WTO. Alla luce delle riforme in atto, non c’è più alcuna ragione di negare questo riconoscimento alla Cina per timori di concorrenza sleale, legati ad un immaginario di quindici o venti anni fa. Lo scorso anno, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani accusò addirittura la Cina di condurre una politica colonialista in Africa, provocando naturalmente la replica piccata di Pechino. Pochi giorni fa il Commissario Günther Oettinger ha puntato il dito contro la Cina per il blocco all’importazione di rifiuti plastici europei, misura che rientra nella nuova strategia ambientale di Pechino, a seguito della firma degli Accordi di Parigi.

Questo doppio standard da parte dell’Europa finirà col ridurre ulteriormente una credibilità internazionale già ai minimi storici a seguito dello scellerato intervento militare in Libia del 2011 a fianco degli Stati Uniti di Obama, della Brexit, della pessima gestione dei flussi migratori, e delle azioni terroristiche in Francia, Belgio e Germania. Il Vecchio Continente sta recuperando qualche punto soltanto grazie ad Emmanuel Macron, apprezzato per aver rilanciato alcuni dossier di politica estera europea, evidenziandone realisticamente i limiti.

A Bruxelles c’è anche chi rimprovera alla Cina di condurre affari bilaterali separati coi singoli membri, scavalcando l’Unione nel suo insieme. Eppure, come si può pretendere che, per portare avanti la sua politica estera in Europa, Pechino debba attendere il completamento della definizione della complessa ripartizione delle competenze tra Commissione, Consiglio UE (legato alle indicazioni del Consiglio Europeo) e Parlamento Europeo da un lato, e Stati e regioni dall’altro? Le relazioni UE-Cina sono fondamentali ma se l’Europa continuerà a seguire certi orientamenti, è bene che l’Italia non perda tempo e conduca autorevolmente accordi separati e reciprocamente vantaggiosi con la Cina. Il nostro nuovo governo, qualunque sarà il suo colore politico, dovrà mettere ai primi posti della sua agenda di politica estera questo tema fondamentale.

Entrando più nello specifico, qual è l’attuale stato di salute dei rapporti fra Pechino e il nostro paese? Proprio in questi giorni una delegazione cinese s’è recata a Venezia, senza che un solo ministro italiano si sia presentato per accoglierla ed incontrarla. Perché è avvenuto questo fatto che, intuibilmente, ha un risvolto politico e diplomatico così poco commendevole? Secondo lei, tale episodio come può essere stato vissuto dalle autorità cinesi e dall’importante comunità cinese in Italia? E ancora, che impatto potrà avere sulle relazioni fra i due paesi?

L’iniziativa cui fate riferimento ha inaugurato il 2018 come Anno del Turismo UE-Cina e rientrava in una due giorni che ha approfondito anche le opportunità in materia di trasporti e turismo per la Macroregione Adriatico-Ionica, quale potenziale porzione occidentale della Via della Seta Marittima. In questa fase, per altro, l’Italia detiene la presidenza della Strategia Europea per la Regione Adriatico-Ionica (EUSAIR) che, oltre al nostro Paese, comprende anche Slovenia, Serbia, Grecia, Croazia, Albania, Montenegro e Bosnia Erzegovina. Le regioni italiane coinvolte da Nord a Sud in questa macroregione sono Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Insomma, c’erano grandi opportunità di promozione per tanti territori, anche in difficoltà. Penso ad esempio alla mia regione, l’Umbria, e alle vicine Marche, dove i fenomeni sismici del 2016 hanno affossato il settore turistico. A ricevere Qi Xuchun, vicepresidente della Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese, tra le massime istituzioni del Paese asiatico, il più alto rappresentante del governo italiano è stato il sottosegretario del MiBACT Dorina Bianchi. Si tratta senza dubbio di un fatto disdicevole. Non ci sono conferme ufficiali, ma non è difficile immaginare il disappunto della delegazione cinese.

Non c’è campagna elettorale che tenga di fronte ad un evento importante come quello andato in scena nella città lagunare. La notizia non ha fatto molto clamore in Italia perché, a differenza di altri Paesi come Stati Uniti, Israele, Gran Bretagna, Francia, Germania o Russia, nel caso della Cina non esistono forze politiche in Italia, né a destra né a sinistra, che lavorino in modo definito e costruttivo sul fronte dei rapporti bilaterali, come invece avveniva nella Prima Repubblica specie grazie al PSI. Le relazioni tra Italia e Cina hanno sicuramente solide basi anche grazie al lavoro compiuto da pionieri della diplomazia del secolo scorso, ma c’è ancora molto lavoro da fare. In generale, il nostro Paese appare costantemente in ritardo rispetto agli altri competitor occidentali in molte regioni del mondo. Questo è un serio problema ma è anche il segno di una classe dirigente politicamente “anemica” e carente di grandi visioni strategiche. Unica lodevole eccezione, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, pur privo di poteri di governo, ha comunque compiuto visite all’estero di grande importanza nel corso degli ultimi tre anni, soprattutto in Asia e in Africa.