La Siria è un regime alawita?

La guerra civile siriana prosegue ininterrotta da ormai 5 anni. Inizialmente essa ci è stata presentata come “una pacifica rivolta di un popolo contro un corrotto dittatore”. In seguito è diventato chiaro che la rivolta non solo era tutto men che pacifica, ma che i suoi protagonisti erano in buona parte gruppi islamisti più o meno radicali; allora la narrazione dei media ha cominciato a parlare di “guerra settaria”, “scontro religioso”, “lotta tra potenze sciite e sunnite”. Si tratta di una tecnica ben collaudata: prima si propone uno schema semplice, quello dei Buoni Democratici (preferibilmente giovani e dotati di connessione wi-fi) e dei Dittatori Cattivi. Quando lo schema manicheo è del tutto screditato, gli opinionisti occidentali lo mettono in soffitta e avanzano una nuova, sofisticata analisi, riassumibile con “la Siria è un casino”. Persone che non sospettavano nemmeno l’esistenza di una ventina di confessioni in un Paese di 22 milioni di abitanti finiscono per ridurre tutto al “caos etnico-religioso” che nella mentalità occidentale media domina tutto il resto del pianeta. Ma un cattivo deve essere comunque identificato. Nel caso della Siria è ovviamente il “regime alawita” o “sciita” (i due termini vengono usati disinvoltamente come sinonimi) degli Assad, colpevole di opprimere la maggioranza sunnita. Perfino molti mezzi di “controinformazione” accettano questa lettura, almeno per quanto riguarda l’esistenza di un governo ad egemonia alawita in Siria. In che cosa consista questo regime “alawita” non viene di solito precisato.

 

Chi sono gli alawiti?

 

Ragazze alawite in abiti tradizionali

 

Nel mondo arabo gli alawiti sono noti come “nusairi”, dal nome del loro fondatore Ibn Nusayr di Basra. Questo appellativo ha finito per assumere una sfumatura dispregiativa, e così oggi gli studiosi preferiscono parlare di “alawiti” o “alauiti” (in arabo ‘alawiyya); tuttavia gli alawiti chiamano se stessi “credenti” (mu ‘minun) o semplicemente “musulmani”, senza aggettivi. Gli alawiti sono una delle numerose sette che l’Islam ortodosso chiama“estremiste” (ghulat), non perché particolarmente intolleranti o violente, ma perché portatrici di dottrine ritenute inconciliabili con i principi fondamentali della religione musulmana. Sebbene il termine sia molto generico, la maggior parte delle sette ghulat appartengono alla galassia sciita, e tra le credenze più comuni al loro interno troviamo la reincarnazione, la convinzione che alcune personalità della tradizione islamica fossero manifestazioni visibili di Dio, il rifiuto totale o parziale delle regole rituali e alimentari della sharia (ad esempio il divieto di bere alcolici o mangiare carne suina oppure l’obbligo delle cinque preghiere quotidiane). Oltre ad accettare queste dottrine, l’Islam alawita ha elaborato una cosmologia estremamente complessa in cui una gerarchia di esseri angelici indentificati con i pianeti del sistema solare fungono da mediatori tra Dio e l’umanità (al proposito esisterebbe una distinzione tra la tribù alawite settentrionali, che tributano una particolare devozione al Sole, e quelle meridionali “lunari”). I riti non si svolgono in moschee ma in abitazioni private e includerebbero anche la celebrazione di cerimoniali simili alla Messa cristiana, con l’utilizzo di pane e vino. Il condizionale è d’obbligo, dal momento che si tratta di una religione dai caratteri marcatamente esoterici: solo una parte dei membri della comunità (i cosiddetti sheikh, “maestri”) conosce nei dettagli la teologia alawita, mentre i comuni fedeli (i fellah, letteralmente “contadini”) hanno una consapevolezza spesso molto approssimativa di ciò che li differenzia dai musulmani “normali”. Tuttavia a differenza di molte altre correnti ghulat non esiste una coincidenza tra gerarchia religiosa e temporale, cosicché i capi politici e militari non necessariamente posseggono una conoscenza dettagliata delle dottrine alawite.

Chiaramente queste caratteristiche uniche non possono che indurre un forte sospetto nei rappresentanti dell’Islam ortodosso (tanto sciita che sunnita), i quali spesso hanno rifiutato di considerarli degli autentici musulmani. Il risultato è stata una successione di sanguinose persecuzioni, in particolare durante il dominio ottomano, quando venne vietato loro perfino di testimoniare in tribunale. Molti cercarono rifugio sulle inospitali montagne della costa siriana (ancora oggi note come Jibāl al-‘Alawīyin, “montagne degli alawiti”) dove tuttora costituiscono una parte preponderante della popolazione. Sui monti occidentali crearono un sistema feudale semi-autonomo, dominato da una aristocrazia terriera. In questo modo però la massa degli alawiti si trovò ad essere doppiamente oppressa: dai vicini musulmani sunniti e dalla propria nobiltà. Una situazione che sarebbe cambiata radicalmente nella seconda metà del Novecento con l’avvento di regimi laici e modernisti e con le riforme agrarie che avrebbero scardinato il feudalesimo. In particolare l’avvento al potere del Partito Baath del 1963 ha inaugurato una nuova fase, in cui il nazionalismo arabo è diventato l’ideologia ufficiale della Siria e in cui le divisioni religiose vengono messe in secondo piano e subordinate alla più vasta identità arabo-siriana. Esempio della natura fondamentalmente laica e inclusiva del nuovo governo è l’assenza di indicazioni confessionali sui documenti personali, al contrario della maggior parte degli altri Paesi arabi (come la “moderata” Giordania e, fino a pochi anni fa, il Libano; non parliamo poi delle monarchie reazionarie del Golfo e dell’Arabia Saudita), dove la carta di identità riporta obbligatoriamente la religione del suo possessore.

 

Distribuzione geografica degli alawiti in Siria, Libano e Turchia

 

Gli alawiti e il potere.

Nel 1970 sale al potere il Generale Hafez al-Assad, figlio di piccoli notabili di un villaggio della provincia di Latakia, una delle più povere della Siria. La sua biografia dà un’idea delle condizioni degli alawiti dell’epoca, per la maggior parte contadini esclusi dal potere politico e dalla vita culturale del Paese. Infatti Hafez è il primo della sua famiglia ad accedere all’istruzione superiore, e sembra che per iscriversi al liceo abbia lasciato il villaggio natio per la prima volta nella sua vita. In seguito Assad entra nell’Accademia militare, dove deve confrontarsi con i pregiudizi sia sociali che religiosi dei suoi compagni di corso, in buona parte sunniti provenienti da famiglie benestanti e conservatrici legate alla Fratellanza Musulmana. Gli studi in medicina, che inizialmente Assad avrebbe preferito, erano troppo costosi per le finanze familiari.

 

 

Da questo si capisce che, come succede in molti Paesi in via di modernizzazione (pensiamo all’Italia del secolo scorso), anche in Siria la carriera militare era diventata un importante mezzo di promozione sociale per molti giovani di modesta condizione. Non deve stupire quindi che a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta la presenza nell’esercito di una delle minoranze più povere ed emarginate, gli alawiti appunto, diventi via via sempre più importante, anche perché in Siria gli altri settori professionali prestigiosi, come il commercio o le libere professioni, sono tradizionalmente appannaggio della borghesia cristiana e sunnita.

Dal 1970 in poi la carica presidenziale in Siria è stata occupata da un alawita, prima da Hafez al Assad e in seguito da suo figlio Bashar. Sotto il governo degli Assad gli alawiti non solo non hanno cercato di imporre la propria religione (cosa che in realtà sarebbe stata impossibile per le sue particolarissime caratteristiche), ma anzi hanno accettato una parziale metamorfosi della propria identità. I fedeli e i religiosi vengono sempre di più incoraggiati a dichiararsi sciiti “ortodossi”. I programmi scolastici trattano solo di “musulmani”, evitando di parlare di “alawiti”, “sunniti” e “sciiti” per non creare divisioni che rischiano di minacciare l’unità della Nazione. In generale sembra essere in corso un processo di normalizzazione dell’eccezionalità alawita, che dal lato teologico prende la forma di una adesione più o meno formale all’Islam sciita duodecimano, mentre dal lato delle pratiche rituali consiste in una progressiva “sunnificazione”, con la costruzione di moschee e la partecipazione alle cerimonie sunnite. Si inserisce in questo quadro il comportamento pubblico dello stesso Presidente Assad, che spesso prega pubblicamente in moschee sunnite e che ha sposato una donna sunnita. Non stupisce quindi che, come ammesso perfino dall’ex-direttore di un importante giornale saudita, Bashar al-Assad goda di un largo sostegno da parte della maggioranza sunnita, agli occhi della quale è un “siriano come gli altri” e non il leader di un “regime alawita”.

 

Bashar al-Assad mentre prega al fianco del Gran Muftì sunnita

 

Gli Assad hanno sempre seguito questa linea laica e anti-settaria e hanno affidato la maggior parte degli incarichi politici a membri delle altre confessioni. D’altronde nella Siria moderna gli alawiti rappresentano appena il 15% della popolazione, che per il resto professa in gran parte l’Islam sunnita (circa 70%) seguito dal cristianesimo (10%) dalla religione drusa (3%) e da un piccolo numero di sciiti duodecimani e ismailiti (circa 2%). L’attuale Consiglio dei ministri (esattamente come quelli precedenti) rispecchia largamente la composizione etnico-religiosa della società siriana. Scorriamo rapidamente i principali ministeri dell’attuale governo, formato a metà del 2016:

Ministro degli Interni: Mohammad al-Shaar, sunnita.

Ministro della Difesa: Fahd Jassem al-Freij, sunnita.

Ministro degli Esteri: Walid Muallem, sunnita.

Ministro della Giustizia: Najm Hamad al-Ahmad, sunnita.

Ministro degli Affari Religiosi: Mohammed Abdul Sattar, sunnita.

Ministro per la Riconciliazione Nazionale: Ali Haidar, druso.

Un discorso simile vale per altre posizioni, altrettanto importanti, come la Presidenza della Banca centrale siriana, carica che è ricoperta da Adib Mayaleh (sunnita).

Diverso è la situazione delle forze armate e dei servizi di sicurezza. Qui effettivamente la presenza alawita è molto forte, in particolare nei gradi superiori e nei reparti d’elitè, come le Forze Tigre, la 4° Divisione corazzata e la Guardia Repubblicana, a causa delle ragioni storico-sociali che abbiamo esaminato sopra. Ma le sorprese non mancano, e dimostrano che anche in questo campo la formula “regime alawita” è perlomeno superficiale. Ad esempio il capo del Direttorato di Sicurezza (servizi segreti), organo considerato roccaforte alawita, è Ali Mamluk, un sunnita. D’altro canto le forze armate siriane sono formate in gran parte da sunniti o comunque da non-alawiti, come è ovvio trattandosi di un esercito di leva.

Le stesse considerazioni valgono per i reparti ausiliari e paramilitari, che però sono arruolati su base volontaria. Alcune sigle sono state rese famose dalle cronache, come i palestinesi siriani della Brigata Gerusalemme, che hanno svolto un ruolo determinante nelle riconquista dei quartieri orientali di Aleppo alla fine del 2016, oppure la Brigata Falchi del Deserto (considerata una delle migliori unità di Damasco), le Brigate Baath, l’Esercito di Liberazione della Palestina, la Guardia Nazionale Araba (combattenti arabi, stranieri e non, di ideologia socialista o nasserista). Non parliamo poi della miriade di milizie partitiche, come quella del Partito Social-Nazionale Siriano (il secondo partito per numero di iscritti dopo il Baath, con un particolare radicamento tra i cristiani ortodossi) o etnico-confessionali, come i Sootoro cristiano-assiri, i Jaysh al-Muwahhideen drusi oppure la neonata Resistenza Nazionale Siriana (curdi filo-governativi). Tutti questi reparti sono formati in prevalenza da volontari sunniti, cristiani, drusi. Perché migliaia di uomini e donne dovrebbero rischiare volontariamente la vita per difendere un “regime alawita” che rappresenta meno di un quinto della popolazione siriana?

 

Combattenti della Brigata Gerusalemme, formata da palestinesi di religione musulmana sunnita

 

Conclusioni.

“Un alawita che governa la Siria è come un paria che diventa maharajah in India o un ebreo che diventa zar in Russia – uno sviluppo senza precedenti che sciocca la maggioranza della popolazione che ha monopolizzato il potere per così tanti secoli”. Con queste parole lo storico Daniel Pipes ha descritto la novità costituita dall’ingresso degli alawiti nella classe dirigente siriana. Ma si tratta di una novità relativa. Da sempre la caduta di un regime apre la strada a nuove elites, spesso reclutate proprio tra le minoranze che in precedenza erano oppresse ed escluse dal potere. La Rivoluzione francese concesse la cittadinanza agli ugonotti e ne promosse molti ai vertici dell’esercito e dell’amministrazione pubblica. La rivoluzione russa agì nello stesso modo con gli ebrei, i quali fornirono moltissimi quadri al Partito e all’Armata rossa, cosa che portò molti anti-comunisti a vagheggiare un “regime giudaico” in Urss. Come documentato da Domenico Losurdo, dopo il 1917 in Occidente il mito del “regime ebraico” bolscevico era diventato un luogo comune, avvallato non solo dai fanatici dell’antisemitismo ma anche dalla stampa mainstream liberale di allora. Oggi ben pochi prenderebbero sul serio simili fantasie. Eppure chi parla di “regime alawita” si situa su un terreno non molto distante.