La guerra delle parole

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“La democrazia marcisce

nel caricatore del fucile, ed è così che la si misura,

con la gittata dei proiettili.”

(Partaw Naderi, afgano, XX secolo)

 

Quante volte ormai mi sono trovata in questa situazione? In procinto di tenere, per  una locale università del tempo libero, l’ennesima conferenza sul “Conflitto israelo-palestinese”, per prendere tempo e placare l’agitazione interiore, sposto la bottiglietta di acqua minerale, regolo il microfono, sistemo ancora una volta il voluminoso contenitore di appunti - che, al solito, non mi servirà ma che almeno mi rassicura - controllo che le carte geografiche siano appese in modo visibile – quando si parla del dramma palestinese, è imprescindibile mostrare le mappe, ma sui giornali non appaiono mai, come notava Edward Said, e sfioro con le dita l’ennesimo “riassunto del riassunto” che ho tracciato per fissare l’ordine degli argomenti che voglio trattare, anche se so per esperienza che non ne farò uso. La passione e la mole di informazioni che vorrei trasmettere mi porteranno infatti a vagare e divagare, anche seguendo le reazioni del pubblico che ho di fronte, un pubblico in genere difficile perché poco o affatto esperto – a parte qualche eccezione – sulla questione:  il che in effetti non sarebbe un problema. Il fatto è che, per l’età non più giovane, queste persone hanno pregiudizi ben consolidati e – quel che è peggio - continuamente confortati dall’arsenale mass-mediatico. Per citare un aforisma di Marco Travaglio - personaggio peraltro le cui opinioni sulla questione palestinese ricalcano pedissequamente la trita versione massmediatica filoisraeliana - mi si richiederebbe forse, per intrattenerli senza suscitare problemi, di “occultare i fatti per non disturbare le opinioni”, ma questo è esattamente l’opposto di quello che mi propongo di fare, perché – come disse a suo tempo Marat – “l’opinione si fonda sull’ignoranza e l’ignoranza favorisce il dispotismo”, cioè in questo caso l’arrogante sprezzo delle leggi internazionali da parte dei politici israeliani.

 

Di solito, inizio questo tipo di incontri presentando le mie fonti e sottolineando – con un’operazione di captatio benevolentiae di cui mi vergogno di fronte a me stessa  - che si tratta di storici ebrei israeliani che lavorano presso le principali università del paese, o di studiosi ebrei che vivono e insegnano in Inghilterra, o ancora di studiosi inglesi. Potrei aggiungere che ci sono anche ottimi storici arabo-palestinesi ma - ben consapevole del clima generale di sospetto nei confronti del mondo mediorientale - me ne astengo. Brandendo il foglio in cui ho indicato la mia bibliografia,  dopo aver riassunto il contenuto dei vari testi lo lascio a disposizione di chi volesse consultarlo. Sottolineo quindi con ammirazione, assolutamente autentica, il lavoro degli storici israeliani apparsi negli anni ottanta, i cosiddetti “nuovi storici”, definizione che Tom Segev, uno di loro, ha rifiutato sostenendo che prima degli anni ottanta del Novecento, periodo in cui molti documenti vennero desecretati, non esistevano storici israeliani, ma solo propagandisti del sionismo.

    A questo punto in genere comincio a scoraggiarmi, rendendomi conto che gran parte del mio pubblico confonde sionista con semita e non ha alcuna idea della differenza fra ebrei sefarditi e askhenaziti. Spiego che semiti sono anche gli arabi e divago esemplificando le molte somiglianze fra lingue cugine come l’arabo e l’ebraico, ed esibendo le mie credenziali linguistiche: un corso di ebraico biblico e l’ormai decennale studio della lingua araba. Il tempo passa veloce in questo basilare slalom tra concetti essenziali. Parlo a raffica – conscia quantomeno che il mio eloquio non è soporifero – ma il fatto che io voglia servire la verità, non la propaganda, attraverso un discorso anche culturale, disorienta gente che al linguaggio della propaganda è purtroppo assuefatta.

    Esaltata dalla mia passione per la semantica – e per l’obiettività - in un paio di queste conferenze mi sono dilungata sul potenziale esplosivo delle parole nei riguardi della questione israelo-palestinese. Dire “vado ad Israele”, “vado in Palestina”, “vado in Terra Santa” sottende infatti tre diversi approcci, tre diversi punti di vista. Il giornalista olandese Joris Luyendijk (NOTA: Cfr. Presque humains, Images du proche-Orient, Podium, Amsterdam, 2006), critica la stampa occidentale che, ricordando continuamente ai lettori “la minaccia terroristica” non spiega anche il terrore che si nasconde dietro la parola “occupazione”. Nonostante il numero di civili palestinesi uccisi a causa della quarantennale occupazione illegale israeliana della Cisgiordania e di Gaza sia quasi quattro volte superiore a quello dei civili israeliani morti a seguito di attentati, “i corrispondenti e commentatori occidentali” – e i politici italiani, aggiungo – “che evocano i ‘sanguinosi attentati suicidi’ sostenendo il diritto di Israele a difendersi, non parlano mai della ‘sanguinosa occupazione’ ”. Né alle pressioni sull’Autorità palestinese perché dimostri di “fare tutto il possibile contro la violenza” corrispondono altrettante pressioni su Israele perché “faccia tutto il possibile contro l’occupazione”. Non ci sono parole neutre in questa lunga tragedia, sottolinea Luyendijk. Per presentare, ad esempio, un fatto come l’uccisione di tre palestinesi da parte dell’esercito israeliano in Cisgiordania, a seconda del punto di vista si potrebbe dire: oggi “in Giudea e Samaria/ nei territori occupati/ nei territori palestinesi/ nei territori contesi/ nei territori liberati” “tre palestinesi innocenti/tre terroristi musulmani” sono stati “eliminati preventivamente/ brutalmente assassinati/ uccisi dal nemico sionista/ dalle truppe d’occupazione israeliane/ dalle forze di difesa israeliane”. In ogni caso resta il fatto – un fatto, non un’opinione - che a morire sono stati tre palestinesi, in un territorio di cui le Nazioni Unite hanno riconosciuto l’occupazione illegale. Una occupazione che viene praticata senza tenere conto delle Convenzioni di Ginevra che, adottate nel 1949 per impedire il ripetersi delle pratiche naziste, tutelano i civili sotto occupazione. E non ci avvicineremo certo alla verità se  porremo questo fatto sostanziale e inoppugnabile fuori dal suo contesto, imbozzolandolo in una rete di parole fuorvianti. Come scrisse Hannah Arendt (NOTA: Hannah Arendt, filosofa ebrea non praticante e non sionista, era una studiosa di teologia cristiana e di filosofia tedesca. Al momento del voto sulla spartizione della Palestina interruppe la propria collaborazione critica col sionismo e litigò con Gerschom Scholem, celebre studioso ebreo sionista),“i fatti sono al di là dell’accordo e del consenso (…). Un’opinione sgradita può essere discussa, respinta, o si può giungere a un compromesso su di essa, ma i fatti sgradevoli possiedono una esasperata ostinazione che può essere scossa soltanto dalla pura e semplice menzogna.” Il fatto è che dal 1948 Israele si è retto su un decalogo di menzogne che è diventato la Vulgata dell’Occidente.

    E’ un dato di fatto, non un’opinione, che nella quasi totalità i mass-media occidentali contribuiscono efficacemente al radicarsi di queste menzogne   facendo uso di due pesi e due misure anche per quel che riguarda il linguaggio. “Perché un colono ebreo ortodosso che reclama la terra che gli è stata donata da Dio è un “ultranazionalista” mentre un musulmano che fa lo stesso ragionamento è un “fondamentalista”? Perché un governo arabo che sceglie una politica che non conviene all’Occidente è “antioccidentale”, mentre la stessa definizione non viene mai applicata nell’altro senso? Perché Saddam Hussein è stato sanzionato, bombardato e punito per aver invaso il Kuwait (NOTA: Storicamente, il Kuwait era tradizionalmente lo sbocco della Mesopotamia sul mare, e furono gli inglesi a separarlo dal suo naturale entroterra) mentre l’occupazione della Cisgiordania non è stata nemmeno punita con delle minime sanzioni? Un politico americano è mai stato definito  “radicalmente antiarabo”? Un politico israeliano che crede che solo la violenza possa proteggere il suo popolo è definito un “falco”: ma si è mai sentito parlare di un “falco”palestinese? No, in questo caso si parla di un “estremista” quando non di un “terrorista”. I politici israeliani che credono al dialogo sono “colombe”, ma un palestinese che sceglie la stessa via è solo un “moderato”, il che lascia intendere – scrive Luyendijk – che “malgrado la violenza alberghi nel cuore di ogni palestinese, quello è giunto a “moderare” la sua natura profonda. E mentre Hamas “odia” Israele, nessun partito o politico israeliano ha mai “odiato” i palestinesi, neanche quando i suoi dirigenti approfittano del loro ruolo governativo per predicare le espulsioni”. Ma queste espulsioni “non sono piuttosto, a partire dal 1948, una vera e propria pulizia etnica, lo stesso crimine per cui lo sfortunato Milošević è stato – caso più unico che raro – bombardato e incriminato dal Tribunale penale internazionale dell’Aia? E perché mai la proposta di ogni infimo ritiro di Israele dai territori illegalmente occupati viene presentata come “concessione” invece che come “restituzione”? Si tratta forse di una “concessione” se Israele rispetta un impegno preso in un trattato che ha firmato? E possono forse definirsi “negoziati” quelli tra israeliani e palestinesi – cioè tra occupanti e occupati – sapendo che il termine “negoziati” implica concessioni reciproche tra due parti sullo stesso piano? Allo stesso modo che significato può avere l’espressione “la violenza deve cessare da ambo le parti” quando tra le due parti vi è un abisso, dal momento che  l’una è uno Stato - la quarta potenza militare al mondo - mentre l’altra  sta subendo da sessant’anni un vero e proprio etnocidio? E perché non ho mai letto da nessuna parte che gli attivisti ebrei antisionisti concedono interviste ad Al Jazeera e alla televisione iraniana, e che i rabbini antisionisti sono soliti bruciare in pubblico la bandiera israeliana  per esprimere il loro rifiuto dello Stato ebraico?”

    L’importantissima guerra delle parole denunciata da Luyendijk è stata condotta da Israele con la spregiudicatezza che gli è propria, e se la situazione non fosse così tragica, ci sarebbe da ridere per le sottigliezze con cui i suoi politici hanno sempre aggirato la legge internazionale, arrampicandosi sugli specchi con la forza della loro evidente impunità, più che di una reale abilità dialettica. Nel 1967 ad esempio, quando  la politica americana non era ancora asservita alle lobbies ebraiche, le Nazioni Unite approvarono la risoluzione 242  che dichiarava inammissibile l’acquisizione di territori con la guerra e ingiungeva ad Israele di ritirarsi “from occupied territories”. I politici israeliani, però, giocando con il fatto che la lingua inglese in questo caso non prevede l’articolo determinativo, successivamente replicarono di avere inteso “da territori occupati”,  quindi non da tutti i Territori Occupati! Allo stesso modo, dopo che negli accordi del 1978 di Camp David tra Begin e Sadat sotto la supervisione di Carter Israele a denti stretti ebbe riconosciuto il diritto del popolo palestinese alla “piena autonomia”, lo stesso Begin – il terrorista dell’Irgun che venne insignito del Nobel per la pace - puntualizzò di avere inteso…“autonomia personale”! Se nel 1993 i malaugurati accordi di Oslo stabilirono fra l’altro che a Gaza i pescatori potessero pescare fino a quindici miglia dalla costa, successivamente Israele rettificò cambiando quindici con tre, per le sue solite insindacabili e non specificate “questioni di sicurezza”: peccato che entro tre miglia dalla costa non ci fosse pesce. Ma questo è il sadico trattamento che viene quotidianamente inflitto agli arabi di Palestina. La spregiudicatezza dei politici sionisti è diabolica, ma essi hanno buon gioco solo grazie all’impunità che l’Occidente ha attribuito al loro paese. La questione israelo-palestinese è davvero la migliore esemplificazione della vecchia fiaba del Lupo e l’Agnello di Esopo: quanta saggezza nelle antiche storie che abbiamo tradotto da bambini! “In Israele le parole hanno un senso orwelliano”, commenta Jeff Halper, “pace vuol dire suicidio, la guerra corrisponde alla pace, così come ritirarsi in realtà vuol dire espansione e rafforzamento” (NOTA: Cfr. Pacifisti da combattimento di Giuliana Sgrena in Il Manifesto, 4 giugno 2006. Jeff Halper, a lungo Professore di antropologia alla Ben Gurion Uniersity, è analista politico e direttore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case (Icahd) - Israeli committee against house demolitions), direttore della rivista critica pubblicata dall’Alternative Information Centre e attivissimo nel movimento pacifista. Nel 2002 Halper fu arrestato mentre protestava contro la demolizione di 58 case a Refah da parte dei mezzi corazzati di Sharon).

    Guerra di parole e sequestro del linguaggio sono anche le parole cancellate, cioè i nomi degli oltre quattrocento villaggi palestinesi distrutti a partire dalla Nakba, la cacciata degli arabi di Palestina nel 1948. In questo caso sono i cactus (NOTA Più propriamente, fichi di Barberia, o fichi d’India, appartenenti alla famiglia delle cactacee), tenacemente ostinati - allo stesso modo dei fatti rispetto alle opinioni - a rendere testimonianza. Questi pazienti cactus che in siepi delimitavano le proprietà palestinesi, per quanto sradicati tendono infatti a rispuntare, segnalando qui e là i villaggi distrutti e privati persino del loro nome in una feroce damnatio memoriae. In arabo cactus si dice saabar, parola che ha la stessa radice di sabr, pazienza, una “qualità molto palestinese ma molto poco israeliana”, come scrive Michel Warschawski (NOTA: Sulla Frontiera, Ed. Città Aperta, 2003. Nato a Strasburgo in una famiglia di rabbini, a sedici anni si trasferì in Israele per compiervi studi talmudici, ma divenne invece uno dei più noti esponenti della sinistra radicale israeliana. E’ stato varie volte in carcere per aver collaborato con organizzazioni palestiensi fuorilegge). In ebraico sabrà  è il fiore/frutto del fico di Barberia, e da questo nome vennero chiamati sabraim i giovani nati in Israele dopo il 1948, che si volevano duri esteriormente ma teneri e dolci all’interno. Questi sabrà però - simbolicamente germogliati su siepi di pazienti cactus palestinesi sradicati e negati – sono fioriti su una terra  promessa loro al di fuori di ogni diritto solo per i giochi di potere dei vincitori della Grande Guerra: una terra strappata con l’inganno, con una spregiudicata conquista e con la complicità del cosiddetto “mondo civile” che non aveva saputo contrastare la politica da cui era scaturito l’Olocausto.

    Per raccontare al mio pubblico queste sottigliezze semantico-simboliche, ho spesso consumato una buona metà del tempo che mi  era concesso. E dopotutto questo tema  - per quanto di primaria importanza – mi allontanava dai fatti inoppugnabili cui avrei dovuto concedere il massimo spazio. Ma come si può, in poco più di novanta minuti, contestualizzare in parole semplici una vicenda così dolorosa e complicata? D’altro canto, fuori da questo singolarissimo contesto non si può comprendere (nel senso etimologico di prendere nella sua completezza) la tragedia israelo-palestinese. E come si può prescindere dal valoroso tentativo di sgomberare il campo dalle incrostazioni di una propaganda quasi uniformemente indiscussa, che è diventata vulgata comune al punto che alla prima affermazione controcorrente si viene accusati di essere – orrore degli orrori - antisemiti? Più di una volta, lo confesso, ho avuto la tentazione di rispondere con una boutade: “Oh, certo che no, non sono antisemita, io amo gli arabi!”: ma il pubblico delle università della terza età e del tempo libero – cioè l’italiano medio, e questo ad essere ottimista - non ha molta dimestichezza con i semiti, tra i quali mi è spesso capitato di vedere collocati anche gli arianissimi iraniani, e non avrebbe dunque compreso l’ironia.

    In seguito, ho pensato che sarebbe stato meglio affrontare la questione in medias res, smantellando  uno per uno i capisaldi della vulgata israeliana. Li conoscevo molto bene perché erano stati moneta corrente – e indiscussa – nella mia famiglia d’origine: “Hanno trasformato un deserto in un giardino”, “Era giusto dare loro una terra, dopo l’Olocausto”, “La terra l’hanno comprata”, e via di seguito. Che da questo scenario mancassero, stranamente, gli arabi di Palestina che pure in quella terra avevano abitato ininterrottamente negli ultimi  tredici secoli, non  aveva mai innescato alcun sospetto: se c’erano, facevano parte del paesaggio, non contavano più degli alberi, delle pietre, non avevano storia, o la loro storia non interessava a nessuno. In sostanza, era sottinteso che erano degli incivili, dei pigri, e  certo era colpa loro se erano stati cacciati!

    Ricordo un appassionante film che vidi nella prima adolescenza, Exodus, tratto dall’omonimo romanzo di Leon Uris, un ex marine statunitense di origini ebraiche. Al tempo, ebbi chiara la sensazione che per i miei genitori - che avevano vissuto in prima persona la tragedia della seconda guerra mondiale e delle deportazioni naziste - la riscossa ebraica mostrata nel film avesse una portata profondamente catartica. Quanto a me, amai Paul Newman/Arì Ben Canaan e le sabrà come sua sorella Giordana – belle e altrettanto coraggiose – e nel mio innocente romanticismo di bambina desiderai essere parte di quella gloriosa epopea, sedere con Newman sulla terrazza del King David di Gerusalemme che Begin – il futuro Nobel per la pace - avrebbe di lì a poco fatto saltare uccidendone un’ottantina di ospiti inglesi, arabi ed ebrei. Su questo però il film  non si soffermava. A dire il vero, rivedendolo in anni recenti con una disposizione d’animo fortemente prevenuta contro il sionismo, sono stata invece sorpresa della sua sostanziale fedeltà ai fatti, almeno per quel che riguardava gli ebrei. Anche in Exodus, però, degli arabi non si parlava affatto: nello scenario erano sullo sfondo, praticamente inesistenti. La verità leggermente deformata, però, è ancora più pericolosa, più difficile da combattere, di una totale menzogna. Poco dopo essere uscito all’inizio degli anni sessanta, il film sparì dagli schermi: in quegli anni infatti non si voleva – o non conveniva - irritare gli arabi. Né ci si  sognava di celebrare la “giornata della memoria”: del resto, Israele non aveva ancora bisogno di difendere il proprio operato, visto che la sua politica – o almeno la forma che offriva al mondo - godeva di un generale consenso.

    Nel 1967, ero accanto a mio padre davanti al teleschermo che trasmetteva le immagini della “guerra dei sei giorni”, e facevamo il tifo per Israele, il “piccolo, eroico David” che rischiava di essere annientato ma che, con Dio dalla sua parte, sbaragliava  in men che non si dica il “barbaro Golia arabo”. Ricordo che mio padre – il mio sensibile, mite e coltissimo padre - rideva dei soldati egiziani sbandati e sconfitti, con le loro ciabatte di plastica; rideva dei loro camion obsoleti, della loro aviazione distrutta, dei carri armati abbandonati nel deserto che avrei visto di persona una ventina di anni dopo – nel Sinai di nuovo egiziano dopo gli accordi di Camp David – ormai arrugginiti e semisepolti dalla sabbia. E ancora non nutrivo alcun dubbio – e nessun interesse – per versioni diverse da quella in cui credevano i miei genitori. Alle vicende della Palestina sono arrivata attraverso lo studio dell’impero britannico – ho insegnato per più di vent’anni letteratura inglese al Liceo – ed è su libri inglesi che ho toccato con mano la tragedia della dissennata spartizione del Medio Oriente  operata dalle potenze vincitrici dell’orrendo massacro che è stato trionfalisticamente chiamato Grande Guerra. Ho conosciuto i dettagli, che la propaganda e i libri di scuola scritti dai vincitori trascurano ma che spesso fanno la differenza, e la direzione del mio sguardo è mutata per sempre. In un certo senso, è finita così la mia lunga infanzia: non sarei più stata quella di prima.

    Nel 1992, dopo essermi battuta contro la vulgata che osannava alla necessità di combattere la prima, funestissima “guerra” del Golfo, lessi un libro geniale Fuori dall’Occidente, ovvero Ragionamento sull’“Apocalisse” il cui autore, Alberto Asor Rosa,  analizzava come, per la prima volta nella storia, uno stato – gli USA – si fosse arrogato l’imperium universale, cioè la libertà di essere allo stesso tempo, da solo, giudice, gendarme e boia di qualsiasi conflitto a livello mondiale. Asor Rosa constatava anche come “l’unità dell’Occidente” consista in questo stato di cose sicché, nonostante una guerra possa restare circoscritta come localizzazione ed effetti immediati, assurge però “a significanza mondiale, in quanto gli effetti che ne conseguono investono tutti, e a nessuno è consentito di sottrarvisi. Se, infatti, ci si sottrae, si entra nella schiera dei reprobi”. La lucidità di questa analisi è stata confermata un decennio dopo nel caso dell’attacco punitivo all’Afghanistan e della seconda “guerra” del Golfo. Nel libro succitato Asor Rosa parla anche del ruolo svolto, in questo “terribile tornante” dell’Occidente, da Israele che dell’Occidente è diventato una frontiera, o una provincia, avendone “ripreso e praticato fino in fondo la caparbia ostinazione a mettere il proprio principio, purificato da ogni contaminazione esterna, al centro del mondo”. 

    Al contrario, nella sua essenza l’ebraismo era puro Oriente e in quanto tale ricordava all’Occidente il suo limite: infatti, come scrive Asor Rosa, “della contraddizione che ha animato la storia dell’Occidente, è stato uno dei principi più attivi”, irriducibile - nonostante persecuzioni e pogrom - all’assimilazione che “l’occidente ha sempre preteso come forma concreta di un vero e proprio atto di subordinazione - subordinazione culturale, ideologica, comportamentale - ai modelli di potere dominanti”. Israele è stato il risarcimento all’ebraismo per l’Olocausto, cioè il riconoscimento della legittimità “di un luogo fisico esterno all’occidente, nel quale l’ebraismo potesse ricostituirsi in nazione e, quel che è peggio, in stato. (…) E, come l’Occidente è abituato da sempre a fare, questa operazione è stata condotta in porto non con il proprio sacrificio, - sacrificio o rinuncia di idealità, di pregiudizi, di tradizioni, di territori, - ma con il sacrificio di popolazioni altre, incolpevoli e non consenzienti. La colpa dell’occidente verso l’ebraismo è stata risarcita, assumendosi il carico di una colpa altrettanto grave verso l’islam. L’occidente non può fare atti di giustizia; può soltanto passare da un atto d’ingiustizia all’altro, cercando semplicemente di iniettare il primo nel secondo”.

    Un altro tragico aspetto di questa tragicissima vicenda è che, per diventare Israele, l’ebraismo, per la prima volta nella sua lunga storia, ha dovuto accettare la logica dell’Occidente “E’ nato uno stato, e si è dissolto un popolo. Si è sviluppato un esercito meraviglioso, una forza invincibile, e si sono dissipati come nebbia al sole una tradizione e un pensiero. (…) L’occidente intero è più forte per merito dell’esercito e dello stato di Israele”, continua Asor Rosa, ma “senza pensiero ebraico, è più povero e al tempo stesso più rozzamente, banalmente totalitario. (…) Una grande fonte del pensiero mondiale, più volte alternativa alla cupa gravezza e all’ossessione di dominio dell’efficientismo tecnologico occidentale, si è disseccata”. Nel libro La guerra (NOTA: Edizione Einaudi, 2002), Asor Rosa definisce catastrofico questo passaggio all’Occidente per cui “da un popolo di pensatori e di religiosi è nato un popolo di zeloti”.

    Leggendo questi libri mi resi conto per la prima volta dell’entità della perdita che la nascita di Israele ha inflitto alla civiltà e alla giustizia. Ma come raccontare in una manciata di minuti a un pubblico sostanzialmente prevenuto tutte le immagini che le parole di questo libro mi avevano portato alla mente? Le mie passeggiate nel cimitero ebraico di Venezia; i racconti degli scrittori arabi sulla loro Gerusalemme, i cui resti evocativi ho conosciuto in una sera tiepida durante la prima Intifada, nel suq deserto e un po’ spettrale per lo sciopero dei palestinesi; la verde Palestina senza lo scempio delle colonie, del cemento, del filo spinato, senza l’oltraggio del mostruoso, costosissimo “muro della vergogna”; le storie di ordinaria quotidianità di centinaia di migliaia di arabi di Palestina privati della loro casa, della patria e in  moltissimi casi anche della vita; i milioni di loro discendenti che, ancora in possesso della chiave e dei certificati di proprietà delle loro abitazioni perdute, nascono, vivono e muoiono nell’esilio di campi profughi  al di fuori della Palestina; il faustiano Grande Rabbi Loew, il Maharal della Praga magica del suo protettore Rodolfo II d’Absburgo, la cui tomba ho onorato nel suggestivo cimitero ebraico di quella città - egli che avrebbe imposto sulla fronte del Golem le tre lettere della parola ebraica che significa “verità”, per cui togliendo l’Alef, prima lettera dell’alfabeto, possente simbolo di unità, non rimangono infatti che Mem e Tau, che in ebraico significano “morte”; la Qabbalà cui mi sono avvicinata nelle pagine dello Scholem; la splendida civiltà andalusa con Averroè e Maimonide, futuro medico del grande Saladino al Cairo, quando ancora le vie del Mediterraneo erano aperte e univano, invece di  dividere; lo yiddish della grande tradizione askhenazita; il ladino e il judezmo che - ricchi di termini del castigliano del XV secolo – ho ritrovato a Salonicco, nei ricordi dei discendenti della diaspora sefardita forzata dai Re Cattolici di Castiglia e Aragona, i quali trovarono ottima accoglienza sotto i sultani ottomani; ancora a Salonicco, la sinagoga-moschea dei ma’min, i discendenti di Sabbatai Zevi il visionario di Smirne; le case, le moschee della Palestina i cui resti, sopravvissuti ai feroci bulldozer di Israele, si sbriciolano tra le irriducibili siepi di cactus; l’antica sinagoga nel cuore di Djerba, con il suo interno azzurro e l’ormai esigua comunità ebraica che, indistinguibile nell’aspetto dagli arabi locali, è tra le poche tracce rimaste di una secolare convivenza arabo-ebraica continuata fino agli anni sessanta del Novecento; l’antica sinagoga di Hanià, a Creta, e le tombe dei suoi rabbini ombreggiate da alberi cui stanno appesi i nastri dei desideri così comuni in Oriente; ma soprattutto, forse ancora peggiore di tutte queste dolorose, irrecuperabili perdite della civiltà umana, l’odio che - cresciuto in più di sessant’anni di violenza inflitta a un intero popolo – è destinato ad infettare inevitabilmente anche le prossime generazioni. Possono forse la tremenda ingiustizia e le perdite subite dagli arabi di Palestina – la loro Nakba, la “catastrofe” – e in aggiunta la perdita dell’anima dell’ebraismo, che era un’anima orientale, essere ritenute accettabili in cambio di Israele, del suo pensiero unico, della sua arroganza tutta occidentale visualizzata dai suoi soldati superdotati delle armi più micidiali, così da non distinguersi affatto dai soldati statunitensie da non essere nemmeno lontanamente associati alla figura tradizionale – vergognosa per i sionisti - dell’Ebreo errante, perseguitato? Può forse tutto questo olocausto placare le vittime dell’Olocausto?

 

Claudia Berton, CIVG     -   ( Autrice tra gli altri suoi lavori de “Gli Spinosi cactus di Palestina – Zambon ed.)