Il settarismo o il fallimento di una prospettiva democratica in medio oriente

 

Il ruolo della monarchia saudita

          La recente felice conclusione della delicatissima trattativa sul programma nucleare iraniano ha suscitato sconcerto e preoccupazione in seno alla casa regnante saudita ai cui occhi l’evento ha costituito l’ulteriore conferma della fondatezza dei timori provati circa il progressivo allentamento della relazione strategica tra Washington e Riyadh.

          La caduta del regime sunnita di Saddam Hussein, conseguente all’invasione dell’Iraq da parte degli anglo-americani nel 2003, rimpiazzato da un governo a direzione sciita, fatto assolutamente inedito nella realtà araba, e il fallito tentativo di “regime change” in Siria dove l’intervento russo, iniziato lo scorso autunno, ha significato l’allontanarsi nel tempo di un obiettivo del cui mancato conseguimento i sauditi attribuiscono in buona misura la colpa all’“irresolutezza” dell’Amministrazione Obama, hanno fatto trapelare alla monarchia saudita la materializzazione di un arco sciita in grado di coprire l’immenso spazio tra il porto iracheno di Basra sul Golfo Persico e la capitale del Libano, Beirut.

 

Da qui in larga misura traggono la loro matrice le decisioni in chiave regionale adottate dalla monarchia saudita sia durante il regno del defunto monarca Abdullah sia, ancor più marcatamente, dal suo successore Salman bin Abdullaziz.

Nel marzo 2011, nel bel mezzo della Primavera araba, l’Arabia saudita, unitamente alle forze degli Emirati arabi uniti, interviene nel finitimo Bahrein per reprimere un movimento di rivolta inscenato dalla maggioranza sciita del Paese contro gli abusi e l’emarginazione che il re Khalifa, sunnita e imparentato alla dinastia Saud, impone a tutto vantaggio di un’oligarchia sunnita che, a detta degli attivisti anti-regime, perseguirebbe politiche discriminatorie su base settaria, fonte di tensione e di un clima malsano nel minuscolo Regno.

Vi è da rilevare che l’intervento militare di Riyadh, giustificato da un patto di reciproca assistenza in ambito regionale che non trovava riscontro nella realtà degli atti posti in essere nella fattispecie dai due Governi del Golfo, ha avuto luogo nel complice silenzio dell’Occidente che ha chiuso letteralmente gli occhi di fronte ad un intervento repressivo mirato a perpetuare un ordine dinastico, soffocatore di legittime istanze di libertà e democrazia, visto per converso dai suoi autori come la mossa necessaria per “arginare l’espansionismo iraniano” [i].

La ferma determinazione saudita di non consentire spazi alle “quinte colonne” sciite, che, seppur arabe, sono considerate dalla oligarchia saudita come agenti al servizio di Teheran, si estrinseca in maniera più netta ed inflessibile dopo la scomparsa di re Abdullah, avvenuta un anno fa, e l’ascesa al trono di Salman bin Abdulaziz, destinato ad essere l’ultimo sovrano facente parte della schiera dei numerosi figli del fondatore del regno Abdulaziz ibn Saud.

Il cambio della guardia intervenuto alla corte wahabita accresce vistosamente l’irrigidimento saudita di fronte a quello che viene percepito come una “minaccia esistenziale” [ii], ovverossia l’emergere della Potenza sciita iraniana sull’altra sponda del Golfo, determinata,  a parere di Riyadh, dalle improvvide scelte di un alleato americano che in poco più di dieci anni ha prima sconvolto, con il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, un equilibrio regionale tanto delicato quanto nevralgico per gli interessi sauditi e successivamente ha dato prova di crescente distacco e tiepida considerazione nei confronti delle esigenze del regno.

Le nuove figure attorno al nuovo re sono alquanto illuminanti circa il nuovo corso nella politica regionale saudita. Il nuovo principe ereditario, Mohammed bin Nayef, figlio di uno dei personaggi più intransigenti della dinastia, Nayef bin Abdelaziz, protagonista della feroce repressione contro Al-Qaeda nella seconda metà dello scorso decennio, e soprattutto il suo vice, Mohammed bin Salman, figlio del sovrano e, appena trentenne, nominato Ministro della difesa, non perdono tempo nell’imprimere una direzione ferma e risoluta, inflessibilmente mossa dall’intento di non consentire inserimenti di qualsiasi forma agli odiati iraniani nella penisola araba.

Perché abbiamo parlato di inserimenti di qualsiasi forma? Tale formulazione deve la sua ragion d’essere al fatto che, come già segnalato, agli occhi dei sauditi, gli sciiti, siano essi sauditi, yemeniti o di Bahrein, vengono sempre visti come “quinte colonne” degli interessi iraniani; ergo non solo quindi eretici ed apostati, al pari dei “Crociati” infedeli, ma anche agenti al servizio di una Potenza straniera.

In definitiva tutto ciò ha inevitabilmente comportato un’esasperazione dell’impronta settaria nelle decisioni assunte da Riyadh con le terribili conseguenze riscontrabili nei “killing fields” che da anni insanguinano il Medio Oriente, in Siria, Iraq, Yemen, Libano, citando le realtà più colpite dall’orgia di un settarismo che allontana la prospettiva di crescita democratica e sviluppo del mondo arabo.

Ed è quello che inesorabilmente si è prodotto nel corso dell’ultimo anno. Lo scorso marzo, nonostante i malumori dell’alleato USA e il giudizio fortemente negativo dell’Unione europea, Riyadh scatena una campagna di bombardamenti aerei contro il finitimo Yemen, il Paese più povero del mondo arabo per punire la minoranza Houthi, araba ma dal punto di vista religioso appartenente alla branca Zaydi dello sciismo, colpevole di far valere i propri diritti dopo più di trent’anni di dittatura ed emarginazione imposte dall’autocrate Ali Abdullah Saleh, all’epoca fedele amico dei sauditi. Gli Houthi si mostrano determinati a portare avanti un progetto di riassetto federale che tenesse maggiormente conto del carattere composito e diversificato di un Paese tanto povero quanto nevralgico per la sua posizione strategica, una delle due porte d’ingresso del Mar Rosso.

L’intervento militare è tuttora in corso con spaventose conseguenze sulla popolazione civile. Esso, com’era prevedibile, non ha prodotto fino ad ora gli effetti sperati se non altro, dettaglio tutt’altro che secondario, perché la rivolta degli Houthi trae la sua origine da questioni strettamente legate alla storia, passata e presente, dello Yemen, che non potranno mai essere eliminate attraverso un’aggressione di una potenza esterna. Questa, al contrario, appare destinata ad aggravare un quadro precipuamente politico che solo in un ambito nazionale potrebbe trovare vie di uscita dalla crisi.

L’impulsivo e irruento prediletto figlio del sovrano, Mohammed bin Salman, avrebbe svolto, secondo i più, un ruolo determinante nella decisione di scatenare una guerra insensata ai confini meridionali del Regno dalle conseguenze letali sulle terribili tensioni che scuotono da qualche anno l’intera area medio-orientale.

Proseguendo nella stessa direzione lo scorso dicembre Riyadh decide di creare la “Islamic Military Alliance” cui aderiscono 34 Paesi, guarda caso tutti sunniti, compresa la Turchia, il cui scopo è di organizzare nel modo più efficiente la “lotta al terrorismo”. Tale iniziativa, che non prevede peraltro un “volet” militare ma solo la creazione di un pool volto a migliorare l’attività finalizzata all’intelligence, suscita lo scetticismo di molti commentatori per i quali essa si caratterizza soprattutto come ulteriore passo del Regno verso una solidarietà basata sulle affinità religiose, ergo settarie.

L’impiccagione avvenuta nel corso di questo mese dello sceicco Nimr al-Nimr, sciita, sostenitore dei diritti della minoranza della stessa fede, popolante la regione orientale dell’Arabia saudita (circa 10 milioni di anime), sempre dichiaratosi fermamente contrario alla violenza, ha segnato un’ulteriore tappa nel perseguimento di una linea che vede nell’aggravarsi delle contrapposizioni a carattere settario il miglior tramite per tutelare e promuovere gli interessi della dinastia Saud; avvalendosi in questo poco illuminante processo del ringhioso e bigotto sostegno del clero wahabita, pronto ad esaltarsi in una sorta di frenesia delirante ogni qual volta si tratti di arginare e sconfiggere gli apostati sciiti, “meritevoli di essere schiacciati come dei sorci”, secondo quanto registrato in esternazioni emananti da qualche ulema.

In effetti, il settarismo è nient’altro che la manifestazione di come questioni e istanze di inequivocabile portata politica, il portato di dinamiche e processi frutto di decenni di malgoverno, abusi di ogni genere e corruzione, caratterizzanti regimi screditati ed assolutamente non rappresentativi delle comunità da essi dominate, non abbiano a tutt’oggi avuto alcuna concreta risposta. Ergo la degenerazione in chiave settaria, dagli effetti sinistramente moltiplicativi, e la mancata risposta alla domanda di democrazia e reale sviluppo costituiscono al momento il fallimento di una Primavera araba che era scaturita da moti di rivolta, perseguenti ben altre e ben più incisive finalità [iii].

 

Il veleno settario della Casa Saud

Da quando è nata l’idea di una unificazione della penisola arabica sotto la guida della dinastia Saud, i germi settari sono sempre esistiti nella patria del Profeta, dove le due città sante dell’Islam, Mecca e Medina, sono da secoli luoghi di pellegrinaggio e venerazione. Il ruolo attribuito al re saudita comprende anche quello di “Custode dei due luoghi sacri dell’Islam”, ovverossia le due città sopra indicate. Egli è altresì l’Imam supremo della comunità sunnita, il punto di riferimento principale della Ummah, il cui verbo acquista una risonanza indiscussa presso la grande maggioranza dei fedeli, considerando che i sunniti sono più dell’ottanta per cento del miliardo e mezzo di mussulmani sparsi nel mondo.

Per secoli sunniti e sciiti hanno convissuto, sostanzialmente in maniera pacifica, nelle aree toccate dall’Islam. Il forte antagonismo creatosi tra la Persia sciita dei Safavidi nei due secoli (1501-1736) in cui questa dinastia proveniente dall’Azerbaijan ha cesellato i tratti fondanti dell’attuale Repubblica islamica, e l’Impero ottomano ha riguardato fondamentalmente uno scontro di Potenze interessate al dominio dell’area medio-orientale più che una guerra dai tratti settari. Nelle terre sotto dominazione della Sublime Porta gli adepti delle due principali correnti religiose convivevano senza eccessivi contrasti o insopprimibili livori.

Tutto questo doveva cambiare nel 18° secolo con il malsano accordo intervenuto nel cuore profondo e poverissimo della Penisola arabica (il deserto del Najd) tra un fanatico monaco Muhammad ibn Abd al-Wahhab e un capo tribù Muhammad bin Saud, dai nomi storicamente rievocativi. L’intesa, destinata a sconvolgere una realtà islamica fino a quel tempo piuttosto unita e coesa nel, seppur differenziato, rispetto dei valori trasmessi dal messaggio del Profeta, prevedeva l’accettazione da parte di Muhammad bin Saud del credo rigorosamente puritano, esclusivista ed intollerante professato da al-Wahab, il quale in cambio di ciò prometteva obbedienza politica ed un sostegno totale alle mire di potere del capo tribù, desideroso di asservire le altre comunità del deserto arabico in un disegno di unificazione di tutta la Penisola imposto con la forza delle armi.

Da quel momento inizia una nuova fase della storia araba di cui continuiamo a vedere gli effetti devastanti al giorno d’oggi. E’ da quel momento, dalla seconda metà del 18° secolo, che inizia un processo di distruzioni e di disgregazione volto alla conquista dello spazio arabo, portando avanti una “jihad” dai tratti ben diversi da quelli osservati all’indomani della morte del Profeta, dai quali per converso erano scaturiti gli splendori della “Golden Age” (Età d’Oro) della dinastia abbaside avente il suo centro principale a Bagdad.

Da quell’accordo è nata dunque l’entità saudita con il suo credo wahabita considerato dagli studiosi come la branca saudita del Salafismo, corrente del pensiero islamico, al suo interno differenziata, richiamante il ritorno alle pristine tradizioni della religione del Profeta. Da quell’accordo è iniziato altresì il processo di profonde, insanabili divisioni della Ummah, del quale le terribili conseguenze sono sotto i nostri occhi, alimentato dall’intransigente difesa wahabita dell’unicità (“tawhid”) del credo, dall’esclusivismo e dal totale rifiuto di forme di dialogo con coloro professanti interpretazioni divergenti del messaggio coranico.

La Casa regnante dei Saud e la nomenclatura religiosa sono stati dunque per più di due secoli e continuano ad essere i principali propagatori del wahabismo violento ed intollerante. Centinaia di milioni di dollari vengono spesi dall’Arabia saudita per finanziare in ogni parte del mondo la costruzione di moschee e di scuole religiose dove il severo messaggio wahabita viene insegnato da predicatori, araldi di un estremismo ideologico che non ammette dubbi e confronti, seminando in tal modo divisioni, intolleranza e odio settario. Questo è il prezzo che la casa regnante deve pagare per garantirsi l’appoggio politico del becero e bigotto clero wahabita sì da perpetuare un sistema di privilegi e di dominazione rimasto inalterato nei suoi tratti essenziali dal 1932, anno della fondazione dell’entità monarchica.

Ben poco è cambiato dal momento in cui un capo tribù beduino e un monaco fanatico siglarono un accordo che ha portato morte, dolore e sofferenze a una comunità religiosa che originariamente considerava l’uccisione di un mussulmano da parte di un altro mussulmano un vero e proprio crimine. La deviazione consumata nel deserto del Najd secerne, ora più che mai, i propri nefasti effetti su una regione e su una comunità islamica che da un secolo e mezzo sono vittime di un dominio spietato da parte di Potenze esterne, situazione dalla quale purtroppo al momento non s’intravvede alcuna via d’uscita.

L’ISIS è una minaccia mortale per il sovrano saudita ma al contempo è un’emanazione della realtà di quel Paese nella misura in cui esso condivide con i sauditi, ed in particolare con l’oscurantismo degli influenti ambienti religiosi, l’obiettivo di arginare le temute mire espansive della teocrazia iraniana dove vige un sistema di potere che fa orrore, oltre che al clero bigotto, anche ed in misura forse maggiore ai governanti di Riyadh. Perché questo? Per la semplice e spesso trascurata ragione che l’intento fondamentale di questi ultimi rimane la salvaguardia di un assetto dinastico che non s’intende porre in discussione, molto più dell’avvento di una società governata secondo i precetti dettati dalla sharia o legge coranica.

Prova di ciò è data dal fatto, tutt’altro che secondario, che la patria del Profeta è stata da sempre ricettacolo o rifugio dei personaggi più spietati e squalificati del mondo islamico, che si tratti del famigerato dittatore ugandese Idi Amin Dada o del tunisino Ben Ali, nemico acerrimo dell’islamismo, “enfant chéri” dell’Occidente liberale. L’infame regime di Ben Ali è stato rovesciato nel 2011 dal moto di rivolta scatenatosi nel suo Paese dopo più di vent’anni di regime autocratico. Amin Dada è passato ad altra vita mentre Ben Ali si gode la sua pensione dorata in una confortevole residenza a Gedda, sulle rive del Mar Rosso.

Come si può notare, la realtà saudita è alquanto complessa e, come vedremo appresso, corrosa da qualche tempo dai germi dell’instabilità. Ma la devianza wahabita costituisce ancora, a distanza di più di due secoli, l’aspetto fondante e assolutamente indiscusso dell’autocratico Regno, delle cui incidenze, come già detto, sono i mussulmani, quelli devoti e profondamente legati ai valori autentici dell’Islam, ad essere le principali vittime ed a pagare il principale tributo di sangue.

 

Un mutato quadro regionale

L’aggressione perpetrata contro lo Yemen, alle prese con problemi attinenti alla sua complessa storia, e l’impiccagione del più autorevole portavoce della minoranza sciita nel Paese, lo sceicco Nimr al-Nimr, hanno contribuito ad esasperare ulteriormente la contrapposizione settaria nella regione, destabilizzando il quadro politico interno ed aggravando il rapporto dell’Arabia saudita con l’Iran.

Quel che occorre notare è che l’accentuazione della bellicosità della Potenza wahabita interviene paradossalmente in un momento in cui le variabili nel contesto

internazionale, politiche ed economiche, indeboliscono la posizione saudita, rendendola più fragile e vulnerabile.

Molto è cambiato da quando l’Arabia saudita, nella prima metà del secolo scorso, era in gran parte un’immensa distesa desertica, unificata nel sangue dal suo fondatore, Ibn Saud, attraverso una guerra di conquista rivolta prima contro le tribù diverse dalla sua e, successivamente, contro gli Ikhwan (“fratelli”), non disposti a avallare il tradimento perpetrato dal sovrano, colpevole di accedere alle lusinghe emananti dagli infedeli angloamericani ( petrolio ed armi).

Nei decenni successivi il Regno wahabita è divenuto una temuta Potenza regionale, alleato strategico degli Stati Uniti e primo produttore ed esportatore di petrolio al mondo, ago della bilancia degli equilibri strategici nella regione.

Il rovesciamento della feroce dittatura dello Scià in Iran, altra creatura prediletta dell’Occidente, avvenuta alla fine degli anni ’70, ha ulteriormente esaltato il ruolo e l’importanza di Riyadh nella misura in cui un potente alleato dell’Occidente diveniva d’un solo colpo un suo temibile nemico con la nascita, sulla sponda opposta del Golfo, di una Repubblica islamica.

Tutto questo è durato fino a pochi anni orsono, fino al momento in cui l’esplosione della Primavera araba e l’ingresso degli Stati Uniti nel club dei Paesi produttori di petrolio, grazie alle innovazioni tecnologiche realizzatesi nel campo energetico, hanno indubbiamente indebolito il peso della monarchia alla luce delle conseguenze derivanti dai succitati sviluppi.

La più importante è stata l’inevitabile allentamento del legame strategico con Washington, la cui dipendenza dal mercato medio-orientale è vistosamente calata, cui si è accompagnato l’intento, tenacemente perseguito dall’Amministrazione Obama, di normalizzare la relazione diplomatica con l’Iran, ponendo termine ad una chiusura durata più di trent’anni, dal momento dell’avvento del khomeinismo alla fine degli anni ‘70.

Ciò detto, non mi sentirei di passare sotto silenzio i mutamenti intervenuti all’interno del Regno, particolarmente all’indomani della scomparsa di re Abdullah avvenuta nel gennaio dello scorso anno. Essi potrebbero produrre sviluppi al momento difficili da prevedere.

L’ascesa al trono di re Salman, vecchio e cagionevole di salute, ha rappresentato da una parte un irrigidimento sotto il profilo ideologico e religioso, facendo registrare un avvicinamento agli ambienti, soprattutto religiosi, più intransigenti e ostili a quel cauto ammodernamento iniziato dal defunto sovrano, dall’altra ha comportato la consegna di ruoli chiave nella direzione politica ed economica del Paese a figure, come il prediletto figlio di Salman, Mohammed bin Salman, dalla giovanissima età, il quale è divenuto in tempo brevissimo Ministro della Difesa, numero due alla successione al trono e capo supremo dell’organo istituito per il riassetto dell’apparato economico saudita. L’intento di ristrutturare il sistema economico è determinato dal forte calo intervenuto nei proventi petroliferi e dalla necessità di diversificare l’economia saudita, rendendola meno dipendente dai calanti proventi delle vendite di petrolio, accrescendo il ruolo del “non-oil sector” nella produzione della ricchezza nazionale. L’obiettivo è anche quello di combattere una corruzione nel Paese dagli effetti devastanti.

Non sottovaluterei l’impatto, potenzialmente destabilizzante, di questi sviluppi interni. Vivo è il malcontento serpeggiante in seno alla casa reale al punto che da taluni ambienti non si esclude la possibilità che la “tracotanza” dell’ambizioso Mohammed, principale artefice della decisione di scatenare l’insensata e dispendiosa guerra d’aggressione nel finitimo Yemen, possa suscitare moti di ripulsa alquanto rischiosi per la stabilità del Regno.

La coesione della famiglia reale apparirebbe essere in pericolo. Prassi che sembravano costituire un inviolabile codice di condotta ai vertici della gerontocratica piramide politica, quali il rispetto della “seniority”, dell’esperienza arrecata dall’età e dalla possibilità di far tesoro di riflessioni prolungate, dalle quali far scaturire decisioni attentamente soppesate, sembrano essere state brutalmente cancellate.

Fonti informative attendibili fanno stato di tensioni esistenti tra i due Mohammed, il principe ereditario bin Nayef, ed il suo giovane vice, bin Salman. L’ambizione e la sete di potere di quest’ultimo vengono additate da alcuni commentatori come una delle cause delle tensioni cui il Regno si trova confrontato dopo la scomparsa di re Abdullah.

Il crollo del prezzo del greggio, con un deficit di bilancio di $98 miliardi, una forte contrazione del tasso di crescita al punto che circolano voci su un possibile deprezzamento del ryal, la moneta nazionale, e la conseguente minore disponibilità di risorse finanziarie costituiscono motivo di preoccupazione per garantire la stabilità del Paese, molto spesso ottenuta attraverso cospicue elargizioni di denaro a favore degli strati sociali meno abbienti o destinatari di particolari attenzioni (militari, funzionari). Comprarsi il consenso, calmando il livore verso un’oligarchia al potere i cui smisurati privilegi seminano malessere e profonda insoddisfazione, sembra diventato un esercizio piuttosto arduo.

Questo avviene nel momento in cui la monarchia deve finanziare una guerra alla sua frontiera meridionale, il cui costo si aggirerebbe sui $6 miliardi al mese, destinata a durare nel tempo e far fronte al suo interno alla minaccia terrorista dell’ISIS, il cui intento è l’inasprimento dello scontro settario, via attraverso la quale colpire la stessa casa reale, giudicata dei movimenti jihadisti corrotta e desiderosa unicamente di perpetuare un sistema di potere ed oppressione in aperta violazione degli insegnamenti del Corano.

Il messaggio jihadista tocca corde sensibili nel profondo della società saudita, dove non trascurabili sono i settori ricettivi e disposti a lavare le ferite del tradimento consumato dal fondatore del Regno negli anni ’20 nei confronti dei più fedeli adepti del wahabismo. Una società sicuramente ricca e prospera ma dove allignano tuttavia le aree di povertà se è vero che, dei 21 milioni di abitanti del Regno, tra i 2 e i 4 milioni vivono al di sotto della soglia di povertà, anch’essi potenziali facili prede del terrorismo dell’ISIS.

Di tutto questo si è ben consapevoli nei circoli dominanti a Riyadh. E questo spiega in buona misura come non del tutto lontana dal vero appare ai nostri occhi la percezione che alla fin fine è come se si fosse in presenza di un agone tra la casa Saud e l’ISIS per apparire nel mondo arabo quelli in grado di colpire con maggiore implacabile durezza  gli apostati sciiti, dovunque essi appaiano e dovunque siano visti come una minaccia al messaggio wahabita ed alle sorti della monarchia saudita.

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Questa sensazione non promette nulla di ben auspicante nel martoriato scenario medio-orientale nella misura in cui dietro l’orgia sanguinaria in corso sussistono calcoli e disegni ben finalizzati alla perpetuazione di retrivi assetti di dominio.

La Tunisia, seppure pervasa anch’essa da tensioni settarie, rinnova il proprio carattere di eccezione in questo insensato paesaggio di morte e distruzione. Nel Paese dei gelsomini si continua a riservare ancora spazio a movimenti di contestazione non degenerati ma espressione autentica di un malessere insopprimibile determinato da povertà, mancanza di lavoro ed emarginazione. Essi riprendono in pieno il sentiero intrapreso negli stessi luoghi nel lontano dicembre 2010, testimonianza di una volontà di riscatto che trae la sua forza dal contesto reale della lotta per un divenire migliore.

 

 

 

 

 

 



 

[i]  L’intervento saudita è apparso in verità del tutto in discrasia con l’accordo di reciproca assistenza che vincola i sei Paesi membri del Gulf  Cooperation Council. In effetti non di una minaccia esterna alla integrità ed indipendenza di Bahrein si trattava ma di una rivolta interna al minuscolo regno generata da problemi di ordine interno.

 

[ii]  Curiosamente la medesima definizione usata da Israele sul medesimo tema.

 

[iii] I moti che hanno scosso in questi giorni la Tunisia, culla della Primavera araba, suonano conferma di come le attese di maggiore giustizia ed equità sociale siano rimaste largamente disattese a distanza di più di sei anni dal sacrificio del povero fruttivendolo di Sidi Bouzid.