Una chiave di lettura dell'estremismo jihadista

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Quadro generale

Quel che è avvenuto all’inizio dell’estate del 2014 è un qualcosa che ha stupefatto il mondo intero.  Lo “Stato islamico in Iraq e nel Levante”, nato dallo scempio perpetrato in Iraq dall’esercito di occupazione USA nel periodo 2006/2008, gli anni di sangue della repressione anti-jihadista, storicamente equiparata dagli iracheni al Sacco di Baghdad da parte dei Mongoli nel 1258, è riuscito nell’arco di poche settimane a infliggere umilianti sconfitte all’esercito iracheno, dando vita in tal modo al Califfato dello Stato islamico, che, a distanza di quasi due anni, continua ad occupare ampi spazi della Siria nord-orientale e dell’Iraq nord-occidentale; uno spazio che travalica la frontiera tra i due Paesi, lascito della presenza coloniale europea in quell’area, e che ripristina forme istituzionali proprie del mondo islamico brutalmente cancellate agli inizi del secolo scorso dagli accordi franco-britannici all’indomani del crollo dell’Impero ottomano.

 

La risposta militare dell’Occidente non si è manifestata in maniera subitanea. Essa ha impiegato del tempo prima di materializzarsi. arginando prima e cercando di sconfiggere poi la più feroce organizzazione jihadista che sia mai stato possibile rilevare fino ad ora. Gli USA hanno fatto il loro reingresso nello scenario medio-orientale riprendendo le serie distruttiva di bombardamenti aerei, prima nel nord e nell’ovest dell’Iraq e, successivamente, nei cieli siriani. A questo, in effetti, stiamo assistendo da diversi mesi, con un deleterio allargamento dei coinvolgimenti esterni nella tragedia siriana che dallo scorso settembre vede la Russia di Putin affiancare, seppure con obiettivi diversi ma sicuramente più incisivi, la disunita coalizione filo-occidentale, composta di ben sessanta Paesi, per nulla omogenei nelle loro finalità, divisi da diffidenza e acrimonia [i].

L’opera di contenimento occidentale si è finora rivelata, soprattutto in Iraq, avara di risultati probanti. In Iraq le forze del Califfato occupano tuttora, a distanza di quasi due anni, ampi spazi della regione di Niniveh unitamente al suo capoluogo Mosul nonché buona parte del vasto deserto dell’Anbar, quest’ultimo un terzo della superficie del Paese, in grande maggioranza sunnita. In Siria le principali forze della pletora di formazioni islamiste, l’ISIL[ii] e le milizie affiliate ad Al-Qaeda, facenti capo a Jabhat al Nusra, tra di esse acerrime rivali, governano ancora, nonostante gli effetti dell’intervento russo, una parte importante di quello che era una volta lo spazio di uno Stato sovrano, la Siria, anch’esso vittima, come l’Iraq e più di recente la Libia, di una strategia del “regime change”, che nel fondo ha continuato a contraddistinguere le scelte occidentali in Medio Oriente dal momento dell’invasione americana dell’Iraq del 2003.

La Siria, probabilmente, non rivedrà più la luce nella sua pristina forma, essendo divenuta, in misura più marcata rispetto all’Iraq dove confliggono principalmente gli USA e le potenze regionali (Iran, Arabia saudita e Turchia), un terreno di rivalità, oltre che tra attori regionali, anche tra Stati Uniti e Russia. In Siria operano una miriade di milizie locali che obbediscono esclusivamente a una logica del conflitto dettata dai rispettivi peculiari interessi. Lo schieramento jihadista costituisce il nucleo più forte e determinato del movimento di rivolta contro il regime di Bashar al-Assad, al punto che risulterebbe impensabile pervenire ad una effettiva pacificazione del dramma siriano, prescindendo dalle componenti radicali dello schieramento anti-Assad, appoggiate in larga misura, attraverso canali più occulti per l’ISIL, dalla Turchia, dal Qatar e dall’Arabia saudita. La durata nel tempo del conflitto siriano è direttamente proporzionale al rafforzamento e consolidamento delle fazioni islamiste radicali.

Vi è da rilevare in proposito che il jihadismo sunnita in Siria non è soltanto rappresentato dall’ISIS e da Jabhat al Nusra ma da altre agguerrite e ben determinate formazioni, come Ahrar al Sham, “enfant chéri” della Turchia, e Jaysh al Fatah, entrambe operanti nel nord-ovest del Paese, nonché Jayish al Islam, presente nella martoriata area prospiciente la capitale Damasco, e molte altre, per le quali un obiettivo irrinunciabile è dato dall’uscita di Assad dalla scena politica nazionale. La ragione principale alla base della problematicità di uno sbocco negoziale di una guerra civile che dura da cinque anni, con un bilancio di 270.000 morti e milioni di umani in cerca di rifugio, è data dalle divergenze circa la sorte e il ruolo da assegnare al Presidente siriano. Altra anomalia è che il militantismo della pletora di milizie richiamantisi ai valori della sharia, reso vieppiù intransigente dalla durezza inumana di uno scontro senza quartiere (l’irrigidimento delle posizioni è direttamente proporzionale all’asprezza del conflitto), rende inevitabile una loro collaborazione sul campo con Jabhat al-Nusra, ergo con al-Qaeda. La matrice islamista e settaria favorisce convergenze e punti d’incontro che appaiono meno paradossali di quel che certa stampa occidentale tende ad accreditare. L’ISIS è la formazione che realmente si differenzia dalle altre milizie jihadiste sia per il suo desiderio di sopraffare ogni schieramento rivale sia per l’efferata crudeltà dei suoi comportamenti, soprattutto nei confronti della popolazione civile, sia infine per l’apocalittica visione dello scontro che la caratterizza.

 Questo spiega i canali di convergenza creatisi con altre forze jihadiste da parte della branca siriana affiliata ad al-Qaeda protesa a esaltare i tratti differenziali verso le forze del Califfato, giustamente percepite deleterie ai fini della stessa sopravvivenza dello schieramento fondato da Osama bin Laden.

L’implacabile avversione contro Baschar al-Assad  trova in buona misura la sua ragion d’essere nel carattere jihadista di formazioni, considerate dall’Occidente “moderate”, ma che mai potrebbero accettare di interagire in futuro con un leader autoritario sul piano della gestione del potere, ma in possesso di una visione laica, rispettoso di un pluralismo religioso, e per di più appartenente agli alauiti, branca dello sciismo, identificato con l’odiato Iran. Con gli alauiti restano aperti in Siria conti da regolare ereditati da una storia recente fatta di sangue e violenza [iii].

Rebus sic stantibus ricomporre in Siria un quadro armonico, in presenza di interessi terribilmente confliggenti sia all’interno sia all’esterno del Paese, appare al momento una fatica di Sisifo dal punto di vista politico; e di questa amara costatazione sono consapevoli americani, russi e gli stessi mediatori internazionali.

Molti si sono posti il problema di come spiegare le ragioni degli sconvolgenti sviluppi prodottisi nel giugno del 2014 e di come un soggetto non statuale (“non-state actor”), l’ISIL. sia riuscito dove Al-Qaeda non è mai approdata, ovverossia mutare la carta geografica medio-orientale quale essa era nata all’indomani della Prima guerra mondiale grazie all’intervento delle Potenze coloniali europee, principalmente la Francia e la Gran Bretagna. Lo scopo in sostanza è di capire come, nonostante la violenza cieca e belluina di un movimento che rappresenta la più grave negazione dei valori in cui ciascuno di noi profondamente crede fondati sul rispetto della dignità umana e del diritto di ogni essere umano di professare liberamente il suo credo politico e religioso, l’ISIL riesca ad attrarre un numero considerevole di giovani e di donne, provenienti da ben 100 paesi. L’ISIL ha allargato il proprio bacino di militanza e di proselitismo al punto di vantare ben otto filiazioni terroristiche (“wilayat”) sparse in Africa e in Medio Oriente, paradossalmente come effetto delle distruttive campagne militari condotte da potenze estranee alla regione, perseguenti politiche dalle quali l’estremismo jihadista trae un’insospettata forza vitale [iv] .

 Taluni si sono spinti fino ad affermare che una delle ragioni a base di simili dirompenti sviluppi, sia da ricercare nel vuoto ideale e nella mancanza di prospettive di vita che sembrano caratterizzare l’epoca nella quale viviamo, dove ogni progetto politico e culturale pare essersi spento, per lasciare il posto all’affermazione di un ego edonistico, fondato sull’impatto mediatico, sulla valorizzazione del superfluo e sull’apparenza, con il corollario di un’esclusione sociale e di un’emarginazione materiale e culturale che costituiscono uno dei mali più gravi dell’epoca nella quale viviamo. Questi mali colpiscono anche in Europa, costellata di periferie squallide e avvilenti, dove comunità di provenienza etnica e culturale extraeuropea languiscono in luoghi divenuti bacino di dirompenti livori e di rabbia sociale. Di queste comunità gli adepti della religione del Profeta, provenienti da Paesi sottoposti da decenni a logiche di dominio fonte di odio e violenza, costituiscono la grande maggioranza.

Ben pochi, per non dire una minima parte, hanno allargato il loro sforzo di analisi fino a porsi il problema se una risposta in chiave politica, che affianchi o, meglio ancora, sovrasti una reazione in chiave militare, debba essere ricercata e debba costituire il passaggio obbligato perché si riesca a contrapporsi efficacemente a una sfida epocale, che vede un’organizzazione non statuale colpire in maniera letale nell’area medio-orientale sistemi di governo rivelatisi alla prova dei fatti, oltre che ciecamente repressivi, obiettivamente fragili, soprattutto per la loro scarsa aderenza al sostrato reale del contesto politico e culturale che essi pretendono di rappresentare; riuscendo ad estendere la propria attività terroristica in uno spazio europeo ritenuto fino ad un tempo recente immune da simili pericoli.

Cercheremo dunque nelle riflessioni che seguiranno di individuare quali potrebbero essere a nostro avviso le vie da seguire per conferire concretezza a tali risposte e come tale prospettiva appaia al momento alquanto lontana e di assai problematica materializzazione.

 

Il retroterra

La violenza e la ferocia dell’ISIL è sotto gli occhi di tutti ed essa si abbatte sugli umani e su tutto ciò che rappresenta ai nostri occhi la testimonianza di millenni di storia, visto per converso dai jihadisti come un’aberrante manifestazione di idolatria pagana da estirpare senza alcuna considerazione per il suo valore storico e culturale. Le decapitazioni di tutti coloro che non aderiscono alla versione più severa ed intollerante dell’Islam wahabita, quale formatasi nel 18emo secolo nelle poverissime lande del deserto saudita [v], e le distruzioni di monumenti e di opere d’arte risalenti agli albori della nostra civiltà nelle terre bagnate dal Tigri e dall’Eufrate, rendono l’idea di come a base dei jihadisti del Califfato vi sia l’intento di scardinare e sconvolgere un ordine del quale non si vogliono più accettare le regole e sul quale si vuole imporre il verbo assoluto e totalitario di un codice fondato sull’obbedienza e l’accettazione supina di verità, uniche ed indiscutibili (“tawid”), emananti da un’unica suprema autorità.

Quel che colpisce è la rabbia incontenibile di questa formazione, il suo desiderio di provocare una sorta di apocalisse, la convinzione da cui sembrano essere pervasi i suoi aderenti che solo attraverso un processo di distruzione e di sradicamento di tutto quello che ha portato all’attuale stato di malessere, corruzione e profonda immoralità si possa pervenire all’avvio di una palingenesi che dovrebbe rappresentare la sublimazione di un sistema di vita ispirato ai severi dogmi propri, a loro deviato avviso, del messaggio del Profeta.

Una visione apocalittica dunque che, oltre ad esaltare il sacrificio supremo del martirio nel nome di Allah, giustifica altresì qualsiasi efferatezza e qualsiasi crudeltà perché, secondo il credo dell’ISIL, è solo attraverso il sangue e l’eliminazione fisica e culturale di tutti coloro che si frappongono a questo disegno escatologico si può giungere alla soglia agognata di una purificazione che ponga termine alla putrefazione morale e di costumi  che, a parere degli adepti del califfato, contraddistingue l’epoca presente.

Molto di questo terrificante messaggio ricorda gli insegnamenti scaturiti dall’opera messianica, di più di due secoli fa, del monaco saudita Muhammad ibn al-Wahab, da cui prende il nome il wahabismo, per il quale l’unica maniera di contrastare la corruzione,  l’ostentazione di lusso e la libidine, all’epoca ostentate da suoi correligionari, turchi, egiziani e quant’altri, di cui egli era livoroso testimone nel povero e miserevole deserto del Najd, nel cuore profondo della penisola arabica,  era quella di perseguire inflessibilmente con la legge della spada una battaglia per la moralizzazione dei costumi e dei comportamenti. Solo in tal modo, a parere del monaco, si sarebbe potuto restituire al messaggio del Profeta la sua autentica finalità volta alla creazione di un assetto politico, sociale e religioso fondato sul rispetto intransigente dei codici di moralità e virtù. Ed è per questo motivo che la formazione jihadista ha goduto e continua a beneficiare del tacito ma sostanzioso appoggio di larghi settori della società saudita e di altri ambienti, religiosi e non, delle autocrazie del Golfo Persico. Tali ambienti non hanno mai abiurato il credo wahabita nella sua versione irriducibile mentre al tempo stesso non hanno mai cessato di contestare la legittimità della dinastia reale dei Saud e delle altre case regnanti del Golfo alle quali rimproverano  uno stile di vita ed un codice di condotta ritenuti in assoluta discrasia con gli autentici valori coranici, oltre che biasimevoli collusioni con i principali nemici dell’Islam, i detestati ed infedeli “Crociati”.

Tenendo a mente quel che si è sopra descritto non ci si può esimere dal porsi una domanda: come si può ragionevolmente pensare che una soluzione dei drammi che pervadono il Medio Oriente possa essere trovata attraverso l’esclusivo ricorso allo strumento militare? Siamo sicuri che, portando avanti una campagna di devastanti tecnologicamente sofisticati bombardamenti aerei, donde essi provengano, si sarà in grado di debellare una forza che vede nelle distruzioni e nei fatti di sangue una propria intrinseca legittimazione e realizzazione, addirittura un suo rafforzamento e consolidamento? [vi] Siamo sicuri che attraverso la via dello scontro senza quartiere si potrà conseguire un’appagante vittoria contro una ideologia deviata che trae stimolo e motivazioni, oltre ché dai tradimenti perpetrati a danno degli arabi dai colonialisti europei un secolo fa, anche dal caos generale, dalle profonde iniquità, dalla povertà, dalla gravissima emarginazione e dalla conseguente esplosione degli odi e dei risentimenti? L’incerto andamento delle campagne militari scatenate contro i jihadisti nelle terre ora sotto il loro dominio ed I devastanti attentati che hanno seminato morte e distruzione in California, a Madrid, Londra, Parigi, Istanbul, Ankara e Bruxelles ci inducono a propendere per il no. Una guerra vittoriosa non porterà mai a una vittoria politica. L’esempio di al Qaeda è illuminante a tal proposito. La resistenza palestinese contro gli abusi israeliani ne fornisce un altro.

Tali quesiti ci spingono oltre la soglia delle costatazioni, oltre la disamina degli effetti, per cercare di trovare una risposta a monte, che tenga conto dei mali che caratterizzano la realtà del mondo in cui viviamo, delle loro origini storiche, dalle quali sono scaturite iniquità e ferite mai rimarginate, evidenziando una connessione tra il profondo malessere sociale e l’esistenza di sistemi di oppressione nelle terre d’Islam da una parte e la violenza inaudita del movimento, che di tale “mal de vivre” e della perpetuazione di politiche e di assetti produttori di ingiustizia si avvale per realizzare la sua azione dirompente dall’altra.

Di questo tratteremo nelle note che seguiranno.

 

Una possibile interpretazione

Si è sopra accennato a quella corrente di pensiero, invero minoritaria, per la quale una politica di contrapposizione contro il jihadismo terrorista in chiave esclusivamente militare, come quella cui assistiamo da qualche tempo, non porterà verosimilmente alla sconfitta di formazioni ideologicamente temprate ai valori del sangue, visto come passaggio ineliminabile per giungere alla purificazione dei costumi.

A nostro modo di vedere un tale approccio, fondamentalmente giusto, si rivela tuttavia  insufficiente nella misura in cui non porta, né potrebbe essere altrimenti, la suddetta costatazione dove dovrebbe essa approdare. Perché abbiamo aggiunto l’inciso “né potrebbe essere altrimenti”? Per la semplice ragione che, ove si spingesse il ragionamento all’ultimo stadio della consequenzialità, ci si renderebbe conto dell’estrema problematicità dell’assunto e della conseguente sua improbabile traduzione in realtà.

A questo punto occorre dunque fare una separazione tra due ordini di riflessioni. La prima, più a valle, concorda nell’individuare la ragione della diffusione dell’ideologia militante con la sua carica di violenza e d’intolleranza nel livello di emarginazione e di esclusione sociale di cui patiscono larghe fasce di giovani non solo nelle realtà medio-orientali ma anche, in percentuali inferiori ma tutt’altro  che trascurabili, nelle periferie dei Paesi europei più evoluti, quali il Belgio, la Francia, il Regno Unito, la Germania e l’Olanda. Come poi trascurare, in questo stesso ambito, la capacità dell’ISIL di ravvivare in maniera militante la fede islamica di larghe fasce di popolazione nelle desolate terre balcaniche, la Bosnia in primis ma anche la Serbia, divenute anch’esse bacino di jihadismo violento alle porte dell’Unione europea? Trattasi in questo caso di comunità vittime anch’esse di odi secolari, afflitte, come conseguenza anche delle terribili guerre ivi scatenate dagli Stati Uniti negli anni ’90, da una gravissima crisi economica e da una disoccupazione giovanile a livelli devastanti. Non in molti sono a conoscenza che alle frontiere della Croazia proliferano campi di addestramento jihadista per giovani desiderosi di battersi e immolarsi nel nome di Allah; giovani reclute pronte a battersi nei campi della morte in Medio Oriente ed a seminare paura e terrore nelle metropoli europee.

 

 Campi jihadisti alla frontiera UE

 

La seconda per converso, molto più a monte, sposta l’analisi dal piano del discorso politico per porlo su quello dell’azione politica, come seguito logico di quanto rilevato in esito alla prima riflessione. Questo si rivela essere il passaggio più arduo dato che, andando al di là della comprensione delle cause e auspicando l’adozione di politiche che inevitabilmente metterebbero in discussione equilibri ed assetti ritenuti globalmente immutabili, esso verrebbe a scontrarsi con un pensiero dominante, dalla grande maggioranza considerato come acquisito e scontato, dietro il quale si celano interessi formidabili la cui esistenza non viene dai più posta in discussione e che rappresentano la vera barriera per un effettivo cambio d’indirizzo attraverso il quale tagliare l’erba sotto i piedi del jihadismo estremista, restringendo l’humus dal quale esso trae linfa vitale.

In altre parole spostare l’attenzione su questo versante significherebbe rimettere in gioco gli effetti di politiche tuttora perseguite che non affrontano le reali cause ma anzi continuano a perseguire logiche di dominio in Medio Oriente, esasperando gli odi. Questo crea un’onda di ritorno nel nostro Continente, accrescendo la rabbia di quanti non hanno mai abiurato le loro radici etniche e religiose; quel che cova nelle neglette periferie delle metropoli europee e nelle aree di povertà del nostro Continente offre terreno fertile all’estremismo islamista che su tali deturpati sedimenti sociali prolifera. Le ferite ereditate dalla Storia, come vedremo più avanti, non si sono rimarginate e ben poco si è fatto perché ciò avvenga.

L’aggravarsi della crisi economica ha indubbiamente contribuito in maniera deleteria allo scadimento della qualità di vita di masse umane escluse da qualsiasi forma di coinvolgimento politico e sociale, il cui risentimento ha trovato ora un attraente e orrendo canale attraverso il quale uscire da uno squallido ed umiliante quadro esistenziale. Il fatto che alcune migliaia di giovani europei abbiano ritenuto e continuino a ritenere di emigrare verso le sponde del jihadismo più feroce ed intollerante la dice lunga sul senso di malessere che alligna nei ghetti e nei luoghi dove si assiste ad un copioso campionario dei mali sociali.

 In quegli stessi ghetti coloro che sono partiti verso le terre di Allah esposte agli attacchi dei “crociati” ed ai soprusi di dittatori detestati ed al servizio di interessi in completa discrasia con quelli della Ummah, in quelle stesse periferie europee gli adepti del Califfato ritornano per  cercare di portare morte e distruzione nel nostro Continente, nel perseguimento dello stesso criminale deviato messaggio messianico.

Pari discorso in tinte ancora più fosche, occorre fare a proposito di quel che è dato rilevare nelle autocrazie del mondo arabo dove gli effetti di politiche repressive si abbattono su tutti coloro ritenuti pericolosi per gli interessi dominanti ed anche su coloro, come avviene nelle autocrazie del Golfo, la cui interpretazione della religione del Profeta si rivela difforme da quella professata da un clero intollerante, mosso dall’idra settaria, il cui livello di intolleranza viaggia con la collusione con le élite al potere.

Tutto questo ci porta a costatare che la battaglia ingaggiata contro la barbarie dell’ISIL non potrà mai a nostro avviso essere vinta bombardando per mesi e mesi le roccaforti jihadiste in Siria, in Iraq o anche in Libia, eliminando fisicamente le figure più importanti delle formazioni estremiste. Chi viene tolto di circolazione sarà sempre rapidamente sostituito senza che questo comporti una menomazione decisiva dell’azione terrorista.

Simili interventi non porteranno mai a una soluzione politica duratura del problema. E questo vale per tutti, occidentali e non, russi e americani. Gli esempi di ciò abbondano e di questi precedenti si continua a non tenere conto. Le affermazioni recentemente fatte dal Ministro della Difesa francese Le Drian, dal quale sono partite esternazioni che entro quest’anno l’ISIS “dovrà” (!) essere definitivamente sconfitto, ci lasciano molto dubbiosi quanto alla loro proponibilità e attuabilità.

Le possibili soluzioni passano a nostro avviso portando avanti politiche più inclusive e meno discriminatorie sul piano sociale sia nei ghetti europei sia nelle realtà medio-orientali, coinvolgendo nel processo le organizzazioni della società civile, in uno sforzo congiunto mirato a un positivo coordinamento delle iniziative da intraprendere; politiche che, oltre a migliorare le tristi condizioni di vita di tutti coloro per i quali l’esistenza non ha più un senso, allarghino il campo della dialettica politica, facilitando e promuovendo un confronto di idee e di progetti attraverso il quale cercare di attenuare quel senso di esclusione e di polarizzazione politica che rappresenta la miccia ed il canale più fertile di diffusione del terrorismo islamico.

Ciò ovviamente richiederebbe l’adozione di politiche incompatibili con le scelte a tutt’oggi perseguite dalle cancellerie delle grandi e medie potenze, all’interno e all’esterno della regione, per le quali l’approccio resta per converso in larga misura legato alle logiche repressive e di dominazione. Agli occhi di molti esse appaiono rieditare, sotto mutate spoglie, le movenze di un passato coloniale, mai del tutto estinto, origine profonda dei mali che insanguinano da circa un secolo l’area medio-orientale.

 

 

Vie impercorribili

Il rimedio non è dunque da individuare cercando, come scritto dalla rivista americana “The Republic”, di “mettere del cerotto sulle ferite sperando di giungere a una loro cicatrizzazione prima che esse si espandano”. O limitandosi a costatare l’esistenza di un profondo malessere sociale e culturale, provocato in buona misura dallo svilimento della politica e del progressivo svuotamento dei valori di democrazia e di libertà e dal  ritorno nel mondo arabo, dopo l’onda di una Primavera trasformatasi in una restaurazione dai tratti più foschi di prima, di sistemi repressivi brutali e macchiati dall’esasperazione degli odi settari. La via dell’odio e della contrapposizione settaria viene principalmente  perseguita dall’assolutismo delle autocrazie del Golfo per “uccidere sul nascere”, come rilevato dal quotidiano israeliano Haaretz, di orientamento liberale, ogni evoluzione in senso laico, democratico e liberale in Medio Oriente.

Il costatare il male, non andando al di là dell’analisi delle sue cause e delle sue origini, si rivela dunque avaro dei risultati sperati. I problemi andrebbero affrontati, a nostro avviso, dove essi realmente emergono e si manifestano, dove germinano le cause vere, profonde di una reazione degenerata che trova nella jihad islamica, poggiante su una lettura – ripetiamo - deviata del messaggio del Profeta, l’unica via per uscire dai drammi e dalla disperazione di una quotidianità contrassegnata dalla miseria materiale ed intellettuale e dall’assenza di qualsiasi prospettiva di vita, sia nelle terre d’Islam sia nei luoghi di povertà e emarginazione sociale e culturale in Europa.

Ergo è nelle disperanti banlieu belghe e francesi nonché nei ghetti delle devastate metropoli arabe che occorrerebbe concentrare il nostro sguardo e cercare di fornire risposte concrete ed efficaci alle minacce che tali processi degenerativi pongono sempre di più alle nostre confortevoli esistenze ed alla nostra sicurezza.

Fino ad ora le poche voci che si sono levate per un profondo cambiamento di indirizzo politico  sono rimaste in gran parte inascoltate sia in Occidente sia, ancor più, nel mondo islamico nei cui confronti qualsiasi idea di avviare un dialogo con gli ambienti più vicini alle visioni tolleranti e dialoganti, ben presenti e largamente maggioritarie nell’universo islamico, non è stata mai seriamente presa in conto. La conseguenza di ciò è stata aver in tal modo garantito spazi preminenti, se non esclusivi, a quelle correnti estremiste dalle quali partono quasi a cadenza quotidiana appelli alla guerra settaria e alla jihad contro gli apostati (siano essi sciiti, cristiani, drusi e via dicendo), nel solco di concezioni retrograde, esclusiviste e discriminatorie, fondate sull’esaltazione della “unicità” (“tawhid”) e sul rifiuto delle diversità; tutto questo beninteso al servizio di sistemi basati sull’oppressione, l’intolleranza e l’arretratezza culturale. Emerge paradossalmente una sorta di affinità con la repressione brutale, di puro stampo coloniale, perpetrata da decenni, nelle terre illegalmente occupate, da Israele contro gli arabi palestinesi, della quale siamo da decenni spettatori.

La logica militarista pervade l’attuale scenario politico medio-orientale, in una scia di morte e distruzione che sembra perpetuarsi nel tempo con effetti devastanti, anche per l’impatto mediatico che da essi ci giunge. Il continuare a sostenere che l’ISIL costituisce una gravissima minaccia per l’ordine stabilito non induce coloro affetti da tali timori di porsi degli interrogativi, a nostro parere del tutto giustificati: ma questo ordine o, entrando più nel particolare, il tipo di regimi attualmente in essere in Medio Oriente possono davvero rappresentare un assetto degno di essere tutelato e rafforzato o al contrario si rivelano essere essi stessi una delle cause principali della tempesta che scuote oggi un’intera regione?  Un regime intollerante e liberticida come quello egiziano che fa addirittura rimpiangere quello vigente sotto Hosni Mubarak sarebbe degno di meritare il sostegno dell’Occidente, la Francia in primis, che continua a vendergli irresponsabilmente sofisticato hardware militare, nonostante le gravissime violazioni dei diritti umani di cui si rende quotidianamente responsabile? Le autocrazie del Golfo, a cominciare dall’Arabia saudita per finire a Bahrein dove un’oligarchia sunnita, rimasta al potere grazie all’intervento militare esterno, pone in essere forme di oppressione e discriminazione nei confronti di una maggioranza di fede sciita cui rifiuta il riconoscimento di fondamentali diritti, costituiscono veramente un reale baluardo contro la minaccia terrorista? O al contrario rappresentano esse un bacino di militanza jihadista, alimentato dall’assolutismo di dinastie reali il cui vero obiettivo è di mantenere un iniquo sistema di dominazione con la complicità di una nomenclatura religiosa, i cui richiami al puritanesimo del messaggio wahabita si coniugano con gli interessi delle oligarchie dominanti, perpetuando con il loro velenoso verbo divisioni e contrapposizioni irriducibili nell’universo islamico? Divisioni e fratture che forse alcune Potenze occidentali hanno un inconfessato interesse a mantenere e perpetuare? Il fatto che l’Arabia saudita, alleato strategico dell’Occidente in Medio Oriente, sia il Paese al mondo dove ogni giorno soggetti ritenuti colpevoli vengono impietosamente decapitati, non potrebbe rivelarsi un dettaglio degno di considerazione? Una delle realtà col più alto numero di esecuzioni capitali, peraltro accresciutosi dopo la scomparsa di re Abdullah? Un Paese dove professare il mestiere del giornalista si rivela, al pari di quel che avviene in Turchia, uno dei mestieri più rischiosi per il contesto nel quale viene ad operare? Un Paese che, al pari dell’Egitto e di alcuni dei partner del Golfo, continua a essere inondato di armi e strumenti sofisticati di guerra vendutigli principalmente dagli Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia [vii] ?

Interrogativi che lo stesso Presidente Obama da qualche tempo si pone esortando i governanti delle sei autocrazie del Golfo a porre attenzione ad equilibri interni sempre più precari e in misura crescente insostenibili di fronte al dilagare della fronda jihadista. Contro queste minacce il continuare a enfatizzare la dimensione “securitaria”, trascurando gli aspetti politici di maggiore apertura e maggiore inclusione sociale, porterebbe, questo è il messaggio di Obama, a conseguenze molto pericolose per la “stabilità” di quei Paesi e per il successo della stessa politica di implacabile contrapposizione all’Iran.

Queste domande, questi dubbi continuano a essere ignorati da chi rifiuta di scavare nel fondo dei fenomeni reali, sordo ai tuoni di rivolta che esplodono in numero crescente. Lo scopo recondito è di non intaccare meccanismi che garantiscono il privilegio e il lucro mercantile mentre il ciclo di violenza e di sangue prosegue il suo inarrestabile corso, aggravando i mali invece di risolverli, esasperando le tensioni invece di attenuarle, in un percorso senza fine verso pericoli che si delineano all’orizzonte con minacciosa nitidezza.

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D’altronde anche dal punto di vista militare il responso è risultato fino ad ora significativamente illuminante: la ripresa dell’intervento militare USA nei cieli dell’Iraq e della Siria non ha sortito a tutt’oggi, come già accennato, risultati decisivi. Secondo quanto riportato dall’ “IHS Conflict Monitor”, agenzia americana d’informazioni, il Califfato avrebbe perso nei due Paesi il 22% dei territori conquistati nella guerra-lampo del giugno 2014, anche se le sue perdite appaiono più evidenti nelle regioni abitate dai curdi e molto meno in quelle, come l’Anbar iracheno, dove prevale di gran lunga la comunità sunnita [viii]. Esso continua pur tuttavia a imporre la sua orrenda legge di dominio soprattutto in Iraq dove si avvale dello spaventoso livello di corruzione ivi esistente, del persistente caos politico, della profonda diffidenza della comunità sunnita verso la leadership a maggioranza sciita a Bagdad nonché delle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate dalle milizie sciite, sostenute dall’Iran, nei territori a prevalenza sunnita.  Tutto questo ovviamente alimenta il fuoco dell’odio settario che in Iraq appare ben lungi dall’estinguersi, avendo una dimensione e un’incidenza superiori a quanto rilevabile in Siria. Secondo quanto riportato dall’organo d’informazione qatarina Al-Jazeera, l’Iraq sarebbe ormai in una soglia di “disfacimento irreversibile” (“beyond repair”) e ciò costituirebbe uno dei risultati più fallimentari di una politica americana assolutamente irresponsabile in quest’area. L’approccio USA persiste nel privilegiare gli aspetti militari e di sicurezza trascurando nel contempo le iniziative volte alla ricostruzione e riabilitazione delle aree destinatarie degli interventi. Secondo molti analisti le condizioni che permisero nel giugno 2014 all’ISIS di mettere in rotta l’esercito iracheno non sono state eliminate e ciò spiega come la riconquista dei territori perduti vada tuttora incontro a persistenti ostacoli e difficoltà [ix]. In Iraq si assiste da qualche tempo a imponenti moti popolari, sotto la guida di Moqtada al-Sadr, figura di primo piano del clero sciita, fatto alquanto peculiare, che mettono in discussione l’impronta settaria che ha caratterizzato la politica irachena dal 2003, portando avanti per converso istanze di rinnovamento legate alla lotta contro la devastante corruzione e ad una maggiore considerazione verso le aspirazioni di sviluppo e maggiore giustizia emananti dalle grande maggioranza della popolazione senza preclusioni settarie.

Prima di valutare l’andamento delle campagne militari in Siria, occorre segnalare la spinta espansiva dell’ISIL verso altre contrade. La sua azione terribilmente cruenta interessa ora in modo particolare la Libia, dove ha tratto beneficio dal vuoto politico e dallo sfaldamento istituzionale creatisi all’indomani dell’aggressione franco-britannica del 2011, definita recentemente dal Presidente Obama “il più grave errore commesso” durante la sua amministrazione. Nel Paese mediterraneo, ormai considerato un “failed state”, l’ISIS disporrebbe al momento di circa seimila uomini in armi, avvalendosi delle complicità fornite dai sostenitori del regime di Gheddafi; il che gli ha permesso di occupare da tempo la città di Sirte, luogo di nascita del defunto dittatore, da dove i jihadisti effettuano incursioni contro le istallazioni petrolifere, alla ricerca di nuove fonti di ricchezza. Anche l’area prospiciente la località storica di Sabratha, ad ovest di Tripoli, è sotto la pressione dell’ISIS che mira ad espandere la propria azione verso la finitima Tunisia. Il Paese dei gelsomini è al momento esposto all’attacco dalle milizie jihadiste, intente a sfruttare i precari equilibri politici ivi prevalenti, determinati in buona misura da strategie miranti a una restaurazione politica e dalla conseguente profonda delusione provata da masse di cittadini all’indomani di eventi che sembravano promettere una nuova “Primavera”. Povertà, disoccupazione giovanile e umiliante emarginazione continuano a caratterizzare la vita della maggioranza della popolazione tunisina.

Secondo fonti britanniche la Libia appare destinata a diventare il nuovo centro di emanazione della proiezione terrorista a causa sia della sua estensione e della ricchezza energetica sia del proliferare di milizie, più di 100, in lotta per accaparrarsi le fonti della ricchezza, sia dell’assenza di un potere centralizzato sostituito ora da tre governi invisi l’uno all’altro [x]. A tal proposito occorre rilevare che a Tripoli al momento sono presenti due delle tre Amministrazioni: una islamista che la comunità internazionale ovvero l’Occidente vuole sloggiare, l’altra scaturita da una alquanto controversa mediazione ONU costretta ad operare sotto protezione in una base navale (sic!).  Al momento nessuna decisione è stata presa circa un intervento militare occidentale in Libia contro l’ISIS, intervento osteggiato anche dal terzo Governo ferocemente anti-islamista attestato a Tobruk nell’est del Paese, nella consapevolezza delle incognite e dei nuovi disastri cui tale operazione andrebbe incontro. Ma i segnali che si percepiscono da alcune capitali europee più direttamente interessate non sono affatto rassicuranti ed il timore che ci si ritrovi confrontati ad una nuova avventura militare è reale.

Ma anche il martoriato Yemen, la stessa Arabia saudita, il Kuwait, l’Afghanistan, il Sinai egiziano, e perfino il Bangladesh e le Filippine, registrano una spinta espansiva delle forze del califfo al-Baghdadi. A riprova che, a dispetto della massiccia reazione militare, il Daesh è in grado di allargare lo spazio della sua militanza, ovunque la disperazione e la miseria allignano, ovunque cova la rabbia di comunità vilipese ed impoverite, ferite nella loro dignità di esseri umani, private di un minimo di rispetto e di considerazione.

Le offensive scatenate dall’esercito di Bagdad contro i jihadisti nelle regioni centrali a prevalenza sunnita del Paese non hanno portato ad una sconfitta irreversibile dei terroristi i quali possono avvalersi delle connivenze di masse sunnite tuttora ostili verso gli attuali governanti sciiti filo-iraniani, al potere in Iraq come conseguenza, anche in questo caso, dell’aggressione americana del 2003. Ogni conquista militare, ogni espulsione del Daesh da una qualsiasi località, quale sia il suo grado d’importanza, porta con sé i segni della precarietà e della assenza di acquisizioni irreversibili. Se manca una risposta in chiave politica, viene a mancare il requisito fondamentale perché il male si possa considerare definitivamente estirpato. Questo è quello che caratterizza al momento il quadro generale in Iraq.

Meno negativo ma egualmente terribilmente cruento appare il bilancio militare in Siria, dove la campagna aerea a sostegno del regime di Bashar al-Assad scatenata dalla Russia di Putin ha permesso un effettivo arginamento sul campo della presenza dell’ISIS a tutto vantaggio del regime di Damasco, estremamente vacillante fino allo scorso settembre. Il che, se rappresenta un successo sotto il profilo militare, tuttavia, come abbiamo già detto, non risolverà il problema di un’impasse politica che la mediazione dell’ONU non è riuscita a dipanare né permetterà il ripristino di un’entità siriana configurata dai colonizzatori europei, definitivamente estintasi.

A dire il vero, l’unico schieramento in grado di contrapporsi efficacemente alle orde dell’ISIS, l’unico in grado di avvalersi del supporto aereo americano, si è rivelato essere quello curdo, siano essi i peshmerga iracheni o le Unità di Protezione siriane, cui va ascritto il merito di essere riusciti ad arginare e far arretrare la spinta espansiva jihadista. Perché questo? La principale ragione essendo che i curdi si battono per la loro sopravvivenza, consapevoli delle terribili conseguenze derivanti da una loro disfatta nella prova di forza contro i jihadisti. L’irredentismo curdo è in piena enucleazione e la prospettiva che si giunga a breve termine alla nascita di una Federazione dei tre “cantoni” curdi nelle regioni settentrionali della Siria, accomunati sotto il nome di Rojava, prospicienti la frontiera turca, appare prossima alla sua traduzione in realtà.

Per il resto la resistenza frapposta dalle milizie islamiste al recupero territoriale da parte dell’esercito di Assad continua a rivelarsi feroce e determinata nonostante l’appoggio massiccio fornito dall’aviazione russa. L’ISIS è tuttora in grado di colpire dallo spazio siriano agglomerati frontalieri turchi, uccidendo civili turchi e rifugiati siriani. I bombardamenti russi e americani continuano ma il Daesh non diminuisce la propria capacità di seminare morte oltre le terre da esso controllate, in aperta sfida verso chi si ritiene di imporre il proprio diktat.

In definitiva l’equilibrio delle forze nei “killing fields” iracheni e siriani non è fondamentalmente mutato dal momento in cui gli Stati Uniti decisero, rispettivamente nel giugno e settembre dello scorso anno, di dare inizio agli attacchi aerei contro le posizioni dell’ISIL in Iraq e in Siria. I famigerati “air strikes” hanno, in effetti, giovato in misura prevalente alle formazioni curde ma per converso in parte non considerevole né all’esercito iracheno, minato dalle rivalità settarie e dall’antagonismo con le milizie sciite filo-iraniane, né all’evanescente Esercito libero siriano (“Free Syrian Army”), la cui scarsa rappresentatività politica e la subalternità verso gli islamisti ha tempo fa indotto gli Stati Uniti a porre termine ai costosissimi e sterili programmi di addestramento militare a suo favore.

Questo è il dato che dovrebbe far meditare tutti coloro, a partire dalle cancellerie occidentali per finire alla Russia di Putin, per i quali lo strumento militare appare l’unica via per “degradare e finalmente distruggere” (parole testuali del Presidente Obama) la minaccia terrorista. Il bilancio di più di un anno di distruzioni inferte all’Iraq e alla Siria, Paesi di antichissima storia e d’incomparabile bellezza, è poco meno che negativo, a riprova che anche i più sofisticati sistemi d’arma e la più sofisticata tecnologia bellica non potranno mai estirpare un male che trae la sua linfa da decenni di passata oppressione coloniale nonché da governi nella regione dove la corruzione ed il malaffare delle élite politiche convivono con i comportamenti lesivi della dignità umana di cui si rendono colpevoli gli apparati di sicurezza ivi operanti.

Né si possono passare sotto silenzio i condizionamenti politici e diplomatici nella regione di cui anche Washington subisce gli effetti nell’azione militare contro gli estremisti e che condizionano gli sforzi della coalizione occidentale anti-ISIL, i cui membri sono divisi da divergenze tutt’altro che secondarie circa le finalità strategiche perseguite. Questo si è visto a proposito dei limiti forzatamente posti ai successi riportati sul campo dai curdi siriani, obbligati ad astenersi da qualsiasi operazione nell’area frontaliera della Turchia a ovest dell’Eufrate. La ragione era di non suscitare le ire di Ankara, ai cui occhi l’ISIL costituisce un pericolo minore rispetto ai curdi, come evidenziatosi in esito all’oscuro accordo intervenuto recentemente tra gli USA e i turchi, sfruttato da Erdogan per colpire soprattutto gli irredentisti del “Kurdistan Workers’ Party”, facendo ripiombare il suo Paese in una guerra civile dalla quale era riuscito fino ad un tempo recente ad affrancarlo. La Turchia viene ora a trovarsi destinataria sia del “terrorismo” di marca curda sia, come abbiamo visto, di quello dell’ISIS, che non perdona all’autocrate di Ankara i voltafaccia perpetrati dai quali sono scaturiti non solo l’intesa militare con gli USA ma anche il migliorato rapporto con Israele e le possibili, seppur molto problematiche, aperture con l’Egitto di Fattah al-Sisi, massacratore a casa sua dei Fratelli mussulmani, creatura prediletta del Presidente turco, considerati per converso “terroristi” dal dittatore cairota.

Nel trascorso storico e nei presenti repressivi sistemi di dominazione vanno dunque ricercate le principali cause dello sconvolgimento che interessa ora tutta l’area che va dalla Turchia, vittima di una serie di attacchi e attentati tra i più gravi della sua storia, alla penisola arabica, dove sistemi di governo profondamente iniqui, con i quali l’Occidente intrattiene da sempre una cospicua cooperazione politica ed economico-commerciale, ritenuti per  interessi di dominio partner troppo preziosi per porre in discussione la loro “malgovernance”,  subiscono colpi suscettibili di logorare una base di consenso molto ristretta, menomata anche dal coinvolgimento in guerre dagli effetti disastrosi, come quella in corso da un anno nello Yemen, che alla fin fine sortiranno l’effetto di indebolire e non certo rafforzare, i loro sistemi di dominio.

Aver sconfitto al-Qaeda o, per meglio dire, essere riusciti a indebolirla non ha prodotto, com’era nelle aspettative occidentali, un allentamento della pressione terrorista. E’ vero il contrario!  Dal ridimensionamento della formazione creata dal defunto Bin Laden è emerso al suo posto, come sgradevole conseguenza, il Daesh, emanazione della violenza scatenata in Iraq dalla sconsiderata aggressione USA del 2003, impregnato di una rabbia apocalittica, in grado, a differenza di al-Qaeda, di scardinare gli assetti fissati dai colonialisti, creando un sistema di “governance” politica su vasti spazi territoriali, sostenuto finanziariamente dal saccheggio delle banche locali, dagli occulti canali provenienti dal Golfo, dalla rendita fornita dall’infame commercio di beni archeologici, frutto delle distruzioni di luoghi di alto valore storico, oltre ché dallo sfruttamento dei campi petroliferi esistenti nelle aree, soprattutto nel nord-est della Siria, dove esso ha esercitato, finora in maniera quasi incontrastata e con la tacita connivenza della Turchia, il suo dominio [xi].

Questo è il quadro che si presenta a conferma del fatto che l’uso della forza non è in grado di risolvere questioni e problemi di profonda natura politica. Il dramma dei palestinesi, è lì a dimostrare come l’uso della repressione non porta mai a delle durature vie d’uscita. Al momento si assiste alla rivolta di tutto un popolo, da tempo immemorabile in attesa che le mediazioni occidentali arrechino una dignitosa soluzione del dramma (“al-Nakba”, com’è chiamata in arabo), prodottosi nel 1948, anno in cui si consumò la sua tragedia, quando masse di palestinesi furono impietosamente espulse da territori che erano loro appartenuti da secoli.  Tale soluzione appare sempre più lontana a fronte delle continue violazioni israeliane della legalità internazionale; ma lo spirito di rivolta è sempre lì, a dimostrazione che decenni di oppressione israeliana, preceduta tra le due guerre mondiali dall’oppressione coloniale britannica, che ha preparato il terreno per l’affermazione del dominio sionista, non sono serviti a nulla se non a generare le condizioni per ripetute guerre di aggressione contro le enclavi palestinesi, mirate al mantenimento di un sistema di servaggio. Il clima di esplosiva violenza, alimentato ora dalla rabbia di una gioventù palestinese senza speranza, tende per converso a espandersi e aggravarsi, anche per il fatto di essere affrancato dai centri tradizionali del potere politico della resistenza palestinese. E lo Stato ebraico, dove le tensioni sono destinate a perpetuarsi e ad aggravarsi, non trarrà certo vantaggio da un clima tutt’altro che rassicurante.

Il fallimento delle politiche repressive nei territori palestinesi avrebbe dovuto far meditare le cancellerie delle grandi potenze sull’inanità del ricorso alla forza per contrastare e abbattere l’idra terrorista, generata, come abbiamo visto, da cause connesse alla storia, passata e presente, del Medio Oriente. Tutto questo non è avvenuto, a conferma che nessuno degli attori internazionali intende smarcarsi da una mai abiurata logica di dominazione, portatrice di disastri e di poco rassicuranti prospettive.

 

Un immutabile mantra

Il pensiero di gran lunga prevalente tende dunque a valutare in misura assolutamente prioritaria gli imperativi di stabilità e sicurezza, con scarso riguardo per quelle che lo storico francese Pierre Renouvin chiamava “le forze profonde” [xii]. Anzi si opera una sorta di trasposizione concettuale nel senso che quello che appare ai nostri occhi come un effetto ovverossia la rilevante minaccia ai vacillanti attuali equilibri politici esistenti nel subsistema viene per converso visto dai più come una causa, dalla quale far scaturire sterili decisioni, e non come la esplosione dei mali di una parte del mondo dove da più di un secolo hanno luogo processi di dominazione ed asservimento succedutisi senza soluzione di continuità.

Da qui deriva la visione politica che considera come un dato imprescindibile l’esigenza di militarizzare il rapporto coll’universo islamico, tralasciando di considerare gli effetti perversi da essa derivanti ovverossia la perversa radicalizzazione che ciò comporta in una realtà dove dalla firma dell’accordo coloniale franco-britannico Sykes – Picot del 1916, definito da molti analisti “infamous agreement”,  gli interessi esterni all’area, dall’Atlantico agli Urali, hanno imposto la legge del dominio, in biasimevole noncuranza delle identità e degli assetti della regione, umiliando e calpestando nei loro fondamentali diritti comunità arabe alle quali all’epoca si era promesso un orizzonte di nuova dignità politica, successivamente abiurato, una volta sconfitto il comune nemico ottomano. A quel momento l’apporto fornito agli europei dagli arabi si è in maniera proditoria dimenticato e ignorato, imponendo un nuovo asservimento e una nuova umiliante sottomissione. Tutto ciò non è stato cancellato dalla memoria collettiva e il desiderio di far pagare le conseguenze di quel tradimento non è mai cessata. Da questo sostrato l’ISIS e le altre formazioni islamiste traggono lo stimolo per vendicare gli affronti subiti e rendere le masse arabe soggetti e non oggetti della Storia. L’operato della jihad islamica percorre, seppure in vie differenziate, il solco di una rivincita sunnita che affonda le sue radici nell’humus di una storia passata e più recente.

La logica a base della strategia del “regime change” non è mai venuta meno. Gli esempi della sua applicazione sono reperibili ben prima del famigerato attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Fin dagli anni 50 essa sussisteva se si pensa al rovesciamento nell’agosto 1953 da parte degli anglo-americani in Iran del governo retto da Mohammad Mossadegh, figura laica e moderata, scaturito da elezioni democratiche. E cosa dire di quanto accaduto in Algeria nel 1991 quando Abbassi Madani, docente universitario e islamista moderato, vincitore anch’egli di elezioni democratiche, venne brutalmente rimosso dai servizi segreti francesi ed americani, con conseguenze tragiche per il popolo algerino coinvolto in quella che all’epoca fu chiamata “la sale guerre” (la guerra sporca), dalla quale doveva successivamente nascere “Al-Qaeda nel Maghreb islamico” (AQIM)? Ultimo esempio: come dimenticare infine l’invasione dell’Afghanistan nel 1979 perpetrata dall’ex-Unione Sovietica, culminata nel 1985, anno ricordato da ogni afghano come l’anno del terrore, una sorta di al-Nakba afghano,  da cui ha preso origine un esodo gigantesco di rifugiati, in maggioranza in direzione del Pakistan? Da questo esodo biblico, come effetto principalmente degli insegnamenti elargiti dagli ulema fondamentalisti nelle numerose madrassa (scuole coraniche) ivi esistenti, prese inizio il movimento dei Talebani (studenti in arabo), la cui campagna di terrore in Afghanistan e in Pakistan riempie a tutt’oggi le prime pagine dei media internazionali?  Sono esempi, e non sono gli unici, nei quali abbiamo la conferma delle conseguenze tragiche di politiche privilegianti gli aspetti di sicurezza e di precaria stabilità, ignorando del tutto le cause profonde del male.

Siamo in presenza di una lunga scia di interventi ed ingerenze esterne, malsane e poco meditate, proseguitasi dopo l’attacco alle Torri Gemelle, che hanno impedito alle terre d’Islam di orientare i propri destini in armonia con quelli che erano i loro autentici interessi. Tutto ha portato nel corso dei decenni a un aggravamento e ad un’esasperazione delle crisi. La perversa logica settaria, alimentata da autocrazie, come quelle del Golfo, per nulla rappresentative e perseguenti la tutela degli interessi dinastici, ha fatto il resto, dando corpo alla galassia dei “failed states”. La Siria, l’Iraq, lo Yemen e la Libia sono entrati a far parte di essa. Il caso di quest’ultima è illuminante: esso è il bilancio di un’altra sconsiderata impresa dai tratti coloniali, merito principalmente di due Potenze ex-coloniali, quali la Francia e la Gran Bretagna, posta in essere in assenza di una benché minima strategia politica di supporto; in una squallida riedizione del copione fallimentare dell’invasione americana all’Iraq del marzo 2003. Emblematico è apparso in proposito il commento recentemente esternato da Barack Obama il quale non ha esitato a definire la politica perseguita in Libia nel 2011 da Parigi e Londra come quella di “free riders”, colpevolmente inconsapevoli delle conseguenze di scelte mal soppesate e meditate, dettate dall’arroganza e da una scarsa conoscenza di complesse realtà.

La logica dell’intervento militare esterno per preservare il mantenimento di zone d’influenza non potrà che aggravare il male, provocando ulteriori esplosioni di violenza, non solo in Medio oriente ma anche nelle metropoli europee, nel mentre l’ISIL estende la propria capacità di inumana aggressione sulla riva sud del Mediterraneo, in Europa e in Turchia. In quest’ultimo Paese si assiste a pirotecnici cambiamenti di fronte in barba all’islamismo e alla militanza filo-palestinese del Presidente Erdogan, il quale è costretto a rivedere il suo ostile atteggiamento verso Israele per alleviare il peso dell’isolamento di cui patisce nella regione. In Turchia, membro della NATO, candidato a divenire membro dell’Unione europea, il Daesh accresce il processo di destabilizzazione, già in essere a causa delle spinte dell’irredentismo curdo del PKK. I colpi dei jihadisti del Califfato presieduto dall’iracheno Abu Bakr al-Baghdadi, sono determinati, a parere dei più, dalla decisione di Erdogan di accordare agli americani l’uso della base di Incirlik, contigua alla frontiera siriana, utilizzata dalla US Air Force nella campagna di bombardamenti contro l’ISIL.

Ma, come già accennato, anche il Regno saudita viene preso di mira sia a casa propria sia nel finitimo Yemen, realtà, questa, tra le più affascinanti, seppur le più povere, del mondo arabo, dove le conseguenze dell’aggressione saudita, iniziata un anno fa, stanno portando alla completa distruzione del Paese e alla moltiplicazione delle parti in conflitto. Da essa traggono beneficio la locale branca di al-Qaeda e lo stesso ISIS. Lo stesso Afghanistan assiste all’ingresso nella sua devastata realtà dei militanti del Califfato, con la prospettiva di scontri sempre più violenti con i Talebani, ed anche, come già accennato, il lontano Bangladesh dove, come già segnalato, da qualche tempo è iniziata un’agghiacciante sequela di assassini a danno degli espatriati e di quei mussulmani, civili o religiosi, ritenuti ostili all’ideologia wahabita. Né si possono passare sotto silenzio gli orrori perpetrati dai terroristi nigeriani di Boko Haram, al momento l’unica filiale in Africa nera del Daesh, la cui adesione all’ISIL “giustifica” stragi inaudite perpetrate contro inermi locali comunità, tutte paradossalmente professanti il credo del Profeta, le principali vittime dell’orgia terroristica.

In conclusione quel che si rifiuta di comprendere e di valutare è che questa degenerata e devastata situazione continuerà a giovare alle orde jihadiste, che traggono da essa l’alimento di cui hanno bisogno per accrescere il numero dei loro adepti, in continuo aumento, sia in Europa sia nelle terre d’Islam, ed espandere il loro raggio d’azione. L’ISIL è la manifestazione perversa del clima di malessere e di alienazione che caratterizza il mondo di oggi, oltre che essere ovviamente l’espressione delle irrefrenabili pulsioni di rivalsa di ambienti sunniti contro le penetrazioni degli infedeli, che si tratti di “crociati” cristiani, sciiti o quant’altri.

Il discorso politico portato avanti dall’organizzazione terrorista sfrutta appieno il fatto, invero sconcertante, che una coalizione di eserciti super armati non riesca a infliggere colpi fatali a formazioni jihadiste mosse dal loro fanatismo e dal desiderio di sangue e violenza. Nella misura in cui l’ISIL riesce a tener testa a nemici militarmente molto più potenti, com’è avvenuto fino ad ora, esso è già vincente, dimostrando con ciò che quando vi è la determinazione e si crede ciecamente in quello che si fa, quando si opera sull’onda di pulsioni avvertite da masse rivendicanti diritti e aspirazioni calpestati, non vi è forza armata al mondo in grado di distruggerti. E non sarebbe in verità il primo caso nella Storia. Nei suoi spasmi di inaudita bestiale ferocia esso traduce l’incontenibile risentimento e la rabbia esplosiva che covano tra tutti coloro, particolarmente in seno alle fasce giovanili arabe o di estrazione araba, che patiscono gli effetti di una condizione esistenziale inaccettabile, fatta di privazioni materiali, frustrazioni intellettuali e una totale mancanza di prospettive di vita. Questo è il fattore aggregante degli adepti del Califfato mentre le coalizioni create per arginarli e neutralizzarli restano per converso indebolite da contrasti e divisioni nonché da divergenti livelli di interesse in merito alle linee d’azione da adottare.

Questo è l’impatto vincente, con effetto moltiplicativo, del discorso politico jihadista che continua a far proseliti, come abbiamo visto, anche nelle realtà più sviluppate del mondo. Più la situazione di stallo tende a perpetuarsi più il movimento diretto da al-Baghdadi trarrà vantaggio da un contesto nel quale, agli occhi degli emarginati e degli esclusi, ovunque essi siano, esso apparirà come l’unica forza in grado di combattere in maniera inflessibile contro un ordine di ingiustizia e di sfruttamento. Il tempo indubbiamente lavora per coloro che si considerano gli autentici interpreti del verbo del Profeta e che si battono per una delirante e purificante palingenesi, ottenuta attraverso vie che oscurano l’immagine e l’autentico messaggio di una religione ricca dei valori di solidarietà e spiritualità. In effetti, l’Islam e i mussulmani sono, lo ripetiamo, le principali vittime, fisiche e spirituali, della devianza ideologica perseguita dal Daesh. Al punto che taluni commentatori non esitano a parlare nella fattispecie di una “Muslim-Muslim war”,[xiii] ed è in questo che si consuma una differenza evidente con la formazione rivale di al-Qaeda, come vedremo più appresso.

L’Europa è sicuramente l’area, al di fuori dell’inferno medio-orientale, esposta in maniera più grave alle conseguenze derivanti da scelte politiche poco calibrate. Essa è destinataria da mesi di una vera e propria invasione da parte di masse umane che fuggono dalla guerra e dagli eccidi; guerra e eccidi provocati dall’esterno e che colpiscono tutti, uomini, donne e bambini, disperatamente protesi verso un approdo di pace e di salvezza. La reazione di Bruxelles a simili eventi si è rivelata finora assolutamente non all’altezza delle sfide cui l’UE deve ora far fronte, funzione di un’Unione più che mai disunita, preda di egoismi nazionali poco commendevoli. Le stesse Nazioni Unite non hanno esitato a criticare aspramente accordi, come quello concluso con la Turchia, che sono non solo una flagrante violazione di Convenzioni internazionali a favore dei rifugiati, sottoscritte dai Paesi membri dell’UE, ma altresì una prova dell’allontanamento europeo da quei valori di solidarietà e di umanesimo, cui i Padri fondatori si erano ispirati nel delineare i tratti fondanti di un grande progetto.

Nulla lascia purtroppo prevedere che si cominci a prendere coscienza dell’insostenibilità e dell’insensatezza di politiche che stanno portando il mondo verso la catastrofe. Del resto come si può immaginare che degli Stati, mossi unicamente dai loro particolari interessi e dai loro aneliti di potenza, possano modulare la loro azione sì da rendere la battaglia, ingaggiata contro il terrorismo islamico, produttiva degli effetti desiderati? Come si può immaginare che dalle tensioni che avvelenano oggi il quadro internazionale possano emergere sviluppi suscettibili di riorientare l’attenzione delle diplomazie verso strategie più “paganti”, percorrendo sentieri fino ad ora volutamente ignorati per cinica convenienza?

La difesa a oltranza di interessi di potenza mal si confà con la ricerca delle ragioni vere dell’irradiamento del messaggio dell’intolleranza islamista. Continuare a sostenere che ci si trova in uno stato di guerra, usando un linguaggio che non riflette affatto le cause reali del conflitto come esso oggi si configura, che non tiene per nulla conto della sua natura profondamente asimmetrica, vedendo nel jihadismo solo ed esclusivamente un nemico da abbattere e non anche la manifestazione di un male prodotto da decenni di dominazione e di sfruttamento materiale e culturale, non potrà che allontanarci da una via di uscita dai presenti drammi e da tensioni incontrollate.

Le recenti trionfaliste esternazioni del Premier britannico David Cameron celebranti il fatto che “la guerra” contro i jihadisti sta ottenendo risultati probanti se si pensa che “soltanto nell’ultimo mese la coalizione anti-ISIS ha ucciso ben 600 dei suoi adepti” suscita un senso di sgomento nella misura in cui è rivelatrice di come la visione dei problemi sia tuttora ancorata a logiche superate e controproducenti.

Del resto l’azione dirompente dell’ISIL prescinde in toto dalla logica degli stati-nazione. Essa tende al suo superamento, rivolgendosi alla Ummah islamica perché essa aderisca al Califfato che, come noto, travalica le frontiere e fonda la sua ragione d’essere nell’attuazione dei precetti della sharia, nella sua versione più rigida ed esclusivista; alla quale devono aderire tutti i mussulmani, ovunque vivano ed operino.

Questi aspetti vengono volutamente ignorati, rimanendo ancorati a visioni del divenire superate dagli eventi. Queste, benché in buona misura caduche e velleitarie, continuano a essere il preminente punto di riferimento delle cancellerie ed il “leit motiv” della loro azione. Al tempo stesso, come già detto, le voci di coloro sia in Occidente sia, più numerose, nel mondo arabo auspicanti forme di positiva interazione per una appropriata comprensione dei drammi che scuotono le realtà islamiche rimangono inascoltate; da sempre, peraltro, lo sono state sin da quando lo sfaldamento dell’Impero ottomano nel secondo decennio dello scorso secolo portò all’inizio della malsana e arbitraria opera di riconfigurazione e decomposizione dell’area medio-orientale le cui nefaste conseguenze sono oggi davanti ai nostri occhi.

I pericoli derivanti da tutto ciò non paiono far comprendere ai “decisori” dei nostri destini che la distanza che ci separa da un irreparabile disastro si sta riducendo. Al contrario, molto lascia presagire che ci si riavvii verso nuovi drammi, perseguendo la criminale illusione che sbarcando in numero crescente unità speciali con un ricorso crescente a sofisticati sistemi d’arma si potrà debellare un flagello diffusosi in misura esponenziale da quando più di dieci anni fa ha preso inizio la crociata contro il “Terrore”. La volontà di dominio prevale ancora su una diversa visione del divenire e si continua a chiudere gli occhi di fronte al bilancio fallimentare di passate recenti esperienze. Il che accrescerà la rabbia e l’incontenibile livore di masse di umani, facile preda del messaggio messianico e apocalittico dei nuovi più violenti interpreti dell’estremismo islamico.

Indubbiamente le voci giulive ed euforiche di coloro, persuasi che l’eliminazione fisica nel maggio 2011 di Osama bin Laden, tuttora avvolta da zone d’ombra, avrebbe significato l’inizio della fine del terrorismo, appaiono ora, alla luce di quel che si è prodotto e di quel che potrebbe ancora accadere, come nient’altro che le esternazioni superficiali di quanti si ostinano a ignorare lo spessore dei fenomeni. La prova di ciò è data del resto dalla costatazione che la morte di bin Laden non ha affatto comportato la fine di al-Qaeda la quale, seppure in rotta di collisione con l’ISIS, per le differenze che da esso la separano, continua, anch’essa, ad operare profittevolmente non solo in Siria ed in Yemen, dove essa si è espansa, ma anche e soprattutto in Africa, dal Sahel alla Somalia, regioni dove l’organizzazione di Osama è riuscita fino ad ora a tenere in scacco i terroristi del Daesh.

Tra al-Qaeda e il Califfato si è da qualche tempo creata una devastante rivalità. I recenti attentati in Mali, Burkina Faso e Costa d’Avorio, l’azione dirompente di al-Shabab, filiazione somala di al-Qaeda,  confermano l’intendimento dell’organizzazione diretta dall’egiziano Ayman al-Zawahiri, succeduto a bin Laden, di non essere da meno rispetto all’ISIS, continuando a colpire i “crociati” non-mussulmani, manifestando indubbiamente una carica settaria molto meno esclusivista rispetto al detestato rivale. Quest’ultimo al contrario ha finora riservato le sue efferate attenzioni in misura prevalente ai mussulmani innocenti, a coloro ispirati ai veri, autentici contenuti del Corano fondati sulla solidarietà umana e sul rispetto delle differenze.

 L’obiettivo di al-Qaeda rimane per converso quel mondo occidentale che viola e violenta le terre d’Islam, dove gli adepti della religione del Profeta sono tuttora sottoposti al dominio di forze estranee e irrispettose dei valori di quel credo religioso [xiv]. Il contrasto tra le due centrali dell’estremismo islamico è irriducibile ed esso sarà fonte di un quadro più allargato ed esteso di violenze e devastazioni.

Lo scenario complessivo si è terribilmente aggravato da quando nel 2001 l’allora Amministrazione Bush prese il solenne impegno di estirpare l’idra del terrore. Quel che è stato fatto da allora ha prodotto l’opposto di quel che si contava di ottenere e questo la dice lunga sulla insipienza di leadership politiche il cui spirito di dominio impedisce loro di comprendere l’origine e l’entità dei drammi che rendono poco sicura la nostra esistenza.

Il jihadismo come forma di lotta e di odio, nelle sue articolazioni ora differenziatesi, proseguirà verosimilmente la sua azione di rivincita contro coloro visti come suoi implacabili nemici ed il ricorso allo strumento militare lo renderà vieppiù inflessibilmente determinato a non recedere da un modus operandi del quale si sente messianicamente investito.

Nella nostra prossima riflessione concentreremo la nostra attenzione verso i luoghi da dove il seme dell’intolleranza jihadista ha tratto le sue origini, l’Arabia saudita, una delle realtà più importanti del subsistema, sede dei luoghi santi dell’Islam, la Mecca e Medina, percorsa, come abbiamo visto, da crescenti tensioni e da rilevanti futuri mutamenti, sia all’interno sia all’esterno della sua entità.

 

 

 

 

Note integrative



[i]  Mosca si batte anche per salvaguardare un regime a Damasco considerato funzionale per i

  suoi interessi di potenza nella regione mentre la coalizione diretta dagli Stati Uniti mira per

  converso ad un mutamento di regime.

 

[ii] Le forze del Califfato fruiscono di tre appellativi, disinvoltamente utilizzati: ISIL (Islamic State

  in Iraq and the Levant),  ISIS (Islamic State in Iraq and in Syria) e l’acronimo arabo di Daesh.

 

[iii] In tale contesto giova richiamare il massacro perpetrato nel febbraio 1982 dal regime di

  Hafez al-Assad,  padre  dell’attuale uomo forte Baschar al-Assad, contro i Fratelli mussulmani

  colpevoli di aver fomentato un movimento di rivolta. La città di Hama fu il principale teatro

  dell’eccidio.

 

[iv] In una sua dichiarazione resa il 20 marzo il Primo Ministro francese Manuel Valls ha fatto

  stato del fatto che il numero di giovani fuggiti dall’Esagono per riempire i ranghi dell’ISIS

  è in continuo aumento nonostante le politiche repressive e l’instaurazione di uno stato

  di emergenza in Francia.

 

 

[v] Alastair Crooke, Huffington Post, 3 settembre 2014, “Non si può capire l’ISIS senza conoscere

  la storia del wahabismo in Arabia saudita”.

 

 

[vi] I droni stanno sostituendo i tradizionali bombardieri aerei nell’opera di distruzione in

  corso dalla Siria fino allo Yemen.

 

[vii] Secondo l’autorevole quotidiano britannico The Guardian il governo di Londra avrebbe

  venduto all’Arabia Saudita dal marzo dello scorso anno quando Riyadh ha avviato la

  guerra di aggressione allo Yemen materiale militare per un valore di 2.8 miliardi di

  sterline,  contribuendo in tal modo all’uccisione di migliaia di civili. Un’aggressione

  definita dal  New York Times “disastrosa”.

 

[viii] La perdita di aree territoriali avrebbe comportato, secondo quanto rivelato dallo stesso centro

   di ricerca, una contrazione delle entrate a favore dell’ISIL. Esse sarebbero scese dagli $ 80

   milioni   su base mensile, rilevabili alla metà del 2015, agli attuali $ 56 milioni. La perdita

   di territorio avrebbe in sostanza ristretto la base imponibile comportando allo stesso tempo

   un accrescimento  della pressione fiscale sui sei milioni di sudditi tuttora sottoposti al

   suo dominio.

 

[ix] A tal proposito sono apparse impattanti le testimonianze riportate dalla rivista americana

  “Daily  Beast”, in esito a interviste rilasciate da militari dell’esercito iracheno, impegnati nella

    riconquista della seconda città dell’Iraq, Mosul. Da esse traspare  Il senso di estraneità

    verso un Paese e un Governo colpevoli di violare i legittimi desideri della comunità  sunnita

    di riacquisire il ruolo perduto in occasione del traumatico rovesciamento del regime di

    Saddam perpetrato dagli USA  nel 2003.  

 

 

[x] Africa Confidential, ed. online del 18 marzo 2016, Vol. 57 N. 6

 

[xi] I canali di finanziamento del Daesh poggerebbero principalmente sull’oppressiva esosità

  del  carico fiscale  di  cui  sono vittime le  comunità sottoposte al suo dominio nelle

  regioni occupate.  Secondo  alcuni analisti americani questo costituirebbe al momento

  la principale fonte di guadagno  cui  attingono i jihadisti come conseguenza dei diminuiti

  introiti petroliferi. La produzione di  petrolio si aggirerebbe ora sui 21 mila barili al giorno,

  in netto declino rispetto ai 33 mila registrati lo  scorso anno.

 

[xii] Pierre Renouvin, Histoire des Relations internationales, 1954

 

[xiii] Al Jazeera, ed. online, Opinioni

 

[xiv] In effetti la scintilla che ha portato alla nascita di al-Qaeda fu data dall’autorizzazione fornita

   agli inizi degli anni ’90 alle forze USA dal re saudita Fahd di utilizzare il suolo della patria del

   Profeta per le operazioni militari contro il regime di Saddam Hussein in Iraq.