Centinaia di migliaia di manifestanti per l’indipendenza della Catalogna a Barcellona

 11 settembre 2015

 

Centinaia di migliaia di catalani sono scesi in piazza nella città di Barcellona, in una manifestazione per l’indipendenza della Catalogna. Migliaia di bandiere con i colori e la stella catalana. Cartelli con le scritte “ No alla Catalogna spagnola”, “ Catalogna libera” e altri.                                     

L’organizzazione della manifestazione è stato il cartello indipendentista ANC ( Assemblea Nazionale Catalana), le stime dei manifestanti sono di oltre 400.000, un fiume lungo cinque chilometri; il tema di convocazione è stato “ Per una via libera alla Repubblica Catalana”.

E’ stata indetta l’11 settembre in ricordo dell’11 settembre 1714, in cui, nel corso della guerra di successione spagnola, vide protagonisti i difensori della città di Barcellona composti dalla Coronela, l'esercito regolare catalano e i soldati di altri territori che appoggiavano Carlo VI d'Asburgo, conosciuto in Spagna come Carlos. Una giornata che ogni anno viene celebrata come “Giornata Nazionale Catalana”, in memoria della resistenza del popolo catalano in difesa del paese e della caduta di Barcellona nelle mani borboniche dopo 14 mesi di assedio.

Il fronte per l’indipendenza è costituito nella piattaforma “ Uniti per il SI’”, e vede uniti sia i partiti catalani moderati, guidati dal presidente del governo regionale Artur mas, che il blocco di Unità popolare progressista e di sinistra.

Il voto del 27 settembre rappresenterà un momento critico per la Spagna, in quanto nella Costituzione spagnola non è contemplata la possibilità di una separazione.

 

Traduzione a cura di Sara T. per CIVG.IT

 


 

…Alcuni cenni storici

La Catalogna verso l’indipendenza - Joan Verdera

L’ 11 settembre 2013 quattrocentomila catalani formarono una catena umana per l’indipendenza che ha attraversato l’intero paese, dalla frontiera francese al nord fino ad Alcanar, l’ultimo paese sulla costa, a sud del delta del fiume Ebre. Nei principali nuclei urbani lungo la catena sono sorte fitte concentrazioni e in moltissimi tratti non urbani la fila è stata raddoppiata o triplicata. Secondo calcoli della polizia un milione e seicentomila persone hanno partecipato alla dimostrazione. All’ANC (“Assemblea Nacional Catalana”), associazione civile senza rapporti col governo, va il merito per una organizzazione perfetta di un evento complesso. I catalani, vecchi e giovani, imprenditori e lavoratori, hanno celebrato la loro festa nazionale e hanno rivendicato la loro indipendenza senza un incidente e in un atmosfera festosa e allegra. Ci sono su ”you tube“ dei video aerei spettacolari.

                   
L’11 settembre 2014 si era tenuta una manifestazione a Barcellona, convocata e organizzata dall’ANC e da ”Omnium Cultural“ (1), che si è estesa lungo due delle vie più importanti della città, la Diagonal e la Gran Via, che confluiscono in una gran piazza formando una V maiuscola. I manifestanti, vestiti con magliette rosse o gialle, si sono disposti in modo da formare una gran bandiera catalana (quattro strisce rosse su fondo giallo). Si rivendicava la celebrazione di un referendum d’autodeterminazione per decidere il futuro politico del paese e la V accennava a vittoria, volontà e voto. Secondo la polizia municipale hanno partecipato 1,8 milioni di persone. Di nuovo le immagini che si trovano nella rete sono spettacolari (digitare V catalana su google).
Il 12 dicembre 2013 le forze politiche della maggioranza nel parlamento catalano, dal centro-destra alla sinistra alternativa, decisero la celebrazione di una consultazione per l’indipendenza il 9 novembre 2014 (2). Il governo spagnolo ha da allora sostenuto la tesi che una tale consultazione `e illegale e ha presentato un ricorso alla corte costituzionale che `e stato accolto dalla corte. L’accettazione del ricorso implicava la sospensione della consultazione, ma, per la prima volta dalla promulgazione della costituzione spagnola (1978), il governo della Catalogna non ha accettato docilmente il verdetto della giustizia spagnola e ha convocato per il 9 novembre una giornata di partecipazione cittadina, come previsto dalle sue competenze stabilite dalla legge. Il 9 novembre una folla di 2,3 milioni di persone si `e recata festosamente ai corrispondenti seggi elettorali, disposti nelle sedi istituzionali del governo catalano (scuole ed altri edifici pubblici). I voti per l’indipendenza sono stati circa 1,9 milioni (80%) a fronte di un corpo elettorale della Catalogna di circa 5 milioni di persone. Il 9 novembre 2014 ha rappresentato una nuova dimostrazione di forza serena, pacifica e democratica da parte dei cittadini che vogliono che le decisioni fondamentali sulla vita politica del paese si prendano nelle istituzioni catalane e non altrove.
Gente di tutto il mondo si chiede perché si `e arrivati a questo punto. Come mai migliaia di volontari hanno partecipato per settimane alla complessa organizzazione della catena, sottraendo ore al loro tempo libero? Come si spiega che centinaia di migliaia di persone abbiano guidato per cento o duecento chilometri per occupare il loro posto nella catena nelle zone meno popolate del paese ? O che 1,8 milioni di persone abbiano partecipato alla manifestazione della V dopo aver comprato la maglietta rossa o gialla ed essersi iscritti a un tratto preciso del percorso di 11 km? Che forza ha spinto 2,3 milioni di persone a votare il 9 novembre in una consultazione non vincolante? Che cosa muove tutta questa gente? La risposta non `e facile. Ci sono ragioni di natura diversa, alcune circostanziali, altre più radicate nella storia, recente e remota, che si congiungono per spiegare il fenomeno. Il lettore interessato a un’analisi profonda della questione può consultare il libro di Germa Bel, “Anatomia de un desencuentro”, Planeta, 2013 (di cui ci sono anche traduzioni in catalano, “Anatomia d’un desengany”, Grup 62, 2013, e in inglese, “Disdain, Distrust and Dissolution: The Surge of Support for Independence in Catalonia”, The Canada Blanch/Sussex Academic Studies, April 1, 2015). Il libro, dopo aver considerato la questione del rapporto Catalogna-Spagna da diverse prospettive (sociologica, economica, politica, storica), conclude che i progetti nazionali catalano e spagnolo non sono compatibili. Il perché si può capire leggendo il libro; le sezioni che seguono possono servire come una introduzione al soggetto.
Si raccomanda inoltre il libro “What’s up with Catalonia?”, pubblicato da Catalonia Press nel 2013. `E una raccolta di piccoli saggi, di due o tre pagine, scritti in inglese da intellettuali e professionisti, che descrivono diversi aspetti della società catalana (lingua, immigrazione, economia, storia, cultura, politica). C’è una versione bilingue inglese-castigliano.

1        La lingua
La lingua della Catalogna è il catalano, che nacque nel medioevo, durante i secoli in cui il latino si trasformò lentamente nelle varie lingue che ora si denominano latine. Quindi il catalano è  lingua sorella del castigliano, del francese, dell’italiano e di tutte le altre lingue latine. La lingua è parte dell’identità delle persone. Tutte le lingue, come tutte le persone, hanno la stessa dignità e devono, quindi, essere trattate con scrupoloso rispetto. Per questa ragione le organizzazioni democratiche evitano qualsiasi tipo di discriminazione di base nel trattamento delle lingue. Per esempio, le istituzioni europee concedono la condizione di lingua ufficiale a tutte le lingue che sono ufficiali negli stati europei. Da questo punto di vista l’inglese, il francese, il maltese e il gaelico (lingua ufficiale in Irlanda) hanno lo stesso rango. Le leggi del parlamento europeo vengono tradotte in tutte le lingue ufficiali e nel parlamento europeo esse possono essere usate senza restrizioni di alcun tipo.
In Svizzera ci sono quattro lingue ufficiali, che si parlano in regioni perfettamente delimitate geograficamente. In quelle regioni la lingua propria viene usata in modo preferenziale, in particolare nel sistema scolastico. Non si accetta che uno svizzero di lingua francese che abita nella zona tedesca esiga dallo stato una scuola in francese per i suoi figli. Non si accetta che uno svizzero di lingua tedesca esiga che l’impiegato di un supermercato di un cantone di lingua francese capisca il tedesco. Ci si aspetta, anzi, che gli svizzeri e i loro figli imparino la lingua del cantone di residenza.
Nel Canada il francese e l’inglese sono lingue ufficiali, sebbene il francese si parli solo nella regione del Quebec. Nelle principali città del Canada fuori dal Quebec, ci sono scuole pubbliche dove si impara il francese per immersione; il che significa che l’insegnamento nell’aula è sempre in francese, eccetto nelle ore di studio dell’inglese e della sua letteratura. Certi genitori anglofoni considerano importante che i loro figli conoscano l’altra lingua del Canada e sanno che impareranno l’inglese, che già si usa in casa e nei media, contemporaneamente senza grande sforzo.
Negli ultimi tre secoli lo stato spagnolo ha bandito il catalano dall’ambito pubblico. Perfino nei brevi periodi del secolo XIX in cui la monarchia borbonica ha dovuto tollerare un regime democratico il catalano è stato vietato nella scuola e nelle altre istituzioni pubbliche. Ci sono state intromissioni perfino nell’ambito privato; quando si generalizzò l’uso del telefono nel secolo XIX si vietò ai deputati catalani nel congresso spagnolo di parlare in catalano quando telefonavano. Nella seconda repubblica spagnola (1931-1939) il catalano fu lingua di uso normale nelle istituzioni e nella scuola pubblica. La vittoria nella guerra civile spagnola (1936-1939) del generale Franco e l’inizio della dittatura posero fine a un breve periodo di normalità, che si riprese con l’avvento del regime democratico nel 1978 dopo la morte del dittatore (1975). Malgrado una durissima persecuzione secolare i catalani hanno conservato la loro lingua, che è stata trasmessa di generazione in generazione. Ora il catalano è lingua ufficiale in territori in cui vivono 10 milioni di persone: in Catalogna, nelle isole Baleari , nella regione di Valencia e in Andorra, il piccolo stato nei Pirenei.
La persecuzione sistematica del catalano si iniziò nel 1714, dopo l’ultimo episodio della guerra di successione al trono di Spagna. I catalani si erano alleati con le forze che sostenevano il pretendente austriaco, l’Olanda e l’Inghilterra, contro quello francese della casa di Borbone. Lo spirito commerciale della Catalogna, il diritto, gli usi politici erano più concordi con quelli inglesi e olandesi che con l’assolutismo della monarchia francese. Dopo la pace di Utrecht (1713) la Catalogna rimase sola a difendere le proprie istituzioni e leggi contro il pretendente borbonico e il suo alleato francese. Barcellona cadde l’11 settembre 1714 dopo un lungo assedio. La rappresaglia contro la popolazione fu  durissima e le istituzioni di rappresentanza catalane, di origine medievale, furono soppresse, cos`ı come il diritto civile, e la lingua fu proibita.

 


Con il regime democratico che iniziò con la costituzione del 1978 il catalano fu dichiarato lingua ufficiale in Catalogna, insieme al castigliano, lingua ufficiale in tutto lo stato. La scuola elementare pubblica in Catalogna ha adottato dai primi anni ottanta il sistema dell’immersione in catalano in seguito ad una proposta della pedagoga socialista Marta Mata approvata dal parlamento catalano praticamente all’unanimità. Il sistema è stato applicato da allora con grande successo e con un enorme appoggio popolare. L’obbiettivo della scuola pubblica nell’ambito linguistico è quello di garantire la conoscenza delle due lingue ufficiali alle fine del ciclo gratuito ed obbligatorio (dai 6 ai 16 anni). Secondo dati del ministero spagnolo che si estendono ai 34 anni di applicazione del sistema, la conoscenza della lingua castigliana degli studenti catalani è costantemente leggermente superiore alla media spagnola. Il sistema di insegnamento delle lingue ufficiali in Catalogna è stato lodato da diverse organizzazioni internazionali e, in particolare, dalle istituzioni europee.
Ma non pare che lo stato spagnolo, sebbene formalmente democratico, abbia rinunciato alla storica ostilità contro la lingua catalana. Il catalano non si può usare nel congresso spagnolo, malgrado l’esempio europeo. Governi socialisti e governi del partito popolare (di destra) hanno cercato di modificare in favore del castigliano la convivenza linguistica ammirevole che si è costruita in Catalogna con l’appoggio della quasi totalità della popolazione. Sebbene le competenze in educazione siano esclusive del governo della Catalogna, successivi governi spagnoli, di destra e di sinistra, hanno cercato di favorire il castigliano tramite il potere legislativo (invadendo competenze esclusive della Catalogna) o l’ingegneria giuridica. Il nemico principale è il sistema di immersione, che si vorrebbe diminuito per soddisfare un ipotizzato diritto dei cittadini spagnoli residenti in Catalogna ad educare i loro figli senza immersione in catalano. La sentenza del 2010 della corte costituzionale sullo statuto della Catalogna del 2006, di cui parleremo più avanti, apre una breccia giuridica importante da dove già ora si sta cercando di combattere il sistema scolastico catalano.
Più grossolane, ciniche e manifeste, sono le aggressioni alla lingua nelle altre regioni del dominio linguistico del catalano, le isole Baleari e la regione di Valencia. Nella regione di Valencia il governo regionale del partito popolare è riuscito, con la passività complice del governo spagnolo, a rendere illegale la ricezione dei canali pubblici della televisione della Catalogna. Più tardi lo stesso canale pubblico regionale, in cui si usava in gran parte il catalano, è stato soppresso adducendo argomenti economici. Quindi, malgrado l’avanzata tecnologia delle comunicazioni, è impossibile nella regione di Valencia connettersi a una emittente in catalano. L’impatto negativo sulla lingua è evidente. Nelle isole Baleari il presidente della regione, del partito popolare, ha applicato la teoria del “think tank” fondato dall’ex-presidente Aznar (del Partito Popolare), secondo cui bisogna introdurre l’inglese come lingua veicolare dell’insegnamento nelle scuole del dominio linguistico del catalano per ridurne la presenza nelle aule. Le iniziative legislative in questo senso hanno creato una enorme opposizione da parte della comunità educativa e, in generale, della società delle isole (3).
Molti catalani hanno preso nota che lo stato di cui sono cittadini, continua a mostrarsi ostile alla loro lingua, un ostilità che male si accorda con uno stato di diritto democratico. Questa ostilità suppone non solo una ingente perdita di energie da parte dei governanti catalani, che invece di lavorare per il miglioramento del loro sistema scolastico sono forzati a impegnarsi per evitare le ingerenze del governo centrale, ma anche una enorme perdita di energia da parte dei politici spagnoli, che si sentono obbligati a escogitare formule per forzare la modificazione del sistema scolastico catalano. E’ una situazione irrazionale che crea un funzionamento inefficace delle istituzioni.
La percezione della maggioranza dei catalani è che, dopo 30 lunghi anni, il tempo della negoziazione nell’attuale cornice politica sia finito. La soluzione passa per non lasciare ad altri le decisioni su certi aspetti dell’organizzazione politica del loro paese: sistema scolastico, sanità, controllo delle risorse. In altre parole, per costruire uno stato proprio e, quindi, per l’indipendenza. Vedremo in altre sezioni che a questa stessa chiara conclusione ci si arriva da diversi altri itinerari. La varietà dei percorsi logici o emozionali che portano alla stessa convinzione spiega la forza e la trasversalità del movimento per l’indipendenza.

2  La Catalogna nella Spagna post-franchista
Per capire la decisa svolta verso l’indipendenza che dal 2010 ha intrapreso la società catalana conviene avere presente qualche elemento della dinamica politica nella monarchia spagnola nel post-franchismo. Franco `e morto nel novembre del 1975. La pressione della società spagnola e dei partiti democratici nella clandestinità hanno spinto personaggi politici rilevanti del regime franchista, tra cui l’allora principe Juan Carlos, a iniziare il processo di democratizzazione dello stato. I partiti democratici che avevano vissuto nella clandestinità per 36 anni sono stati legalizzati e si è iniziato un periodo costituente in cui hanno partecipato anche le elite della dittatura, sostenute dall’esercito di Franco, che vegliava dal segreto delle caserme. E’ stata la cosiddetta “transizione”. L’accordo di fondo, esplicitato solo pacatamente, è stato che si agevolava il transito alla democrazia a patto che non si chiedessero mai responsabilità per i crimini della dittatura.
La costituzione del 1978 riflette fedelmente la natura dei due mondi da cui è nata. Per esempio, l’articolo 2 dice :
“` E fondamento della Costituzione la indissolubile unità della Nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli, e si riconosce e garantisce il diritto alla autonomia delle nazionalità e regioni che la costituiscono e …”.
Si noti la dualità tra la fissazione franchista (e della destra tradizionalista spagnola) dell’unità della patria e la volontà di autogoverno delle nazioni basca e catalana. E’ anche notevole il fatto che non si nominano le “nazionalità” che costituiscono la “nazione” spagnola. Una concessione che probabilmente appariva minore alle forze democratiche, ma che, con l’andar del tempo, è diventata determinante perchè sbiadisce giuridicamente la personalità politica della Catalogna (e dei Paesi baschi). E’ anche da notare che la condizione di nazione si attribuisce solo all’insieme della popolazione spagnola e non anche ai catalani (e ai baschi). Per molti osservatori questa negazione di una realtà storica e fattuale evidente è il germe del fallimento dell’architettura costituzionale del 78. L’influenza dell’esercito si fa palese, tra altri, nell’articolo 8 che dice : “Las Fuerzas Armadas … tienen como mision … defender la integridad territorial…”. All’esercito è quindi affidata l’integrità dello stato contro il fantasma di possibili movimenti secessionisti, non importa se democratici e pacifici. La violenza armata prevale, in qualunque caso, sulla democrazia. E’ la concezione ottocentesca in cui si era formato l’esercito golpista di Franco, che non solo aveva sempre diffidato delle istituzioni di rappresentazione democratica ma aveva perfino iniziato una guerra contro di loro. L’articolo 37 della legge organica dello stato del 1967 (quindi franchista) dice:  ”Le forze armate della Nazione… garantiscono l’unità e indipendenza della Patria, l’integrità dei suoi territori…“ Si osserva quindi una trasposizione delle leggi della dittatura nella costituzione del 19784.
Il referendum per la costituzione è stato ampiamente favorevole al SI, eccetto nei Paesi Baschi dove ha vinto il NO, per il non riconoscimento nazionale basco. In Catalogna il referendum è stato percepito come un voto per la nuova democrazia o per la dittatura e, ovviamente, ha vinto il SI. La costituzione è stata giudicata come un accordo complessivamente positivo perchè permetteva la nascita di una nuova era democratica che, tra l’altro, avrebbe permesso l’entrata in Europa e che offriva interpretazioni favorevoli ad un ampio e crescente autogoverno.
Le prime elezioni legislative nel 1979 diedero la vittoria a un partito di centro destra (“Union de centro democratico”, UCD), in cui si era integrata gran parte della classe politica del franchismo, seguito dal partito socialista (“Partido socialista obrero espan˜ol”, PSOE) di Felipe Gonzalez, che aveva appena abbandonato il marxismo in un recente congresso, e dal partito comunista (PCE) di Santiago Carrillo. Intanto si elaborava lo statuto della Catalogna (1979). Nelle prime elezioni catalane (1980) vinse, inaspettatamente, una federazione (CIU) tra liberali socialdemocratici (“Convergencia democratica de Catalunya”, CDC) e democrazia cristiana (“Union democratica de Catalunya”, UDC). Il leader di CIU, Jordi Pujol, ha poi governato la Catalogna per 23 anni, con maggioranza assoluta per alcune legislature. Pujol fu un leader politico di prim’ordine, dotato di una comprensione profonda e intuitiva della realtà catalana e spagnola e di una capacità di comunicazione straordinaria. Rappresentava la continuazione del catalanismo politico, un movimento politico nato verso la fine dell’ottocento, che aspirava all’autogoverno della Catalogna e alla rigenerazione della Spagna negli ambiti politico ed economico. Pujol capì subito che l’indipendenza non era allora possibile, ma governò durante la prima legislatura col partito indipendentista di sinistra, “Esquerra republicana de Catalunya”, ERC, finchè ottenne la maggioranza assoluta nelle elezioni del 1984.
Con la vittoria socialista nelle elezioni legislative spagnole del 1982 si iniziò la normalità politica spagnola della transizione che si è estesa fino ad ora. Il sistema è sostanzialmente bipartisan, con solo due grandi partiti che hanno possibilità reali di governare: il partito socialista, che rappresenta il centro-sinistra, e il partito popolare (PP), che accoglie tutta la destra, dai democristiani agli eredi della classe politica franchista e all’estrema destra xenofoba. Gli ex-comunisti, poi riconvertiti in sinistra verde, formano una minoranza che è stata sempre esclusa dal governo. Il partito socialista e il partito popolare si sono alternati nel governo della Spagna, con maggioranze assolute o relative.    Nei periodi di maggioranza relativa sono stati necessari degli appoggi parlamentari, sempre forniti dalla federazione CIU di Jordi Pujol che governava la Catalogna e aveva una discreta rappresentanza nel congresso spagnolo. Pujol iniziò nel 1982 un programma di rapporto con i partiti spagnoli che si estese per 21 anni: pacificazione del rapporto Catalogna-Spagna (pagata a prezzo d’oro con le risorse dell’economia catalana) e contributo alla stabilità politica della Spagna, modernizzazione dello stato (con l’aiuto dell’Europa), coesione della società catalana che permettesse la convivenza tra vincitori e sconfitti nella guerra civile e tra immigrati e catalani d’origine, e costruzione di strutture di stato basilari (radio e televisione, scuola, polizia).
Il bilancio di 30 anni di democrazia spagnola ha luci e ombre per la Catalogna. Ci sono stati dei successi parziali nell’ambito dei servizi sociali, che hanno funzionato per certi periodi in modo efficace e soddisfacente: scuola, sanità, polizia, radio e televisione. La società catalana ha integrato l’immigrazione, qualche volta massiva, e ha funzionato l’ascensore sociale per coloro che si sono impegnati nel mondo del lavoro, delle libere professioni o dell’imprenditoria, indipendentemente dalle loro origini. La volontà di costruire con il lavoro e il compromesso una società di qualità, attenta alla redistribuzione, solidale, con servizi di primo ordine, dalla sanità allo sport, ha consolidato il senso di appartenenza a una collettività pregevole. Ma il finanziamento delle competenze assunte dal governo catalano è stato sempre precario. In nome della solidarietà, si sono effettuati durante decenni, enormi trasferimenti di risorse dalla Catalogna con lo scopo di sviluppare il resto della Spagna. Mai nè i governi spagnoli, nè gli intellettuali, nè la classe politica spagnola in generale, hanno riconosciuto esplicitamente lo sforzo catalano, anzi, soccombendo al vecchio luogo comune spagnolo rimproverarono Pujol e, in generale, i catalani per la loro ipotetica avarizia, quando si è proposto di limitare l’enorme contributo in nome delle necessità dell’economia e del benessere dei cittadini della Catalogna. Per decenni i dati sui trasferimenti di risorse tra regioni non sono stati rilasciati dai ministeri spagnoli, malgrado le richieste dei partiti catalani. Dati resi pubblici dal governo Zapatero (PSOE) relativi all’anno 2005, mostrano un deficit fiscale (differenza tra risorse uscenti in forma di tasse e beni che ritornano in forma di servizi sociali o investimenti pubblici) dell’8% del PIL della Catalogna. Gli economisti sanno che un deficit fiscale costante di queste proporzioni non è sostenibile per nessun paese. Il discorso documentato e profondo, illustrato da dati diversi, si può trovare nel libro di Germa Bel, ove perfino si espone un metodo alternativo, più giusto ed efficace, di distribuzione della ricchezza. In sintesi, la discussione non è la solita tra le regioni ricche di un paese europeo e quelle meno sviluppate. L’immagine più accurata è quella del rapporto tra una colonia e la metropoli. La Catalogna viene sfruttata economicamente e aggredita culturalmente. I cittadini catalani meno sensibili all’ostilità culturale e linguistica hanno trovato nello sfruttamento economico evidente, sostenuto e irrazionale, una ragione di peso per riflettere. La conclusione a cui arrivano è che, malgrado tutti i tentativi fatti dalle forze politiche catalane, i successivi governi spagnoli (e l’oligarchia finanziaria e imprenditoriale) non sono disposti neanche a considerare la questione. Il peso di secoli di storia, l’ideologia, la coscienza di essere più forti nella demografia e quindi nell’aritmetica parlamentare, bloccano ogni possibilità di proporre e accordarsi su un rapporto più giusto e più efficiente. Tra l’altro, perchè una concessione politica alla Catalogna comporterebbe una sconfitta nelle seguenti elezioni legislative in Spagna.
Come per la lingua, un numero sempre crescente di catalani sono arrivati alla conclusione che non è sensato lasciare ad altri decidere sulle loro risorse, perchè l’alternativa è un deterioramento progressivo dei servizi sociali (scuola, sanità, pensioni), delle infrastrutture (strade, treni, aeroporti, rete elettrica). Non si nega la solidarietà, anzi; ma si vuol decidere fino a che punto si deve essere solidali e si vuole un rendiconto sull’uso dei fondi stanziati. Da una parte si sente l’urgenza di cambiare le cose subito, dall’altra la speranza di raggiungere patti ragionevoli con lo stato spagnolo si percepisce come nulla. Quindi la necessità di uno stato proprio.

3  Infrastrutture e ideologia
Un caso tipico e illustrativo della pessima amministrazione dello stato spagnolo si trova nella politica in materia di infrastrutture, in particolare aeroporti e ferrovie.
Per gli aeroporti, il modello che ha funzionato in Europa e che `e stato adottato ovunque `e quello della gestione decentralizzata. Chi governa la gestione di un aeroporto `e una commissione formata da enti locali, come il comune, la camera di commercio, associazioni di imprenditori ed enti regionali. Invece in Spagna c’`e un ente centrale che governa tutti gli aeroporti spagnoli. Alla fine le decisioni vengono prese in funzione degli interessi dell’aeroporto di Madrid, che viene alimentato da tutti gli altri. Per esempio, in diversi trattati internazionali tra Spagna e paesi sud e centro americani si specifica che i voli intercontinentali tra il paese in questione e la Spagna termineranno e partiranno da Madrid. La conseguenza è che gli interessi commerciali del territorio catalano vengono trascurati. Pochi anni fa le associazioni catalane di imprenditori presentarono al ministro spagnolo dei trasporti una petizione per il funzionamento autonomo dell’aeroporto di Barcellona, che non fu soddisfatta. Quindi la riflessione sul malgoverno dell’amministrazione spagnola nei riguardi della Catalogna occupa anche gli imprenditori. Si spiega così, in parte, il compromesso delle associazioni di piccoli e medi imprenditori col movimento per l’indipendenza.
Per le ferrovie, la politica spagnola presenta addirittura dei caratteri ridicoli. Nel 1992 Barcellona organizzò i giochi olimpici che furono concessi alla città da una istituzione internazionale nel 1986. Il primo tratto di treno di alta velocità fu inaugurato nel 1992. Non era per le merci ma per passeggeri e non fu il tratto Barcellona-Madrid, ma Madrid-Siviglia. Felipe Gonzalez, nato a Siviglia, era il capo del governo socialista della Spagna. Madrid fu capitale culturale europea nel 1992 e Siviglia organizzò l’esposizione universale del 1992. Nella cultura politica spagnola non c’è posto per un trionfo, benché meritato, di una istituzione catalana se non appare un compenso per gli altri. E spesso i compensi sono onerosi ed inefficaci.
Per 30 anni si è sviluppata la rete di treni ad alta velocità, sempre per passeggeri, e sempre con linee che partono da Madrid: è la cosiddetta concezione radiale dei trasporti, le cui radici risalgono al seicento. La linea Madrid-Barcellona è stata inaugurata nel 2008. La ministra dei trasporti (del PSOE) ha detto che col treno ad alta velocità si “cuce”il paese con filo d’acciaio. La realtà è che solo per il tratto Madrid-Barcellona l’utenza copre le spese di manutenzione. Tutti gli altri tratti sono deficitari. Il mantenimento delle linee ad alta velocità suppone una spesa onerosa sul preventivo annuale dello stato. Però pare che contribuisca all’unità della patria.
Invece le considerazioni di tipo economico di senso comune elementare vengono sistematicamente ignorate. Gli economisti hanno segnalato il “corridoio mediterraneo”, che da Algeciras nel vertice sud della penisola connette col confine francese lungo la costa (passando per i porti di Valencia e Barcellona), come una linea ferroviaria ad alta velocità per le merci di grande impatto positivo sull’economia spagnola. I prodotti agricoli dell’Andalusia troverebbero una via naturale verso l’Europa e la connessione con i porti di Valencia e Barcellona dinamizzerebbe l’attività commerciale con l’est asiatico per via delle navi che attraversano il canale di Suez e che ora procedono verso lo stretto di Gibilterra per approdare a Anversa, Rotterdam o Amburgo.
Durante gli anni novanta la Commissione europea si propose di preparare un ambizioso progetto, che doveva contare su sostanziosi fondi europei, per le grandi connessioni ferroviarie europee che fossero considerate prioritarie. Una di queste linee doveva stabilire la connessione della penisola iberica con l’Europa. Il corridoio mediterraneo appariva nei progetti dei ministeri spagnoli dagli anni 90, ma il governo di Aznar (PP) ha presentato nel 2003 un unico progetto alternativo, chiamato il corridoio centrale, per connettere Algeciras con la Francia: da Algeciras a Madrid, da Madrid a Saragozza, da Saragozza si arriva in Francia dal centro dei Pirenei salendo a 2000 metri e attraverso una galleria di 40 Km. I porti mediterranei vengono ignorati e la Catalogna (che non vota PP) viene emarginata nell’angolo nord-est della penisola. Per un decennio politici, imprenditori, commercianti, esperti in trasporti e in economia dell’arco mediterraneo hanno lavorato affinchè il corridoio mediterraneo fosse proposto come prioritario alle istituzioni europee. Il governo socialista di Zapatero l’ha presentato qualche anno dopo insieme al centrale, fatto che è stato ricevuto con sollievo dalle autorità europee. In seguito il governo Rajoy (PP) ha appoggiato apertamente il centrale nella Commissione europea. Il corridoio centrale ha finito la sua pazza esistenza in una votazione emblematica nel seno della commissione europea: 26-1. Non dubito che il lettore intuisca che stato ha votato a favore del corridoio centrale.
Questi fatti e altri simili (5) hanno un impatto notevole sull’opinione pubblica catalana. I fatti sono così chiari che generano un grande consenso e la gente non può fare a meno di percepire che gli interessi dello stato spagnolo non coincidono con quelli della Catalogna. Lo stato spreca, talvolta in nome della patria, talvolta per gli interessi elettorali dei partiti, altre volte in modo irrazionale e difficilmente giustificabile. Emerge quindi l’idea che una amministrazione più prossima, più radicata nei valori della società catalana sarebbe di gran lunga più efficace e proteggerebbe i legittimi interessi dei cittadini catalani, ora non garantiti. Di nuovo sorge l’idea del diritto a decidere (6) e quindi dello stato proprio.

  4  Lo stato spagnolo `e uno stato di diritto ?
Una delle obiezioni che si pongono all’indipendenza della Catalogna è che la Spagna è uno stato di diritto. Non so esattamente qual’è l’idea che si vuol riportare con questa frase, ma intuisco che si vuol dire che l’indipendenza della Catalogna vulnererebbe la legge spagnola. Sono d’accordo. Generalmente uno stato si oppone alla propria frammentazione, sebbene ci siano degli esempi nella storia recente in cui uno stato si `e diviso per un accordo politico che ha rispettato la volontà popolare e qualvolta infrangendo una legge vigente. Questo `e il caso della Norvegia che si è separata dalla Svezia nel 1905 o i casi più recenti della Cecoslovacchia o degli stati baltici. Abbiamo spiegato l’origine della Costituzione spagnola, che proclama l’indivisibile unità della patria, ma fu promulgata sotto la sorveglianza dell’esercito di Franco. La stessa Costituzione spagnola sovvertiva la legalità del regime franchista per cui l’unico partito legale era la “Falange”e la democrazia un sistema da combattere. Sorprende che nell’Europa del XXI secolo si possa negare la legittimità di un movimento democratico e pacifico che vuol cambiare le leggi per mezzo di un mandato democratico. Soprattutto dopo l’esempio britannico e il referendum in Scozia.
Ci sono almeno due elementi che pongono in dubbio il fatto che la Spagna sia uno stato di diritto. Il primo è la corruzione generalizzata che pervade il sistema dei partiti e l’amministrazione dello stato, comprese certe istituzioni catalane. La corruzione ha verosimilmente un rapporto con la disastrosa politica economica praticata dai due grandi partiti spagnoli soprattutto nell’ ultimo decennio, che ha degradato gravemente lo stato sociale. Il secondo è la violazione del principio di separazione dei poteri: il potere legislativo invade il potere giudiziario e questo il legislativo.
Cominciamo dalla corruzione. Ci sono casi in tutti i livelli dell’amministrazione; citerò solo i più importanti. L’ex-tesoriere del PP (Barcenas) è in prigione accusato di evasione fiscale (aveva conti in Svizzera per diversi milioni di euro), riciclaggio del denaro e falso in atto pubblico. Ha dichiarato al giudice che consegnava periodicamente buste a numerose alte cariche del PP, compreso il presidente Rajoy. L’imputazione penale è sorta dal caso “Gurtel”, iniziato dal giudice Garzon nel 2009 sulla rete di finanziamento illegale vincolato a alte cariche de PP delle regioni Madrid, Valencia e Galicia durante i governi di Aznar. Si è arrivati al punto che più della metà dei deputati del PP al parlamento della regione Valencia, dove governa con maggioranza assoluta, sono imputati per casi diversi di corruzione. Come conseguenza dell’indagine di un caso simile nelle isole Baleari è in prigione l’ex-presidente delle Baleari J. Matas (PP). Un genero del Re Juan Carlos, Inaki Undangarın, è stato imputato dopo l’indagine per il caso NOOS, una fondazione che copriva una trama di corruzione. Le accuse sono di malversazione a danno delle amministrazioni dello stato, falso in atto pubblico, riciclaggio del denaro, frode e abuso d’ufficio. La moglie, Cristina de Borbon, figlia dell’ex-Re Juan Carlos e sorella del Re Felipe, è stata interrogata dal giudice istruttore, ma il procuratore dello stato, che dipende dal governo, ha cercato di evitare a tutti i costi che fosse imputata, malgrado ci fossero indizi chiari di complicità. Il PSOE ha avuto problemi grossi con la giustizia, soprattutto in Andalusia, dove governa dal 1980, per diversi casi di corruzione. L’ultimo consiste della deviazione di fondi europei per la formazione dei disoccupati. Il presidente Pujol ha confessato recentemente che i suoi figli e la moglie mantenevano irregolarmente all’estero circa 4 milioni di euro di una eredità del padre, morto negli anni 80.
Per quanto riguarda la politica economica, abbiamo già menzionato la disastrosa politica di infrastrutture. Invece di promuovere i settori produttivi che hanno uno stretto rapporto con l’innovazione e che procurano un valore aggiunto, sia il PP che il PSOE al governo hanno puntato sull’edilizia e il turismo. Aznar ha liberalizzato (circa nel 2000) il suolo, il che ha iniziato la bolla immobiliare, e Zapatero (circa nel 2004) ha favorito l’entrata massiva e legale in Spagna di cittadini centro e sud americani allo scopo di aumentare la produttività dell’industria immobiliare per mezzo della riduzione dei salari. Qualche anno dopo è scoppiata la crisi dell’immobiliare e ingenti quantità di disoccupati sono stati sostenuti dalle apposite indennità pubbliche: un fiasco indiscutibile per lo stato. Invece le grandi ditte dell’immobiliare e le banche hanno fatto affari d’oro per molti anni. Le banche in difficoltà per la crisi dell’immobiliare sono poi state salvate da fondi europei. Le irrazionali spese dello stato nella rete di treni di alta velocità, che beneficiano le grandi corporazioni della costruzione con sede a Madrid e i circoli finanziari della capitale, comportano un grave deterioramento dello stato sociale e rimandano, incomprensibilmente, politiche economiche che incentivino l’innovazione e il valore aggiunto. Il risultato di tutto ciò è un debito pubblico di quasi il 100% del PIL, una disoccupazione del 26% (che sale al 35% in Andalusia) e un degrado palese dei servizi pubblici.
Passiamo ora alla violazione del principio di separazione dei poteri. La sentenza della corte Costituzionale di Giugno del 2010 sullo Statuto della Catalogna fu promulgata dopo una serie di interventi dei poteri esecutivo e legislativo che modificarono la composizione della corte. Questa gravissima vicenda verrà descritta nella sezione seguente. Per ora voglio solo menzionare una conseguenza che è un esempio di come il potere giudiziario può sostituire il legislativo.
La sentenza sullo Statuto affermava, tra moltissime altre cose, che anche il castigliano deve svolgere il ruolo di lingua veicolare dell’insegnamento elementare in Catalogna. S’intende per lingua veicolare la lingua della classe nello studio di materie non linguistiche. Ricordiamo che il metodo pedagogico dell’immersione suppone che la lingua veicolare dell’insegnamento obbligatorio (6-16 anni) sia il catalano. Abbiamo già spiegato che la legge del parlamento catalano che sviluppava questo principio fu promulgata negli anni ottanta in una votazione praticamente unanime ed è stata applicata da allora con gran successo (per esempio, gli studenti conoscono correttamente il castigliano e il catalano alla fine dell’insegnamento obbligatorio) e con l’appoggio generale della popolazione. Dopo la sentenza dello Statuto una quindicina di famiglie in Catalogna ha iniziato cause in tribunale affinchè i loro figli ricevano l’insegnamento veicolare in castigliano. Una recente sentenza di un corte ordinaria su una di queste cause stabilisce che il 25% dell’insegnamento deve essere in castigliano nelle scuole in cui i figli delle famiglie in questione sono iscritti (la base dell’argomento è la sentenza dello Statuto). Quindi ora il giudice (spagnolo) fa la legge in Catalogna e ignora quella in vigore, discussa e approvata nel Parlamento catalano e con 30 anni di vita alle spalle. E’ una situazione kafkiana, che può generare sia un sorriso di incredulità che una spiacevole sensazione di insicurezza giuridica (tra i genitori che mandano i figli alla scuola pubblica del loro quartiere credendo di conoscere il sistema scolastico) (7).
Queste vicende rafforzano l’idea che uno stato di diritto nuovo, uno stato dei catalani, permetterebbe di fare le cose molto meglio, di mantenere il principio della divisione dei poteri e di instaurare altre garanzie democratiche per combattere la corruzione, l’evasione fiscale in particolare, e per costruire in modo efficace una società avanzata europea di qualità, basata sui valori del lavoro, della redistribuzione e del welfare.
Per coloro che possono leggere il catalano, è da raccomandare un articolo di Ferran Requejo, professore di scienza politica all’Università Pompeu Fabra (con sede a Barcellona), pubblicato nel giornale ARA, il 2 novembre 2014, che porta per titolo “Stato di diritto storto”. Riporto solo le frasi centrali.
”Lo stato spagnolo `e uno stato di diritto nel quale brilla ripetutamente l’assenza di una separazione reale dei poteri, in cui il teorico arbitro, la corte costituzionale, è presieduta da un militante del partito che governa (8), in cui gli indici di corruzione dei principali partiti sono molto alti rispetto ad altre democrazie, in cui accuse politiche e giornalistiche false e diffamatorie rimangono senza nessun tipo di sanzione, in cui ci sono inadempimenti costanti da parte del governo degli accordi firmati, in cui la frode fiscale duplica la media europea, ecc. Lo stato spagnolo è arcaico in termini liberal-democratici. E’ uno stato di diritto storto.“

  5  La sentenza dello Statuto della Catalogna
Un fatto straordinario distinse le elezioni legislative catalane del novembre del 2003: Jordi Pujol, presidente del paese per 23 anni, si era ritirato dalla politica attiva per ragione di età. Il suo successore, Artur Mas, aspirava di nuovo alla vittoria, malgrado che i sondaggi dessero come vincitore Pasqual Maragall, candidato per il partito socialista della Catalogna (PSC, il PSOE in Catalogna). Maragall era stato il sindaco della Barcellona olimpica e rappresentava l’ala del socialismo catalano più sensibile alle rivendicazioni di maggior autogoverno. I risultati delle elezioni furono favorevoli a Maragall per numero complessivo di voti, ma il CIU ottenne un maggior numero di seggi (46 del CIU contro 42 del PSC, su un totale di 135). La chiave per la formazione del nuovo governo rimase in mano alla terza forza, ERC (Esquerra Republicana de Catalunya), partito indipendentista di sinistra, che aveva ottenuto 23 seggi. ERC era un partito più prossimo a CIU per quanto riguarda le questioni nazionali dell’autogoverno, ma più prossimo al PSC per la questione sociale. ERC si decise per la formazione di un governo di sinistra con il PSC e ICV (Iniciativa per Catalunya, la sinistra verde, ex-comunista). Una delle ragioni che si addussero fu “l’igiene democratica”, che esigeva un cambio nel partito di governo dopo 23 anni.
Dopo 23 anni di governi di centro destra il grande problema della Catalogna era ancora il finanziamento insufficiente delle competenze acquisite, che sono quelle basiche di natura sociale: educazione, sanità, servizi sociali, polizia. Il numero di persone in situazione di povertà era cresciuto e i preventivi dei successivi governi facevano fatica a provvedere alle necessità reali del welfare. Governi spagnoli di destra e di sinistra si erano succeduti senza che un miglioramento sostanziale e durevole del finanziamento fosse stato accordato. Il nuovo governo tripartito di sinistra ha deciso quindi di iniziare un procedimento che si prevedeva difficile e lungo: la compilazione di un nuovo statuto della Catalogna che aggiornasse quello del 1979 negli aspetti essenziali della vita sociale catalana, finanziamento, lingua, riconoscimento nazionale, diritti dei cittadini.
Il tripartito ha iniziato nel febbraio del 2004 il procedimento per il nuovo statuto,
che è stato lungo e faticoso, non solo per la classe politica catalana ma anche per la cittadinanza. Si sono stabiliti canali di partecipazione popolare, d’accordo con una delle idee classiche della sinistra, ci sono state discussioni in commissione, nel parlamento, sulla stampa, in televisione e radio su temi di natura molto diversa : diritti dei cittadini, rango giuridico del catalano, scuola, finanziamento, diritti storici, sistema giudiziario. Nel settembre del 2005, dopo una agitato sprint finale il parlamento ha approvato il nuovo statuto con una maggioranza dell’88,88 % dei voti (tutti i partiti tranne il PP hanno votato a favore. Secondo il procedimento stabilito dalla costituzione spagnola lo statuto doveva essere discusso, modificato e approvato dal congresso e senato spagnoli per poi diventare legge organica dello stato. Anche in questa fase la polemica è stata intensa. Il processo si è iniziato nelle camere spagnole nel novembre del 2005 e si è arrivati a un accordo quasi definitivo nel gennaio 2006, paradossalmente tra Zapatero, presidente del governo spagnolo e Artur Mas, presidente di CIU e leader dell’opposizione nel parlamento della Catalogna. La posizione di Maragall e del PSC era delicata, perchè il presidente spagnolo, dello stesso partito, preferiva un accordo con l’opposizione. Gli indipendentisti di ERC hanno giudicato che le modifiche avevano cambiato troppo profondamente lo statuto approvato dal parlamento catalano. La versione ritagliata dello statuto è stata approvata dalle camere nel maggio del 2006 con l’opposizione del PP, di ERC e del partito indipendentista dei paesi baschi. Il 18 giugno 2006 si `e celebrato il referendum per l’approvazione dello statuto in Catalogna, sempre d’accordo con il procedimento stabilito dalla costituzione spagnola. La partecipazione è stata del 49% e il SI ha ottenuto il 74% dei voti, il NO il 21% e i voti bianchi sono stati il 5%. La bassa partecipazione nel referendum va attribuita in parte alle delusione cittadina per i cambiamenti nello statuto approvato dal parlamento della Catalogna, soprattutto per quel che riguarda la lingua, il riconoscimento nazionale e il finanziamento.
Per la lingua la parte positiva era che il catalano veniva definito come la lingua propria e ufficiale della Catalogna (e il castigliano come lingua ufficiale, per il fatto di essere ufficiale in tutto lo stato). Inoltre si equiparava il rango delle due lingue ufficiali, nel senso che i cittadini della Catalogna avevano il diritto e il dovere di conoscerle (non solo di conoscere il castigliano).
Nello statuto approvato dal parlamento catalano la Catalogna veniva riconosciuta come nazione. Nello statuto modificato si soppresse ogni riferimento al carattere nazionale della Catalogna negli articoli. Rimase, nel preambolo, una menzione del fatto che il parlamento della Catalogna aveva definito la Catalogna come nazione, raccogliendo il sentimento e la volontà di una maggioranza dei cittadini catalani.
Lo statuto approvato dal parlamento catalano prevedeva che tutte le tasse venissero riscosse e gestite dal governo della Catalogna e che, successivamente, una commissione bilaterale Catalogna-Stato centrale concordasse la contribuzione alle spese comuni. Lo statuto modificato lascia gestire al governo catalano solo le tasse proprie e quelle cedute dallo stato. La questione del finanziamento resta, quindi, irrisolta. L’amara consolazione è stata che sono state rispettate le disposizioni
transitorie per cui lo stato avrebbe investito in Catalogna una percentuale pari al contributo (percentuale) della Catalogna al PIL dello stato per sette anni dopo la promulgazione dello statuto.
Il processo ha avuto aspetti chiaramente negativi per la società catalana, in particolare per la classe politica. Durante la campagna per il referendum ERC ha difeso il NO e ciò ha introdttto una profonda frattura nel tripartito. Il presidente Maragall ha espulso ERC dal governo e ha convocato elezioni anticipate. La mutilazione severa patita dallo statuto approvato dal parlamento catalano ha avuto una conseguenza ben più grave. La società catalana ha assistito sgomenta a un rifiuto della sua nuova proposta per una convivenza nello stato comune in cui si accettasse la Catalogna come un ente politico con cui trattare in base al principio di uguaglianza. Il peggio però doveva ancora venire.
Il partito Popolare aveva lanciato una durissima campagna in tutto lo stato contro lo statuto durante la prima metà del 2006. In Andalusia i media pubblici emisero pubblicità contro lo statuto di un contenuto durissimo, in alcuni casi con tratti xenofobi manifesti. Come conseguenza in Catalogna si è parlato di rinascita della “catalanofobia”.
Dopo la promulgazione dello statuto si sono presentati nel 2006 due ricorsi alla corte costituzionale contro lo statuto: uno dal partito popolare contro 187 articoli e disposizioni transitorie, l’altro dal difensore del popolo (che in quell’epoca era un socialista) contro 112 articoli e 4 disposizioni transitorie. I due grandi partiti della democrazia spagnola iniziavano così un ultimo tentativo di annientare completamente il già mutilato statuto approvato in referendum dal popolo catalano. Il ricorso era previsto dalla costituzione e quindi, almeno dal punto di vista procedurale, era legittimo. La corte costituzionale è formata da 12 persone, giuristi di chiara fama (indipendenti e inamovibili) che sono nominati dal Re, 4 a proposta del congresso, 4 a proposta del senato, 2 a proposta del governo e 2 a proposta del Consiglio generale del potere giudiziario. Quindi 8 sono proposti da organi del potere legislativo, 2 dal potere esecutivo e 2 dal potere giudiziario. I membri della corte costituzionale sono nominati dal Re per un periodo di 9 anni e se ne rinnovano 4 ogni 3 anni.
La corte costituzionale ha dettato la sentenza sullo statuto nel giugno del 2010, quattro anni dopo la presentazione del ricorso e dopo tutta una serie di manovre che ne hanno alterato la composizione iniziale. Uno dei magistrati è stato rimosso dopo un ricorso del PP che si basava sul fatto che aveva emesso un rapporto per il governo della Catalogna qualche anno prima. Un altro magistrato è morto. Il periodo di permanenza di quattro tra i 10 rimasti era scaduto perchè nel Congresso PSOE e PP non furono capaci di accordarsi su una proposta per i sostituti. Il 26 novembre 2009 i 12 principali giornali con sede in Catalogna pubblicarono un editoriale congiunto, “La dignità della Catalogna”, in cui si affermava che la corte costituzionale era stata spinta ad agire come una quarta camera per giudicare una legge approvata dal Parlamento della Catalogna, modificata dal Congresso e dal Senato, poi approvata in referendum dal popolo catalano. Si teme, continuava l’articolo, che la sentenza dello Statuto possa rappresentare una chiusura istituzionale con tanto di catenaccio, il che sarebbe un colpo allo spirito aperto e integrativo con cui la costituzione nel 1978 era stata scritta. Concludeva indicando che le rivendicazioni catalane che godevano di un ampissimo appoggio politico e sociale, come il riconoscimento dell’identità, il miglioramento dell’autogoverno, un finanziamento giusto, la gestione delle infrastrutture, avrebbero continuato ad essere tenacemente sostenute in qualunque caso.
La sentenza ha polverizzato quel che rimaneva dello statuto approvato dal parlamento della Catalogna : 14 articoli annullati e 27 reinterpretati. Il dovere di conoscere il catalano non si poteva interpretare nello stesso modo di quello di conoscere il castigliano, il preambolo non ha conseguenze giuridiche, il governo dello stato non può essere obbligato a investire una percentuale determinata in Catalogna, non può esistere un rapporto bilaterale Catalogna-stato, …
La sentenza ha rappresentato un colpo durissimo per la classe politica e la società catalana che avevano proposto in buona fede una formula per la convivenza nello stato spagnolo e avevano accettato le severe modificazioni inflitte dal congresso. Il 10 luglio del 2010 una dimostrazione massiva (un milione di persone secondo la polizia) con lo slogan “Siamo una nazione. Noi decidiamo” ha riempito il centro di Barcellona. Hanno partecipato tutti i partiti catalani (eccetto il PP e un piccolo partito spagnolista), i sindacati e 1600 organizzazioni civili. Il coro più cantato è stato quello per l’indipendenza. Si `e capito che la fiducia di molti catalani nello stato spagnolo era stata delusa e che s’iniziava una nuova lunga incerta via verso l’emancipazione.

  6  L’indipendenza
Come abbiamo visto, la Catalogna ha una lingua propria, che è stata l’unica lingua del territorio per secoli, ed è usata in tutti gli ambiti della vita sociale: commercio, politica, letteratura, diritto. La Catalogna ha avuto per molti secoli e fino al 1714 uno stato, prima la Contea di Barcellona, poi la Corona d’Aragona (quando un Conte di Barcellona è stato coronato Re dell’Aragona). Questo passato ha creato una cultura che pervade diversi aspetti della vita sociale, come il diritto, le tradizioni e la concezione della vita, la politica. I catalani, col 16% della popolazione della Spagna, sono una minoranza che nel Congresso spagnolo non potrà mai far valere le proprie esigenze. L’attuale democrazia spagnola, nata negli anni settanta dopo la fine della dittatura franchista, erede tramite il regime franchista dalla peggior tradizione della monarchia borbonica, ha sistematicamente negato il riconoscimento nazionale della Catalogna, che è una realtà ovvia non solo agli osservatori politici ma perfino alla gente comune. Malgrado che l’esempio del Regno Unito nel caso della Scozia mostri la via democratica per risolvere un problema politico, la democrazia spagnola non pare disposta a seguirlo: nel 2013 il Congresso spagnolo non ha accettato la richiesta del parlamento catalano di trasferire la competenza per convocare un referendum sull’indipendenza.

 

 

Una parte sempre più numerosa della società catalana sta progressivamente tagliando i vincoli mentali ed emozionali con lo stato spagnolo, che si percepisce come un fattore contrario al progresso sociale, alla prosperità, a una più giusta redistribuzione della ricchezza, a una considerazione democratica della cultura catalana, all’integrazione dell’immigrazione nella cornice culturale catalana. Questa sconnessione emozionale e mentale dalle istituzioni spagnole e la volontà di costruire uno stato proprio si è già manifestata nelle urne. L’80% dei deputati del parlamento catalano formato dopo le elezioni del 2012 appoggia il diritto a decidere e la convocazione di un referendum per l’indipendenza. I partiti che si dichiarano favorevoli all’indipendenza hanno la maggioranza assoluta. Questo fatto viene messo in discussione da certi osservatori con l’argomento che il partito centrale del sistema di partiti catalano, ovvero il CIU, concorse alle elezioni del 2012 con un programma in cui non appariva la parola indipendenza, che fu sostituita con l’eufemismo “transizione nazionale verso lo stato proprio”.
Si inizia nel 2015 un ciclo elettorale nello stato spagnolo che chiarirà la dimensione elettorale del movimento indipendentista. Il 25 maggio ci saranno elezioni municipali. Il 27 settembre elezioni legislative in Catalogna e verso la fine anno elezioni legislative spagnole. Il 27 settembre 2015 i cittadini catalani, a cui è stato negato un referendum vincolante come in Scozia o nel Quebec, avranno l’opportunità di votare diversi partiti che propongono nel loro programma l’indipendenza, dal centro-destra alla sinistra verde e alternativa. Se il voto per questi partiti è chiaramente maggioritario sarà inevitabile che il governo nato da queste elezioni faccia dei passi decisivi verso l’indipendenza.
E ovvio che lo stato spagnolo si opporrà con tutte le sue forze, che sono quelle di uno stato e quindi enormi, alla sua frammentazione. Si sono già usati metodi molto dubbi dal punto di vista democratico contro il movimento per l’indipendenza. Durante la campagna elettorale catalana del 2012 è stato pubblicato in un giornale spagnolo di grande tiratura un rapporto della polizia finanziaria secondo cui il candidato a presidente Artur Mas aveva dei conti in Svizzera, accusa che è risultata falsa. Non c’è stata nessuna azione da parte del ministero dell’interno per chiarire l’origine della insinuazione e appurare eventuali responsabilità penali. Nè alcuna azione del procuratore generale dello stato contro il giornale. Lo stesso giornale ha pubblicato una notizia nel 2014, secondo cui la polizia aveva scoperto un conto in Svizzera del sindaco di Barcellona Xavier Trias, che appartiene all’ala indipendentista della CIU. Si dava perfino il numero del conto. Il sindaco ha negato le accuse e ha chiesto alle autorità svizzere di confermare che non esisteva nessun conto a suo nome in nessuna banca svizzera, cosa che è stata fatta poco dopo. Di nuovo nè il ministero dell’interno nè il procuratore dello stato iniziarono azioni per chiarire il ruolo della polizia nella genesi della falsa notizia. Quindi il ministero dell’interno, la polizia statale e grandi media pubblici e privati spagnoli sono già stati messi a disposizione dello stato per combattere il movimento indipendentista.
Le forze politiche catalane hanno invece una sola arma, quella che danno i voti, ossia la democrazia. E’ plausibile che il voto non sia sufficiente in un primo tempo per superare l’enorme pressione interna a cui saranno sottoposti il nuovo governo e la società catalana, nè le manovre diplomatiche internazionali che avvierà lo stato spagnolo su tutti i fronti. Ma d’altra parte non è sensato, nè possibile negare a una nazione il diritto all’autogoverno. Non in Europa nel secolo XXI.

Joan Verdera Departament de Matem`atiques Universitat Auto`noma de Barcelona 08193 Bellaterra, Barcelona, Catalonia E-mail: jvm@mat.uab.cat

(1)   Una società per la promozione della lingua e la cultura catalane
(2) Il termine “referendum”avrebbe generato complicazioni giuridiche
(3) Dal marzo 2015 due canali della televisione pubblica catalana, uno di informazione generale e l’altro per bambini, non si riceveranno più nelle Baleari per ragioni legali di natura tecnica
(4) Vedasi l’articolo di J.Ramoneda su ARA, 10 dicembre 2014
(5) Nel luglio del 2007 si produsse a Barcellona una enorme interruzione di corrente elettrica dovuta a una catena di avarie provocate e aggravate da una scandalosa mancanza di investimenti dai monopoli privati elettrici spagnoli. L’interruzione lasciò 350.000 famiglie senza luce per 4 giorni e le avarie non furono riparate per 2 mesi. Intanto si somministrò elettricità alle case per mezzo di generatori diesel che si piazzarono per le vie centrali della città. Il primo dicembre 2007 si celebrò una grande dimostrazione a Barcellona con lo slogan “Siamo una nazione e diciamo basta! Vogliamo decidere sulle nostre infrastrutture”.
(6) Un eufemismo per il diritto alla sovranità, molto usato dai politici catalani
(7) Se si applicasse questa sentenza potrebbe capitare che in un gruppo di 25 alunni il 25% delle ore di lezione si debbano fare in castigliano se la famiglia di anche un solo alunno lo richiede.
(8) Il PP

Da ancitalia