Un detestato passato sempre più incombente

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Premessa

In un Medio Oriente devastato dalle guerre, dove eventi di rilevante importanza, quelli che la pubblicistica anglosassone chiama i “game changers”, si sono prodotti in un brevissimo spazio temporale, dal rozzo interventismo bellicista della monarchia saudita nella guerra civile in Yemen, in essere da più di quattro mesi, uno dei cui rilevanti risultati è stato un vistoso rafforzamento di Al-Qaeda in quella derelitta realtà, alla positiva conclusione del laboriosissimo negoziato con Teheran sul presunto programma nucleare iraniano, per finire all’intesa tra Stati Uniti e Turchia, costellata da zone d’ombra, vertente sulla strategia da seguire nella lotta contro il feroce oscurantismo jihadista dell’ISIL in Siria, un’evoluzione o, per meglio dire, un’involuzione si manifesta nel Paese arabo più vicino all’Italia, a un’ora di volo da Roma.

 

 Intendiamo parlare ovviamente della Tunisia, dove da circa sei mesi figure compromesse con i passati regimi autoritari, come il quasi novantenne Presidente Cajd Essebsi, sono nuovamente assurti alla direzione politica di un’entità da dove ha preso le prime mosse la Primavera araba e che fino ad ora costituisce l’unico esempio di dignitosa esperienza democratica nell’universo arabo-islamico.

Ebbene questo vogliamo trattare, dato che riteniamo che questo tema meriti la dovuta attenzione per i seguiti che potrebbero derivarne. Perché dunque parlare di quel che sta accadendo in Tunisia?  Essenzialmente per due ordini di motivi. Il primo perché riteniamo che tali sviluppi in una realtà, simbolicamente di assoluta importanza come la Tunisia, debbano essere monitorati e analizzati, il secondo perché non possiamo celare un certo stupore nel rilevare il silenzio dei media internazionali di fronte ad eventi che non dovrebbero essere oggetto di un tale distacco, se non altro per la contiguità geografica ed anche, per alcuni aspetti, storico - culturale che lega il Paese dei gelsomini all’Europa ed all’Occidente.

Di questo dunque tratteremo nelle pagine che seguono.

 

Inquietanti sviluppi

Nel mio precedente articolo avevo segnalato il carattere retorico e minacciosamente poco rassicurante delle esternazioni del Capo dello Stato Caid Essebsi all’indomani della seconda delle due stragi perpetrate da jihadisti appartenenti all’ISIL, nella rinomata spiaggia di Sousse lo scorso giugno, conclusasi con un bilancio cruento di trentotto morti, in gran parte turisti britannici, attratti dal clima e dal fascino culturale di una terra ricca di storia.

A tali esternazioni, nelle quali Essebsi faceva stato, senza mezzi termini, di “una situazione di guerra”, aveva fatto seguito la proclamazione di uno “stato di emergenza”, della durata di un mese, quasi volesse l’anziano leader corroborare con gli atti il senso gravido di pericoli inerente alle sue allarmate esternazioni.

Avevamo, a commento di tali sviluppi, evidenziato le incidenze di tali proclami su una società civile traumatizzata da decenni di regimi autoritari e intolleranti, dai quali si era affrancata percorrendo un tormentato sentiero, irto di turbolenze, segnato da più di tre anni di gravi tensioni politiche, da un’esplosione degli odi settari, culminati in fatti cruenti, e da un quadro economico fortemente deteriorato.

Terminavamo manifestando disappunto e inquietudine per linee di tendenza nella realtà tunisina che non lasciavano presagire nulla di positivo e incoraggiante, riportando, nel contempo, le apprensioni provate da taluni sui pericoli che una tale involuzione del quadro politico potesse addirittura orientare la Tunisia in direzione di una “deriva” egiziana.

Ebbene i timori si sono purtroppo rivelati tutt’altro che infondati. Un giorno prima della scadenza del primo mese di misure eccezionali, lo scorso 3 agosto, il Primo Ministro Habib Essid ha fatto conoscere, a un Paese attonito e costernato, che, “dopo consultazione con il Capo dello Stato e il Presidente dell’Assemblea nazionale”, lo stato di emergenza sarebbe stato prolungato per altri due mesi (!). L’aspetto peculiare e meno rassicurante di tale annuncio ha riguardato la circostanza che, a dir poco inopportunamente, nessuna ragione era fornita a giustificazione di un annuncio dal negativo impatto mediatico e politico.

Secondo il parere espresso da alcuni commentatori, l’effetto di una misura alquanto inattesa porterà verosimilmente a un peggioramento del quadro generale, alimentando il clima di polarizzazione esistente e restringendo pericolosamente i margini per forme di dialogo democratico, imprescindibili per un reale superamento dei problemi. Secondo le stesse fonti il malessere sociale, funzione di una congiuntura economica in caduta libera, troverà più agevolmente modo di subire il richiamo della militanza jihadista, in pieno fervore e del tutto incontrollata al di là della finitima frontiera libica, per la quale – è bene ricordare – il martirio costituisce un aspetto fondante della sua ragione d’essere.

L’approvazione, lo scorso 24 luglio, da parte dell’Assemblea nazionale, di una legge contro il terrorismo, sostenuta a schiacciante maggioranza dalla quasi totalità delle forze politiche, con il sorprendente supporto della formazione islamista Ennahda, (174 voti a favore, dieci astensioni e nessun voto contrario), ha completato un iter iniziatosi lo scorso marzo e che ora vede la Tunisia procedere verso approdi poco in sintonia con i desideri di coloro che nel 2011 erano insorti per una svolta democratica nel Paese, che garantisse dignitose condizioni di vita alla massa dei cittadini, in particolare le fasce giovanili, e concedesse una più equa partecipazione alla gestione della cosa pubblica, ponendo un qualche rimedio alle piaghe dell’emarginazione e di una disoccupazione dagli effetti devastanti.

Quali possono essere le ragioni del mutamento di rotta degli islamisti tunisini in occasione dell’approvazione di una legge, fortemente criticata dalle Organizzazioni dei Diritti umani? A parere di taluni esse risentirebbero del desiderio della formazione fondata dal leader storico Rachid Ghannouchi di rifarsi una verginità politica dopo le aspre critiche subite per un certo “compiacente comportamento” tenuto nei confronti degli estremisti salafiti nel biennio 2012/2013 durante il quale Ennahda ha avuto responsabilità di governo. A questo aggiungerei un altro elemento che a mio avviso meriterebbe considerazione ovverossia la consapevolezza da parte del partito islamista di tenere conto del tremendo shock prodottosi nel Paese in conseguenza dei terribili attentati al Museo del Bardo e nelle spiagge di Sousse. Il loro impatto sulla psiche collettiva è stato devastante e ciò ha verosimilmente indotto le forze islamiche moderate ad allinearsi con le movenze politiche del momento, assumendo un atteggiamento di assoluta chiusura con le frange islamiche radicali,  il cui messaggio è stato giudicato contrario al verbo del Profeta da una larga maggioranza della nomenclatura religiosa della Ummah o comunità islamica.

Analogo discorso vale per lo schieramento dell’ex-Capo dello Stato Moncef Marzouki, acerrimo perdente rivale del Presidente Essebsi, succedutogli nello scanno presidenziale. Marzouki, del quale nessuno pone in dubbio la sua fede democratica, corroborata da un passato di militanza a favore dei Diritti umani, non ha ritenuto di osteggiare apertamente una misura mal vista e non condivisa, preferendo l’astensione al voto contrario.

Le nuove norme sono state definite “liberticide” da “Human Rights Watch” e sono state approvate al termine di un iter laborioso e tortuoso durato ben diciotto mesi, la cui accelerazione è stata determinata dal clima di fobia “securitaria” generato dalle stragi di marzo e dello scorso giugno. Quali sono dunque i tratti salienti di una legge che sostituisce la precedente, imposta dall’ex-dittatore Abidine ben Ali nel 2003, considerata dai sostenitori di un inasprimento delle misure di sicurezza, “anacronistica e superata”?

Due aspetti meritano di essere rilevati che rivestono, a nostro modo di vedere, un’importanza illuminante sulla portata di quel che al momento appare profilarsi quale inquietante linea di tendenza nel Paese.

Il primo attiene alla reintroduzione della pena di morte, assente nel testo di legge imposto da Ben Ali, ora prevista per “atti terroristici”, definizione giudicata alquanto generica dai difensori dei Diritti umani.

A tal riguardo i timori espressi dagli stessi ambienti, nazionali ed internazionali, è che dietro tale ampia e fumosa definizione si celi l’intento di colpire i cosiddetti “movimenti sociali”, ovvero le organizzazioni e formazioni perseguenti un’azione di controllo e di arginamento dei fenomeni di arbitrio ed iniquità, ovunque essi si producano od in qualunque guisa si manifestino nella società.

Alla luce della storia, anche recente, della Tunisia, l’attendibilità di tali paure appare invero tutt’altro che infondata, sicuramente non priva di connotati reali. Da qui muovono le critiche degli ambienti democratici, in particolare delle formazioni della sinistra riformista e radicale tunisina, oltre che, come già segnalato, di “Human Rights Watch”, cui hanno anche aderito “Amnesty International” ed altre sette organizzazioni dei Diritti umani. Queste ultime, in un documento congiunto, non hanno mancato di esprimere apertamente le loro riserve su un testo ritenuto “carente” sotto il profilo di un’efficace azione finalizzata alla lotta contro il terrorismo e del tutto “insufficiente” ove rapportato al rispetto delle norme a difesa dei cittadini e della società civile.

Il fatto che da parte di taluni si arrivi addirittura a definire la nuova legge “peggiore” di quella risalente al 2003 la dice lunga sull’atmosfera prevalente nel Paese e sulle apprensioni nutrite su linee di tendenza che sembravano essere definitivamente scomparse dallo scenario nazionale.

In Tunisia la pena di morte non è stata più applicata dal 1991, in linea con quanto rilevabile negli altri Paesi del Maghreb, l’Algeria e il Marocco, dove la moratoria è parimenti in essere dal 1993. Ciò fa comprendere come la sua formale reintroduzione rappresenti un colpo letale all’immagine di una realtà portata ad esempio nel mondo arabo per un’evoluzione liberale e democratica.

Il secondo aspetto che a mio modo di vedere costituisce fonte di maggiore inquietudine, se non altro per la sua potenziale immediata incidenza sulla vita dei cittadini, è rappresentato dalla nuova normativa riguardante le misure di custodia cautelare. Essa prevede infatti una loro preventiva applicazione che prescinde in toto dalle decisioni emesse in materia da un organo di giustizia. Altro aspetto fonte di apprensione riguarda la loro durata che si allunga considerevolmente rispetto a quanto contemplato nella legge antiterrorismo del 2003.

In effetti, la detenzione preventiva vede la sua applicabilità temporale passare dai sei giorni previsti nel testo approvato dodici anni fa ai quindici introdotti dalle nuove disposizioni, periodo, è bene notare, durante il quale il detenuto viene privato di ogni tutela legale, essendogli inibita l’assistenza di un avvocato, senza altresì alcuna possibilità di comparizione davanti ad un giudice o ad un tribunale.

Il che consente agli investigatori o agli organi di sicurezza di poter agire in assoluta impunità e libertà, esponendo il soggetto a ogni forma di pressione e di abuso, fisica o psicologica, in assenza, ripetiamolo, di una protezione legale in una fase molto delicata dell’azione intentata contro il presunto colpevole.

Questo aspetto a mio parere rappresenta il dato più preoccupante dal punto di vista del rispetto dei diritti basilari del cittadino, il quale viene per converso a trovarsi esposto ad un sistema dove l’arbitrio e le violazioni di tali diritti potrebbero avere libero corso, senza intralci o condizionamenti di sorta.

Su questi punti le critiche interne ed esterne si sono rivelate le più virulente, e a mio parere, le più plausibili, dato che l’allungamento dei tempi di una misura coercitiva, decisa unilateralmente, in completa autonomia, da apparati operanti al di fuori e al di sopra degli organi di giustizia, con la privazione oltre tutto di una qualsiasi tutela legale, costituisce un attentato dei più gravi al rispetto della dignità e dei diritti del cittadino. Come conseguenza di quanto deciso e approvato, quest’ultimo viene a trovarsi nuovamente esposto a quel sistema di abusi ed illegalità che per decenni ha fatto della Tunisia uno degli esempi più squalificanti di gestione autocratica ed illegale del potere, asservita agli interessi di cricche corrotte e non rappresentative e di un Occidente, dedito alla preservazione di una logica di dominio e sordo alle testimonianze di sofferenza emananti dal profondo della società tunisina.

 

Involuzione irreversibile?

La pressione psicologica derivante dagli orrendi massacri avvenuti al Museo del Bardo e in un luogo di villeggiatura come la spiaggia di Sousse ha indubbiamente pesato sulla velocizzazione dell’iter di approvazione della legge antiterroristica. Lo stesso inatteso mutato orientamento della formazione islamista di Ennahda ha risentito del clima generale di smarrimento e di paura diffusosi nel Paese al punto che lo stesso Speaker dell’Assemblea Nazionale Abdelfattah Mourou, appartenente a Ennahda, ha contribuito fattivamente alla rapida approvazione del testo, ritenendo opportuno di limitare i tempi del dibattito politico in materia. Molto è cambiato nel Paese dei gelsomini dall’epoca in cui il partito fondato da Rachid Ghannuchi era al Governo e, seppur in maniera non ostentata, perseguiva un disegno di islamizzazione, oggetto di contestazione da parte delle forze laiche.

La scelta politica di Ennahda ha un valore strategico o semplicemente tattico, dovuto all’effetto prodotto dalle due stragi del Bardo e di Sousse? La risposta sarà data dall’evoluzione del corso politico in Tunisia che sarà opportuno monitorare con attenzione.

Per ora siamo spettatori di un’evoluzione che riedita, sotto mutate spoglie, fatti e sviluppi costatabili in altre realtà della regione. Quali sono gli aspetti, a nostro modo di vedere politicamente deleteri, che occorre evidenziare? Essi sono il malsano intendimento, apparentemente condiviso dalla grande maggioranza della classe politica e dei media tunisini, che l’unica via da seguire per combattere il terrorismo sia quella di uscire dal quadro della legalità democratica, restringendo i margini di libertà e colpendo le basi del pluralismo politico; venendo in tal modo a ledere i diritti di coloro che sono le principali vittime del terrorismo, inermi cittadini e soprattutto coloro che si permettono di manifestare il loro dissenso su quanto viene deciso in maniera autoritaria e non rispettosa di una prassi democratica (giornalisti, intellettuali, organizzazioni autonome).

In definitiva, invece di coinvolgere la società civile, nella sua composita estrinsecazione, in un’azione coordinata e condivisa contro gli eversori jihadisti, i detentori del potere politico mettono in moto un processo che non solo attenta ai fondamentali diritti dei cittadini attraverso un campo libero conferito, come abbiamo visto, a forze e strumenti sottratti al controllo degli organi di giustizia, ma finisce per ledere in maniera forse fatale l’evoluzione in senso democratico e liberale del Paese in un momento assai critico e delicato, caratterizzato da una congiuntura sul piano regionale dove alla minaccia jihadista si contrappongono la reazione, more solito, armata dell’Occidente e la fobia “securitaria” delle caste civili e militari dominanti. E’ uno scenario al quale siamo tristemente abituati e che mai o pressoché mai ha riservato una rilevabile attenzione alla promozione dei valori di crescita politica, economica e culturale delle comunità arabe.

I rischi di una deriva “securitaria” in Tunisia sono perciò reali e sinceramente non condivido la tesi di alcuni media francofoni magrebini, come Jeune Afrique, secondo i quali tali timori sarebbero “esagerati e sovrastimati”. A mio avviso basterebbe tenere a mente la storia del Paese all’indomani dell’indipendenza conseguita nel 1956 e la consistenza e il carattere “pervasivo” della presenza nelle strutture dello Stato degli apparati di sicurezza (v. mio precedente articolo sul tema) per rendersi conto dello spessore di questi pericoli e dell’impatto che una legge, come quella approvata dal Parlamento di Tunisi lo scorso 24 luglio, può comportare sul futuro prossimo dell’entità tunisina.

Aver consentito spazi operativi a organismi abituati da decenni a operare in un sistema illegale contrassegnato da un’impunità scevra di condizionamenti non può che significare una legittimazione de facto di abusi e violenze, fisiche e psicologiche, ai danni di tutti coloro ritenuti contrari agli apparati dominanti, ai quali si inibisce sic et simpliciter, la facoltà di dissentire. In tal modo il dissenso diventerebbe un nemico da abbattere. La conseguenza è quella di rimuovere l’esigenza del rispetto della legge quale punto basilare di riferimento, sostituendolo con una logica di dominio e sopraffazione che non deve rendere conto a nessuno del proprio operato, nemmeno a quegli organi di giustizia devoluti alla tutela ed applicazione dei principi fondamentali propri di uno Stato di diritto.

La Tunisia apparirebbe quindi a prima vista avviarsi lungo il sentiero già percorso da altre realtà del mondo arabo dove la scelta di combattere il terrorismo jihadista avvalendosi degli strumenti della repressione e dell’intolleranza ha prodotto gli effetti che conosciamo. Utilizzando una metafora fisica è come se si volesse spegnere un incendio versandoci sopra dell’olio bollente. Il risultato sarebbe un allargamento dell’area colpita e il conseguimento di un risultato contrario a quello sperato.

Parimenti avviene nel campo politico: cercare in maniera ottusa e beota di sconfiggere un fenomeno, che trae le sue origini da complesse ragioni di ordine politico, economico e sociale, utilizzando esclusivamente lo strumento della forza e della cieca repressione, non potrà che portare a un’esasperazione delle tensioni e a un espandersi dell’azione di quei “non-state actors”, che attingono a piene mani nella massa degli emarginati e degli esclusi. Le conseguenze di scelte scellerate, prodottesi in Medio Oriente dall’inizio del secolo, definite “self-defeating” da alcuni analisti di lingua inglese, rappresentano una vera sfida per un ordine complessivo imposto dall’esterno, che non è più in grado di rispondere alle minacce che si profilano per la sua perpetuazione, minacce emananti dal contesto reale di un’area sottoposta per più di un secolo a forme di oppressione e dipendenza divenute insostenibili.

Di questi aspetti di cruciale rilievo si continua a non tenere conto, perseguendo al contrario azioni repressive insensate, come in Tunisia, dove al momento centinaia di arresti indiscriminati hanno luogo, dai quali l’efficacia dell’opera di arginamento del terrorismo non trarrà minimamente alcun giovamento, generando solamente rigurgiti di retorica militaresca e un’evidente riduzione della capacità delle istituzioni di contrapporsi fattivamente alla minaccia jihadista.

In tale ambito l’intendimento manifestato dal Capo del governo Habib Essid di chiudere la frontiera tra la Tunisia e la Libia è stato comprensibilmente criticato per il carattere velleitario e sterile di una misura che non contribuirebbe certamente ad un allentamento delle tensioni, sotto ogni profilo. In proposito è da tener ben presente che in Tunisia opera da tempo un’organizzazione affiliata ad Al-Qaeda, la “Okba ibn Nafaa Brigade”, operante nelle impervie montagne in prossimità della frontiera algerina, in un’area ben lontana dal confine libico, che fa pagare un tributo di sangue alle forze di sicurezza locali.

Ciò che ne consegue è sotto gli occhi di tutti, sia che si tratti della dilagante violenza terrorista sia che si tratti della tragedia, dai tratti apocalittici, vissuta dalle migliaia di disperati che preferiscono mettere a repentaglio la loro vita piuttosto che continuare a vivere in luoghi dove non c’è più speranza e si è spogliati di tutto, anche del senso dell’esistenza.

 

Conclusioni

 Le esperienze passate hanno insegnato che se si investe troppo nel soddisfacimento delle esigenze di sicurezza, lo sbocco cui si va incontro è lo smantellamento di un assetto fondato sulla democrazia ed il pluralismo politico.

Quel che avviene in Egitto è emblematico. La recente approvazione al Cairo della legge antiterroristica si è rivelata qualcosa di aberrante al punto che il ritrovato alleato strategico del regime di Abdel Fattah el-Sisi, gli Stati Uniti, non ha esitato a lanciare giustificate critiche al testo di una legge che, oltre a violare in maniera rozza e flagrante gli elementari diritti dei cittadini, pone limiti assolutamente inaccettabili alla libertà di stampa e a un dignitoso dispiegamento del pluralismo politico. Da più parti le misure approvate sono state definite senza mezzi termini una “vergognosa guerra contro i giornalisti”!

Le paure che attanagliano le coscienze liberali in Tunisia riguardano per l’appunto il timore che il Paese donde è partita la Primavera araba finisca per percorrere lo stesso orrido sentiero. Un sentiero dove il “terrore”, nella sua accezione più vaga ed estesa, viene combattuto, usando l’impattante espressione coniata dallo studioso tunisino Larbi Sadiki, ricorrendo ad una sorta di “terrore legale”. Al terrore jihadista si verrebbe dunque a contrapporre il terrore delle istituzioni e degli apparati militari e di sicurezza. Violenza genera violenza in una spirale senza fine e senza speranza.

Riuscirà la Tunisia a reperire il giusto equilibrio tra l’esigenza di difendere la legalità dello Stato e l’esigenza di non violare i diritti dei cittadini, sprofondando negli abissi dell’illegalità e dell’arbitrio? Questa è la domanda che molti si pongono e che suscita un senso di viva inquietudine e di mal celato pessimismo.

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Il recente annuncio del Presidente Barack Obama di inserire il minuscolo Paese magrebino nella lista dei Paesi “ Major Non-Nato Allies (MNNA) ” (v. mio precedente scritto) non fa in realtà ben sperare. In realtà tale alleanza è fondata su una stretta collaborazione strategica e militare con gli Stati Uniti e l’Unione europea, dove gli aspetti “securitari” rivestono chiaramente un rilievo assolutamente preminente.

Entrare a far parte di un simile schieramento dove la priorità è quella di portare avanti una guerra senza respiro “contro il terrore”, nozione, come abbiamo visto, avulsa da qualsiasi connotato reale, non lascia intravvedere spazi riservati alla incentivazione di iniziative a favore della democrazia e della crescita politica e culturale dei popoli coinvolti in questa “nobile” crociata.

Il risultato più probabile e più verosimile è quello di cittadini passivi e acquiescenti e più o meno forzatamente inclini ad accettare il carattere primario ed irrinunciabile delle esigenze di sicurezza, mentre sul piano interno ed internazionale ha luogo lo scontro senza fine e senza finalità contro le forze del terrore. Uno scontro per di più dalla durata presumibilmente illimitata, come fatto sinistramente rilevare da ambienti altamente qualificati, sulle due sponde dell’Atlantico, secondo le quali questo tipo di guerra “durerà per anni” (!).

In effetti, se di una guerra si tratta, come si potrebbe sperare che da parte dei difensori di un ordine minacciato si ponga attenzione alle esigenze di democrazia, libertà e reale sviluppo delle comunità coinvolte in questa guerra? E come si può immaginare che gli oscuri apparati di sicurezza che per decenni hanno oppresso la massa dei cittadini in Tunisia non scorgano in questa crociata l’occasione per un ritorno in grande stile, favorendo il riemergere di un autoritarismo che sembrava fugato e che ora tende nuovamente ad imporre la legge dell’illegalità e dell’arbitrio?

Domande inquietanti che non possono non vederci piuttosto pessimisti sull’evoluzione di un quadro generale destinatario, come inizialmente segnalato, da parte dei media internazionali di un distacco, alla luce di quanto esposto, meno incomprensibile di quanto superficialmente potrebbe apparire.

E intanto, come si addice a una guerra che si rispetti, la lista dei morti continua ad allungarsi, su entrambi i fronti, in una spirale di sangue dove il ciclo della violenza jihadista fa da premessa allo scatenarsi della violenza repressiva. Il tutto avvelena il clima generale in un Paese, dove il quadro economico, secondo gli ultimi indici, registra un netto calo dei ritmi di crescita, fatta eccezione per la produzione di olio d’oliva, inaspettatamente in rialzo.

Tale non incoraggiante congiuntura non esime ovviamente i creditori internazionali dal richiedere un sostanzioso contenimento della spesa pubblica (sussidi a favore di prezzi calmierati del cibo e del carburante), nel momento in cui le tensioni sociali, alimentate dalla povertà, da infrastrutture fatiscenti e dalla mancanza di lavoro, si aggravano.

 

Che la Tunisia appaia inesorabilmente avviata verso una sindrome “egiziana” è tutt’altro che scontato. La forza e lo spessore di una società civile composita e articolata, in misura sicuramente più marcata che in altre realtà arabe, sono un fattore non trascurabile. E di questo è opportuno tener conto.

Ciò detto non si possono nemmeno sottostimare il peso e l’impatto di segnali che lasciano prevedere sviluppi non rassicuranti. Solo attraverso una mobilitazione popolare motivata e determinata si riuscirebbe ad arginare un processo involutivo messosi in moto da tempo, in apparenza inarrestabile.

Questa è l’unica speranza che resta perché la Tunisia continui a beneficiare dello stigmate di riuscita esperienza in un contesto regionale caratterizzato da una disintegrante instabilità. Il compito delle forze democratiche, laiche e non, tunisine, memori del fallimento cui sono andati incontro i loro omologhi in Egitto, passivi spettatori di una involuzione inimmaginabile, è assai arduo ma esso rimane l’unica base su cui poter costruire una strategia di contenimento della “deriva” autoritaria che incombe minacciosa sul Paese, in ordine alla quale le cancellerie occidentali,  more solito,brillano per la loro complice indifferenza.

 

24 agosto 2015