Tunisia : un quadro finitimo piuttosto inquietante

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Premessa

Il discorso tenuto dal quasi novantenne Presidente tunisino Beji Cajd Essebsi, all’indomani della strage perpetrata lo scorso 26 giugno da un commando terrorista a danno di pacifici turisti occidentali nella spiaggia di Sousse, ha dato adito a giustificate perplessità quanto alla capacità della leadership politica tunisina, democraticamente scaturita dalle prove elettorali dello scorso anno, di percepire nei suoi giusti termini i tratti fondamentali delle minacce che ora incombono sul vicino Paese magrebino. Le reazioni a tale sfida sono apparse appropriate o hanno travalicato i limiti fissati dalla Costituzione democratica approvata al termine di un prolungato, laboriosissimo e sofferto percorso nel gennaio 2014?

In effetti, le esternazioni di Essebsi hanno sortito un effetto contrario a quello verosimilmente auspicato dal clan presidenziale. Il riferimento fatto all’esistenza in Tunisia di uno “stato di guerra”, riprendendo in toto le affermazioni usate dal Primo Ministro egiziano Ibrahim Mahlab a proposito dei sanguinosi eventi che hanno luogo nella penisola del Sinai, e la proclamazione di uno “stato di emergenza” di trenta giorni hanno sconcertato per due ordini di motivi: il primo perché hanno accresciuto i timori e le apprensioni di cittadini impauriti dal dilagare della violenza jihadista e dal senso d’impotenza finora mostrato dallo Stato a farvi fronte, il secondo perché hanno avuto l’effetto di richiamare nella traumatizzata mente dei tunisini il ricordo di decenni di autocrazia e di grave restringimento delle libertà democratiche, nei cui confronti l’Occidente liberale e democratico ha brillato per il suo complice e distaccato silenzio.

La Costituzione democratica, sbocco naturale di mutamenti politici, che hanno consentito il riemergere delle componenti reali del Paese, è nata, dopo una sofferta gestazione, come strumento atto a contenere e limitare gli straripamenti del potere esecutivo; e questo al fine di evitare ricadute autoritarie la cui memoria è tristemente vissuta dalla società tunisina.

Quel che ha dunque colpito coloro interessati alla preservazione degli equilibri democratici del Paese è stata la maniera con la quale l’anziano leader ha cercato di manipolare l’essenza del dettato costituzionale faticosamente elaborato. Quale potrebbe essere il paventato scopo delle sconcertanti esternazioni di Essebsi? Cercare di “gonfiare” l’impatto di due luttuosi eventi, la strage perpetrata da jihadisti lo scorso marzo al Museo del Bardo e a fine giugno nella spiaggia di Sousse, per creare le condizioni propizie per un accrescimento dei suoi poteri? La più che ventennale esperienza del deposto dittatore Ben Ali e la contiguità geografica e forse anche politica dell’Egitto governato con un pugno di ferro dal generale Abdul Fattah al-Sisi, che ha fatto impallidire la repressione posta in essere per lunghi anni prima del 2011 dal suo compagno d’armi Hosni Mubarak, suscitano nell’opinione pubblica tunisina comprensibili motivi di preoccupazione.

Lo scopo di questa sintetica riflessione è di far capire come si sia giunti ad un punto di svolta di questa gravità in una realtà araba dove agli albori del 2011 ha preso drammaticamente inizio un ciclo di rivolgimenti conosciuto sotto il nome di Primavera araba, dal quale hanno preso avvio cambiamenti irreversibili.

 

Retroterra storico

La Tunisia è giunta all’indipendenza nel lontano 1956, anno in cui il Paese è riuscito ad affrancarsi dalla tutela coloniale francese.

Da quel momento l’entità magrebina ha conosciuto tre decenni di regime autoritario sotto la cappa divenuta sempre più oppressiva dell’uomo forte del momento Habib Bourghiba, carismatica storica figura del firmamento politico del Maghreb. La caratteristica peculiare della sua leadership è stata invero quella di accompagnare il suo autoritarismo con una difesa ad oltranza della laicità dello Stato. Ciò ha comportato conquiste importanti a favore dell’emancipazione femminile con la soppressione della poligamia e una valorizzazione del ruolo della donna nella società. Non solo. I meriti della leadership del folklorico leader vanno indubbiamente estesi anche all’obbligo dell’istruzione gratuita, i cui benefici effetti si sono visti nelle convulse fasi successive allo scoppio dei moti popolari del 2011.

L’eredità di Bourghiba non è stata comunque positiva sotto il profilo dell’elevamento della coscienza politica della comunità tunisina alla quale è stato imposto per quasi un trentennio di sottostare alla volontà emanante da un leader per nulla disponibile ad accedere a qualsiasi forma di dialogo e pluralismo politico.

Ma il peggio doveva, come spesso succede, ancora intervenire. Nel 1987 Bourghiba, ormai affetto dai sintomi della senilità, viene estromesso dallo scanno presidenziale per lasciare il posto ad un’altra figura, di minore valenza politica e formatasi alla scuola del più bieco autoritarismo, Zine al-Abidine Ben Ali, per il quale qualsiasi voce di dissenso nei confronti della sua volontà costituiva una sorta di anatema, un peccato da estirpare senza pietà.

Ben Ali ha governato il Paese in modo decisamente autocratico, modificando la Costituzione a suo piacimento sì da consentirgli di rinnovare il suo mandato, oltre i limiti consentitigli dalla legge nazionale, per ben due volte, nel 2004 e nel 2009, sotto gli occhi compiaciuti e rasserenati dell’Occidente, indifferente agli aneliti di riscatto ed alle sofferenze di un popolo sottomesso. Come rilevato in altre occasioni, il mondo occidentale era “comprensibilmente” interessato al mantenimento di un sistema di oppressione dal quale non solo la Francia ma anche le due sponde dell’Atlantico traevano sostanziosi vantaggi in termini di “stabilità” politica e lucro economico e commerciale. Uno standard di comportamento ricorrente: quando il peso degli interessi materiali si rivela “pagante”, l’Occidente dei Diritti umani riserva loro una ben limitata attenzione nella misura in cui la loro osservanza viene a essere soverchiata da una logica di dominio cui, paradossalmente solo in apparenza, chi impartisce lezioni di democrazia al mondo non può e non vuole rinunciare. Né ora né mai. L’incredibile reazione del Ministro degli esteri francese Michèle Alliot Marie, all’indomani dell’inizio della rivolta popolare in Tunisia nel 2011, con la quale si manifestava la disponibilità a fornire un’adeguata assistenza materiale per la “migliore” repressione dei moti di protesta, è stato un esempio emblematico della maniera nella quale i rapporti con popoli ancora soggetti ad una situazione di sudditanza vengono visti e concepiti dalle cancellerie europee.

L’autocrate Ben Ali viene comunque deposto agli inizi del 2011, trovando rifugio, al pari di altri tiranni prima di lui, nell’ospitale Arabia saudita. Da quel momento il Paese vive momenti di turbolenza, caratterizzati da una prima gestione dell’attuale Capo dello Stato alquanto controversa, che termina nell’ottobre dello stesso anno con la vittoria, in esito alla prima elezione libera in Tunisia, tenutasi per eleggere l’Assemblea costituente, della formazione islamista moderata di Ennahda, diretta dal suo leader storico Rachid Ghannouchi, vissuto, fino ad allora, in esilio a Londra. Ennahda appartiene alla composita galassia dei Fratelli mussulmani, ma con una sua distinta storia e un suo peculiare excursus politico.

A tal proposito appare interessante rilevare come alcuni esponenti di questa forza politica tengono a puntualizzare che il loro schieramento non è “islamista” ma piuttosto “islamico”, lungi dal perseguire disegni di militanza jihadista o quant’altro. Il partito dominante in Turchia, il “Justice and Development Party” (AKP) dell’autoritario Erdogan, costituirebbe il punto di riferimento politico cui Ennahda si ispirerebbe nel perseguimento della sua missione nella società tunisina.

La leadership di Ennahda (Rinascita in arabo) ha conosciuto uno sbocco meno traumatico di quello tragico subito dai Fratelli mussulmani egiziani. Seppur in presenza di condizionamenti che la formazione islamista (o islamica) ha cercato di porre in essere nei due anni di gestione del potere sui media nazionali e dei tentativi perpetrati di ridurre i diritti delle donne, l’evoluzione del processo complessivo nello stesso periodo non si è mai discostata da una vibrante dialettica politica, diversamente da quanto verificatosi in Egitto.

Gli assassinii nel 2013 di due figure politiche dell’opposizione democratica, attribuiti a elementi dell’estremismo salafita, e i conseguenti moti di protesta al livello della società civile, hanno nel tempo creato una situazione sempre meno sostenibile per la dirigenza islamista, oggetto di critiche virulente e di accuse, poco fondate, di collusioni con i salafiti. Nell’ottobre dello stesso anno Ennahda, sotto il peso di pressioni crescenti, decide di porre termine alla propria esperienza di governo, spianando la strada a una leadership tecnocratica di transizione. In un clima più rasserenato vede finalmente la luce nel gennaio 2014 una Costituzione democratica, approvata da tutte le forze politiche, tappa fondamentale e pietra miliare nel processo di crescita di una coscienza pluralista in un universo arabo, sconvolto dai nefasti effetti dell’autoritarismo, delle interferenze esterne, dell’azione dirompente dei “non-state actors” e della diffusione dell’intollerante messaggio wahabita, da cui germina il veleno dell’odio settario.

Le elezioni parlamentari dello scorso ottobre, che hanno registrato la vittoria della formazione laica di Tounès Nidaa, dove figure riconducibili all’aborrito passato fanno bella mostra di sé, e la successiva consultazione presidenziale di fine anno, che ha sanzionato il rientro in un ruolo di leadership del quasi novantenne Cajd Essebsi, personalità legata al passato autoritario del Paese, vincitore del suo avversario Moncel Marzouki, figura politica ispirata al dialogo e militante dei diritti umani, hanno sancito una sorta di “normalizzazione” del processo politico tunisino. Da qui partono, come abbiamo visto, rinnovati timori e mal celate inquietudini per un futuro, il cui percorso appare non del tutto rassicurante, compresso com’è tra la fobia “securitaria”, di cui la nuova leadership si fa improvvidamente interprete, e la minaccia terroristica, che trova in Tunisia fertile terreno di sedimentazione, alimentato dalle avvilenti condizioni di vita della massa della popolazione e dalla vicinanza dei campi di addestramento di militanti jihadisti nella finitima Libia.

Il governo scaturito dalle elezioni dello scorso ottobre, presieduto dal Primo Ministro Habib Essid, molto vicino al Capo dello Stato, ha visto la luce dopo un braccio di ferro intervenuto tra le componenti laiche, inclini ad escludere Ennahda dal processo politico, nonostante il non secondario dettaglio che la formazione in parola costituisce pur sempre la seconda forza politica del Paese, e lo schieramento islamista, in questo significativamente sostenuto dalle formazioni della sinistra laica riformista, determinato a contrastare un evidente disegno di emarginazione del suo indiscusso ruolo politico nella società tunisina.

La pressione dell’opinione pubblica ha alla fine consentito l’ingresso nella compagine governativa della formazione islamista moderata che ora quindi è parte integrante dell’assetto politico all’interno delle istituzioni dello Stato.

 

Problematico contesto

Ciò premesso la minaccia terrorista presenta indubbiamente degli aspetti poco rassicuranti. Non solo i due attacchi perpetrati contro obiettivi estremamente sensibili, quali il rinomato Museo Bardo di Tunisi, uno dei più apprezzati luoghi di incontro di culture diverse, e l’affollata (da turisti occidentali) spiaggia di Sousse ma anche il particolare che i tunisini costituiscono il numero più alto di jihadisti entrati a far parte delle milizie affiliate ad Al-Qaeda e del più spietato dei movimenti, l’ISIL, rappresentano elementi fonte d’inquietudine. In Tunisia del resto opera una agguerrita componente di Al-Qaeda, la “Okba ibn Nafaa”, che dall’inizio del disfacimento dell’entità libica ha progressivamente allargato il raggio della sua azione nelle povere ed emarginate regioni all’interno del Paese e nelle montagnose asperità in prossimità della frontiera algerina.

 

 

Le forze di sicurezza tunisine pagano un tributo di sangue per contenere e arginare una fronda jihadista composta in larga misura da militanti reduci dalle campagne militari condotte in Siria, Iraq e in Libia; elementi ben rodati e ben determinati a esportare la jihad islamica a casa loro.

Questi sono indubbiamente aspetti di assoluto rilievo. Ma possono essi giustificare una dichiarazione di guerra da parte del Capo di uno stato in gravissima crisi economica e finanziaria e che con tali allarmanti dichiarazioni aggrava ulteriormente il quadro generale, allontanando schiere sempre più folte di prosperi turisti? Possiamo ritenere che il ricorso a una retorica altisonante e a un linguaggio visceralmente punitivo si riveli la via più indicata per arginare l’onda del terrore, facilitando quella coesione nazionale indispensabile per attrezzare il Paese a fronteggiare una delicatissima sfida? Come si può pensare di porre in sordina un passato liberticida come quello subito per decenni dalla Tunisia?

In effetti, quel che ha colpito l’opinione interna ed internazionale, all’indomani del cruento assalto al Museo del Bardo lo scorso marzo, costato la vita a ventidue turisti occidentali, di cui quattro italiani, è stata l’esplosione di rabbia retorica che ha contraddistinto l’azione del Governo, cui non hanno fatto seguito misure di incisiva concretezza. Esternazioni e minacce di “punizioni esemplari” ai terroristi con il prevalente risultato di un appesantimento del clima politico. Il militaresco discorso di Essebsi dopo la strage nella spiaggia di Sousse di fine giugno ha sortito, come già detto, l’effetto opposto, agitando lo spettro di una guerra e di misure atte a consentire agli organi di sicurezza quei margini operativi ritenuti da molti lesivi di libertà democratiche cui si è giunti dopo un processo di gestazione che ha risparmiato al Paese gli orrori riscontrati in altre realtà della regione.

Il risultato di ciò non può non comportare un aggravamento delle tensioni interne e una pericolosa polarizzazione tra le componenti più visceralmente laiche, in particolare le élite occidentalizzate,  ed i settori devotamente legati alla religione del Profeta che, è bene ricordare, a somiglianza dell’Egitto, costituiscono la grande maggioranza della popolazione. Uno degli effetti negativi prodotti dalle irriflessive esternazioni del Presidente Essebsi è stato quello di suscitare giustificati timori presso gli ambienti islamici che ora sono legittimati nel sentirsi presi di mira dal partito di maggioranza, composto non solo di laici democratici ma anche di elementi provenienti dall’aborrita dittatura di Ben Ali che manovrano per un inasprimento di misure rievocative di un detestato passato.

Tutto questo è gravido di conseguenze se si pensa che il rovesciamento del regime di Ben Ali non ha comportato un effettivo rinnovamento degli apparati di sicurezza, che continuano ad operare, perseguendo gli stessi metodi e rimanendo fedeli alla stessa torbida mentalità, quali esistevano fino ad un recente passato.

A tal proposito informazioni in nostro possesso fanno stato di “un’ondata di arresti” di militanti salafiti, che sarebbero intervenuti “in assenza di un qualsiasi capo d’imputazione”, tra le due stragi e con maggiore intensità all’indomani dell’eccidio nella spiaggia di Sousse. Su tutto questo ovviamente è calata una cortina di silenzio ma ciò non toglie nulla ai pericoli sulla democratica stabilità del Paese che simili fatticomportano.

Pochi sforzi vengono prodigati per migliorare l’immagine e l’azione degli organi di polizia e degli apparati militari allo scopo di avvicinarli all’humus della società civile, passaggio ineliminabile se si vuole contrastare l’orda jihadista con probabilità di successo, abbassando la soglia della repressione ed elevando il margine del consenso.

Finora tutto questo non ha avuto luogo con la conseguenza di aspre critiche indirizzate al governo di Tunisi dalle Organizzazioni internazionali dei Diritti umani, mentre la corruzione e l’inefficienza pervadono gran parte delle cellule di un sistema, tuttora non liberatosi dei germi di un passato le cui tracce sono tutt’altro che scomparse. L’idea di costruire un muro divisorio tra la Tunisia e la Libia per impedire il traffico jihadista tra i due Paesi finitimi non rappresenta certamente la soluzione di problemi che richiedono ben altre risposte.

Quel che rattrista è leggere commenti dai quali emerge la paura, perché di paura si tratta, che la Tunisia vada incontro a una deriva “egiziana”. A nostro modo di vedere simili timori appaiono esagerati, dato il contesto tunisino, diverso sotto il profilo storico e politico da quello del vicino Paese nord-africano. Ma il solo fatto che simili apprensioni traspaiano qua e là è un indice di un quadro di malessere e di profonda inquietudine in un Paese ancora considerato l’unica “success story” della Primavera araba; dettaglio che dovrebbe attirare l’attenzione dell’Europa, particolarmente degli Stati bagnati dal “mare nostrum”, che per converso sembrano riservare ai drammi della sponda sud del Mediterraneo soluzioni portatrici di ulteriori drammatici sbocchi.

Nel frattempo la Tunisia è divenuta il sedicesimo Paese al mondo e il sesto Paese arabo a entrare a far parte del Club dei “Major Non-NATO Allies” (MNNA), alleanza di Stati non facenti parte della NATO ma con i quali gli Stati Uniti intrattengono rapporti a carattere “strategico”, privilegianti una crescente interoperabilità dei rispettivi apparati militari.

Tale risultato, scaturito dalla visita del Presidente Essebsi negli Stati Uniti dello scorso maggio, lascia prevedere la direzione nella quale si muoverà la proiezione estera del Governo magrebino.

Quali saranno le incidenze di tale approdo e sarà esso portatore di benefici effetti sotto il profilo di una reale crescita del Paese e di una sua più affidabile stabilità? Molti sono i dubbi in proposito, condivisi da un numero non trascurabile di osservatori.

 

Conclusioni

Vorrei terminare questo mio scritto facendo riferimento a quanto espresso da Larbi Sadiki, rinomato accademico tunisino presso l’Università di Qatar, le cui riflessioni mi hanno colpito per la loro coerenza intellettuale e la loro applicabilità al poco rassicurante quadro tunisino.

Secondo Sadiki il jihadismo può essere efficacemente combattuto solamente perseguendo un approccio “olistico” (holistic in inglese), Cosa s’intende con questo? Il fatto che non ci si può limitare a privilegiare un aspetto dell’azione di contenimento tralasciandone altri. Soltanto attraverso politiche diverse da quelle perseguite finora, mirate a soddisfare bisogni vitali disattesi, si può sperare di conseguire risultati probanti nella lotta al terrorismo.

Intendiamo riferirci al flagello della disoccupazione e dell’emarginazione che preclude qualsiasi speranza e non dà senso alla vita. Queste sono le vere cause della proliferazione dell’islamismo estremista e della sua capacità di attingere a man bassa nei bacini dell’ignoranza, della povertà e della volontà di riscatto da parte di masse, soprattutto di giovani, i quali preferiscono esporsi al martirio piuttosto che condurre un’esistenza contrassegnata da una miseria fisica e culturale.

Solo perseguendo politiche di sviluppo e di crescita materiale e intellettuale si può contrastare l’azione del jihadismo militante la cui finalità è quella di sradicare dalla coscienza dei “dannati della terra” qualsiasi attrazione essi possano provare verso i valori di cui si fa portatore l’Occidente.

La Tunisia fornisce l’esempio lampante di una realtà dove scarsissima attenzione è stata riservata fino ad ora alle gravissime sacche di povertà che segnano la vita di gran parte delle regioni del Paese. Da quelle aree derelitte è partito il gesto di disperazione di Mohammed Bouazizi, immolatosi nel dicembre del 2010 per le umiliazioni inflittegli dalle autorità del miserevole centro di Sidi Bouazid, nell’interno della Tunisia. Tale gesto di disumana protesta è stata, come si ricorderà, la scintilla che ha messo in moto i rivolgimenti della Primavera araba e che ha innescato speranze ed aspettative tuttora, in larga misura, disattese.

Tale triste ricordo pare essersi perso nella notte dei tempi. E questo non può non fare il gioco di quelle forze ispirate all’ideologia dell’intolleranza settaria e della chiusura intellettuale, della negazione di ogni valore associato alla difesa della dignità umana e della libertà di coscienza.

Sperare di vincere la battaglia contro l’estremismo islamista, che dà una lettura falsa e distorta del messaggio coranico, ricorrendo in maniera pressoché esclusiva allo strumento della contrapposizione militare, è una vera chimera e nulla lascia purtroppo presagire un’auspicabile ma alquanto improbabile inversione di tendenza. Questa è la non confortante costatazione.

A mio parere non sono lontani dal vero coloro che non esitano a parlare di una sorta di malsana obiettiva alleanza esistente tra chi bombarda e distrugge, nel perseguimento di obiettivi che solo in Occidente vengono compresi e giustificati, e chi, come le orde jihadiste, terrorizza inermi popolazioni, peraltro in grande maggioranza di autentica fede islamica, facendone orrenda strage.

In effetti, sono mussulmani innocenti le principali vittime del bagno di sangue cui assistiamo, inorriditi e impotenti, da più di un decennio nelle terre d’Islam, che continuano a pagare le terribili conseguenze di un passato coloniale, per molti versi ancora presente.

La democrazia deve essere preservata in Tunisia come fiaccola di speranza per un mondo arabo alla ricerca di un sentiero di redenzione, per ora purtroppo assai remoto.