Un soffio di vera o rinata primavera araba

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Un risultato alquanto inatteso

Le elezioni parlamentari del 7 giugno in Turchia hanno segnato un momento qualificante nella difesa degli equilibri democratici nel grande Paese anatolico.

Il tentativo di Erdogan e del suo partito, il “Justice and Development Party” (AKP), di rendere irreversibile la svolta autoritaria impressa da qualche anno al sistema politico del Paese non ha avuto il successo sperato, nonostante che la formazione islamista, seppur con una perdita del 10% dei voti, continui a raccogliere il maggior numero di consensi, attestatisi ora al 41% del corpo elettorale; una soglia peraltro che non ha consentito all’AKP il conseguimento della maggioranza assoluta nel Parlamento di Ankara.

L’importanza della consultazione non risiedeva tuttavia nella verifica di un primato che resta fuori discussione, anche se il calo dei consensi interviene per la prima volta dopo tre elezioni politiche dal 2002, in esito alle quali l’AKP aveva sempre registrato un crescendo di eclatanti successi, giungendo perfino nell’ultima tornata del 2011 a sfiorare il consenso di metà del corpo elettorale. In tale quadro è bene tenere presente che il cuore profondo della Turchia, lontano dai grandi centri urbani e costantemente ghettizzato nei decenni di dittatura militare, ha ancora una volta manifestato in larga maggioranza una indiscussa adesione alle autoritarie visioni di Erdogan, riconoscendo in lui la figura che più di ogni altro leader nazionale ha permesso la fine di un’emarginazione iniqua dalla quale la massa dei turchi devoti e legati ai valori tradizionali dell’Islam anatolico è, grazie a lui, finalmente uscita. E di questo il merito è in larghissima misura di Erdogan al quale la Turchia profonda continua dunque a elargire consensi.

La posta in gioco riguardava questa volta l’accettazione da parte dell’elettorato turco del progetto di Erdogan di ricevere un mandato, attraverso una maggioranza in Parlamento dei due-terzi, che gli consentisse di riscrivere la Costituzione, da sottoporre successivamente a referendum, nell’ottica di un cambiamento istituzionale suscettibile di garantire il passaggio da un sistema parlamentare ad un assetto presidenziale comportante un accrescimento dei poteri del Capo dello Stato, ricalcante mutatis mutandis il modello americano ma con conseguenze poco propizianti per il mantenimento dei tratti fondamentali della democrazia turca ( pluralismo e libera dialettica tra le forze politiche).

Tale disegno non è riuscito e il merito deve essenzialmente essere ascritto alla formazione di sinistra del “People’s Democratic Party” del carismatico avvocato e difensore dei diritti umani Selahattin Demirtas, rappresentativa degli interessi di una larga parte della minoranza curda ma anche di tutte quelle frange della società (giovani, donne, laici e attivisti democratici) desiderose di arginare la deriva conservatrice ed islamista impressa dall’AKP con il suo seguito di gravissime limitazioni al rispetto dei valori di libertà e democrazia, di cui si è stati testimoni senza soluzione di continuità in questi ultimi quattro-cinque anni. I cruenti eventi di Gezi Park del giugno 2013, con un livello di rivolta e contestazione che ha mostrato la gravità delle divisioni che inquinano la realtà di questo grande Paese, sono stati un eloquente segnale della pericolosa involuzione autoritaria verso cui sembrava avviata la Turchia.

 

 

Uno dei risultati scaturiti dal responso del 7 giugno ha riguardato il fatto che da ora la comunità curda, il 20% della popolazione turca, perlomeno la componente in seno ad essa non contagiata dalle influenze jihadiste, godrà di una effettiva rappresentanza politica in Parlamento, avendo superato ampiamente lo scoglio della soglia minima del 10% per essere ivi ammessa, espressamente imposta dai militari nel 1980 per colpire gli interessi di una minoranza, la più numerosa nel Paese, cui si era riluttanti a conferire un ruolo di rilievo nella vita politica turca. Da questo momento ciò non sarà più vero e la formazione di Demirtas potrà avvalersi di un’ottantina di deputati in grado di battersi contro le inclinazioni autoritarie e nazionaliste presenti in una realtà peraltro composita e culturalmente diversificata, acquisendo in tal modo una vocazione nazionale. Il successo del HDP acquista ulteriore importanza se si pensa, come puntualizzeremo più avanti, che una sua sconfitta avrebbe consentito all’AKP di raccogliere quel numero di seggi sufficienti per portare avanti il disegno di potere di Erdogan.

Per il resto gli altri risultati di un’elezione che ha fatto registrare con l’86% un’alta partecipazione al voto, a riprova dell’importanza annessa dai cittadini alla consultazione, non hanno riservato novità di rilievo. Il principale partito di opposizione, il “Republican People’s Party”, di fede kemalista e di tendenza socialdemocratica, interprete dei valori espressi dal Padre fondatore della Repubblica, Kemal Atatȕrk, non è andato al di là del 25% dei consensi, reiterando passati andamenti, mentre la formazione nazionalista dell’MHP, inflessibilmente contraria  al processo di pace, avviato da Erdogan, con il “Kurdistan Workers Party” (PKK), il braccio armato dell’irredentismo curdo,  ha confermato il terzo posto nella scala dei consensi con il 16.5% dei voti.

 

Il significato del voto

Quale portata possiamo attribuire a un evento che, se ha permesso di far respirare nuovamente sulle rive del Mediterraneo la dolce atmosfera di una vera “Primavera araba”, da molti ritenuta morta e sepolta, ha pur tuttavia gettato la Turchia in un clima di  incertezza politica e di precarietà quale non era dato registrare dagli anni ’90?

L’aspetto che ci preme segnalare in proposito riguarda a nostro parere il rifiuto frapposto dalla maggioranza dei turchi a una politica perseguita dal nuovo “Sultano” mirata a ridurre e colpire gli spazi di democrazia, libertà e laicità di un Paese ben diverso dalle entità arabe della regione.

Come già detto la Turchia è caratterizzata da una sua specificità, nel contesto dell’area di appartenenza, sotto il profilo culturale, religioso e politico. Questo è un dato d’incontrovertibile evidenza e aver cercato di violentare tale realtà attraverso scelte in contrasto con il modo di essere e le aspirazioni di una larga parte della comunità non poteva non produrre un’onda di rigetto quale in effetti prodottasi lo scorso 7 giugno.

Gli atteggiamenti di onnipotenza esternati da Erdogan, insofferente di qualsiasi critica, al punto da rendere questo Paese uno dei più pericolosi per tutti coloro operanti nel campo dell’informazione, nonché le continue, vessatorie ingerenze nella vita privata dei cittadini (emblematico l’invito fatto alle donne di non ridere troppo rumorosamente…in pubblico (!)), hanno suscitato un senso di malcontento e di livore nella base sociale, profondamente delusa da un leader che nella prima metà dello scorso decennio aveva alimentato, con atteggiamenti dialoganti, speranze e prospettive di benessere economico e consolidamento democratico, dopo decenni contraddistinti da un potere militare lesivo della dignità dei cittadini.

La perdita in Parlamento della maggioranza assoluta da parte degli islamisti dell’ AKP deve la sua ragion d’essere alla consapevolezza maturata nella coscienza di un buon numero di elettori di trovarsi di fronte ad un leader politico mosso da una smisurata ambizione, in possesso di mal celate inclinazioni autocratiche. Quale il suo disegno? Quello di sostituire nell’immaginazione collettiva la figura del Padre della Patria, Mustafà Kemal Atatürk, fondatore della Repubblica turca, venendo ad apparire al momento delle celebrazioni del centenario della fondazione nel 2023 come il nuovo Sultano, erede del “glorioso passato ottomano”, autentico interprete dell’anima profonda del Paese.

Nulla sembrava arginare l’estrinsecarsi di tale smodata volontà. Impattante era apparso alla fine del 2013 il modo con il quale Erdogan aveva cercato di impedire che le accuse di corruzione potessero coinvolgere membri della sua famiglia, nel momento in cui uno scandalo dalle mega proporzioni si manifestava di fronte ad un’opinione pubblica attonita ed incredula. Il seguito di quella triste vicenda ha fatto comprendere a molti cittadini la vera natura del potere di un leader, disposto a tutto pur di non rinunciare alla sua smania di grandezza, attentando senza alcun scrupolo ad ogni istituzione od organo dello Stato che potessero rappresentare un ostacolo ai suoi disegni (magistrati, polizia, ministri, inermi cittadini e, più che mai, giornalisti).

Quel che è scaturito dalle urne costituisce una significativa battuta d’arresto a tali ambizioni il cui prevalente preoccupante risultato è stato quello di innescare una spirale di polarizzazione di cui si sono avute frequenti e violente manifestazioni in questi ultimi tempi, suscettibile di ledere alla stabilità e anche credibilità della Turchia sul piano regionale ed internazionale.

I sogni di grandezza volti a riconfigurare nel presente un passato ottomano calpestato e vilipeso da decenni di dittature militari non hanno beneficiato del sostegno sperato, anche per il modo offensivo della dignità dei cittadini nel quale si sono manifestati. Aver fatto costruire ad Ankara un Palazzo presidenziale di più di 1100 camere del valore di $ 645 milioni e aver proceduto all’acquisto di un velivolo del costo di $185 milioni a sua esclusiva disposizione sono state operazioni che hanno offeso l’opinione pubblica di un Paese dove la povertà e le privazioni della maggioranza dei cittadini si rivelavano in inaccettabile discrasia con il lusso e l’ostentazione di un potere che non ammetteva remore di sorta. Tutto questo Erdogan l’ha pagato a caro prezzo nel segreto delle urne.

    La reazione dell’elettorato è stata per il ripristino degli equilibri democratici, di quelli che nella pubblicistica di lingua inglese chiamano “checks and balances”, la divisione dei poteri, il rispetto delle competenze istituzionali, in definitiva la salvaguardia dello Stato di diritto e delle prerogative del Parlamento, messe in pericolo da una gestione del potere monocratica, dalle sembianze evocative di un regime a partito unico.

Questo è il messaggio di una consultazione che ha confermato in pieno la grande importanza a essa attribuita, giustamente considerata fino alla vigilia del suo svolgimento un “punto di svolta” nel divenire di un grande Paese, il cui ruolo è fondamentale negli sforzi protesi per arginare le nefande minacce che ammorbano una regione sconvolta da un terrorismo dilagante, alimentato dalla sconsiderata politica occidentale e dagli oscuri destabilizzanti canali annidati nelle autocrazie del Golfo, i primi nemici di ogni progetto di reale crescita democratica nel mondo arabo-islamico.

La prospettiva ottomana sembra dunque allontanarsi contestualmente al riaffermarsi dello spirito della rivolta di due anni fa di Gezi Park, repressa nel sangue, in aperta violazione di ogni logica democratica, basata sul rispetto del dissenso e della pluralità delle voci. Un periodo di incertezza politica e di nuovi interrogativi si profila nell’immediato futuro della Turchia, mentre dissidi e divergenze tendono ad allargarsi sia all’interno dell’AKP, dove i rapporti tra Erdogan ed il suo fido Primo Ministro Davutoglu appaiono non del tutto idilliaci, sia tra le forze politiche di opposizione dove la diffidenza e le incomprensioni sono sotto gli occhi di tutti.

Il malgoverno di Erdogan ha prodotto un clima di malessere e di tensioni anche al livello della classe politica. Ed è appunto in questo contesto che si può avere una spiegazione del successo del partito del giovane e carismatico Demirtas, mussulmano ma politicamente laico e democratico, in grado di catalizzare non solo il sostegno della minoranza curda nella sua differenziata composizione e proiezione ma anche quello dei settori più aperti e sensibili della società (giovani, donne e tutti coloro cui sta a cuore la democrazia turca); senza tralasciare il supporto della componente islamica moderata, composta dagli aleviti, una delle tante sette di cui è ricca la religione del Profeta, aliena dal sostenere progetti di islamizzazione vicini al sunnismo militante. Gli aleviti costituiscono una branca dell’islam sciita e sono numerosi nella società turca, più di dieci milioni.

Ebbene uno degli effetti del malsano e corrotto autoritarismo dell’aspirante nuovo sultano è stato anche quello di vedere per la prima volta uniti in una stessa trincea turchi e curdi le cui divisioni e differenze sono passate in sottordine rispetto a un anelito superiore e più importante: sconfiggere il disegno autoritario e restituire alla Turchia il suo vero volto, di un Paese che non vuole abdicare ai valori della democrazia e del pluralismo. Di questo, ripetiamo, un grande merito va riconosciuto al Partito Democratico del Popolo (HDP), erede del Partito della Pace e della Democrazia (BDP), che fino ad ora aveva presentato candidati indipendenti, non sottoposti quindi alla castrante soglia del 10% in quanto non appartenenti ad una formazione politicamente qualificata. L’HDP è divenuto invece uno schieramento partitico, con una sua piattaforma programmatica ed una sua caratura ideale ben delineata. Indubbiamente un bel salto di qualità!

In definitiva è come se un asse virtuale di alleanza si fosse tracciato nello scenario politico del Paese tra gli ambienti innovatori e contestatori, presenti e operanti soprattutto ad Istanbul, ma anche a Ankara e Smirne, ed il sud-est dell’Anatolia dove il risultato elettorale ha dato la stura a manifestazioni di giubilo da parte della maggioranza dei curdi, consapevoli dell’importanza di un risultato che, seppur portatore di incognite e di incerte prospettive, ha permesso di arginare un’involuzione temuta dai più; dando vita ad un nuovo Parlamento, definito dai commentatori turchi “più giovane e colorito”, suscettibile nell’auspicio dei più di innescare quel processo di riconciliazione nazionale di cui la Turchia ha tremendamente bisogno.

 

Problematici scenari

Il terremoto del 7 giugno deve la sua ragione d’essere anche al peggioramento della situazione economica registratosi nel Paese da qualche anno a questa parte. Tale negativo andamento ha rappresentato un’involuzione di tendenza rispetto al bilancio della gestione Erdogan costatato nei primi anni del suo potere quando l’economia turca registrava tassi di crescita di tutto rispetto.

In effetti, fino alla seconda metà dello scorso decennio il positivo andamento del ciclo economico costituiva uno dei punti di maggior merito della leadership islamista all’indomani dei gravi rischi corsi all’inizio del medesimo decennio quando la Turchia appariva sull’orlo del baratro all’epoca di una crisi finanziaria che sembrava riversare nel Paese deleteri effetti.

Il processo volto a raggiungere livelli di prosperità si è bruscamente interrotto nel 2007 quando il reddito pro capite ha cessato di crescere, deludendo le aspettative di una popolazione che aveva iniziato ad apprezzare i benefici di un benessere verosimilmente fino ad allora mai goduto.

Come avviene in economia un fenomeno non si manifesta mai in maniera isolata ma è sempre accompagnato da altri fattori dello stesso segno. Nel caso in esame l’arresto della crescita ha visto un contrarsi del livello degli investimenti in beni capitali, un aumento della disoccupazione, tuttora a livelli preoccupanti, e un inarrestabile  deprezzamento della lira (la moneta turca), la cui perdita di valore ha a sua volta alimentato un’inflazione galoppante con la conseguenza della perdita del potere d’acquisto della popolazione.

Il Paese ha visto inoltre accrescersi il suo livello d’indebitamento, anche nel comparto privato, mentre la sua esposizione con l’estero, la bilancia dei conti correnti, registrava, e continua a registrare, un “rosso” persistente.

L’atmosfera di profonda frustrazione, provocata da una congiuntura decisamente negativa, funzione anche di un orientamento non favorevole dei mercati verso una “governance” politica non apprezzata, per il livello della corruzione e le violazioni ricorrenti di leggi e regolamenti, ha toccato lo zenith con uno scontro aperto tra Erdogan e la Banca Centrale, colpevole, a parere della leadership politica, di non assecondare i desideri del Governo volti a incrementare il livello dei consumi, sostenendo la domanda interna attraverso un abbassamento del costo del denaro. La posizione dell’autorità monetaria appariva per converso del tutto logica e in armonia con le elementari regole della dottrina economica ove si pensi alla grave svalutazione della valuta nazionale generata dalle variabili sopra indicate. Misure d’imperio non hanno mai prodotto risultati positivi nel campo economico, sfociando nel migliore dei casi in dei palliativi, non in delle soluzioni. Tutto ciò continua a scoraggiare gli investitori esteri, resi cauti e perplessi da una gestione dell’economia che risente di un clima malsano contrassegnato da abusi e prevaricazioni.

Il quadro sopra descritto, che, secondo quanto affermato dall’autorevole economista britannico William Jackson del “Capital Economics” di Londra, fa della Turchia al momento “la realtà più vulnerabile dei Paesi emergenti”, non ha certo contribuito ad attenuare il senso di delusione provato nei confronti della leadership islamista. Erdogan era apparso nei primi anni portatore di speranze sia sotto il profilo politico sia sotto quello economico, nell’ottica di un’entità turca finalmente, così si credeva, avviata sul rassicurante sentiero di una prospera stabilità, non più poggiante sulle baionette dei militari ma su istituzioni in grado di soddisfare le aspirazioni di una comunità traumatizzata per troppo tempo dall’oppressivo stivale degli uomini in divisa.

Tutto questo da qualche anno ha cessato di prodursi in un processo involutivo, alimentato da una gestione economica sconsiderata, privilegiante iniziative di prestigio poco in sintonia con le esigenze di sviluppo della comunità. Il che non poteva non generare un esacerbarsi delle tensioni nel quadro politico interno, in un contesto dove il peggioramento della situazione economica accresceva i mali e le sofferenze rilevabili sul piano sociale (insicurezza, illegalità, corruzione e altri fenomeni degradanti).

Quali i possibili scenari futuri? Il quesito appare di problematica risposta ove si tenga a mente che un quadro politico così mutato, con l’ingresso per la prima volta nella storia del Paese di una formazione curda nell’arengo politico nazionale, interviene dopo tredici anni di potere incontrastato da parte dell’AKP, beninteso legittimato da un consenso di una larga fetta della popolazione.

La nuova equazione pone dunque gli osservatori di fronte a un dilemma sui possibili sviluppi derivanti da tali mutamenti. Si andrà verso nuove elezioni, che, secondo taluni, potrebbero consentire a Erdogan e ai suoi accoliti di recuperare quel che hanno perso, oppure verso un governo di coalizione, composto dall’AKP e da uno dei due schieramenti, i kemalisti del CHP o i nazionalisti dell’MHP, dando per probabile, ma non scontato, il rifiuto dell’HDP di far parte di un team governativo con il detestato AKP? Oppure, ipotesi piuttosto remota, come auspicato dal leader del CHP Kiliçdaroglu, verso un fronte unito dei tre partiti di opposizione, divisi su molti punti ma uniti nel contrastare l’irresponsabile appoggio fornito dal Presidente e dal suo Ministro degli esteri Ahmet Davutoglu  ai jihadisti in guerra nella finitima Siria, in Libia ed altrove, includendo anche la formazione, affiliata ad al-Qaeda, del Jabhat al-Nusra?

Difficile appare una risposta, alla luce dei traumi provocati da una “governance” islamista che per troppo tempo ha stravolto i valori democratici con una gestione del potere che non ha tenuto conto dell’esigenza di attenersi al rispetto di un rapporto dialettico ed equilibrato con l’opposizione.

La violazione costante del dettato costituzionale da parte di Erdogan, come quella prodottasi fino agli ultimi giorni del processo elettorale, che ha visto un Presidente venir meno all’elementare dovere di astenersi dall’agone politico, partecipando per converso attivamente alla campagna elettorale a favore del partito da lui fondato, ha determinato, né poteva essere altrimenti, un profondo risentimento sia negli ambienti politici sia nella società civile.

In effetti, una delle condizioni poste dai tre partiti di opposizione, fin dall’inizio di quella che si preannuncia una  logorante trattativa per la formazione di un nuovo governo, la cui durata non dovrebbe superare 45 giorni, è stata la richiesta che il difficile processo di consultazioni si svolga senza le ingerenze ed i condizionamenti dell’onnipresente Erdogan. Tale condizione appare invero di ardua attuabilità, se si pone mente al particolare che il personaggio in questione è stato Primo Ministro per undici anni dal 2003 al 2014 ed è stato eletto lo scorso agosto alla suprema carica con il 52% dei consensi. Ma se questo è vero è anche vero che il risultato elettorale ha indubbiamente rafforzato la determinazione di uno schieramento politico il cui intento è di ridare peso ed importanza ad un sistema parlamentare, messo a dura prova dall’autoritarismo dilagante di questi ultimi anni. E i silenzi di Erdogan all’indomani della consultazione, seguiti dal riconoscimento dell’esigenza di dare ascolto alla voce degli elettori, hanno costituito conferma di un mutato clima.

La mancanza di fiducia e il livore accumulatosi non renderanno tuttavia agevole una trattativa il cui insuccesso, a parere di molti desiderato dal Capo dello Stato, renderebbe inevitabile un anticipato ricorso alle urne, al contrario visto dall’altro fondatore dell’AKP, Abdullah Gül, come un male da evitare. A parere di Gȕl elezioni ravvicinate porterebbero a un aggravamento del clima di polarizzazione con le conseguenze che questo comporterebbe sul piano politico, interno e regionale, ed economico. Su quest’ultimo punto le reazioni da parte dei mercati finanziari, già piuttosto inquieti a fronte di un quadro generale fluido e dagli sviluppi difficili da prevedere, non tarderebbero a manifestarsi.

Ciò spiega altresì le posizioni affini assunte dagli ambienti imprenditoriali dai quali sono partiti appelli perché si giunga “al più presto” alla formazione di un governo di coalizione il quale, ad avviso dell’organizzazione del “business” turco, dovrebbe comprendere l’AKP, primo partito del Paese, ed i socialdemocratici del CHP, il secondo schieramento politico. Il degrado della congiuntura economica nazionale è alla base degli auspici espressi dalla Confindustria turca.

  Abdullah Gül, figura moderata e dialogante del firmamento politico turco, è una delle vittime più in vista della degenerazione autoritaria imposta da Erdogan, ma conserva tuttavia una notevole base di consenso nel partito dominante. Alle sue posizioni sembra attualmente tentare di avvicinarsi il dimissionario Primo Ministro Ahmet Davutoglu, fino ad ora fido collaboratore dell’uomo forte del Paese, dal quale sono partiti in questi giorni velati messaggi auspicanti, “in presenza di un risultato elettorale che dobbiamo rispettare”, l’avvio di un processo di riconciliazione, più volte auspicato dai settori più responsabili della classe politica, che ponga termine al clima “confrontational” a tutt’oggi prevalente, del quale l’attuale Presidente è il principale responsabile.

In definitiva gli ostacoli da rimuovere perché il negoziato porti a uno sbocco suscettibile di attenuare le tensioni sono di rilevante portata. Essi sono rappresentati non solo dalla richiesta che Erdogan si tenga fuori dal processo ma anche dal desiderio, espresso con fermezza dai partiti di opposizione, che gli scottanti dossier inerenti agli scandali di corruzione in cui come noto si sono trovati coinvolti membri della famiglia presidenziale, vengano riaperti per una luce su fatti che hanno portato alla fine del 2013 alle forzate dimissioni di ben quattro ministri. Macigni che non sarà facile rimuovere sul tortuoso sentiero di una ritrovata intesa.

Né si può trascurare la portata su tale processo del successo elettorale della formazione del giovane Demirtas, sul quale sono piovuti i consensi di larghi settori della società turca che non hanno tenuto conto della matrice curda del movimento, inclini a scorgere nel HDP una forza al servizio del rinnovamento del Paese. Uno dei punti fermi del suo programma rimane beninteso la positiva conclusione del processo di pace con la componente militare dell’irredentismo curdo, il “Kurdistan’s Workers Party” (PKK), tuttora considerata, curiosamente, da Erdogan, oltreché dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, “formazione terrorista”. Perché curiosamente? Per il semplice motivo che riesce arduo comprendere come da parte dei vertici politici di Ankara si possa portare avanti un negoziato, direttamente o indirettamente ma in ogni caso apertamente, con una forza formalmente definita “una banda di terroristi”. Patente incongruenza! Del resto il populismo è un male politico che si manifesta in molteplici forme. Dal PKK fino alla vigilia delle elezioni sono partiti segnali di crescente frustrazione per uno stallo persistente nel delicato iter, fonte di una delusione, sfociata già in episodi di violenza.

Prevedere un governo di coalizione con tale partito appare difficilmente immaginabile sia per l’interesse di Demirtas a preservare una sua credibilità politica sia per l’inflessibile contrapposizione con i nazionalisti dell’MHP che non accetterebbero mai un appoggio, anche esterno, dello schieramento curdo.

In conclusione e senza voler ulteriormente approfondire un quadro di politica interna che penso abbia a sufficienza illuminato il lettore sulla sua evidente complessità, quel che si può affermare fin da ora è che la Turchia si trova ad affrontare, nell’immediato futuro, passaggi molto difficili che potranno essere sormontati solamente attraverso dosi massicce di moderazione, volontà di dialogo e reciproca comprensione, nell’interesse superiore del Paese.

Questo può spiegare il perché, anche da parte di alcuni media internazionali, si sia fatto il nome di Abdullah Gül, la cui autorevolezza e credibilità politica viaggiano di pari passo con l’inclinazione a operare con pazienza, moderazione e determinazione per il reperimento di punti d’incontro e convergenza.

 

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Conclusioni

La perdita di consensi da parte del “Partito della Giustizia e dello Sviluppo” interviene in un contesto regionale segnato come noto da eventi dirompenti in essere dal momento in cui le formazioni jihadiste dell’ISIL hanno scardinato nel giugno dello scorso anno sistemi-Paese fondati sulle delimitazioni territoriali arbitrariamente imposte dalle Potenze coloniali europee alla fine della Prima guerra mondiale.

La Turchia di Erdogan ha assunto a fronte di tali eventi un atteggiamento non in armonia col suo status di membro della NATO e candidato a divenire parte dell’Unione europea. Le scelte turche hanno per converso risentito delle inclinazioni islamiste esistenti all’interno di un Partito che ha governato senza condizionamenti e senza interruzioni il Paese dal 2003 fino a pochi giorni orsono. A tal proposito alcuni organi di stampa di Ankara non esitano oggi a definire la politica nella regione, perseguita dai vertici dell’AKP, “fallimentare” nella  misura in cui, a parere di alcuni commentatori, non si sia tenuto sufficientemente conto degli interessi nazionali, privilegiando per converso quelli di militanza religiosa, appoggiando in Egitto, Siria, Tunisia ed altrove i movimenti sunniti, nella loro differenziata estrinsecazione.

Il prezzo pagato dalla Turchia, secondo questa corrente di pensiero, si è rivelato gravosissimo non solo sotto il profilo dell’immagine e della credibilità di Ankara nella sua area di appartenenza ma altresì tenendo a mente il carico che deve sopportare il Paese dando ospitalità ad una massa enorme di rifugiati,  più di un milione e ottocentomila, in fuga dalle esazioni delle milizie estremiste sunnite e dalla indiscriminata repressione perpetrata da un regime in crescenti difficoltà. La Turchia, secondo quanto reso noto dai competenti uffici delle Nazioni Unite, è il Paese col più alto numero di rifugiati al mondo dopo il Pakistan.

Critiche comprensibilmente piuttosto acerbe sono state mosse per queste ragioni al governo di Ankara dall’Occidente, con il quale i rapporti hanno registrato un marcato peggioramento. Di ciò si sono avute eloquenti manifestazioni nella grande stampa di informazione. Il settimanale americano Newsweek non ha esitato a parlare  addirittura di una “jihadi highway” esistente tra Istanbul e la frontiera siriana, significando con ciò il consentito libero passaggio di elementi jihadisti, e di altro, attraverso la Turchia verso i “killing fields” della Siria.

La posizione turca ha costituito un vero dilemma anche nel perseguimento della ripresa attività militare USA in Medio Oriente avviatasi lo scorso gennaio con la campagna di bombardamenti aerei a sostegno delle milizie curde siriane del YPG, sotto assedio da parte dell’ISIL nella città simbolo di Kobane alla frontiera turca con la Siria. Come si ricorderà la posizione di Ankara nella fattispecie fu giudicata “provocatoria” oltre-Atlantico sia per l’indifferenza e velata ostilità mostrate nei confronti dei curdi siriani, pagata elettoralmente a caro prezzo dal partito dominante, sia per il rifiuto opposto da Erdogan all’utilizzo da parte dei velivoli della US Air Force della base di Incirlik, situata a breve distanza dagli obiettivi jihadisti da colpire rispetto alle rampe di decollo delle portaerei statunitensi ormeggiate nelle calde acque del Golfo Persico o alle basi britanniche nell’isola di Cipro.

Come sopra accennato lo scacco subito da Erdogan a Kobane, vero punto di svolta nei rapporti di Ankara con i curdi sul piano regionale e su quello interno, con la prima sconfitta militare subita dall’ISIL, si è rivelato poco propiziante per l’AKP, che ha dovuto registrare nella consultazione del 7 giugno la defezione di quella fascia dell’elettorato curdo, devotamente islamica e conservatrice nei costumi,  ma fiera della propria identità. Questa componente della comunità resta beninteso estranea al jihadismo militante, cui per converso aderisce una frangia, non irrilevante e piuttosto violenta, della minoranza curda nel sud-est del Paese. L’irritazione e la profonda delusione provate dalla maggioranza dei curdi verso l’ostentata indifferenza di Erdogan nei confronti dei propri fratelli siriani si è tradotta in un travaso di voti dall’AKP all’HDP e nella conseguente perdita di quella maggioranza assoluta in Parlamento necessaria per appagare le ambizioni dell’aspirante nuovo Padre della Patria.

Ciò induce a porsi una domanda: il mutamento verificatosi avrà delle incidenze nella tenuta di quell’asse triangolare turco-saudita-qatarino che ha fino ad ora sostenuto la battaglia delle milizie jihadiste contro il regime di Assad e da qualche tempo anche contro i terroristi dell’ISIL? Gli eventi prodottisi in questi giorni alla frontiera turco-siriana, dove l’ISIL ha subito una nuova disfatta con la perdita dell’importante località di Tel-Abyad, caduta in mano alle agguerrite milizie del YPG, braccio armato del Partito curdo siriano dell’Unione Democratica (PYD), ideologicamente vicine al PKK operante in territorio turco, ai quali ha fatto eco l’assordante silenzio di Erdogan, avranno delle conseguenze sui futuri allineamenti nella regione?  Il silenzio di Riyadh e Doha all’indomani dello scrutinio del 7 giugno, riprodottosi sull’onda dell’ennesima vittoria curda sul campo, che riduce lo spazio territoriale della più feroce formazione jihadista nelle aree prospicienti la frontiera con la Turchia,  appare denotare preoccupazioni a fronte di un quadro politico interno turco, scosso da spasmi di fluidità impensabili fino a meno di un anno fa, e dal prodursi di sviluppi mal auspicanti per chi alimenta la lotta settaria in Siria ed in Iraq. Il vistoso successo registrato da Erdogan lo scorso agosto nella consultazione presidenziale non lasciava certamente presagire quel che è avvenuto, di segno alquanto contrario, pochi giorni addietro, cui ha fatto seguito il successo di forze curde che costituiscono al momento una delle poche note di conforto in uno scontro con i terroristi adepti del califfo Abu Bakr al-Baghdadi i quali, nonostante il dispiegamento di mezzi e risorse approntati dalla coalizione diretta dagli USA,, non sembrano finora aver perso nulla nella determinazione a portare avanti la loro missione di palingenesi islamica.

Al contrario la minaccia dei “decapitatori di teste” (beheaders), come i militanti dell’ISIL vengono sinistramente definiti, è sempre incombente, grazie anche alle connivenze di cui possono avvalersi proprio in Turchia, dove le cellule salafite traggono giovamento dall’islamismo permeante gli attuali vertici politici.

Nell’attesa di quel che conseguirà in Turchia dall’affermazione del HDP e dal ridimensionamento del peso politico dell’AKP, quel che si può immaginare fin da ora è che conseguenze potrebbero derivare per quel che attiene alla nascita, in un’area segnata dalla disgregazione di stati-nazione quali la Siria e l’Iraq, di entità curde dotate di poteri di autonomia crescenti. Il Kurdistan iracheno fornisce già un esempio in proposito ma a nostro parere anche i successi militari curdi in Siria, avvenuti con l’appoggio della forza aerea americana, con il risultato di una sorta di legittimazione sul campo di un’entità, quale la YPG, rivelatasi la più determinata nello scontro contro gli estremisti sunniti, comporteranno mutamenti nella configurazione della tormentata area. I collegamenti del PYD con i curdi iracheni sono di ben auspicio, nell’ottica dell’enucleazione di uno spazio politico e territoriale a favore di un gruppo etnico, una delle principali vittime, unitamente ai palestinesi, degli sconvolgimenti provocati dal colonialismo europeo all’indomani dell’implosione dell’Impero ottomano nel secondo decennio del secolo scorso. Di questa realtà Erdogan dovrebbe tener conto, cercando di promuovere un modus vivendi in un contesto profondamente mutato, suscettibile di garantire nuovi equilibri ai fini della stabilità della regione ed anche dell’interesse nazionale turco. A dire il vero i segnali che in proposito provengono da Ankara non sono dei più incoraggianti con esternazioni che riflettono reazioni e stimoli ricollegabili a un assetto superato, a nostro parere in maniera irreversibile, dagli eventi di questi ultimi mesi.

I curdi si stanno rivelando decisivi nell’arginamento delle orde terroristiche; e questo lo si vede nei due Paesi finitimi dove lo scontro contro la jihad è il più cruento ovverossia la Siria e l’Iraq. Il risultato elettorale turco è suonato anche come riconoscimento da parte di una larga maggioranza della minoranza curda in Turchia dell’importanza del ruolo che i loro fratelli stanno svolgendo nei passaggi drammatici che caratterizzano al momento la realtà medio - orientale.

 

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Concluderei questo mio sforzo di riflessione rifacendomi all’opinione di Cengiz Aktar, un acuto analista turco operante presso il “Policy Center” di Istanbul, con il quale ho avuto il piacere di scambiare qualche idea sulla tematica oggetto di questo succinto scritto.

A parere di Aktar il responso delle urne si è rivelato di assoluto rilievo nella misura in cui si ponga attenzione al coinvolgimento, spasmodico ed anticostituzionale, di Erdogan nel processo elettorale. La consultazione – sostiene il commentatore turco – è stata tutt’altro che libera ed equa (“not free and unfair”). Il Presidente si è impegnato in prima persona nel sostenere il proprio partito, violando in maniera flagrante la Costituzione della Repubblica.

Non solo. Ma Aktar tiene in proposito a ricordare come la formazione curda, “liberale e innovatrice” di Demirtas, cui “va il merito di aver iniettato nel siero politico turco una linfa nuova, più viva e stimolante”, sia stata ripetutamente oggetto di provocazioni perpetrate contro i suoi militanti e le sue sedi, la più grave delle quali si è compiuta nella fasi finali della campagna nel capoluogo della regione del sud-est, Diyarbakir.

 

 

Quattro morti e un centinaio di feriti  è stato il tragico bilancio dell’ultima e più grave provocazione ordita contro una forza che aspira a costruire un’alternativa politica in Turchia. Ebbene secondo Aktar la reazione del HDP si è rivelata esemplare e pagante nella misura in cui si è ritenuto di non reagire, fornendo una risposta in chiave politica all’estremismo intollerante ed alle oscure manovre di quello che gli analisti turchi chiamano il “Deep State” ovverossia i torbidi ambienti degli apparati di sicurezza,  che tramano contro il progetto di una Turchia liberale, democratica e pluralista.

Il riscontro si è avuto con il successo elettorale che assicurerà, per la prima volta nella storia repubblicana del Paese, una cospicua rappresentanza nel Parlamento di Ankara, ben 80 seggi alla pari dei nazionalisti dell’MHP, figurando inaspettatamente come la terza forza politica turca.

L’opinione dell’analista di Istanbul è che comunque la partita resta più che mai aperta. Lo spettro di un ricorso anticipato al voto incombe con il rischio di un appesantimento del clima di polarizzazione presente nel Paese e di un aggravarsi di un quadro economico e sociale, già alquanto deteriorato. Tuttavia Erdogan non rinuncerà facilmente all’appagamento delle sue brame di potere e non pochi sono coloro che ritengono piuttosto probabile un agone elettorale prima della fine dell’anno, visto con preoccupazione dall’altro fondatore dell’AKP, Abdullah Gül, per il quale al contrario la priorità ineliminabile rimane quella di operare per un allentamento delle tensioni ed il varo di un governo di coalizione che riavvicini la società politica alla società civile e affronti i problemi posti dall’andamento negativo dell’economia nazionale.

In questo momento la distanza tra chi governa e chi è governato ha assunto proporzioni inquietanti che si riflettono anche nella sfera diplomatica, dove la decantata diplomazia della “zero-problems with our neighbours” nella regione, punto di orgoglio dell’ex-Ministro degli esteri Davutoglu, è, come già accennato, letteralmente a pezzi.

Il percorso da seguire verso gli approdi della pace e della democrazia in quel grande Paese corre lungo un difficile sentiero che si snoda tra gli scogli della irrefrenabile ambizione di Erdogan e le contrapposizioni, esistenti anche all’interno della stessa comunità curda, che avvelenano il clima politico nazionale.

Ma qualcosa è comunque mutato e non mi sentirei di condividere l’opinione del Prof. Howard Eissenstat dell’Università Saint Lawrence di New York secondo il quale Erdogan finirà per prevalere, dato che il suo spessore e le sue “sopraffini arti tattiche” (masterful tactician) non hanno pari negli altri attori politici.

Riterrei questo modo di prefigurare lo sviluppo degli eventi alquanto irrispettoso del clima di speranze e di rinvigorite aspettative scaturito dal risultato elettorale. Non si possono disconoscere i cambiamenti e non sono d’accordo nel ritenere che la superiorità di un personaggio possa bastare per annullare gli aneliti di una società che è tornata a sperare. Erdogan continuerà beninteso a svolgere un ruolo di primo piano nello scenario turco ma, alla luce del responso elettorale, dovrà fare i conti da questo momento con quelle forze da lui abusate e bistrattate per più di un decennio, forte di un consenso che dal 2002 non aveva cessato di crescere; e che ora è vistosamente calato.

I processi politici sono complessi e alimentati da una miriade di variabili. Visioni verticistiche, basate esclusivamente sui rapporti di potere, che prescindano dai collegamenti con le dinamiche che si estrinsecano al livello della base sociale, non hanno mai fornito illuminanti chiavi di lettura della realtà, meno che mai nel suo complesso divenire. Mi sembra che anche nel caso della Turchia non ci si possa discostare da una costatazione fondata sulla Storia.

 

 

Angelo Travaglini, ex ambasciatore, è membro del Comitato Scientifico del CIVG