Gli imprevisti seguiti dalla primavera araba

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Premessa

Il Medio Oriente sembra precipitare in quella che alcuni analisti anglosassoni non esitano a definire “a warlord era”.  Cosa s’intende con questo? La risposta degli studiosi fa riferimento al progressivo mutamento degli assetti geopolitici della regione intervenuti all’indomani del crollo dell’Impero ottomano alla fine della prima guerra mondiale e al ruolo crescente svolto in questo processo dai “non-state actors” ovvero la galassia di organizzazioni, formazioni politiche e milizie subentranti a uno Stato-nazione in difficoltà nel riuscire a far fronte ai sommovimenti in corso nella regione.

In effetti, quel che avviene sotto i nostri occhi in Siria, Iraq, Yemen, Libia e Libano fornisce conferma di sviluppi che sarebbero apparsi impensabili fino a un tempo recentissimo.

La creazione lo scorso giugno attraverso una sorta di “blitzkrieg” di un “califfato” imposto dalle milizie dell’Islamic State in Iraq and Levant (ISIL) nella vasta area che copre il nord-est della Siria e il nord-ovest dell’Iraq ha costituito il più impattante esempio della fragilità di un ordine istituzionale scarsamente rappresentativo delle reali esigenze di comunità tenute fino ad ora in uno stato di povertà ed emarginazione, assoggettate al potere di un assetto statale forte della sua capacità repressiva ma estremamente debole sotto il profilo della base sociale di consenso.

L’aggressione occidentale all’Iraq di Saddam Hussein del 2003, che ha comportato la distruzione dell’assetto statale e dell’apparato di sicurezza in un Paese sovrano, seguita dall’esplodere delle tensioni etnico-settarie, e i venti della Primavera araba, che dal 2011 hanno segnato l’inizio di un cruento processo di trasformazione nel mondo arabo, hanno indubbiamente contribuito al prodursi di mutamenti che a prima vista apparirebbero irreversibili.

Aver sconvolto delicatissimi equilibri di ordine politico e religioso dietro l’alibi, pomposamente e irresponsabilmente esternato, di voler creare nelle sponde del Tigri e dell’Eufrate “una democrazia di tipo liberale” (!), ha creato nelle ricche e fertili lande della Mesopotamia una dolorosa persistente instabilità caratterizzata dal risorgere di odi settari e da mai estinti separatismi regionali.

L’esplodere del dramma iracheno si è espanso a macchia d’olio nella finitima Siria, dove l’iniziale movimento di protesta volto a contrastare l’oppressivo autoritarismo del regime Baath al potere a Damasco ha assunto progressivamente i tratti di una contrapposizione cruenta tra la maggioranza sunnita e le minoranze etnico-religiose del Paese, che, sia detto con buona pace di tutti, avevano fino al 2011 pacificamente convissuto secondo parametri laici e rispettosi delle differenze di credo e di razza.

La miscela esplosiva si è andata in itinere arricchendo di altri fattori destabilizzanti, quali l’ingerenza sul piano regionale di Potenze esterne volte a trarre profitto dal caos generalizzato, dove il contrasto d’interessi nulla o ben poco aveva a che vedere con le motivazioni a base degli iniziali moti popolari di protesta.

Questo è lo scenario che ha indubbiamente facilitato lo sconvolgente successo delle milizie armate dell’ISIL, emanazione dell’ISI iracheno (”Islamic State in Iraq”) sorto nel 2004 come forza di contrasto all’occupazione americana iniziata nel 2003. Dallo scorso giugno le formazioni salafite governano, nella pienezza dei poteri, gli spazi compresi tra la storica città di Raqqa in Siria fino alle porte di Bagdad, includendovi la seconda città dell’Iraq, Mosul, e Tikrit, luogo di nascita del defunto dittatore sunnita Saddam Hussein; centri di storia e di cultura millenarie, ora oggetto della volontà di dominio e distruzione di terroristi, espressione dello stato d’incontrollata trasformazione, generato da un’irresponsabile opera di destabilizzazione esterna, che sta ora interessando una larga parte dell’area medio-orientale.

Presente scenario

Il risultato di politiche dissennate prive di considerazione per un ambito geopolitico di estrema complessità e delicatezza, dove per decenni le Potenze coloniali hanno tratto cospicui benefici dallo sfruttamento di regioni dove giace più della metà delle risorse energetiche del mondo, è sotto i nostri occhi, nella sua devastante incidenza.

Vasti spazi territoriali sono ora controllati da milizie e formazioni che hanno preso in toto il posto di uno Stato-nazione, mai realmente riconosciuto e accettato dalle società destinatarie del suo dominio. Abbiamo utilizzato questo termine perché la funzione essenziale che lo Stato, nella sua matrice imposta dagli ex-colonizzatori europei, ha svolto nei decenni successivi alla sua nascita non ha mai riservato la dovuta attenzione a tre elementi che, a nostro modo di vedere, rivestono un rilievo fondamentale nel positivo dispiegarsi di una qualsiasi azione di governo. Essi sono: il senso d’identità, l’erogazione di servizi sociali di base e la capacità di fruire di un’effettiva legittimità. Senza tali attributi nessuna organizzazione statuale può avvalersi delle forme di consenso indispensabili per garantire in maniera duratura pace, sviluppo e stabilità nel territorio dove pretende di esercitare la propria sovranità.

La principale ragione della fragilità di molti Stati arabi risiede per l’appunto nell’aver cercato nella grande maggioranza dei casi di fondare il loro imperio su un assetto repressivo forte e ramificato, prescindendo in larga misura dal rispetto dei tre fattori che per converso dovrebbero costituire il punto di riferimento imprescindibile nella “governance” di una leadership politica.

Quello cui ora per contro assistiamo in alcune realtà arabe è un processo di frammentazione di strutture che, obbedendo a metri di valutazione eurocentrici, eravamo portati a ritenere immutabili.

Ma la realtà del moto storico obbedisce per converso a stimoli e impulsi diversi dai nostri. Ciò spiega perché formazioni come l’ISIL e i curdi in Siria e in Iraq, gli Hezbollah in Libano, gli Houthis nel devastato Yemen e le milizie armate in una Libia uscita stravolta dall’aggressione del 2011 dove esistono al momento due Primi Ministri e due Parlamenti (!), sono riusciti a mutare in maniera indelebile la realtà profonda delle aree di appartenenza; sfruttando l’assenza di rappresentatività e legittimità nelle strutture di dominio, imposte un secolo fa dai coloni europei, che ora, a causa di una fragilità endemica, non sono in grado di reggere l’urto di forze profonde in movimento.

Futuro irto d’incognite

Il tentativo della coalizione occidentale di porre rimedio, attraverso una rinnovata campagna di bombardamenti aerei, a un disfacimento che ha colto di sorpresa le cancellerie occidentali non appare essere all’altezza della sfida. Solo una soluzione politica che tenga conto della complessità del quadro reale, riservando la dovuta considerazione alle legittime richieste emananti da larghi settori di società fisicamente e culturalmente devastate, potrebbe creare le condizioni per una risposta efficace all’azione dirompente dell’ISIL. Lo schieramento salafita si avvale, infatti, del livore profondo e della volontà di riscatto delle comunità sunnite, particolarmente in Iraq, sostenuta dalle numerose ricche cellule fondamentaliste operanti nei Paesi del Golfo, determinate a regolare i conti contro gli infedeli e gli apostati (non islamici e sciiti).

L’intervento occidentale del 2003 in Iraq, che ha spianato la strada alla penetrazione iraniana in un Paese fino ad allora governato dal sunnita Saddam Hussein, nonché il tentativo, fallito, di rovesciare il regime dell’alawita Bashar al Assad in Siria ha gonfiato a dismisura il rancore sunnita, fornendo linfa vitale alla nefanda opera degli estremisti di una formazione, nata in Iraq sulle ceneri del risentimento provato dalle tribù sunnite per il trattamento iniquo e discriminatorio subito da parte del regime settario dello sciita Nouri al Maliki, appoggiato dagli Stati Uniti e dall’Iran.

L’importanza del senso dell’identità appare in tutta la sua evidenza ed esso non potrà essere eliminato con i bombardamenti aerei della coalizione occidentale, di cui fanno parte, in misura più simbolica che effettiva, cinque Paesi arabi (Arabia saudita, Bahrein, Emirati arabi uniti, Qatar e Giordania). E’ significativo rilevare come la vera azione di contrasto contro i terroristi sunniti sia posta in essere dai peshmerga curdi in Iraq, dove l’esercito di Bagdad ha brillato soprattutto per la sua latitanza, mentre in Siria il tributo di sangue è principalmente pagato dalla comunità curda, che, nonostante l’ostracismo della Turchia, determinato dai rapporti ambigui che Ankara intrattiene con l’ISIL, continua a battersi in maniera indomita contro le formazioni jihadiste.

Stesso discorso vale per quel che è dato osservare in realtà disastrate come lo Yemen e la Libia dove le autorità centrali appaiono assolutamente impotenti a contrastare l’azione dirompente di formazioni armate, islamiste e non, decise a far valere i propri diritti in nome di una solidarietà d’intenti fondata sulla condivisione del credo religioso e su istanze autonomistiche mai definitivamente represse.

I valori dell’identità e di una legittimazione basata su un senso di appartenenza a una etnia o ad una branca religiosa emergono con una virulenza ed un impeto che pongono in serie difficoltà le diplomazie di governi il cui senso di arroganza e di ignoranza verso le realtà di questa parte del mondo costituisce una delle principali cause del caos inarrestabile nel quale versa l’universo arabo-islamico.

Possibili proiezioni

Cosa scaturirà da questo vulcano in eruzione? Difficile appare fornire una risposta a questa domanda anche perché le variabili sono molteplici e complesse.

Come abbiamo visto le evoluzioni in corso nella tormentata regione fanno stato di cambiamenti irreversibili dagli sviluppi imprevedibili. Limitiamoci per ora a rilevare alcuni fatti, carichi di conseguenze, la cui evidenza appare incontrovertibile.

Un elemento sul quale molti concordano attiene al declino dell’influenza americana nell’area. E’ dall’inizio della Primavera araba che la capacità degli Stati Uniti di incidere sulla realtà medio-orientale ha registrato un’evidente flessione. La strategia di Obama di voler puntare sull’islamismo moderato dei Fratelli mussulmani come fattore di stabilità in Medio Oriente ha conosciuto uno scacco plateale nella misura in cui l’esperienza politica di Morsi in Egitto si è rivelata non positiva sia sul piano interno, aggravando la polarizzazione nel Paese, sia sotto il profilo dei rapporti con gli alleati della regione, in primis l’Arabia saudita e gli Emirati arabi uniti.

Da quel momento il legame di fiducia esistente tra Washington e Riyadh si è rotto e la politica delle autocrazie del Golfo ha assunto un andamento in buona misura indipendente dai desiderata USA, appoggiando fino in fondo il colpo di stato militare al Cairo che ha segnato, con il vivo disappunto dell’Occidente, la fine di un’esperienza islamica moderata, di segno democratico, nel più popoloso Paese arabo.

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Del resto anche in Tunisia lo schieramento Ennahda, vicino ai Fratelli mussulmani, ha dovuto indietreggiare di fronte alla reazione di un fronte laico deciso a far sentire la propria voce nella tormentata evoluzione del quadro politico in un Paese dove non è ancora spenta la speranza di un approdo democratico della crisi in corso.

Con questo non si vuole beninteso sostenere che l’influenza degli Stati Uniti non sia più rilevante e impattante ma i destini politici della regione risentono ora in misura crescente degli intenti di Potenze intermedie quali, oltre ai sauditi, l’Iran e la Turchia, in una tumultuosa, ma fino ad ora sostenibile, dialettica di interessi contrapposti. Tale sviluppo merita un’attenta considerazione ma non è l’unico mutamento meritevole di considerazione.

Uno dei fattori che ha creato le condizioni per l’esplodere della Primavera araba è stato anche il peggioramento del quadro economico e sociale, con il conseguente aggravarsi dell’emarginazione di giovani senza prospettive e senza futuro, vittime predestinate delle ideologie della violenza e dell’intolleranza.

E’ su queste fasce sociali, dove la povertà e l’immiserimento culturale seminano disperazione e istinti di rivolta, che affonda la mano l’estremismo islamico, sostenuto da quei regimi conservatori il cui intento resta quello di tenere il più possibile lontana la filosofia politica dell’Occidente ed i valori di maggiore libertà, equità sociale e più ampio pluralismo. L’esplodere degli odi settari, il convogliare la rivolta dei diseredati verso le sponde delle contrapposizioni etnico-religiose finiscono in tal modo per accrescere il ruolo dei “non-state actors”, la cui spinta propulsiva trae forza dal miraggio di un recupero di identità e legittimazione culturale, fino ad oggi non riconosciute e represse da apparati e sistemi di prevaricazione profondamente detestati.

Tali rivolgimenti avviliscono la funzione dello Stato-nazione, creazione degli infedeli, cui le milizie jihadiste contrappongono le formazioni politiche del califfato, istituzione scomparsa agli inizi del secolo scorso con la fine della dominazione ottomana e che ora l’estremismo islamico intende ripristinare.

Quel che è avvenuto in Siria rappresenta la cortina di tornasole di come un movimento basato su aspirazioni essenzialmente laiche, in linea con quanto si era già prodotto in Tunisia ed Egitto, si sia trasformato in una guerra civile dai contenuti settari, alimentata dai sostenitori, in gran parte stranieri, della Jihad, oltreché dal fuoco delle rivalità regionali. L’insanabile contrasto tra il Regno wahabita della dinastia Saud e la Repubblica islamica iraniana ha trovato un suo cruento campo d’applicazione nei “killing fields” siriani con il seguito di terribili sofferenze di cui ha patito un popolo che fino al 2011 era rimasto al riparo da simili tragedie.

Per altro verso lo scontro, all’ultimo sangue, tra i curdi siriani e i jihadisti dell’ISIL alla frontiera turca è l’ultimo esempio di come le contrapposizioni prescindano in misura crescente dagli intenti degli Stati-nazione. Comunità come quella curda, completamente ignorate dalle Potenze coloniali al momento della ripartizione del bottino ereditato dalla scomparsa dell’Impero ottomano, si battono ora, al pari dei palestinesi, per vedere riconosciuti i loro diritti di esistenza. Anche questo è un portato della Primavera araba, da alcuni ritenuta prematuramente defunta, ma che per converso continua a secernere effetti..

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Il fatto che l’Organizzazione internazionale del Lavoro consideri il Medio Oriente come l’area del mondo dove alligna il più alto numero di giovani disoccupati costituisce uno dei pericoli più gravi per la stabilità della regione.

I “giovani arrabbiati” sono una facile preda del messaggio intollerante dei salafiti ispirati in maniera fuorviata dal messaggio del Profeta. Il fallimento del movimento laico in Egitto, il cui sbocco è consistito in una repressione spietata e priva di senso contro i Fratelli mussulmani, componente imprescindibile della realtà egiziana, la sconfitta dello schieramento liberale in Turchia, dove l’islamismo autoritario di Erdogan sembra, almeno fino ad ora, non incontrare significativi condizionamenti, nonché le difficoltà che tuttora si frappongono al successo del fronte democratico in Tunisia, appaiono agli occhi dei giovani emarginati come la prova dell’inaffidabilità di un progetto diverso da quello emanante da gruppi determinati a risvegliare, in maniera deleteria, un autentico senso di appartenenza fondato sulle affinità culturali e religiose, a favore di masse arabe affrancate da sistemi di potere subiti e mai accettati.

Su questi aspetti, radicati nell’humus profondo del sentire collettivo, puntano le autocrazie del Golfo, consapevoli che solo attraverso il riaccendersi degli odi settari gli interessi dinastici delle case regnanti potranno essere garantiti e posti al riparo da rivolgimenti di sorta. Del resto la repressione contro i Fratelli mussulmani negli Emirati arabi uniti nonché contro la minoranza sciita in Arabia saudita e contro la maggioranza dello stesso credo a Bahrein mostrano chiaramente quali siano i reali intenti delle oligarchie al potere.

Il declino dell’influenza occidentale viaggia di concerto con i mutamenti geopolitici in corso, prodotti questa volta da sommovimenti nati nella regione. A tal proposito, concludendo, merita una certa attenzione la tesi dell’analista libanese Rami Khouri per il quale la frammentazione delle entità statuali in unità territorialmente più ridotte potrebbe indurci fin da ora a preoccuparci di meno se quel che avviene nella regione potrà consentire un giorno il ripristino dei vecchi confini e di più se quello che è emerso ed appare sarà in grado di rispondere nel tempo alle attese di masse desiderose di recuperare un loro autentico senso di identità e forme di rappresentanza che risultino in armonia con i loro fondamentali interessi.

Angelo Travaglini, ottobre 2014