Finanza, riarmo e industria bellica: quando la guerra diventa rendita
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- Scritto da globalproject
13/6/2025
A Vicenza un dibattito con Andrea Fumagalli, Andrea Barolini e Claudia Vago.
Domenica 25 maggio si è svolto un dibattito dal titolo "Finanza, riarmo e industria bellica: dal genocidio alla rendita", con la partecipazione di Andrea Fumagalli, economista e docente universitario presso l’Università di Pavia, da anni impegnato nell’analisi critica delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo. Insieme a lui, sono intervenuti anche i giornalisti Andrea Barolini e Claudia Vago, redattori di Valori.it, osservatorio indipendente sui temi della finanza etica, dell’ambiente e della giustizia sociale.
Il tema, pur scomodo, è urgente: la guerra è oggi strettamente intrecciata con la crisi climatica, l’instabilità economica globale e la precarizzazione del lavoro, in particolare nelle aree industriali del nostro Paese. Dietro questa realtà si cela una logica di profitto e speculazione che coinvolge anche imprese italiane. Nella provincia di Vicenza, ad esempio, operano aziende come Beltrame e Valbruna, attive nella logistica militare, e realtà come Safas e Officine Stellari, specializzate nella produzione di componenti ad alta tecnologia per l’industria bellica.
Nel contempo, Confindustria promuove con sempre maggior forza la partecipazione delle imprese italiane ai grandi programmi europei di riarmo, propagandandoli come possibile soluzione alla disoccupazione e all’uso massiccio della cassa integrazione. Tuttavia, dietro questa promessa si nascondono costi sociali, economici e ambientali enormi e spesso sottaciuti.
Come ha spiegato Fumagalli, il capitalismo globale sta vivendo una trasformazione strutturale. La Cina ha superato gli Stati Uniti per numero di brevetti tecnologici, e insieme agli altri Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) si propone come nuova forza egemone nel panorama economico mondiale. Il controllo delle materie prime, in particolare nel continente africano, così come delle infrastrutture strategiche — basti pensare al Canale di Panama — è diventato oggi il campo di una competizione geopolitica sempre più accesa tra Washington e Pechino. Il dominio del dollaro, fino a poco tempo fa incontrastato, inizia a vacillare, con una progressiva diffusione di transazioni internazionali in valute alternative e criptovalute “stable coin”. Questa fragilità si riflette anche nel debito pubblico statunitense, sia interno che estero, che rappresenta un fattore di rischio sistemico per l’economia globale.
Il nesso tra finanza e industria bellica è, secondo Fumagalli, particolarmente profondo. Ogni giorno, il mercato valutario registra scambi per circa 7 miliardi di euro, spesso guidati da logiche speculative e da operazioni ad alta frequenza il cui unico fine è il profitto immediato. In tale contesto, l’industria delle armi si configura come un “porto sicuro” per i capitali, complice anche il fatto che le spese militari, in ambito europeo, non rientrano più nel calcolo del rapporto deficit/PIL. Anzi, attirano investimenti pubblici e privati, inclusi i risparmi delle famiglie. Paradossalmente, si discute oggi dell’inserimento del comparto bellico nella tassonomia della finanza “sostenibile”, mentre la NATO ha annunciato la creazione di una “banca delle armi” per finanziare il riarmo dell’Occidente. Contemporaneamente, cinque Paesi stanno valutando l’uscita dalla Convenzione di Ottawa, che vieta l’utilizzo delle mine antiuomo.
Nonostante l’aumento esponenziale del fatturato delle imprese belliche, l’occupazione stabile nel settore non cresce: i contratti proposti sono spesso precari, a termine, privi di reali prospettive. È stato citato, in tal senso, anche il lavoro dell’associazione PAX, secondo cui nel 2023 sono stati investiti circa 477 miliardi di euro in azioni di aziende produttrici di armamenti. Inoltre, il rapporto Don’t Bank Into Occupation, redatto da una rete di ONG palestinesi ed europee, ha denunciato come alcune banche europee finanzino direttamente aziende coinvolte nell’occupazione israeliana della Cisgiordania. Da qui l’invito, ribadito più volte durante il dibattito, a scegliere consapevolmente istituti di credito che escludano l’industria bellica dai propri portafogli: un atto politico e morale di grande rilevanza.
La guerra, però, non si combatte solo con le armi, ma anche — e sempre più — con la logistica. Grandi multinazionali come Amazon e Maersk, così come aziende impegnate nello sviluppo di software per droni e satelliti, stanno riconfigurando interi territori in funzione di esigenze militari, trasformandoli in veri e propri hub strategici. Se da un lato promettono occupazione, dall’altro alimentano e consolidano le dinamiche del sistema bellico.
In definitiva, la guerra muove capitali, fa crescere il PIL, ma distorce la percezione del benessere reale. Nel Prodotto Interno Lordo rientrano infatti anche la distruzione, l’inquinamento e le sofferenze sociali, mentre restano escluse voci fondamentali come la salute, l’istruzione, i diritti. Il capitalismo contemporaneo necessita della guerra per sopravvivere, ma questa dipendenza lo rende sempre più fragile, distruttivo e insostenibile. Le conseguenze ricadono su tutti noi, con impatti devastanti su diritti umani, clima e futuro collettivo.
E l’alternativa a questo paradigma? Una possibilità concreta potrebbe essere quella di promuovere campagne di disinvestimento dalle banche che finanziano l’industria degli armamenti, costruendo percorsi di azione collettiva che coinvolgano anche i lavoratori del settore, attraverso pratiche di disobbedienza e sabotaggio. Un’opposizione che si estenda anche ai poli logistici, senza i quali il sistema bellico non potrebbe funzionare.
Da globalproject













