Ernesto Rossi Cavalleggero calsse 1892 - Una esperienza e una memoria


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Lo scopo di questo scritto è la parziale ricostruzione delle vicende vissute da mio nonno Ernesto nei suoi anni di permanenza sotto le armi.

Si tratta di incrociare la memoria famigliare con i dati ricavabili dalla documentazione esistente ed il contesto storico generale. Il Foglio Matricolare, il Libretto Personale e gli Attestati d Onorificenze, li mettiamo a confronto con le memorie tramandate da Ernesto a suo figlio Valter, mio padre, e da questi giunte fino a me. Ne risulta una cronaca imprecisa ma sufficiente a fornire il quadro di una vicenda significativa, a tratti avvincente.

Dal Foglio matricolare è possibile ricostruirne parzialmente lo stato di servizio:

 

-       Arruolato nel 1912 presso il distretto militare di Alessandria.

 

-        In forza al 16° Rgt. Cavalleggeri di Lucca con qualifica di cavalleggero zappatore

 

-       Trattenuto nel Regio Esercito allo scoppio del primo conflitto mondiale (gennaio 1914).

 

-       Imbarcato a Genova nel febbraio del 1915; destinazione Tripolitania e Cirenaica in forza ad un altro reparto di cavalleria, l’appena costituito 11° Rgt. Cavalleggeri di Palermo.

Giunto in Libia il giorno del 22 a bordo del piroscafo Minas.

Durante le operazioni di sbarco si ferisce seriamente una mano in seguito al cedimento del ponte su cui operava, alle prese con balle di fieno.

 

-       In congedo illimitato provvisorio nel 1918

 

Nota:

(Il Rgt. Cavalleggeri di Palermo, a differenza del blasonato Rgt Cavalleggeri di Lucca, è molto meno noto. Creato agli inizi del 1915 e sciolto nel 1919.

Ricostituito nel 1935 e sciolto nel 1943.

 

Il piroscafo Minas, già operativo come nave civile sulla tratta Genova - Buenos Aires, poi adibito a trasporto truppe, nel 1917 è affondato dal sommergibile tedesco U-39, a largo di Capo Matapan. Il siluramento notturno fa più di 180 vittime. Era diretto a Salonicco.

 

Il fascicolo matricolare, redatto in data 13/03/1943, dispensa il suddetto alla mobilitazione in quanto impiegato presso le ferrovie di Stato.

Il documento sembra assolvere, più che altro, lo scopo di certificare l’esenzione dal servizio militare, forse a causa delle drammatiche circostanze in cui versava l’Italia in quella data (creazione della Repubblica Sociale Italiana e ricostruzione di un nuovo esercito).

Pertanto, il foglio risulta molto impreciso.

Basti notare che non menziona alcun merito di guerra.

Gli attestati delle onorificenze, invece, determinano in modo inequivocabile quanto segue:

 

Il conferimento della medaglia Commemorativa della Guerra di Libia

allo Zappatore del 11° Rgt. Cavalleggeri di Lucca in data 31 Agosto 1915

 

Il conferimento della Croce al Merito di Guerra al Soldato del 11° Rgt. Cavalleggeri di Palermo in data 11 Gennaio 1927

A firma del Ministro di Guerra Benito Mussolini

 

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Il grado raggiunto era caporale.

Avrebbe partecipato alle due spedizioni del colonnello Antonio Miani nel Fezzan.

La prima, quella della conquista di quel territorio libico. E la seconda, per riconquistarlo in seguito alla ribellione indigena supportata dai turchi di Enver Bey.

Tuttavia, la conquista del Fezzan avviene nel 1913, Ernesto non può esserci perché sbarca in Libia solo nel 1915.

A margine, si noti che nelle scarne cronache militari non vengono mai menzionati reparti a cavallo in forza alle truppe di Miani. Ma è pur vero che piccole aliquote di cavalleggeri erano spesso aggregati ai comandi.

Ernesto ha certamente partecipato alle azioni di contenimento della ribellione indigena dei Senussiti oltre che alla seconda spedizione del Miani. Più in generale, ha preso parte ad un’oscura guerra senza quartiere combattuta da pochi soldati nazionali appoggiati da ascari eritrei e libici, mentre la spaventosa guerra di trincea sul fronte austriaco lasciava le forze coloniali in Libia prive di rifornimenti e aggrappate alle piazzeforti della costa.

  

Nella foto prigionieri libici impiccati, considerati gli istigatori della rivolta di Sciara Sciat. Cartolina di propaganda italiana dell’epoca

 

Per il cavalleggero Rossi vi sono azioni di guerra di cui ha raccontato alcuni particolari.

In occasione di una guardia armata notturna è stato preso di mira in un agguato da cui si è salvato fortunosamente. Un laccio ha colpito il suo kepì anziché chiudersi alla gola, permettendogli di reagire con uno sparo e grida di allarme. Una tecnica che i combattenti libici esercitavano sulle sentinelle di notte; un laccio di cuoio veniva lanciato da lontano e si stringeva alla gola dello sfortunato impedendogli di urlare. Rapidamente trascinato via, veniva poi finito ad arma bianca.

Qualche ricordo di azioni a sciabola sguainata e al galoppo, ad inseguire combattenti libici appiedati, in fuga. Erano i combattimenti nelle Oasi (che Ernesto pronunciava Oàsi, come in uso sul posto) in cui avvenivano anche criminali esecuzioni sommarie. Impiccagioni e altre violenze da parte italiana che il nostro condannava con decisione e rammarico, misto a senso di colpa.

“Vedo dei nostri che trascinano via un libico e chiedo: ma che fate, dove lo portate?

La risposta: “Andiamo a bruciarlo!”

“..se fossi stato un Uomo, avrei girato il fucile dall’altra parte, avrei sparato ai miei ufficiali!”.

Questo è il più esplicito e amaro sfogo del sentimento anticoloniale di Ernesto, prodotto da 6 anni di permanenza forzata sotto le armi.

I suoi ricordi tracciano uno squallido panorama di dominazione italiana.

La miseria in cui erano ridotti i civili..

“C’erano addirittura donne libiche che si prostituivano anche solo per delle carrube, il cibo dei nostri cavalli!”.

 

Nella foto donne libiche fra soldati italiani a Derna nel 1915, da l’Illustrazione Italiana

 

Imbarazzo e una certa reticenza nell’ammettere di aver messo in pratica quanto imparato a Pinerolo, quando lo avevano addestrato a tagliar teste con delle zucche..

Nei suoi ricordi esprimeva il disgusto per una violenza che non condivideva.

“Quando mi capitava di far parte del plotone di esecuzione io non miravo mai, chiudevo gli occhi e facevo fuoco senza guardare..”.

 

Ma tanta parte dei suoi racconti riguardano le sofferenze delle condizioni in cui operavano;

i trasferimenti estenuanti nella fornace del deserto, la sete quasi insopportabile (qualcuno si buttava sotto i muli a berne l’urina). Il ristoro ai pozzi, gli ufficiali a pistola sguainata che gestiscono la distribuzione di un bicchiere di acqua a testa, i soldati incolonnati e costretti a ripetere la fila per il bicchiere successivo, allo scopo di evitare caos e malori.

In un caso particolare è un ascaro eritreo, un cammelliere suo amico, a salvare Ernesto in virtù delle grandi borracce di cui i cammellieri erano dotati.

Il nonno è anche stato testimone di una tragedia climatica;

all’interno di uno Uadi, un letto di torrente asciutto, si trovano accampati parecchi nomadi locali. Sopraggiunge un improvviso, fortissimo e assurdo acquazzone, in pochi istanti un’onda di piena travolge tutto, gli indigeni rimangono sepolti sotto la sabbia e non ne resta traccia.

 

 

Il Fezzan nel 1915 è ormai fuori controllo; secondo le ricostruzioni dello storico Angelo Del Boca, sono gravi le responsabilità degli amministratori coloniali italiani, che in modo stupidamente arrogante e sciagurato infrangono tutti gli accordi siglati in precedenza dal colonnello Miani con le autorità locali. Arrestano le intere famiglie dei capi tribù e li deportano in modo arbitrario, scatenando la ribellione.

La conseguenza militare è un tentativo di riconquista di quel territorio sahariano nell’aprile dello stesso anno. Il giorno 29 una forte colonna del Regio Esercito sotto il comando del lo stesso Miani (circa 1.000 soldati italiani con altri 3.000 ascari e circa 3.000 irregolari libici, oltre a due autocarri e due batterie d’artiglieria) viene attaccata mentre si muove a sud di Sirte, presso la località di Gasr Bu Hadi.

Il tradimento degli irregolari libici, l’attacco a sorpresa e l’avvolgente azione di migliaia di combattenti avversari distrugge la colonna italiana con gravi perdite.

In quel frangente il nostro Ernesto dove si trova?

Verosimilmente, aggregato al comando. Infatti, secondo il suo racconto, egli non partecipa direttamente al combattimento, perché di guardia (insieme ad un altro soldato) ai cavalli del suo reparto. Si trovano in una posizione leggermente elevata da cui possono vedere parte della furiosa battaglia; l’accerchiamento da parte di forze superiori, i cannoni che sparano ad alzo zero e le esplosioni in mezzo ai libici avanzanti sollevare detriti e barracani (i tessuti arabi indossati). Infine, il disperato ordine: “Si salvi chi può!”.

Balzati a cavallo, entrambi fuggono al galoppo in direzione opposta a quella delle truppe italiane in rotta. Quelli fuggono tutti in direzione della costa, dove si può trovare salvezza sicura, ma inseguiti dai libici. I nostri due cavalleggeri, invece, puntano verso il nemico, lo superano indenni nella confusione e si dirigono verso l’interno del deserto.

Si tratterà di far poi un largo giro e ritornare in direzione nord, verso la costa.

A questo punto la vicenda diventa come la trama di certi film d’avventura.

Viaggiano per giorni, soli nel silenzio della fornace desertica, fino alla morte dei cavalli, all’esaurimento dell’acqua. Si spostano a piedi e solo di notte, cercando di riparare la testa dal sole di giorno.  Arrivano i miraggi e una drammatica discussione fra loro, per la direzione da seguire, indicata soltanto dalle stelle..

La sete è orribile, fa gonfiare la lingua fino a dover tenere la bocca innaturalmente aperta.

Dodici giorni o forse più, non sappiamo con precisione.

Sembra arrivare la fine, sono allo stremo e procedono solo con forza della disperazione, ma alle prime luci di un’alba scorgono la figura di un uomo: nella luce grigia si intravede una sagoma a loro consueta. Si tratta di un uomo armato con fucile in spalla, una sentinella.

Ma sarà libico?  E in quel caso che fare? Consegnarsi potrebbe essere la condanna ad una fine anche peggiore. Ci ragionano, increduli e allucinati, mentre una brezza improvvisa solleva qualche cosa sul capo dell’uomo di guardia.. sono penne! E’ un bersagliere!

Si sono imbattuti in uno sperduto fortino italiano. Soccorsi e ristorati, dopo qualche giorno tornati in grado di parlare, vengono interrogati dall’ufficiale al comando di quel presidio. Raccontano la disastrosa battaglia e la loro incredibile avventura.. ma sono creduti disertori, e come tali, chiusi in cella di rigore a pane e acqua.

Solo diversi giorni dopo, sopraggiunta la notizia del disastro militare, vengono entrambi liberati con le scuse del superiore. Questi si dimostra dispiaciuto per il malinteso e dichiara di volerli proporre per una medaglia al valore.

In questo caso sono loro a non credergli. Ma l’ufficiale era sincero, lo dimostra la croce al merito di guerra, verosimilmente concessa per essere riusciti a sottrarsi alla cattura ed aver riguadagnato le linee. I soldati italiani prigionieri furono parecchi, pare molte centinaia, sebbene i dati precisi di una sconfitta militare non siano, usualmente, mai chiariti del tutto.

(Circa la storia della battaglia si veda: La disfatta di Gasr Bu Hadi – Angelo del Boca – Mondadori 2004).

 

Dai ricordi di guerra del nonno Ernesto emerge anche l’amore profondo per i cavalli, in particolare per una cavalla che lo ha accompagnato per molto tempo del suo servizio.

La considerava autrice di una prodezza equina che gli aveva salvato la vita.

Al galoppo, in u frangente di combattimento, sotto gli zoccoli si apre uno squarcio rotondo nel terreno, il più temuto dei pericoli naturali della cavalleria, un pozzo artesiano!

Scavati in modo rudimentale e privi di muretti, erano visibili solo a ridosso degli stessi. Allora la cavalla (di cui purtroppo non conosciamo il nome), resasi conto del pericolo, si è contorta e slanciata, riuscendo miracolosamente a balzare il vuoto che si era aperto sotto di sé. Un’autentica prodezza che aveva compiuto in modo autonomo, istintivo e salvifico.

Il povero animale gli venne poi ucciso, in combattimento.

 

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Ma la fine di questa esperienza di soldato coloniale è quella più sorprendente.

Ernesto ricordava che all’atto dell’imbarco per tornare in Italia, nel 1918, in procinto dell’agognata smobilitazione avviene un drammatico e commovente episodio.

 

Lo descrivo così come me lo raccontava mio padre, Valter, che glielo aveva sentito raccontare solo una volta, quando era ragazzino e a denti stretti, quasi a  coprire il vero significato di quanto accaduto.

Una lunga passerella inclinata verso l’alto permette ai soldati a cavallo di salire sulla nave. Ciascuno accompagna a piedi il proprio cavallo tenuto per le briglie. Ernesto arriva al boccaporto dove un ufficiale vigila l’operazione di imbarco. Viene fermato.

 “Rossi dove vai?”

Sul cavallo una bisaccia con una chitarra araba e sulla sella.. una bambina!

“Non puoi imbarcarla.. riportala giù”.

Ernesto insiste, ma l’ufficiale è irremovibile.

“Se proprio vuoi rimanere con lei, allora chiedi di rimanere di guarnigione qui. Si può fare.

Ma in Italia con la bambina non torni. Questo non si può fare”.

Sebbene non vi sia stata la chiara ammissione di paternità da parte del nonno, si capisce bene quello che era successo. Una relazione con una donna libica aveva generato la bimba, e al momento della partenza aveva provato a portarsela in Italia.

La sua scelta, però,  fu di lasciarla con la madre. Abbandonata al suo destino, forse tragico.

Mio padre ricordava che nonna Natalina, la moglie di Ernesto, aveva fatto domande sulla condizione di quellamamma e le prospettive per la bambina.

E il nonno aveva tagliato corto: “.. morivano di fame..”.

 

La chitarra araba, imbarcata regolarmente, durante la navigazione subisce un incidente.

I postumi notturni della festa per il rientro in Italia, ad insaputa di mio nonno, la trasformano in un comodo e improvvisato pisciatoio per i commilitoni. Quando la ricupera è ormai deformata dall’urina, non resta che tumularla pietosamente in mare..

 

Tornato a casa, il nostro si presenta nella casa paterna ad Incisa Belbo.

 Nel 1928 il paese monferrino diventerà Incisa Scapaccino in onore di Giovanni Battista Scapaccino, primo caduto dell’arma dei carabinieri e prima medaglia d’oro dell’esercito italiano.

Bussa alla porta, viene ad aprire il padre che non lo riconosce, lo saluta e lo guarda interrogativo. Il soldato ha un groppo in gola e l’emozione non lo lascia parlare.

Il padre: ”Chi siete? Chi cercate?”. “Papà! sono Ernesto!”.

Giovanni, fratello minore, raccontava che dopo i primi momenti di commozione ed esultanza della famiglia, Ernesto si è tolto la giacca dell’uniforme con rabbia, tanto furiosamente che ne avrebbe addirittura strappato dei bottoni, lanciandola via, lontano.

Finita sul tetto della casa, la blusa sarà ricuperata proprio dal Giovanni, e la madre, con quel buon panno nero farà una giacca da civile.

 

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Epilogo

La Croce al merito di guerra svolge un ruolo, seppur marginale,  negli anni Trenta.

Ernesto era socialista. Per visione politico-filosofica, senza militanza in organizzazioni.

Quando il regime fascista impone l’acquisto della camicia nera a tutti i dipendenti statali,

la camicia veniva addebitata decurtandola dagli emolumenti dello stipendio, bastava solo andarla a ritirare nel magazzino preposto. Ernesto era dipendente delle ferrovie e lavorava presso gli impianti della stazione di Porta Nuova.

Compare il comunicato di servizio che avvisa dove e quando ritirare la camicia nera.

A ritirarla lui non ci va. Il suo capo, passato del tempo, glielo ricorda. E lui non ci va. Passa altro tempo e al nuovo avviso si comporta allo stesso modo, lo ignora.

Quindi, vanno a prenderlo a casa.

Il gesto era palesemente “politico”, un atto di dissenso, tutto individuale e di coscienza. Innocuo ma sovversivo. Agenti della milizia volontaria per la sicurezza nazionale (detti camicie nere) lo portano nella sede di quartiere (Borgo San Paolo) del partito fascista, l’attuale istituto scolastico Santorre di Santarosa. Lo malmenano, lo insultano e lo minacciano di farlo processare per mandarlo al confino.

 Rimane praticamente sotto custodia forse qualche giorno. La minaccia era seria, la moglie Natalina e i tre figli, Rita, Edvige e Valter sarebbero rimasti senza reddito.

A risolvere la situazione interviene la moglie, donna di cui non è rimasto alcun ricordo affettuoso, eppure con delle qualità. Sagace e scaltra, riesce a far intervenire un funzionario del partito di Torino, la cui identità è rimasta sconosciuta.  

Un conoscente, un parente? Chissà.

Resta il fatto che quel fascista interviene a difesa di Ernesto, sottolineando che si trattava di un “vecchio socialista” isolato e pacifico, e soprattutto, di un reduce decorato che a suo tempo aveva ben servito la Patria.

Questo è stato sufficiente per liberarlo, non senza ulteriori minacce.

 

Natalina darà ancora prova del suo “talento” in seguito, quando si fa cambiare il cognome; da Voersio a Voerzio. Questo sarà utile al figlio Valter, permettendogli di arruolarsi nella Guardia di Finanza, perché ad un superficiale riscontro genealogico in tal modo non risultava nipote di un omicida. Infatti, il padre di Natalina aveva ucciso un uomo in una banale lite con un fatale colpo di falcetto alla gola, omicidio che gli aveva procurato molti annidi reclusione ed una macchia sulla fedina penale dei discendenti.

 

Con questo recupero biografico delle vicende militari di mio nonno, ho voluto contribuire alla conservazione della memoria famigliare, ma pure raccontare un’umile esperienza umana  all’interno di dinamiche storiche più grandi, capaci di stritolare e annientare l’umanità di ciascuno.

 

Dedico affettuosamente a mio padre, Valter Rossi.

 

Torino, giugno 2025

Flavio Rossi