Notiziario Patria Grande - Aprile 2025

 

 

NOTIZIARIO APRILE 2025

 

 

 

SINPERMISO / ANALISI / ECUADOR

Ecuador, analisi di una sconfitta del correismo. Dossier

 

TELESUR (VENEZUELA) / ANALISI / LA MORTE DI PAPA FRANCESCO

Papa Francesco non è solo un nome, ma un progetto di Chiesa e di mondo

 

TELESUR (VENEZUELA) / ANALISI / ARGENTINA

Militarizzazione in democrazia

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / LA POLITICA DEI DAZI

Nuovo ordine mondiale o miraggio regionale?

 

TELESUR (VENEZUELA) / ANALISI / INTEGRAZIONE DEL SUBCONTINENTE

CELAC, UNASUR o BRICS: el falso dilema de la integración regional

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / CELAC

Cuba resterà sempre fedele agli impegni per rafforzare la Celac

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / DIRITTI UMANI NEGLI STATI UNITI

USA: la nuova legge sul lavoro minorile è un passo indietro

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / AMMINISTRAZIONE USA

La menzogna e il fascismo si tingono di Rubio

 

GRANMA (CUBA) / ANALISI / TECNOLOGIA E CAPITALISMO

Tecno-feudalesimo nuovo volto del capitalismo?

 

GRANMA (CUBA) / COMMENTO / ANCORA DISINFORMAZIONE SUI MEDICI CUBANI

I nostri medici sono l’orgoglio di Cuba e di molte nazioni del mondo

 


 

 

SINPERMISO / ANALISI / ECUADOR

Ecuador, analisi di una sconfitta del correismo. Dossier

 

Retromarcia: terza sconfitta elettorale consecutiva del progressismo in Ecuador

di Decio Machado

 

Daniel Noboa, giovane ereditiere di uno dei più importanti imperi commerciali in Ecuador, governerà il paese per altri quattro anni, un periodo nel quale si propone di consolidare la gestione neoliberale iniziata nel 2023.
Dopo la prima fase del ciclo progressista latinoamericano in questo secolo, quella che si inquadra tra il trionfo di Hugo Chávez in Venezuela nel 1999 e la fine del governo di Raffael Correa nel 2017, l’unico paese nel quale quella sensibilità politica non è mai riuscita a recuperare il potere è stato l’Ecuador.

Domenica scorsa, Luisa González, candidata di Revolución Ciudadana – il partito politico guidato dall’esilio in Belgio dall’ex presidente Correa -, è stata appena sconfitta nelle elezioni nelle quali aveva tutto a suo favore per tornare al governo, restando palesemente arretrata, secondo i risultati diffusi dal Consiglio Nazionale Elettorale, rispetto al milionario Daniel Noboa.
Quello ecuadoriano è un caso da studio accademico. A differenza di paesi come Argentina, Bolivia, Brasile, Cile o Uruguay, l’Ecuador si inquadra in percorso di continui fallimenti elettorali del progressismo dopo la fine del decennio del mandato correista, tra il 2007 e il 2017, ed il successivo tradimento politico del suo successore alla carica, Lenín Moreno, che governò tra il 2017 ed il 2021.
A partire da allora, le candidature presidenziali del correismo, tanto nel 2021 con Andrés Arauz in prima linea come nel 2023 ed ora, nel 2025, con Gonzáles come candidata presidente, sanciscono la loro terza sconfitta elettorale consecutiva in appena quattro anni.

Specializzati in sconfitte
Se c’è qualcosa che ha caratterizzato il progressismo ecuadoriano in questi ultimi anni è stata la sua specializzazione nell’essere sconfitto in elezioni che venivano considerate impossibili da perdere. Nel 2021 il giovane plurilingue e brillante economista Andrés Arauz, che si profilava come l’erede di Correa, si vedeva inverosimilmente sconfitto dal settuagenario banchiere Guillermo Lasso, in un paese dove le banche sono state responsabili dell’esilio economico di oltre un milione di persone non più di una generazione fa.
Nel 2023, dopo la rinuncia di Lasso – dopo appena 30 mesi di governo – e con tutto a suo favore per tornare nel seggio presidenziale del Palazzo de Carondelet, il progressismo perdeva le elezioni in maniera sorprendente dopo l’assassinio di uno dei candidati presidenziali, fatto estraneo alla disputa elettorale che permise a Noboa di rientrare nella seconda tornata e imporsi di misura al ballottaggio, per la prima volta davanti a González.
Domenica 13, dopo una campagna elettorale che si è svolta in prima battuta all’insegna di una brillante strategia di consulenti stranieri e che ha visto polarizzare  tra González e Noboa una contesa elettorale alla quale avevano partecipato 16 candidati presidenziali, il correismo è crollato  nella seconda tornata contrassegnata da reiterazioni degli stessi errori tattici e operativi delle campagne precedenti. Tra questi spicca la sua incapacità di smarcarsi dal governo venezuelano di Nicolás Maduro, che gode di scarse simpatie nel paese; i suoi limiti nel momento di generare fiducia e rispetto per il suo programma economico di governo, specie per ciò che ha a che vedere col sostegno alla “dollarizazione”, e la sua goffaggine comunicativa nei confronti di una società che subisce un continuo bombardamento mediatico con accuse al correismo di corruzione e autoritarismo.
Stando così le cose, il vantaggio nelle intenzioni di voto a favore di González dopo il patto tra la sua formazione politica e gli altri schieramenti di sinistra, come il movimento indigeno e altri settori sociali, concluso dopo la conquista del secondo turno, è stato pregiudicato dagli errori commessi dalla candidata progressista nel dibattito presidenziale televisivo di fronte a Noboa. Un dibattito, tra l’altro caratterizzato più per le limitazioni dialettiche e le esagerazioni recitative di entrambi i candidati che per l’esposizione delle rispettive capacità di portare avanti un paese immerso in una crisi multidimensionale  e più povera di 10 punti percentuali rispetto al decennio scorso.
Da allora, 23 di marzo, e fino a questa domenica, il correismo ha perso l’iniziativa politica, immerso nella cecità della maggioranza di coloro che erano coinvolti nella disputa elettorale. E quindi se non bastava quanto esposto sopra, l’uso della Procura Generale dello Stato come strumento politico elettorale da parte del governo di Noboa ha permesso di rendere pubblici messaggi e registrazioni audio contenuti nei dispositivi tecnologici sequestrati ad una delle autorità schierate con il correismo nel  Consejo de Participación Ciudadana, entità responsabile della designazione di autorità in organismi di controllo nel paese. Questa operazione ha reso visibile le interiora di una organizzazione politica nella quale i suoi componenti si squalificano a vicenda in maniera grottesca e definitiva.
Pochi giorni prima del ballottaggio e nel mezzo di un clima trionfalistico per il correismo, alcuni studi qualitativi accreditavano una maggiore resistenza a votare González rispetto a Noboa in numerosi elettori che ancora mostravano incertezza nelle intenzioni di voto. Non se ne tenne conto, tutto venne ignorato dalla formazione progressista, e ancora una volta i trofei di guerra del correismo sono andati sprecati nel mezzo di una prematura celebrazione.
Quindici mesi di governo senza un singolo risultato hanno condotto, tuttavia, il candidato ufficiale alla vittoria nei comizi, più per rifiuto dell’avversario che per meriti propri. Noboa ha concluso imponendosi con un 55,6 per cento di voti validi di fronte a meno del 44% di González, una differenza molto maggiore a quella prevista dai sondaggi – che pronosticavano un pareggio tecnico, anche se con un lieve vantaggio per il conservatore – con il vantaggio al primo turno per Noboa di appena ventimila voti.
Però, come dice la saggezza popolare, “non c’è due senza tre”. La stessa notte di domenica 13, la dirigenza correista avrebbe commesso il suo ultimo errore nel non riconoscere i risultati e accusare di frode il Consiglio Nazionale Elettorale. Mentre è vero che nella base correista questo atteggiamento si è smorzato, al momento della pubblicazione di questo articolo non risultavano indizi ad accreditare la sospetta frode, e anche nello stesso partito dell’ex presidente emergevano differenze.

Nubi all’orizzone
In Ecuador esistono due importanti sinistre politiche : una politico-istituzionale, Revolución Ciudadana (Rivoluzione dei Cittadini), ed un  altra politico-sociale, la Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador – CONAIE (Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador). Una presente nelle istituzioni ed in conflitto permanente all’interno di esse e l’altra con una importante funzione e capacità di mobilitazione. Entrambe sono state toccate pesantemente dai risultati di domenica.
Come aggirerà Revolución Ciudadana la inevitabile crisi interna che le arriverà dopo la sua terza sconfitta elettorale consecutiva, in questa occasione per sbaglio, e dopo essere stata la forza egemonica nel paese per lunghi anni, si tratta di una domanda che non ha risposta. Alcuni parlano di una possibile implosione interna, altri, del necessario rinnovamento dei suoi quadri dirigenti, e ci sono anche coloro che prevedono possibili rotture in particolari zone prima delle elezioni locali che si terranno fra due anni. Attualmente tutto è incertezza nel progressismo ecuadoriano.
Qualcosa di simile accade nel movimento indigeno, dove la attuale dirigenza, impegnata nella lotta contro le politiche neo-liberiste, ha appoggiato contro tutto e tutti la candidatura di González nella seconda tornata. Nel secondo semestre dell’anno si terrà il Congresso della CONAIE per la designazione delle nuove cariche, in quel momento Leonidas Iza – attuale presidente della organizzazione – dovrà far fronte ai settori indigeni più conservatori, che, finanziati dal governo di Noboa, si opponevano al patto con Revolución Ciudadana. Il trionfo degli oppositori all’attuale direzione della CONAIE farebbe ipotizzare la consegna in cambio di benefici al governo della unica organizzazione sociale ecuadoriana con capacità di resistere alle sfide che si prevede arrivino durante il prossimo periodo di mandato del magnate.
Sembra spuntare all’orizzonte la possibilità di una crisi interna che debiliti ancora di più il malconcio correismo o addirittura provochi la sua implosione ed una sconfitta dei settori impegnati nella lotta popolare nel movimento indigeno. Se ciò dovesse realizzarsi, la sinistra politica e sociale si trasformerà in un deserto per molto tempo. Viceversa Noboa avrà la strada libera per concretizzare il suo annunciato progetto di convocare una nuova assemblea costituente per chiudere definitivamente con le conquiste sociali plasmate nella Costituzione post-neo-liberale ecuadoriana, vigente dal 2008.

 

****

 

Cinque chiavi per capire perché Luisa González ha perso
di Luis Ángel Saavedra Saenz
A prescindere dal fatto che potrebbe esserci stata una frode nelle elezioni del 13 aprile, cosa peraltro poco probabile, dobbiamo concentrarci sugli errori propri del correismo per spiegare questa sconfitta; errori ripetuti durante le ultime campagne elettorali e che sono in relazione più con la prepotenza dei leader che con la proposta politico-ideologica, questo ha fatto si che il partito non abbia possibilità di superare un certo limite nel consenso elettorale, ferme restando le attuali pratiche, simili peraltro a quelle del Partito Sociale Cristiano, alla guida di Jaime Nebot, e che alla fine portarono alla sua scomparsa.
In primo luogo, è necessario evidenziare che il voto nullo non è il responsabile, dal momento che se suddividiamo le percentuali di voto e ipotizzassimo che i voti nulli e le schede bianche fossero attribuiti tutti alla candidata Luisa González, la sua percentuale di voto arriverebbe al 48,1%, e quindi Noboa avrebbe comunque vinto la contesa elettorale con il 51,9%.
Quindi, lasciando da parte la frode e la responsabilità del nullo, analizziamo cosa è accaduto nella campagna di Luisa González ed il ruolo della dirigenza del partito.

Uno
La prima chiara prova della sconfitta è che il correismo ha una zavorra con un nome proprio, Rafael Correa, ed insieme a lui una serie di elefanti che danzano nel centro di un negozio di cristalli, rendendo vana qualsiasi possibilità di successo. Come interpretare la pseudo conversazione di Correa e Patiño sulla dollarizzazione?
E’ vero che il dollaro comincia a cedere spazi di fronte all’emergere dei nuovi blocchi economici che lo colpiscono con economie forti e flussi commerciali superiori rispetto a Stati Uniti e Europa messi insieme, quali sono Arabia Saudita, Russia, India, che vanno per mano con la Cina facendo scambi commerciali con le loro rispettive monete. I BRICS stanno emergendo come un nuovo modello di commercio basato sulla multipolarità e su un variegato paniere di monete; ma … era necessario parlare di questo nel mezzo di una campagna elettorale in un paese dove il dollaro è un tema altamente sensibile per la sua popolazione? La risposta è no!
Correa e Patiño nel loro desiderio di presentarsi come lucidi economisti che analizzano la congiuntura mondiale, hanno inflitto un colpo fatale alla candidata González, al punto che molti si sono chiesti se davvero Correa desiderava la sua vittoria.

Due
Dobbiamo analizzare la relazione del correismo con la comunità indigena. In molteplici occasioni e da parte di diversi collettivi era stato chiesto che González si sganciasse da Correa e che riconoscesse gli errori del passato. Le veniva chiesto che riconoscesse la criminalizzazione e la persecuzione scatenata contro dirigenze sociali e indigene; da molte parti erano arrivate richieste di scuse. González restò sorda di fronte alle richieste e cieca di fronte a questa realtà. I risultati si possono vedere nella votazione delle provincie con maggioranza di popolazione indigena. Non era sufficiente un accordo con Pachacutik perché, anche se avesse avuto la intenzione di inserire le proposte indigene nel suo governo, restava un vasto settore che ha memoria delle sofferenze patite durante il governo correista, ed è stato un errore conservare il vincolo con questo ricordo e con il suo peso di odio che si porta appresso e che ancora non è stato superato.
E’ stato chiesto solo ad un lato che venisse superato, mentre il lato più coinvolto restava nel suo atteggiamento di intransigenza; di nuovo, ancora una volta Correa, ha messo in dubbio l’accordo firmato, l’importanza del mondo indigeno e la legittimità di diversi dei suoi dirigenti. In questo modo non solo è stato allontanato il voto indigeno che avrebbe dovuto essere convinto che un governo con a capo Luisa González avrebbe potuto essere diverso, ma è stato anche lasciato uno spazio per il dubbio che è stato sciolto con la decisione di votare Noboa.

Tre
Nelle tre ultime settimane sembrava che González stesse per staccarsi dalla vecchia guardia correista, specie quando cominciò a mettere in evidenza alcuni dei punti dell’accordo con Pachacutik; tuttavia la notizia che Topic entrava nella scena elettorale per mano con Luisa González ha di nuovo acceso i segnali di allarme presso i movimenti sociali ed i settori indigeni, facendoli esplodere all’annuncio da parte della candidata che egli sarebbe stato il suo ministro degli interni. L’annuncio ha rafforzato il ricordo della repressione correista.
I movimenti sociali ed il movimento indigeno hanno vissuto esperienze tremende con Serrano, Romo, Carrillo o Palencia al ministero degli interni. La presenza di Topic avrebbe intensificato la linea repressiva; vale a dire, González ha presentato la stessa faccia dei governi precedenti, compreso quello dello stesso Rafael Correa. Topic non ha aggiunto voti a González; al contrario, glieli ha tolti e molti di questi voti sono passati a Noboa. Se la strada è la stessa perché cambiare conducente?, questa è stata la convinzione di molti settori.

Quattro
Si deve analizzare la posizione di Luisa González rispetto alle differenti lotte per i diritti delle donne e la sua posizione rispetto alle rivendicazioni dei collettivi GLBTIQ+. Anche in questi temi ha mostrato una marcata ambiguità.
Anche se in varie occasioni ha sottolineato la sua condizione di donna e la possibilità di arrivare ad essere la prima donna presidente, ciò che chiama in causa coloro che cercano la parità di genere, non si è tuttavia sintonizzata con i collettivi delle donne che, comunque, non la sentivano parte attiva nelle loro lotte e non si sentivano neppure rappresentate da lei per il solo fatto che era una donna. Non ha saputo articolare queste lotte con gli attacchi misogini di cui era oggetto e neppure con la condotta patriarcale dell’attuale presidente (argomento che mi portò a votare per lei).
Nel suo desiderio di ampliare la sua base elettorale verso i settori di destra, si è allontanata dai movimenti delle donne nell’atto di aderire all’agenda conservatrice delle dirigenze correiste. Le manifestazioni di religiosità e la sua posizione rispetto alla gioventù trans, la hanno allontanata anche dai collettivi GLBTIQ+. Questa ambiguità le ha sottratto una parte importante dei voti.

Cinque
Infine vale evidenziare che la sua propaganda non ha avuto identità, in molti casi è stata una replica di quella di Noboa ed ha provocato l’effetto contrario, come copiare un pupazzo di cartone. Non c’è stato neppure un messaggio nuovo ma sono stati ripetuti gli stessi concetti della propaganda utilizzata per Rafael Correa. La speranza o la rinascita della patria sono ritornelli che non attraggono più. Anche lo stesso temine “patria” risulta ormai vuoto.
D’altro canto, in certi ambiti è stato superato il livello di saturazione pubblicitaria provocando allo stesso modo l’effetto contrario, esattamente come viene insegnato nei manuali di marketing. Per il cittadino comune che guarda un film su You Tube era una gran seccatura che la riproduzione venisse interrotta dalla pubblicità di Luisa ogni venti minuti.
La pubblicità deve essere diversificata e controllata nelle tempistiche, ancora di più nelle reti sociali. In questi spazi Noboa ha avuto una interiezione migliore, non con pubblicità diretta, ma attraverso trolls centers (fabbriche di trolls).

Conclusioni
La difesa dei diritti continuerà a dipendere dalla articolazione delle basi sociali con una direttrice politica chiara; per questo si deve recuperare ciò che è andato perso in occasione di questa contesa elettorale e, sopratutto, avere coscienza che, ciò non accadrà per volontà del potere in mano alle élite. La strada continuerà ad essere il nostro spazio di intervento politico, sempre a partire da azioni nel segno della non violenza attiva.

 

Decio Machado e Luis Ángel Saavedra Saenz, Sinpermiso, 16 Aprile 2025


Decio Machado. Ex consigliere del Presidente dell’Equador Rafael Correa; membro del gruppo fondatore del quotidiano Diagonal e collaboratore abituale in diverse testate in America Latina ed Europa. Ricercatore associato in Sistemi Integrati di Analisi Socioeconomiche e direttore della Fondazione Alternative Latinoamericane di Sviluppo Umano e Studio Antropologici (ALDHEA: Alternativas Latinoamericanas de Desarrollo Humano y Estudios Antropológicos). Corrispondente della testata online Brecha.

Luis Ángel Saavedra Saenz. Scrittore e comunicatore, ha studiato nella Università Centrale dell’Ecuador. E’ stato coordinatore esecutivo del INREDH (Fundación Regional de Asesoría en Derechos Humanos – Fondazione Regionale di Consulenza in Diritti Umani)

Articolo originale:
Ecuador: Una derrota del correismo cuestionada. Dossier
https://sinpermiso.info/textos/ecuador-una-derrota-del-correismo-cuestionada-dossier
Traduzione a cura di Patrizia B., Patria Grande, CIVG

 

 


 

TELESUR (VENEZUELA) / ANALISI / LA MORTE DI PAPA FRANCESCO

Papa Francesco non è solo un nome, ma un progetto di Chiesa e di mondo

 

di Leonardo Boff, 26 aprile 2025

Ogni punto di vista è la visione da un punto, dissi una volta. La mia prospettiva su Papa Francesco è latinoamericana. Lo stesso Papa Francesco si è presentato come «colui che viene dalla fine del mondo», cioè dall'Argentina, l'estremo sud del mondo. Questo fatto non è privo di rilevanza, poiché ci offre una lettura diversa dalle altre, da un altro punto di vista.

 

La scelta del nome Francisco, senza precedenti per un Papa, non è stata casuale. Francesco d'Assisi rappresenta un altro progetto di Chiesa la cui centralità risiede nel Gesù storico, povero, amico degli emarginati e degli umiliati, come i lebbrosi, con i quali convisse. Ebbene, questa è la prospettiva adottata da Bergoglio quando fu eletto Papa: una Chiesa povera per i poveri. Di conseguenza, si libera dei paramenti onorifici, tradizione degli imperatori romani, ben rappresentata dalla mozzetta, un piccolo mantello bianco ornato di gioielli, simbolo del potere assoluto degli imperatori e incorporato nei paramenti papali. Lui la rifiutò e la diede al segretario come ricordo. Ha indossato un semplice abito bianco con la Croce di Ferro che ha sempre portato con sé. Ha vissuto nella massima semplicità (il Papa non veste Prada) e senza cerimonie, rompendo i rituali per essere vicino ai fedeli. Questo ha sicuramente scandalizzato molti della vecchia cristianità europea, abituati alla pompa e alla gloria dei paramenti papali e, in generale, dei prelati della Chiesa. Vale la pena ricordare che tali tradizioni risalgono agli imperatori romani, ma non hanno nulla a che vedere con i poveri artigiani e i contadini mediterranei di Nazareth.

Sorprendentemente, si è presentato prima come vescovo di Roma, e poi come Papa per animare la Chiesa universale e, come sottolineò, non con il Diritto Canonico, ma con l'amore.
Ha scelto il nome Francesco perché San Francesco d’Assisi è l’«esempio per eccellenza dell’attenzione e per una pulizia integrale vissuta con gioia e autenticità (Laudato sì, n. 10), che chiamava tutti gli esseri con il dolce nome di fratello e sorella».

Non voleva vivere in un palazzo papale, ma in una casa per gli ospiti, Santa Marta. Aspettò in fila per mangiare, come tutti gli altri, e commentò con umorismo: in questo modo è più difficile per me essere avvelenato.

Al centro della sua missione ha posto la cura e la preferenza per i poveri, in particolare per i migranti. Una volta disse con franchezza: "Voi europei siete stati lì per primi, avete occupato le loro terre e le loro ricchezze e siete stati accolti. Ora essi sono qui e voi non siete disposti ad accoglierli". Con tristezza, constatava la globalizzazione dell’indifferenza.

Per la prima volta nella storia del papato, Papa Francesco ha incontrato diverse volte i movimenti sociali mondiali. Vedeva in loro la speranza di un futuro per la Terra, perché la trattano con cura, coltivano l'agroecologia e vivono in una democrazia popolare e partecipativa. Ha ricordato ripetutamente i loro tre diritti fondamentali negati: la terra, la casa e il lavoro. Devono iniziare da dove si trovano, perché è lì che si può costruire una comunità sostenibile. Con ciò ha legittimato un intero movimento globale, il “bioregionalismo”, come via per superare lo sfruttamento e l'accumulazione di pochi, e ottenere una maggiore partecipazione e giustizia sociale.

In questo contesto ha scritto due encicliche straordinarie: “Laudato sì: sulla cura della casa comune” (2020), che presenta un’ecologia integrale che coinvolge ambiente, politica, economia, cultura, vita quotidiana e spiritualità ecologica. Nell’altra, “Fratelli tutti” (2025), a fronte del degrado diffuso degli ecosistemi, lancia un serio monito: «Siamo sulla stessa barca, ci salviamo tutti o nessuno» (n. 34). Con questi testi, il Papa si è posto all'avanguardia di un dibattito ecologico mondiale che va oltre la semplice ecologia verde e le altre forme di produzione che non mettono mai in discussione il sistema capitalista che, per sua logica, crea accumulazione a costo dello sfruttamento della maggioranza.

Papa Francesco proveniva da una teologia della liberazione di matrice argentina che sottolinea l'oppressione del popolo e il silenzio della cultura popolare. Fu discepolo del teologo della liberazione Juan Carlos Scannone, che ha citato in una nota a piè di pagina della “Laudato Si'”. Già da studente, e ispirato da questa teologia, fece una promessa a se stesso: visitare ogni settimana le "villas miseria". Entrava nelle case, si interessava ai problemi dei poveri e infondeva speranza in tutti. Per anni si è mantenuto in polemica con il governo, che applicava il welfare e il paternalismo come politiche statali. Diceva che in questo modo i poveri non sarebbero mai stati liberati dalla dipendenza. Ciò di cui abbiamo bisogno è la giustizia sociale, radice della vera liberazione dei poveri. In solidarietà con i poveri, viveva in un piccolo appartamento, cucinava loro i pasti e andava a prendere il giornale. Si rifiutò di vivere nel palazzo e di usare un'auto speciale.

Questa ispirazione liberatrice illuminò il modello di Chiesa che si proponeva di costruire. Non una Chiesa chiusa come un castello, immaginandola circondata da ogni parte dai nemici della modernità con le sue conquiste e libertà. A questa Chiesa chiusa, egli oppone una Chiesa che si rivolge ai bisogni esistenziali, una Chiesa come ospedale da campo che accoglie tutti i feriti, senza mettere in discussione il loro orientamento sessuale, la loro religione o la loro ideologia: basta siano esseri umani bisognosi.

Papa Francesco non si presentava come un dottore della fede, ma come un pastore che accompagna i fedeli. Chiedeva ai pastori di portare l’odore delle pecore attraverso la loro vicinanza e il loro impegno verso i fedeli, esercitando un ministero pastorale di tenerezza e amore.

Forse nessun papa nella storia della Chiesa ha mostrato tanto coraggio quanto lui nel criticare il sistema che uccide e produce due feroci ingiustizie: quella ecologica che devasta gli ecosistemi e quella sociale che sfrutta l'umanità fino allo spargimento di sangue. Mai nella storia si è verificata una tale accumulazione di ricchezza in così poche mani come adesso. Otto individui possiedono più ricchezza di 4,7 miliardi di persone. È un crimine che grida al cielo, offende il Creatore e sacrifica i suoi figli e le sue figlie.

In quanto pastore, il suo messaggio si basava soprattutto sulla figura storica di Gesù, amico dei poveri, dei malati, degli emarginati e degli oppressi che fu ucciso sulla croce con un duplice processo, uno religioso (per le offese alla religione del tempo e alla sua “presunzione” di essere Figlio di Dio) e l'altro politico, da parte delle forze di occupazione romane.

Non dava molta importanza alle dottrine, ai dogmi e ai riti, che comunque rispettava, perché riconosceva che con questi non si raggiunge il cuore umano. Per farlo, occorrono amore, tenerezza e misericordia. Una volta pronunciò una delle frasi più importanti del suo insegnamento: Cristo è venuto per insegnarci a vivere l'amore incondizionato, la solidarietà, la compassione e il perdono, valori che costituiscono il progetto del Padre che è al centro dell'annuncio di Gesù: il Regno di Dio. Lui preferiva un ateo sensibile alla giustizia sociale piuttosto che un fedele che frequenta la Chiesa ma non ha alcun riguardo per la sofferenza del prossimo.

Un tema ricorrente nei suoi sermoni era quello della misericordia. Per Papa Francesco la misericordia è essenziale. La dannazione è solo per questo mondo. Dio non può perdere nessun figlio o figlia che ha creato per amore. La misericordia trionfa sulla giustizia e nessuno può imporre un limite alla misericordia divina. Ammonì i predicatori a non fare ciò che era stato fatto per secoli: predicare la paura e instillare nella gente il terrore dell'inferno. Tutti, non importa quanto siano stati cattivi, sono destinatari della grazia e della misericordia divina.

Ovviamente non tutto ha valore in questo mondo. Coloro che hanno vissuto sacrificando altre vite, preoccupandosi poco di Dio o addirittura negandolo, attraverseranno la cura della grazia, dove riconosceranno i loro peccati e impareranno cosa sono l'amore, il perdono e la misericordia. Solo allora la cura di Dio, che non è l'anticamera dell'inferno, ma l'anticamera del paradiso, sarà aperta affinché anche loro possano partecipare alle promesse divine.

Con il suo appello ai poveri, con la sua coraggiosa critica dell'attuale sistema che produce morte e minaccia le basi ecologiche che sostengono la vita, con il suo amore appassionato e la sua cura per la natura e la nostra casa comune, con i suoi instancabili sforzi per mediare le guerre in nome della pace, è emerso come un grande profeta che ha proclamato e denunciato, ma ha sempre ispirato la speranza che possiamo costruire un mondo diverso e migliore. Con ciò, ha dimostrato di essere un leader religioso e politico rispettato e ammirato da tutti.

È indimenticabile l'immagine del Papa che cammina da solo in Piazza San Pietro sotto una pioggia sottile verso la cappella della preghiera, pregando Dio di salvare l'umanità dal coronavirus e di avere pietà dei più vulnerabili.
Papa Francesco onora l'umanità e sarà ricordato come una persona santa, gentile, amorevole ed estremamente umana. Grazie a figure come la sua, Dio ha ancora pietà della nostra malvagità e follia, e ci mantiene in vita su questo piccolo e meraviglioso pianeta.

di Leonardo Boff, 26 aprile 2025

 

Articolo originale: El Papa Francisco no es solo un nombre sino un proyecto de Iglesia y de mundo

https://www.telesurtv.net/opinion/boff-papa-francisco-proyecto-mundo/

 

Traduzione a cura di Luigi M., Patria Grande/CIVG

 

 


 

TELESUR (VENEZUELA) / ANALISI / ARGENTINA

Militarizzazione in democrazia

 

 

Il governo di Milei si sta preparando a ricevere questa settimana il capo del Comando Sud degli Stati Uniti (SOUTHCOM), l'ammiraglio della Marina Alvin Holsey, che visiterà anche la base navale di Ushuaia. Nel frattempo, il potere esecutivo sta rapidamente implementando il suo piano repressivo contro la classe operaia, esplicitamente allineato alla dottrina militare statunitense che include le Forze Armate dispiegate sul territorio nazionale, confondendo i confini tra sicurezza e difesa.

Il 14 aprile scorso, dallo Squadrone 52 della Gendarmeria Nazionale di Tartagal nella regione di Salta, il Ministro della Sicurezza Nazionale Patricia Bullrich e il Ministro della Difesa Luis Petri hanno presieduto un evento che ha segnato una svolta nella politica di difesa e sicurezza interna del Paese: il lancio ufficiale dell' "Operazione Presidente Julio Argentino Roca", in concomitanza con la seconda fase del Piano Güemes.

Quest'ultima, originariamente concepita per rafforzare la presenza dello Stato nelle zone di confine attraverso operazioni di controllo della criminalità organizzata, viene ora rafforzata con dispiegamenti militari ampliando la sua portata territoriale e incorporando nuove sedi sotto la forma di "zone speciali di indagine" nel quadro della Legge Antimafia.

Affiancati dal governatore Gustavo Sáenz e dalle autorità militari nazionali e provinciali, hanno annunciato l'avvio di un'operazione congiunta per rafforzare la presenza dello Stato nella parte settentrionale del Paese, con un’intenzione di guerra al narcotraffico. Ma sotto questa copertura si nasconde un profondo e pericoloso avanzare della militarizzazione degli affari interni dell'Argentina.

La Operación Roca prevede l'impiego di oltre 10.000 militari nella Zona di Sicurezza del confine settentrionale e nord-orientale, con il supporto di droni, radar mobili, elicotteri e aerei da ricognizione. Questo dispiegamento si basa sulla Risoluzione 347/2025 del Ministero della Difesa, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l'11 aprile, che fissa la data di inizio al 15 aprile e prevede di prorogarla fino al 15 dicembre. L'intervento delle Forze Armate è legittimato dal Decreto 1112/2024, che ne ridefinisce il ruolo e ne consente la partecipazione diretta alle attività di controllo del territorio. Tale regolamento abroga lo spirito del decreto 727/2006, che limitava espressamente le sue azioni alle aggressioni esterne perpetrate da altri Stati.

Uno degli aspetti più preoccupanti di questa nuova dottrina è l'approvazione delle Regole di Ingaggio, un documento riservato, secondo la risoluzione ministeriale, che stabilisce i criteri per la condotta del personale militare sul terreno. La mancanza di informazioni pubbliche su queste regole apre la strada a interventi privi di un'efficace supervisione civile, dove i limiti all'uso della forza risultano confusi o del tutto sconosciuti. Come ha sottolineato il Centro de Estudios Legales y Sociales (CELS), ciò crea uno scenario di enorme arbitrarietà, in cui i cittadini non conoscono i poteri di coloro che portano le armi dello Stato.

Il caso di Brisa Páez sembra fornire alcuni indizi. Il 17 aprile è stato riferito che un giovane militare della Marina ha subito una grave lesione cerebrale mentre veniva addestrato alle tecniche antisommossa presso una base navale di Vicente López, Buenos Aires. L'incidente mette pubblicamente in luce il passaggio delle Forze Armate a funzioni di polizia, nel contesto di un caso oggetto di indagine per aggressione deliberata e violenza di genere ai danni della vittima.

Il rapporto preliminare della Procura Federale indica inoltre che Páez era in Marina da soli quattro mesi e non aveva ricevuto alcuna formazione per questo tipo di esercitazioni, concepite per simulare risposte a potenziali disordini. Sebbene ufficialmente presentate come pratiche di contenimento interno, settori del governo nazionale hanno ripetutamente ipotizzato il possibile intervento delle forze armate in posti di blocco o proteste, una proposta che è stata duramente criticata dalle organizzazioni per i diritti umani.

La giustificazione di questa militarizzazione si basa sul concetto delle "nuove minacce", una dottrina che serve gli interessi geopolitici degli Stati Uniti e confonde i confini tra difesa nazionale e sicurezza interna. In questa logica, il traffico di droga, l’emigrazione, la povertà e perfino le proteste sociali vengono etichettate come “rischi strategici”. La narrazione ufficiale costruisce un nemico interno – le “bande criminali” che occupano il territorio – che deve essere rimosso con la forza, anche a costo di violare i diritti fondamentali.

La scelta del nome dell'operazione – "Roca" – in coincidenza con l'anniversario del genocidio noto come Campagna del Deserto, non è innocente. Né lo è l'incorporazione del 28° Reggimento di Fanteria di Montagna noto come "Le Ginocchia Nere", la cui partecipazione all'ultima dittatura è provata dalle cause per crimini contro l'umanità. L'intero sistema indica un desiderio di restaurazione autoritaria che punta a intorbidire il consenso democratico sul ruolo delle Forze Armate. Ciò rafforza ulteriormente la logica provocatoria di un'amministrazione che ignora la memoria storica e promuove la vendetta militare. Petri lo ha detto senza giri di parole: dobbiamo ribaltare il “pregiudizio ideologico” che ha “cancellato” le Forze Armate.

La militarizzazione del confine settentrionale con il pretesto di combattere il narcotraffico non solo ignora l'evidenza della sua inefficacia, ma consente anche la repressione contro la classe operaia, come già accaduto con l'assassinio del giovane contrabbandiere Fernando Martín Gómez a Orán per mano della Gendarmeria Nazionale. La costruzione del nemico interno è uno strumento funzionale a questo modello: la criminalizzazione del territorio e dei suoi abitanti – contadini, migranti, lavoratori precari, popolazioni indigene – va di pari passo con il tentativo di disciplina sociale in tempi di assestamento economico.

La ridefinizione delle minacce consente di includere nella categoria di rischio non solo il traffico di droga, ma anche le organizzazioni sociali, sindacali e comunitarie. Si tratta di uno spostamento istituzionale che indebolisce il controllo civile sulle Forze Armate e compromette lo Stato di Diritto. L'Argentina sta sperimentando una politica di militarizzazione senza dibattito pubblico né controllo democratico. In nome della difesa e della sicurezza, il governo sta portando avanti un modello che combina sottomissione geopolitica, repressione interna e distruzione delle garanzie costituzionali.

Emilia Trabucco, Telesur, 29 aprile 2025

 

Articolo originale:

Militarización en democracia: Visita del Comando Sur, Operación Roca y Plan Güemes

https://www.telesurtv.net/opinion/militarizacion-en-democracia-visita-del-comando-sur-operacion-roca-y-plan-guemes/

 

Traduzione a cura di Luigi M. Patria Grande/CIVG

 

 


 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / LA POLITICA DEI DAZI

Nuovo ordine mondiale o miraggio regionale?

 

 

Il presidente statunitense che vuole essere protagonista della storia e ricordato come un «pacificatore», ha già realizzato una parte dei suoi desideri: avvicinare il mondo. Ma non contava sul fatto che l’avvicinamento fosse contro di lui.

La sua amministrazione, con il chiaro messaggio di «America first», ha dimostrato con la sua politica di guerra dei dazi che tralascia tutto ciò che ha a che fare con la lealtà nei confronti dei paesi che sono stati suoi alleati, sia economici che militari.

L’inizio di quello che Trump ha chiamato il «giorno della liberazione degli Stati Uniti» ha spinto varie nazioni ad applicare misure e riallacciare vecchie alleanze per mitigare gli effetti dei dazi. I governi del Messico e del Canada hanno deciso di riprendere il gioco del vicino che tassa dal momento che la Casa Bianca non ha rispettato nemmeno il Trattato di Libero Mercato.

L’Unione Europea, dal canto suo, non si è piegata alle minacce: molti paesi hanno promesso di rispondere alle nuove imposizioni, informa Russia Today.

In Asia, le tre potenze del continente si sono alleate: Cina, Giappone e Corea del Sud si sono riunite, alla fine della scorsa settimana, per la prima volta doppo cinque anni.

La narrativa ufficiale punta a una semplice cooperazione per rinforzare le catene commerciali fra i tre paesi, e la Cina è interessata ai prodotti d’alta tecnologia dei suoi vicini. Indubbiamente, l’incontro sembra celare una motivazione più profonda, ovvero la necessità di proteggersi dalle tasse imposte da Washington. L’accordo promette di affrontarle «da un terreno globale che permetta commercio e investimenti liberi, aperti, giusti e non discriminatori; trasparenti, inclusivi e prevedibili», si legge nel comunicato circolato dopo la riunione.

Si vuole creare un ambiente di affari e investimenti programmati che prevedano il rafforzamento delle catene degli approvigionamenti.

Vari analista parlano della nascita di un blocco commerciale con una chiara intenzione strategica: sfidare il dominio statunitense nella regione che potrebbe anche segnare la fine del multilateralismo, dando il passo a un’era di regionalismi economici.

La realtà è che le politiche dei dazi imposti da Washington stanno stimolando le tre potenze asiatiche che, secondo i dati della Banca Mondiale rappresentano approssimatamente un quarto dell’economia del mondo, a cercare un’alternativa al modello del commercio globale guidato dagli Stati Uniti.

Intanto, il 60% degli  statunitensi mostra scontento rispetto alla gestione Trump in politica estera, e un 58% in materia economica. Lo ha rivelato un’inchiesta realizzata dalla Associated Press, al centro dell’Indagine sui Temi Pubblici, sottolineando la crescente impopolarità del suo focus  protezionista.

Elizabeth Naranjo e GM per Granma Internacional, 3 aprile 2025

 

 


 


 

TELESUR (VENEZUELA) / ANALISI / INTEGRAZIONE DEL SUBCONTINENTE

CELAC, UNASUR o BRICS: el falso dilema de la integración regional

 

 

Si riapre il dibattito sul modo migliore per espandere gli scambi commerciali, culturali e politici in America Latina. La flessibilità strategica potrebbe rivelarsi una carta preziosa, soprattutto di fronte all'aggressione asimmetrica delle potenze.

Nel corso della IX sessione plenaria della Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici (CELAC), la Presidente del Messico Claudia Sheinbaum è tornata sul tema spinoso dell'integrazione: «Invito la CELAC a convocare un vertice per il benessere economico dell'America Latina e dei Caraibi per raggiungere una maggiore integrazione economica regionale basata sulla prosperità condivisa e sul rispetto della nostra sovranità", ha dichiarato sullo sfondo dell'aggressione degli Stati Uniti e della guerra commerciale di Trump. Con questa dichiarazione e il trasferimento della presidenza pro tempore alla Colombia, si è riaperto il dibattito.

L'integrazione torna in primo piano, anche se non esiste ancora un consenso sul percorso ideale per promuoverla. In Brasile l'espansione dei BRICS è una priorità. In Messico, la presidenza di López Obrador ha cercato di riattivare la CELAC come contrappeso all'Organizzazione degli Stati Americani (OSA) dopo le crisi politiche in Bolivia, Perù e Venezuela. In Colombia, Petro ha dichiarato che chiederà al prossimo presidente dell'Ecuador di riaprire la Segreteria Generale dell'UNASUR. In generale, i leader di Messico, Colombia e Brasile esprimono una volontà concreta di riattivare i meccanismi di cooperazione regionale, anche se permangono dubbi circa la mancanza di un quadro istituzionale dedicato. Ci ritroviamo gravati da un'esperienza frustrante.

L'ultima grande iniziativa di integrazione regionale è stata UNASUR. Inizialmente nota come Comunità Sudamericana delle Nazioni, il gruppo nacque da anni di sforzi durante la prima ondata di governi progressisti. I presidenti sudamericani firmarono il Trattato Costitutivo nel maggio 2008, entrato in vigore nel marzo 2011 in seguito alla ratifica parlamentare di nove dei dodici paesi che poi aderirono. Il Messico, allora prigioniero dei governi del PAN e forse anche condizionato dalla geografia, fu escluso da una celebrazione di breve durata.

L'UNASUR era un progetto ambizioso, nato dalla volontà politica e stimolato dagli ostacoli all'espansione del commercio regionale. C’erano simpatie ideologiche, ma anche catalizzatori concreti. Ad esempio, il desiderio di Bolivia, Ecuador e Venezuela di entrare a far parte del Mercosur era ostacolato dalla rigidità normativa. La creazione dell'UNASUR mirava non solo a unire i Paesi andini ai loro vicini meridionali, ma anche ad ampliare la cooperazione trasversale e il coordinamento geopolitico in un contesto di crescente multipolarità. Fin dalla sua nascita, l'UNASUR ha delineato l'adozione di una moneta comune (il "sud") e ha designato un Segretariato permanente con sede a Quito, in Ecuador. Nel corso della sua breve vita, ha istituito una governance e dei consigli settoriali che hanno costituito la spina dorsale dell'organizzazione. Ma non è riuscito a superare la fase iniziale di consolidamento e a sopravvivere al declino del primo storico blocco progressista.

La più grande debolezza fondante dell'Unasur fu la regola del consenso. L'articolo 12 del Trattato Costitutivo stabilisce che "tutti i regolamenti sono adottati per consenso", anche se in realtà implica l'unanimità, come è consuetudine nell'Unione Europea. Con la chiara intenzione di rispettare la volontà di tutti gli Stati, ha concesso di fatto il potere di veto a ciascun membro in tutti i processi decisionali.

Questo errore di progettazione istituzionale è stato un invito alla paralisi cronica. La mancanza di consenso ha impedito la nomina di un nuovo Segretario generale tra il 2017 e il 2019. In seguito alla reazione conservatrice, tra il 2018 e il 2020, sette dei dodici paesi membri hanno notificato al Trattato il loro ritiro e hanno abbandonato l'organizzazione. Tuttavia, l'esistenza giuridica internazionale persiste. Per Guillaume Long, ex ministro degli Esteri dell'Ecuador, sarebbe auspicabile un modello decisionale ibrido che sostituisca la regola del consenso. Tuttavia, a seconda della volontà politica attuale, le ombre di Milei e Noboa complicano la riattivazione dell'UNASUR.

Se rilanciare l'UNASUR è oggi un sogno irrealizzabile e la CELAC zoppica a causa della mancanza di un Trattato Costitutivo e di un organo burocratico permanente, una terza opzione potrebbe essere rappresentata dai programmi tematici dei BRICS. Un esempio è l'adozione di una moneta comune che opererebbe secondo un sistema duale anziché dominante come l'euro. Secondo la proposta attuale, ogni Paese membro manterrebbe la propria moneta e introdurrebbe la nuova denominazione nel commercio internazionale.

Ogni membro depositerebbe oro come garanzia presso la banca centrale dei BRICS che regolerebbe l'offerta di valuta. In futuro, le nazioni potrebbero accumulare riserve nella nuova valuta quando una banca centrale o la Nuova Banca di Sviluppo creeranno attività finanziarie fruttifere di interessi. In questo caso, i Paesi latinoamericani membri di questa rete potrebbero ridurre la loro dipendenza dal dollaro e integrarsi indirettamente sotto l'ampio ombrello dei BRICS. Altre possibilità saranno aggiunte lungo il percorso.

Innanzitutto, UNASUR, CELAC e BRICS sono meccanismi simbiotici e non si escludono a vicenda. Quando il peso dell'ingegneria istituzionale diventa eccessivo, la CELAC fungerebbe da forum politico per rispondere rapidamente alla situazione. Tuttavia, l'ampiezza conferita dai trentatré membri renderebbe difficile raggiungere accordi vincolanti sulla governance e sullo sviluppo regionale. Nei momenti critici, quando la legittima divergenza degli interessi nazionali può rappresentare un limite, i BRICS e la loro piattaforma emergente possono rappresentare un'alternativa migliore. La flessibilità strategica rappresenterebbe una risorsa preziosa per i paesi latinoamericani, soprattutto di fronte all'aggressione asimmetrica da parte dei paesi più potenti.

È positivo che Sheinbaum, Lula e Petro stiano rilanciando il programma di integrazione. Tuttavia, con le imminenti elezioni in Brasile e Colombia, il Messico dovrà fare pressione sulla loro leadership per impedire che una reazione conservatrice come quella che ha affondato l'UNASUR ne metta a freno lo slancio. Come un faro all'orizzonte, non esiste un unico percorso integrativo. Scegliere tra CELAC, UNASUR o BRICS è un falso dilemma. Oggi, i paesi dotati della necessaria volontà politica devono scegliere l'opzione "tutto quanto" come rotta verso un'integrazione regionale se vogliamo imperfetta e incompleta, però possibile.

Mario Campa, 1° maggio 2025

 

Articolo originale: CELAC, UNASUR o BRICS: el falso dilema de la integración regional

https://www.telesurtv.net/opinion/celac-unasur-brics-integracion/

 

Traduzione a cura di Luigi M., Patria Grande/CIVG

 

 

 


 


 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / CELAC

Cuba resterà sempre fedele agli impegni per rafforzare la Celac

 

 

«Affrontare le sfide attuali, collocando gli interessi e gli obiettivi comuni al di sopra delle differenze e attuando come un’autentica comunità regionale», è stata una delle proposte di Cuba al IX Vertice della Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici, espressa dal Presidente della Republica di Cuba Miguel Díaz-Canel, che ha così proseguito: «Cuba resterà sempre in prima linea rispetto agli impegni per rafforzare la Celac e procedere verso l’integrazione che permetterà di ridare una collocazione all’America Latina e ai Caraibi nello scenario internazionale».

La presidente honduregna Iris Xiomara Castro Sarmiento che ha ospitato il Vertice, si è detta certa che la Celac supererà non solo le sfide attuali, ma manterrà vivi i sogni dei popoli latinoamericani e dei padri fondatori Bolívar, Morazán, Martí, Sandino, Fidel e Chávez.

Presidente pro tempore del Vertice dal marzo del 2024, Xiomara Castro ha consegnato l’incarico alla Colombia e a Gustavo Petro sottolineando che «niente di ciò che hanno fatto e per cui hanno lottato i nostri popoli è passato: tutto è presente e tutto è futuro», e ricordando le parole del comandante Hugo Chávez: «L’utopia è l’orizzonte, cammineremo verso di lei per non smettere di camminare».

Con la partecipazione di undici capi di Stato e di Governo e l’intervento virtuale del presidente venezuelano Nicolás Maduro, al Vertice erano presenti anche vice presidenti, cancellieri e altri dignitari di 33 paesi della Celac.

La riunione ha approvato una dichiarazione finale che analizza temi cruciali per la regione come l’integrazione, la cooperazione e la solidarietà, l’emigrazione, la nuova politica deI dazi USA e le misure unilaterali contro i nostri popoli; che sostiene l’impegno con il rafforzamento della Celac come meccanismo di concertazione politica formata da tutti i Paesi della regione; e che sottolinea il proclama dell’America Latina e dei Caribi come Zona di Pace approvata nel II Vertice della Celac, all’Avana, con la guida del Generale dell’Esercito Raúl Castro Ruz.

Sono stati ratificati principi come la cooperazione internazionale, la democrazia, lo stato  di diritto,  il multilateralismo, la protezione e la promozione di tutti i diritti umani, il rispetto all’autodeterminazione, la non ingerenza nei temi interni, la sovranità e l’integrità territoriale, ed è stata respinta l’imposizione di misure coercitive unilaterali. È stato condannato con veemenza il blocco economico, commerciale e finanziario contro Cuba imposto dagli Stati Uniti, così come l’inclusione dell’Isola nella lista nera dei paesi presunti patrocinatori del terrorismo.

Xiomara Castro ha detto che è un blocco  «crudele, disumano, che fa soffrire da più di 64 anni l’eroico popolo cubano» ed ha aggiunto che «Cuba non esporta terroristi, ma esporta maestri, scienziati, medici e la dignità che i nostri popoli rivendicano».

La richiesta di solidarietà con Haiti e che il suo destino sia determinato dal suo popolo e non dall’ingerenza straniera è stata un consenso.

Il presidente colombiano, Gustavo Petro, ha sottolineato che oggi il mondo, e in particolare Nuestra América, si trovano a un bivio: il cammino della solitudine – riferendosi alle politiche protezioniste e isolazioniste della nuova amministrazione statunitense – o quello del multipolarismo, che è quella a cui i nostri governi e popoli devono aderire se non vogliono sparire: «L’America Latina non può abbassare la bandiera della dignità umana e questa sta nel multipolarismo, l’altro è monarchia». L’operato dei nostri popoli, ha ripetuto, dev’essere comune, come ci ha insegnato il covid, che ci ha lasciato una media di mortalità più alta mentre aspettavamo le vaccinazioni, che arrivarono tardi. «Però Cuba ci diede l’esempio di come si deve fare. Perchè non abbiamo fatto come ha fatto Cuba a scala latinoamericana? Perchè non ci leghiamo alla vita invece che alla morte?».

Le sfide che si affrontano oggi nel mondo e nella regióne sono state analizzate dalla presidente  messicana Claudia Sheinbaum: «È un buon momento per riconoscere che l’America Latina e i Caraibi necessitano unità e solidarietà tra i loro governi e i loro popoli, per rinforzare l’integrazione. Siamo partiti dal Messico con una promessa: una regione più unita è una regione più forte», ha detto, aggiungendo che: «Nessun paese dell’America Latina e dei Caraibi deve restare indietro, nessun bambino o bambina dell’America Latina e dei Caraibi deve restare indietro, nessun uomo o donna dell’America Latina e dei Caraibi deve restare indietro. No, al blocco a Cuba, e no al blocco al Venezuela».

Il presidente brasiliano, Luiz Inacio Lula da Silva, ha affermato che «i nostri popoli ora più che mai necessitano l’unità, ma la realtà, almeno nella sfera economica, ci contraddice, perché lo scambio commerciale inter-regionale è di appena il 14% dei beni che qui si producono».

Alla stessa stregua si è pronunciato il presidente boliviano, Luis Arce Catacora, che ha espresso l’impegno del suo Paese «in un’integrazione basata sulla complementarità, il riconoscimento delle asimmetrie e sulla solidarietà».

Hanno preso la parola anche i presidenti dell’Uruguay, Yamandú Orsi, e del Guatemala, Bernardo Arévalo, così come i primi ministri di San Vicente y las Granadinas, Ralph Gonsalves, e della Guyana, Mark Phillips.

Il presidente venezuelano, Nicolás Maduro Moros, ha assicurato che la Celac ha grandi impegni perchè «la nostra unione deve reinventarsi e adattarsi in maniera creativa a questi tempi, che sono in pieno divenire». Poi ha affermato che l’offensiva in atto contro il mondo intero, contro la nostra regione per cercare d’imporre un’epoca di dominio imperiale, ci obbliga al risveglio collettivo della coscienza dei popoli e dei governi, di noi che amiamo la nostra sovranità e la nostra autodeterminazione, e sentiamo un amore profondo per il sogno di un futuro di libertà, di sovranità e indipendenza con la prosperità guadagnata dai nostri popoli».

René Tamayo León e GM per Granma Internacional, 9 aprile 2025

 

 


 


 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / DIRITTI UMANI NEGLI STATI UNITI

USA: la nuova legge sul lavoro minorile è un passo indietro

 

 

A fronte delle difficoltà nel trovare lavoratori disposti a lavorare sottopagati e in condizioni precarie, il governatore repubblicano della Florida, Ron DeSantis, insieme con la legislatura statale, propongono una soluzione polemica: flessibilizzare il lavoro minorile.

Il progetto proposto a dibattito permetterebbe a ragazzini di 14 anni di lavorare su turni notturni quando la legislazione statale attuale proibisce che i minori lavorino prima delle 6:30 o dopo le 23.00.

DeSantis ha espresso apertamente il suo appoggio alla politica anti migratoria sostenuta dal presidente Donald Trump nonostante gli avvertimenti degli economisti sul rischio di una crescita dell’inflazione e della mancanza di mano d’opera.

Indagini svolte da organizzazioni come la Camera di Commercio ricordano che, già nel 2024, gli Stati Uniti stavano affrontando una crisi di carenza di mano d’opera, e hanno segnalato la Florida come uno degli stati più danneggiati con solo 53 lavoratori disponibili per ogni cento posti vacanti.

Questa carenza si osservava in settori come la costruzione, l’agricoltura e altri posti di lavoro occupati tradizionalmente da emigranti. Va tenuto presente che, nel 2023, in Florida si promulgò una legge che obbligava i datori di lavoro a verificare lo status migratorio dei lavoratori attraverso la base dati federale E-Verify. Il mancato rispetto di questa norma costa multe di mille dollari al giorno.

La nuova legislazione elimina le restrizioni d’orario per gli adolescenti di 14 e 15 anni che studiano a casa, e sopprimerebbe le pause pasto obbligatorie per i giovani di 16 e 17 anni.

Le Statistiche del Dipartimento del Lavoro degli USA rivelano che le violazioni delle leggi sul lavoro infantile in Florida sono triplicate negli ultimi anni. Si tratta di un chiaro passo indietro rispetto alla Convenzione dei Diritti del Bambino.

Unicef fonda il suo lavoro sulla Convenzione dei Diritti del Bambino, il trattato internazionale più ratificato della storia. L’Articolo 32 recita - No al lavoro infantile - stabilisce che i bambini e le bambine abbiano il diritto di essere protetti contro lo sfruttamento economico. Inoltre, esistono norme internazionali promosse dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT). L’Articolo 138 stabilisce che l’età minima d’ammissione al lavoro non debbas essere inferiore all’età in cui termina la scolarizzazione obbligatoria. La maggioranza dei paesi firmatari hanno fissato l’età minima per lavorare a 15 anni.

Quest’accordo è stato ratificato da 175 paesi, ma gli Stati Uniti non sono tra questi.

Raúl Antonio Capote e GM per Granma Internacional, 30 marzo 2025

 

 


 

 

GRANMA (CUBA) / ESTERI / AMMINISTRAZIONE USA

La menzogna e il fascismo si tingono di Rubio

 

 

Un esponente chiave della geo-strategia del Comando Sud contro l’America Latina e i Caraibi si aggira per i paesi della regione su ordine dell’imperatore di riconquistare il cortile di casa usando come pretesto un arsenale di menzogne e intimidazioni che ricordano tanto i piani e le operazioni di un’era precedente, come il Plan Condor.

Dal Capitolio, Marco Rubio, un losco ex senatore, capo della mafia anticubana e responsabile di intrighi golpisti contro la Bolivia, l’Honduras, il Venezuela, il Brasile o il Nicaragua, coronato dal Führer di turno come primo Segretario di Stato del suo secondo mandato, è l’espressione diafana della nuova era guerrafondaia ed estremista che minaccia le relazioni tra l’impero e il resto dell’emisfero, che non rispetta gli alleati e non concepisce la convivenza pacifica civile.

Protagonista delle peggiori cause contro Nuestra America, a favore del primato della metropoli sulle colonie, dell’impero sui sudditi di «quinta categoria», arriva come grande inviato del diavolo sia a Panama che a Buenos Aires o a San Salvador: con la frusta in mano, per ricattare, avvertire, fare pressioni, porre condizioni, sovvertire, assediare, imporre prezzi, cospirare, mentire e minacciare

Cina, Russia, Iran, Venezuela, Cuba, Nicaragua con vecchie formule dell’inganno, come la presunta volontà politica del Governo degli USA nella guerra contro il terrorismo, le droghe, la migrazione, i conflitti... Distruggere la collaborazione medica cubana è una priorità, va nella cartella delle intimidazioni e dei condizionamenti per toglierli dal gioco e mettere in ginocchio gli interlocutori, visti anche come dipendenti usa e getta, in perfetta ottica trumpista: «Loro hanno bisogno di noi, noi non abbiamo bisogno di loro. Tutti hanno bisogno di noi».

Non ci sono eccezioni possibili nella visione egocentrica, prepotente e di disprezzo di chi vuole essere il padrone del mondo e dei “peones” del bambino viziato che vuole tutto, ma non piange: minaccia e, infine, si appropria con la forza e senza riguardi dei capricci che non gli appartengono, impone i suoi disegni come il grande dittatore che tanti intravvedono.

A questo va il suo inviato (di Trump) della doppia agenda, con una nuova versione della Dottrina Monroe: l’America agli americani (del nord), con catene e tasse, ma senza carota. A eseguire ordini e vedere cosa si può ricavare e fino a dove si può arrivare nella vile ossessione contro Cuba e Venezuela, il grande affare degli ultimi anni, anche se sempre più discusso per la sua complicità con i razzisti, le deportazioni di massa che violano il diritto internazionale e gli accordi unilaterali, la stigmatizzazione dei migranti venezuelani, le misure per espellere i cubani e togliere loro qualsiasi possibilità di restare o di giungere al territorio statunitense, togliendosi la maschera e mostrando i canini vampireschi, oltre al suo alto coinvolgimento nello sterminio del popolo palestinese.

Dalla Guyana, minacce d’invasione militare in Venezuela e vergognosi avvertimenti che hanno ricevuto una forte risposta dal Governo Bolivariano e dalle sue forze armate. Dalla Giamaica l’attacco alla solidale collaborazione medica cubana, che ha definito «una pratica atroce», e ha detto che andava a parlare con i paesi dei Caraibi che ne usufruiscono. Al volo, il suo interlocutore gli ha risposto che la presenza medica cubana è di grande aiuto per il popolo giamaicano, che ha bisogno di quei servizi. Di fronte ad atroci menzogne, risposte coraggiose per alfabetizzare la bestia, che

da Caracas ha ricevuto un’alta qualifica: «Imbecille!»

Francisco Arias Fernández e GM per Granma Intrenacional, 30 marzo 2025

 

 


 

 

GRANMA (CUBA) / ANALISI / TECNOLOGIA E CAPITALISMO

Tecno-feudalesimo nuovo volto del capitalismo?

 

 

 

Negli ultimi tempi ha avuto molta risonanza il libro Tecno-feudalesimo dell’autore greco Yanis Varoufakis, che offre interessanti spunti di analisi delle trasformazioni del capitalismo nella sua fase digitale.

Varoufakis argomenta sulle grandi corporazioni tecnologiche che hanno rimpiazzato le tradizionali dinamiche della competenza capitalista con monopoli basati sul controllo delle piattaforme digitali. Questo modello, secondo l’autore, non solo concentra richezza, ma anche potere politico, erodendo le basi della democrazia e instaurando nuovi rapporti di dipendenza che ricordano il feudalesimo medievale, anche se con caratteristiche inedite, particolarmente connotate dall’emergere di una dimensione digitale su scala globale.

Anche se la sua analisi rappresenta un valido contributo di riflessione sulle irreversibili trasformazioni che avvengono nel sistema capitalista, presenta alcuni limiti che potrebbero condurre a conclusioni imprecise, e quindi a errori politici e strategici.

In primo luogo, tenta  di spiegare le particolarità del nuovo sistema di sfruttamento basandosi su rapporti di produzione del passato. In altre parole, spiega il tecno-feudalesimo come metafora per descrivere le trasformazioni che osserviamo, ma non sembra offrire un’analisi concreta dei nuovi rapporti di produzione che stanno emergendo.

Se, come dice  Lukács, la storia è lo l’evoluzione delle classi, possiamo stabilire che, anche se Varoufakis offre una lettura suggestiva dell’evoluzione del capitale e del sorgere del tecno-feudalesimo, la sua analisi sembra limitata dall’urgenza di concettualizzare nuovi fenomeni mentre allo stesso tempo continua a essere ancorato a categorie del passato.

La sua lettura sembra non colga una differenza sostanziale tra il lavoro nel feudalesimo e il lavoro nel sistema attuale. Mentre il primo aveva principalmente a che fare con la terra, il secondo si sviluppa nella virtualità. Questa caratteristica differenzia sostanzialmente la produzione odierna della vita sociale quotidiana poiché non si basa solo sullo sviluppo di un passato processo produttivo che implica lo sfruttamento del lavoro, ma allo stesso tempo costituisce un rapporto fondamentale tra l'essere sociale e le cose che porta a un processo di alienazione con caratteristiche nuove e particolari che alterano la soggettività e il senso comune.

 

Lavorare per altri senza retribuzione

Sicuramente lo sviluppo delle forze produttive ha generato nuovi meccanismi di sfruttamento e dominio, e l’introduzione delle tecnologie digitali ha generato pressione sulle tradizionali categorie del capitale. Ma certamente questo non giustifica la trasformazione del concetto di reddito, che non coglie pienamente la profondità dei cambiamenti strutturali.

Infatti, andrebbe anche osservato come oggi la riduzione dei tempi di produzione ha perso centralità nel processo d’accumulazione del capitale, che si è spostato verso l’appropriazione del tempo. In altre parole, la virtualità funziona come una nuova fabbrica, capace di sfruttare il lavoro durante il tempo che prima era dedicato al riposo. Anche se questo fenomeno presuppone nuovi meccanismi, il processo di generazione del plus valore si consolida e funziona grazie allo sviluppo di mezzi di produzione che ampliano la scala dello sfruttamento e il grado di penetrazione dei processi produttivi nella vita sociale. È un po’ come… il Pokemon, uno dei primi giochi dell’era della connessione permanente, dove per avere successo si doveva restare sempre connessi e non smettere mai di operare...

I dati rilevati dall’interazione degli utenti furono utilizzati per lo sviluppo di nuovi modelli. Anche se questi nuovi schemi produttivi sono difficili da analizzare, si può dire che perpetuano alcune caratteristiche chiave del sistema di produzione capitalista, come lo sviluppo costante del capitale per accumulo della ricchezza prodotta socialmente.

Pertanto, non possiamo dire che questi fenomeni non costituiscano un preciso cambiamento nello sviluppo del capitale, ma non possiamo nemmeno spiegarli solamente a partire dal reddito. Sembrerebbe invece che quella che Varoufakis chiama la «vendetta del reddito», non sia altro che una nuova forma di profitto a vantaggio del capitale.

Alla stessa stregua, anche se l’emergere dei giganti tecnologici ha consolidato i monopoli, non possiamo dire che la loro costituzione e dinamica stiano approfondendo i meccanismi del mercato e del capitale. Al contrario, attraverso questi meccanismi si possono spiegare la crescente contesa per appropriarsi della nostra attenzione, che ha portato queste compagnie a sviluppare tecnologie sempre più ubique e pervasive. Non c’è dubbio che l’irruzione delle tecnologie digitali abbia trasformato profondamente i dispositivi e i meccanismi di potere nelle società borghesi, giungendo al punto di mettere in crisi le democrazie degli Stati-Nazione tradizionali. In questo senso, i capitali tecnologici svolgono un ruolo cruciale nel condizionamento politico e ideologico degli insiemi sociali, non solo per la loro influenza nelle cerchie strutturate, ma anche per gli stessi dispositivi che utilizzano come mezzi di produzione.

 

In cammino verso un post-capitalismo?

Forse non è il caso di avventurarci in classificazioni arcane definendo questi nuovi ruoli come «signori tecno-feudali», perché in realtà svolgono semplicemente il solito ruolo di una aristocrazia finanziaria e tecnologica, che ha le sue origini, come personificazione del capitale, nella Rivoluzione Francese analizzata da Marx. È comunque legittimo sostenere, como fa Varoufakis, che questa fase del capitalismo potrebbe essere in transito verso un nuovo sistema. Anche se le categorie fondamentali del capitalismo sono ancora attuali per definire e descrivere l’economia globale, l’avanzare tecnologico e la trasformazione dei rapporti di lavoro potrebbero mettere le basi per un sistema post- capitalista.

Certo, per far sì che questa trasformazione si concretizzi, sarà necessario un cambiamento nelle relazioni sociali fondamentali che superi la dipendenza del capitale rispetto al lavoro umano, cosa che fino ad ora continua ad essere il nucleo di questo modo di produzione. Le proposte audaci e dirompenti dei quadri teorici classici sono centrali quando si vogliano fare letture dei tempi che cambiano.

Senza dubbio, la verifica delle nostre diagnosi è una necessità imprescindibile, dal momento che determina le possibilità di costruire un progetto e un programma su iniziativa delle classi subalterne che sostengano i processi di cambiamento.

Sbagliare la diagnosi è, oggi più che mai, un errore strategico. Il lavoro umano, come capacità creativa, come forza viva al centro del dibattito in tempi nei quali è ancora possibile disputare un nuovo sistema senza sfruttati o sfruttatori, è un’arma fondamentale contro i fatalismi – chissà  se innocenti o no – che insinuano determinate analisi politiche, per quanto ben intenzionate siano.

Lucas Aguilera(*) e GM per Granma Internacional, 8 aprile 2025

 

(*) Master in Politiche Pubbliche e Direttore delle Investigazioni dell’agenzia argentina Nodal

 

 

 



 

GRANMA (CUBA) / COMMENTO / ANCORA DISINFORMAZIONE SUI MEDICI CUBANI

I nostri medici sono l’orgoglio di Cuba e di molte nazioni del mondo

 

 

Cosa c’è dietro il nuovo attacco chirurgico intrapreso dalla nuova amministrazione degli Stati Uniti contro la Sanità Pubblica cubana, e in particolare contro le missioni estere dei servizi medici? In cosa consiste? Cosa fanno e quali compiti assolvono questi servizi al Paese e al mondo?

Il Capo di Stato cubano ha denunciato che l’imperialismo ha bloccato praticamente tutti gli accessi di Cuba a mercati e risorse finanziarie indispensabili a qualsiasi economia, e ora punta in maniera particolare contro l’esportazione dei servizi medici perchè cosciente – non è un segreto – che la formazione e la preparazione del personale della salute è una forza della società cubana.

Il presidente ha conversato con il ministro di Salute Pubblica, José Angel Portal Miranda, con il collaboratore e segretario generale della Croce Rossa Cubana, Carlos Ricardo Pérez, e con Luther Castillo, ministro nel gabinetto honduregno, laureato alla Scuola Latinoamericana di Medicina (ELAM).

Il podcast è stato preso di mira dalla campagna anticubana che punta a screditare il servizio dei medici all’estero sostenendo che «è schiavismo», che «il governo non li paga» e con loro «il Governo si arricchisce».

Minare «o tentare di contaminare i media tradizionali e le reti sociali con questi messaggi è solo una parte del cinico piano che la destra più reazionaria d’origine cubana ha concepito», ha sottolineato il  Presidente.

 

Cos’hanno le brigate cubane che irrita tanto il Governo statunitense?

È la domanda che ha subito posto il Presidente cubano al titolare del Minsap, che ha spiegato la struttura della cooperazione internazionale, la storia, i risultati e l’uso delle risorse finanziarie ricavate. Ha riferito, prima di tutto, l’indiscutibile credito internazionale di cui godono i nostri collaboratori, non solo per la preparazione generale, ma per quello che sono riusciti a trasmettere al mondo in termini di solidarietà, ha commentato il Ministro.

Poi c’è l’apporto che la nostra cooperazione internazionale può dare alla sostenibilità del sistema di salute cubano, ci sono i servizi che qui sono gratuiti, ma che costano allo Stato e necessitano di risorse in divise: «Quel che è certo» ha aggiunto Portal Miranda, «è che la storia della nostra

collaborazione medica con il mondo è molto datata, risale all’inizio della Rivoluzione. Nel 1960 i medici cubani andarono in Cile, e da qui inviarono apparecchi e risorse. Quell’aiuto però non fu considerato la prima missione, che fu invece quella in Algeria nel 1963, quando il 23 maggio giunse la prima brigata permanente. Successivamente, Cuba iniziò la formazione di professionisti, sia domestica che all’estero, e ad ampliare la collaborazione medica in altre regioni in maniera gratuita, basata nella solidarietà internazionale, aiutando i Paesi che ne avevano bisogno e come parte del principio che ci ha insegnato il Comandante in Capo Fidel Castro Ruz di condividere quello che abbiamo. Durante questi anni circa 605 mila lavoratori della Salute (molti lo hanno fatto diverse volte, ma si conta ogni missione) hanno cooperato in 165 paesi, nei quali hanno realizzato circa 2,3 milioni di consultazioni. In questo momento siamo presenti in 56 paesi, con più di 24 mila collaboratori. La cooperazione medica in questi anni include la formazione di 87 980 studenti di 150 paesi, dentro e fuori Cuba, e 31 236 nella ELAM. Alla cooperazione medica cubana» ha ricordato Portal Miranda, «non partecipano solo dottori. Ci sono anche molti infermieri, dentisti,  operatori di logistica, tecnici di differenti rami e personale di supporto. È uno schema che ha indotto l’OMS a considerare il Sistema Nazionale della Salute e la Cooperazione medica cubana come punto di riferimento per il mondo. E non siamo stati solo in Paesi amici, ma abbiamo offerto servizi in nazioni con le quali non abbiamo relazioni diplomatiche. Tutto questo irrita chi organizza questa campagna contro la collaborazione medica cubana: l’esempio che siamo capaci di dare. Il riconoscimento che riceviamo dai governi dove prestiamo questa cooperazione dai professionisti di queste nazioni e, in particolare, dalla popolazione di questi paesi. I nostri medici a volte sono i soli che operano in ospedali dove gli altri professionisti non vanno, e molte volte offrono servizi a popolazioni che in altra forma non li riceverebbero nelle regioni in cui vivono.

 

Come si usano i ricavi?

Díaz-Canel ha chiesto come si usano le entrate in valuta che derivate dalle collaborazioni mediche, e su questo il titolare del Minsap ha spiegato vengono utilizzate fondamentalmente per il sistema cubano di Salute, per assistere la nostra popolazione: «A volte, come lei Presidente ha spiegato al paese, con una situazione economicamente difficile, per garantire il latte ai bambini, ma queste entrate si usano soprattutto per coprire le necessità in valuta per sostenere il Sistema di Salute in maniera gratuita. Per sostenere questi servizi è necessaria una percentuale di valuta, ma non copre tutto ciò che è necessario, per cui oggi lo Stato dedica il 26% del suo PIL alla Salute».

«La complessa situazione che attraversa il Paese» ha detto Díaz-Canel, «ha obbligato a usare parte delle entrate che si ricevono con l’esportazione dei servizi medici per comprare medicinali e sostenere il paniere familiare, e anche il settore energetico. Non ci sono dubbi che questa disperata campagna per bloccare la cooperazione cubana ha due propositi: chiudere qualsiasi possibilità di entrata di valuta anche per un’attività nobile e necessaria ad altre nazioni come i servizi sanitari. L’altra ragione è politica e ideologica: vogliono cancellare l’esempio di Cuba».

 

Schiavi della solidarietà e dell’amore per l’umanità.

Il dottor Carlos Ricardo Pérez, segretario generale della Croce Rossa Cubana, un medico che ha partecipato a più di una missione di solidarietà di quelle costruite per raccogliere compensi, ha affermato che «chiamare schiavo un uomo libero è offensivo e irrispettoso. Per rispondere a queste offese, basta ricordare il Giuramento d’Ippocrate che sottoscrivono i medici e con il quale s’impegnano a lavorare con coscienza e dignità, mettendo in priorità assoluta la salute e la vita del malato, e a mantenere l’onore e le nobili tradizioni della professione medica».

Il dottor Pérez ha spiegato come si formano le brigate mediche, come si stabiliscono i contratti, le retribuzioni che ricevono all’estero per i loro servizi e il relativo deposito a Cuba, il rispetto del salario che ricevono mensilmente nei centri di Salute e il rispetto dell’incarico che svolgevano prima di partire per l’estero.

A proposito delle parole di Ricardo Pérez, il Presidente ha segnalato che, di fronte a queste testimonianze, i nemici della Rivoluzione non potranno mai interiorizzare la vocazione di servizio, disinteresse e altruismo alla base delle professioni legate ai servizi sanitari.

Conversando  sulle missioni mediche, il Capo di Stato ha invitato il medico honduregno Luther Castillo, ministro di governo e laureato nella  ELAM, a condividere la sua esperienza.

Luther ha esposto una commossa valutazione della cooperazione cubana nella formazione del personale medico dei paesi del Sud Globale, e anche degli Stati Uniti.

 

Un’opera d’amore.

«C’è qualcosa che dura da tanto tempo come il blocco, ed è la cooperazione cubana nella sanità. Per più di 60 anni, ha prestato servizi in 165 paesi, assistendo milioni di persone e salvando vite in situazioni d’emergenza e disastri naturali» ha spiegato il Presidente, «e nella maggioranza dei casi non solo questa cooperazione è stata offerta in forma gratuita, ma è stata anche garantita la sua continuità, aprendo scuole per la preparazione delle risorse umane locali. Un governo interessato ai guadagni non formerebbe professionisti perché sarebbero dei concorrenti. Un sistema sanitario che si considerasse un business non risponderebbe alle chiamate di crisi umanitarie come l’epidemia di ebola o la pandemia di covid. È un’opera che è amore. E le menzogne non potranno uccidere verità così forti e grandi come le missioni delle brigate mediche cubane, perché quest’opera ci suscita solamente sentimenti d’orgoglio e gratitudine. È un’opera del genio umanista del Comandante in Capo Fidel Castro Ruz, che considerava la collaborazione medica cubana come esempio di solidarietà e umanesimo genuini».

René Tamayo León e GM per Granma Internacional, 18 aprile 2025