La disinformazione in ex Jugoslavia e Kosovo

 

LA DISINFORMAZIONE IN EX JUGOSLAVIA
E KOSOVO

 

Il linguista statunitense Noam Chomsky, nel saggio “Les illusioni necessarie”, scrive che, nei regimi democratici, le illusioni necessarie non possono essere imposte con la forza. Devono essere istillate nella testa della gente con mezzi raffinati…
 
E per creare “le illusioni necessarie” è necessario creare degli scenari credibili. Impiegare una comunicazione aggressiva e avere l’aiuto dei media: in due parole inventare la storia, propagare una disinformazione più credibile della realtà. La disinformazione si sviluppa attraverso la menzogna o l’omissione. In effetti è un nuovo modo di fare la guerra: è la guerra mediatica.
Nell’ ex Jugoslavia i Serbi sono caduti nella trappola della guerra mediatica, che è riuscita a far loro perdere ogni credibilità e li ha totalmente isolati sul piano internazionale. Non si può parlare della disinformazione in Kosovo senza ricordare quanto è successo in ex Jugoslavia prima, di cui il dossier Kosovo ne è una conseguenza.

L’eccellente lavoro di agenzie di comunicazione come Ruder&Finn Global Public Affaire, Hill&Knowlton, Saachi&Saachi, McCann&Erickson et Walter Thompson (queste ultime collaborano spesso con la CIA) è riuscito a creare l’immagine di vittime da un lato e di carnefici dall’altro, sia in Iraq che nell’ex Jugoslavia, e a minimizzare l’orrore della guerra con la formulazione di slogan come “guerra umanitaria”, “azione di polizia internazionale”, “danni collaterali”. L’agenzia di comunicazione impiega una tecnica operativa, spesso mortale, tendente a piazzare il governo cliente in posizione vantaggiosa agli occhi del mondo. Gli schemi sono ripetitivi. Una campagna di martellamento diffamatorio viene lanciata nella stampa, dove una serie di rivelazioni ignobili sul comportamento della parte avversa crea un pregiudizio negativo che si ancorerà profondamente nell’inconscio collettivo. Un esempio: l’immagine del musulmano scheletrico dietro il filo spinato è rimasto istituzionale per rappresentare i nuovi nazisti. In realtà si trattava di un campo di rifugiati a Tiernopolje nella Bosnia serba, dove la gente era libera dei suoi movimenti. Infatti, l'équipe della televisione britannica ITN, che ha fatto lo scoop, si trovava dietro il filo spinato e aveva piazzato gli uomini intorno al luogo cintato dove stava per proteggere il suo materiale dai furti. (De Groene Amsterdaamer 1996)
James Harff, all’epoca direttore della Ruder Finn Global Public Affairs, in un'intervista con il giornalista francese Jacques Merlino, riportata nel suo libro(Les vérités yougoslaves ne sont pas toutes bonnes à dire), parlando dei clienti nella ex Jugoslavia, della strategia e dei successi raggiunti, diceva: "Fra il 2 e il 5 agosto 1992, il New York Newsday é uscito con la notizia dei campi. Abbiamo afferrato la cosa al volo e immediatamente abbiamo messo in contatto tre grandi organizzazioni ebraiche: B'nai B'rith Anti-Defamation League, American Committee e American Jewish Congress (...) l'entrata in gioco delle organizzazioni ebraiche a fianco dei bosniaci fu uno straordinario colpo di poker. Allo stesso tempo abbiamo potuto nell'opinione pubblica far coincidere serbi con nazi (...) Il nostro lavoro non é di verificare l'informazione (...) Il nostro mestiere é di disseminare le informazioni, farle circolare il più velocemente possibile per ottenere che le tesi favorevoli alla nostra causa siano le prime ad uscire (...) Quando un' informazione é buona per noi, dobbiamo ancorarla subito nell'opinione pubblica. Perché sappiamo molto bene che é la prima notizia che conta. Le smentite non hanno alcuna efficacia (...) Siamo dei professionisti. Abbiamo un lavoro da fare e lo facciamo. Non siamo pagati per fare della morale. E anche quando questa fosse messa in discussione, avremmo la coscienza tranquilla. Poiché, se lei intende provare che i serbi sono delle povere vittime, vada avanti, si troverà solo (...)".
I servizi dell’agenzia Ruder &Finn Global Public Affairs sono stati assunti all’inizio del conflitto jugoslavo dalla Croazia, dai Musulmani della Bosnia Erzegovina e dall’opposizione del Kosovo. Nel frattempo i Croati, i Musulmani di Bosnia e l’opposizione del Kosovo godevano dell’appoggio di forti lobby degli USA, in particolare del senatore Robert Dole del Partito Repubblicano americano, e dell’aiuto della Germania. Bisogna anche aggiungere che i Musulmani bosniaci erano fortemente aiutati dall’Iran e dai Paesi arabi.
Nell’agosto 1991, la Repubblica di Croazia assume l’agenzia Ruder &Finn Global Public Affairs che difenderà l’immagine della Croazia nella crisi dei Balcani. Il suo contratto scadrà nel giugno 1992. Durante quel periodo il governo della Croazia approvò la nuova Costituzione, secondo la quale più di 600.000 Serbi e altre etnie si ritrovarono stranieri in patria. I Serbi furono obbligati ad abbandonare le loro case (40.000 nel 1992) o forzati a staccarsi dalla Croazia e a dichiarare l’indipendenza delle Kraijna a maggioranza serba. I media non hanno mai menzionato questo avvenimento. Hanno anche passato sotto silenzio il massacro della Sacca di Medak e di altri villaggi nel settembre 1993, la pulizia etnica e i massacri della Kraijna occidentale, il 1 maggio 1995, durante l’Operazione Flash e quelli della Kninska Kraijna, il 4 agosto 1995 durante l’operazione Storm, che ha provocato la partenza di circa 250.000 Serbi che non hanno mai più potuto far ritorno in Kraijna. Tutto questo avveniva con l’aiuto dell’Agenzia di mercenari US « Military Professional Resources » e l’occhiolino del Dipartimento di Stato Americano. Alcun media ha nemmeno menzionato o visitato i terribili campi croati di prigionia di Lora vicino a Spalato, di Tarcin o di Caplina fra gli altri.
Nel maggio 1992, la Repubblica musulmana di Bosnia impiega i servizi dell’agenzia Ruder&Finn Global Public Affairs che curerà la sua immagine internazionale e i contatti con i media. Il contratto terminerà nel dicembre 1992. A proposito di questo periodo si legge in “Offensive in the Balkans” di Yossef Bodansky a pagina 54: “Fin dall’estate 1992, c’erano state delle marcate provocazioni messe in atto dalle forze musulmane per sollecitare un maggiore intervento militare occidentale contro i serbi e, in misura minore contro i croati. Inizialmente queste provocazioni erano costituite principalmente da attacchi senza senso alla stessa popolazione musulmana, ma ben presto inclusero attacchi ad obiettivi occidentali e delle Nazioni Unite.(…) Investigazioni da parte delle Nazioni Unite e di altri esperti militari includevano fra queste azioni auto-inflitte la bomba della fila del pane (27 maggio 1992), la sparatoria alla visita di Douglas Hurd (17 luglio 1992), il tiro dei cecchini nel cimitero (4 agosto 1992), l’uccisione del presentatore e produttore televisivo americano della ABC, David Kaplan ( 13 agosto 1992) e l’abbattimento di un velivolo da trasporto dell’Aviazione Italiana G.222 in avvicinamento a Sarajevo (3 settembre 1992). In tutti questi casi le forze serbe erano fuori portata, e le armi usate contro le vittime non erano quelle lamentate dalle autorità musulmano-bosniache e dai ripetitivi media occidentali.”
Il governo di Sarajevo molto abilmente ottenne l’intervento definitivo degli USA e della NATO nell’agosto 1995, ma prima si è dovuto vedere sugli schermi le due granate sul mercato di Markale, il 6 febbraio 1994 (68 morti e 200 feriti), e il 28 agosto 1995 (37 morti e 86 feriti).
Sull’esplosione si esprimerà François Mitterand nel libro « L’année des adieux » a pagina 175 : «  E’ vero che ciò che cercano fin dall’inizio è l’internazionalizzazione, così necessaria, con delle provocazioni (…) Qualche giorno fa M. Boutros Ghali m’ha detto di essere sicuro che la granata caduta sul mercato di Sarajevo era una provocazione bosniaca».
Lord David Owen confermava la storia della granata bosniaca di Markale a pagina 260/261 del suo libro « Balkan Odyssey ».
Si racconta che il presidente Clinton, sotto pressione dei media e del senatore Dole avesse promesso ad Aljia Izetbegovic di fare intervenire la NATO se si fossero verificati più di 5000 morti. L’11 luglio 1995, Srebrenica fu la risposta. La tempesta mediatica fu terribile. Il fatto che la “zona protetta” – secondo il Consiglio dei Sicurezza dell’ONU disarmata – da dove la 28° divisione musulmana e il suo capo Naser Oric attaccava i villaggi serbi, uccideva, saccheggiava e rientrava nella città, non interessava la stampa. Nessuno s’informò sull’enorme numero di morti civili serbi nei villaggi intorno a Srebrenica e nella cittadina di Bratunac. Oltre 1500 morti serbi uccisi fra il 1992 e il 1995 sono passati sotto silenzio. I Serbi hanno sempre respinto l’accusa di aver giustiziato fra i 7000 e gli 8000 soldati musulmani, ricordando di aver mandato al sicuro in territorio musulmano le donne, i bambini e i vecchi, ma anche i soldati che avevano accettato di consegnare le armi. Nessun media ha investigato sulle ragioni della caduta della città protetta da 15.000 soldati musulmani attaccati da una forza molto inferiore e sul fatto che il comando in capo di Sarajevo avesse richiamato il comandante Naser Oric e 20 dei suoi migliori ufficiali lasciando la divisione senza guida. Alcun giornalista nemmeno investigò sullo svolgimento dei combattimenti e di queste morti. Bernard Kouchner racconta nel suo libro «  Les guerriers de la Paix », che durante la sua visita al capezzale di Alija Izetbegovic morente, l’abile statista aveva ammesso che le cifre erano state gonfiate espressamente.
In Ottobre 1992, la Repubblica di Kosova, ovvero l’opposizione albanese del Kosovo, firma un contratto con l’agenzia Ruder&Finn Global Public Affairs per curare la propria immagine nella crisi balcanica e negli avvenimenti a seguire.
Questa regione, così controversa, si trova nel sud della Serbia e per secoli fu la terra dei Serbi. Chiamata Kosova dagli albanesi, per i serbi essa é Kosmet, contrazione di Kosovo “la piana dei merli”(kos) e Metohija “proprietà della chiesa” (metoh). 1300 chiese e monasteri di rara bellezza testimoniano il passaggio di religiosi e artisti provenienti da Costantinopoli a partire dal IX secolo. L’invasione ottomana, la presenza dell’Italia fascista e della Germania nazista hanno causato la fuga dei serbi in favore della minoranza albanese che con il tempo è diventata maggioranza.
Nel 1998 l’UCK era chiamata dalla stampa « terroristi », poi « guerriglieri » infine « combattenti per la libertà di Kosova », una regione che volevano strappare alla Serbia, secondo i principi della Lega di Prizren, fondata nel 1978, che aveva formulato per la prima volta il concetto di “Grande Albania” e che il 16 settembre 1943 rinasceva negli Stati Uniti.
Questa promozione dell’UCK ha dato un’immagine più accettabile al pubblico internazionale. Dopo la nuova definizione la milizia serba fu accusata di uccidere la gente nei villaggi albanesi nella caccia all’UCK. I media non spiegarono che l’UCK si nascondeva dietro ai civili albanesi che cercavano salvezza nei boschi e non raccontarono che venivano rapiti più Albanesi che Serbi e che questi Albanesi e questi Serbi venivano rapiti perché favorevoli al dialogo e che non si sarebbero più rivisti vivi.
Quando nel 1998 Slobodan Milosevic, presidente della nuova Jugoslavia accettò tutti i punti imposti da Richard Halbrooke (Kosovo Verification Mission: diminuzione delle forze serbe, controllo aereo della NATO, spiegamento di forze della NATO in Macedonia per proteggere i verificatori dell’OSCE), l’amministrazione Clinton aveva già la guerra nella sua agenda, bisognava accelerare il processo: uno scenario ormai conosciuto – dai falsi carnai con cadaveri di recupero di Timisoara, al tempo della liquidazione di Ceausescu si era ripetuto ogni volta fosse necessario sollevare l’indignazione pubblica – fu realizzato il venerdì 15 gennaio 1999.
I verificatori dell’OSCE in Kosovo avevano imposto alla milizia jugoslava di rendere loro conto di ogni operazione di polizia contro l’UCK, ma improvvisamente il pubblico internazionale si confrontò con l’orrore della fossa di Racak.
E’ interessante rileggere un commento del Figaro di sabato 20 gennaio 1999 : “ La scena dei cadaveri degli albanesi in abiti civili allineati in un fossato, che avrebbe dovuto scioccare l’intero mondo, non fu scoperta che la mattina seguente intorno alle 9 da giornalisti subito seguiti da osservatori dell’OSCE. In quel momento, il villaggio era nuovamente nelle mani degli armati dell’UCK, che condussero i visitatori stranieri, man mano che arrivavano, verso il luogo del presunto massacro. Verso mezzogiorno, William Walker in persona arrivò ed espresse la sua indignazione. Tutti i testimoni albanesi diedero la stessa versione: a mezzogiorno i poliziotti serbi erano entrati di forza nelle case e avevano separato le donne dagli uomini, che condotti sulla cima della collina avevano ucciso senza molte storie. Il fatto più inquietante è che le immagini filmate dai giornalisti di APTV – che Le Figaro ha visionato ieri – contraddicono radicalmente quella versione.”
Le autopsie confermarono che le amputazioni erano state inferte dopo la morte e i patologi finnici, bielorussi e jugoslavi giudicarono che le ferite mortali erano state causate da pallottole tirate da lontano.
I verificatori dell’OSCE non pubblicarono il loro rapporto e lasciarono esplodere il caso mediatico, nessuna indagine da parte dei media.
Alla Conferenza di Pace al Castello di Rambouillet, l’ambasciatore jugoslavo all’ONU Branko Brankovic, che aveva partecipato a tutti gli incontri dichiarò: “In 17 giorni a Rambouillet non abbiamo mai visto la delegazione albanese che avrebbe dovuto essere il nostro interlocutore e non abbiamo mai visto il testo che è stato firmato solo da alcuni membri di quella delegazione.(…) il Presidente della Serbia, Milan Milutinovic, tenne una conferenza stampa alle nove di sera nella residenza jugoslava. Erano presenti almeno un centinaio di giornalisti e una ventina di telecamere delle reti mondiali. Il Presidente spiegò con chiarezza che si trattava di un ultimatum e che le due delegazioni non si erano mai incontrate per discutere l’accordo e quindi non potevamo accettare niente che non fosse stato discusso con la delegazione albanese su quella parte politica che riguardava l’autonomia del Kosovo Metohjia. Nessun media ha riportato una sola frase della conferenza stampa. Non possiamo dare l’indipendenza ad una parte del nostro paese che ha fatto parte della storia della Serbia e della Jugoslavia per oltre mille anni. (..) Gli americani hanno continuato a dire che erano favorevoli all’autonomia, ma il testo che hanno proposto sull’autonomia de facto significava indipendenza. Volevano la presenza di una forza militare con il pretesto, in quel momento, di osservare e assicurare l’applicazione dell’accordo politico sull’autonomia”. Ebbene i media hanno tenuto la bocca ben chiusa.
24 marzo 1999, inizio dei bombardamenti sulla Federazione delle Repubbliche Jugoslave. La Serbia, il Kosovo e il Montenegro sono martellati senza tregua per 78 giorni. Dal 24 marzo all’ 8 giugno, trentaquattromila attacchi aerei sono eseguiti da mille aerei. Diecimila missili furono lanciati contenenti 79.000 tonnellate d'esplosivo; 152 contenitori di «cluster bombs» (bombe a frammentazione) vennero sganciati senza contare le innumerevoli bombe alla grafite e all’ uranio impoverito. Nel corso di cento missioni dei caccia US A- Thunderbolt, che utilizzavano mitragliere capaci di tirare 3.900 colpi al minuto, uno su cinque di questi proiettili conteneva 300 grammi di U.I., informazioni date dal generale Wald il 7 maggio 1999, nel corso della guerra. Il Segretario Generale della NATO, George Robertson, in una lettera del 7 febbraio 2000, confermava quanto sopra al Segretario Generale dell'ONU, Kofi Annan. (Il Manifesto, 10-11 Marzo 2000. Balkans Infos, 3 avril 2000).
Da una mappa ottenuta faticosamente dall’alto comando della NATO, sembra che la zona sottoposta al tiro più nutrito di U.I. sia quella che da Kosovska Mitrovica scende fino a Pec, Dakovica e Prizren. Sono le zone coperte dai contingenti europei. I media: silenzio.
Quando i bombardamenti incominciarono e i danni e le morti dei civili iniziarono ad impressionare negativamente il pubblico internazionale, venne fuori la storia dell’”Operazione ferro di cavallo”: piano strategico, in realtà inesistente, che avrebbe avuto lo scopo di far scappare gli albanesi dal Kosovo. In un’intervista apparsa sulla rivista geopolitica liMes del giugno 2000, il generale Nebojsa Pavkovic, comandante della 3° armata in Kosovo e in seguito capo di Stato Maggiore jugoslavo, affermava: “
« La NATO ha inventato l’epurazione etnica per giustificare l’aggressione. Hanno persuaso i terroristi ad organizzare la fuoruscita. Alcuni venivano scacciati a forza dalle loro case, li mandavano in Macedonia e in Albania, poi li facevano rientrare di nascosto.” L’affermazione del generale Pavkovic sarebbe stata confermata dai rapporti dell’OSCE diffusi in ritardo.
Nel giugno 1999, per terminare la guerra il Gruppo dei G 8 si accordò su un piano, secondo il quale quanto era stato negato a Rambouillet veniva approvato: solo il Kosovo passava sotto il protettorato della NATO, mentre la Serbia restava una nazione sovrana. Erano state accettate tutte le richieste serbe: 1) Non ci sarebbe stato un referendum alla fine dei tre anni probatori che doveva consacrare l’indipendenza del Kosovo. Anzi veniva confermata più volte la sua appartenenza alla RFY. 2) All’entrata in Kosovo i contingenti NATO sarebbero stati soggetti all’autorità dell'ONU, fino ad allora negata, e avrebbero agito sotto il suo mandato. Questa era stata una reiterata richiesta della Jugoslavia a Rambouillet, disposta a trattare con l’ONU e non con la NATO. 3) La NATO avrebbe avuto la responsabilità di mantenere l’ordine in Kosovo senza la polizia serba che avrebbe potuto essere accusata di ogni incidente. In ogni caso, dopo un certo periodo, questa avrebbe avuto il controllo delle frontiere e la protezione dei monasteri che non costituiscono un valore solo per gli ortodossi, ma anche per tutta la cultura occidentale.Con gli accordi di Kumanovo, giugno 199, era stato stabilito che dopo 5 anni la regione sarebbe tornata sotto il controllo di Belgrado. Questo trattato era diventato in seguito la soluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. La soluzione non è mai stata applicata. Non una parola da parte dei media.
Alla fine della guerra la KFOR s’installò in Kosovo. Per giustificare i vasti e crudeli regolamenti di conti dell’UCK, che la NATO non ha mai cercato di frenare, e la pulizia etnica di tutte le nazionalità non albanesi., si incomiciò a parlare di fosse comuni come in Bosnia. La prima stima del numero delle vittime albanesi si aggirava sui 100.000 morti. L’amministratore dell’ONU, Bernard Kouchner, aveva riportato la cifra ad 11.000 fra morti e dispersi dichiarando di basarsi sui rapporti del tribunale dell’Aja, che smentì. I corpi ritrovati sarebbero piuttosto nelle centinaia.Il capo dell’equipe di medici spagnoli, il dottor Juan Lopez Palafox, dichiarava che per quanto i suoi uomini avessero potuto constatare: «nell’ex Jugoslavia erano stati commessi crimini orribili, ma conseguenti alla guerra» I responsabili hanno ammesso che il risultato delle esumazioni non corrispondevano ai racconti drammatici dei rifugiati, come erano stati riportati dai porta-parola occidentali durante il conflitto. (The Guardian, 18 agosto 2000). E i media quasi in silenzio.
Harry Kissinger faceva osservare (sulle pagine del Washington Post del 22 febbraio 1999 a proposito della Conferenza di Rambouillet) : “ Un Kosovo indipendente tenderebbe ad incorporare le minoranze albanesi vicine di Macedonia e forse l’Albania stessa… Il Kosovo diventerebbe allora la premessa di un’iniziativa dell’ONU in Macedonia, esattamente come lo spiegamento in Bosnia è stato invocato per giustificare l’intervento in Kosovo?In breve, la NATO deve diventare un’impresa votata a stabilire una serie intera di protettorati NATO nei Balcani?».
Le osservazioni di Kissinger dopo 7 anni sono ancora valide. Si prospetta anche la possibilità che il vecchio piano della Lega di Prizren si applichi al sud della Serbia, la valle di Presevo, e alla parte est del Montenegro fino a sfiorare la capitale Podgorica.
Attualmente si sta discutendo l’indipendenza del Kosovo a Vienna, ma la diversità culturale del territorio non è più altro che un ricordo. Si deve notare che la regione è ora quasi totalmente albanese poiché tutte le altre nazionalità (Serbi, Rom, Ebrei, Graci, Goranzi, Turchi e altri), e anche i Croati, che vivevano da 800 anni nei villaggi sulle montagne di Skopska Gora fra il Kosovo e la Macedonia, sono stati cacciati.
Sembra che l’UNHCR si prepari ad evacuare 40.000 Serbi fra coloro che vivono in enclavi sotto la debole protezione della KFOR dalla fine della guerra.
Questa indipendenza potrebbe anche destabilizzare la Bosnia che vive una libertà limitata sotto il controllo dell’EUFOR, senza aver risolto dopo 11 anni il problema delle tre etnie e con una presenza crescente di musulmani dei paesi arabi nel paese. Sembra che siano oltre 50.000.
Un rapporto della KFOR-NATO ha denunciato lo spaventoso aumento del crimine organizzato e di traffici illegali in Kosovo. Hasim Thaqui – l’interlocutore che Madeline Albright preferiva al presidente Rugova a Rambouillet quando era il comandante dell’UCK, oggi leader del Partito Democratico del Kosovo – ha accusato il Governo di Agim Ceku di essere formato da criminali. Da notare che Ceku, ex generale dell’UCK, è colui che ha comandato i Croati nel massacro della Sacca di Medak in Kraijna.
L’ex Primo ministro Ramush Haradinaj, leader del partito di Ceku, AAK, é accusato dal TPIY dell’Aja di crimini di guerra. Comunque l’INTERPOL ha ritirato i mandati di cattura nei confronti di Thaqi, Ceku e Haradinaj, ricercati a Belgrado per crimini di guerra.
Una cosa è certa intervenendo nei Balcani gli USA e la NATO hanno legalizzato l’illegalità. E i media hanno fatto il loro gioco.

OSCE CONFERENZA INTERNAZIONALE ONG
Discorso del 16 Maggio 2006 al Palazzo d’Egmont - Bruxelles