Dalla pianificazione alla devastazione. La transizione al capitalismo nella Russia post-sovietica (1992-1998)

 

INTRODUZIONE.

Il fine che si propone questa tesi di laurea è di provare ad analizzare il dissesto economico, politico e sociale della Russia negli anni seguenti alla fine dell’Unione Sovietica e del suo modello economico che non aveva precedenti nella storia, cioè l’economia pianificata o centralizzata.

L’Unione Sovietica cessa di esistere il 26 dicembre 1991. Fino a quel giorno era la seconda potenza mondiale; uscita vincitrice, anche se profondamente danneggiata, dalla Seconda Guerra, si era vista costretta ad intraprenderne un’altra, ben più lunga ma meno devastante, almeno in superficie, contro gli Stati Uniti d’America, la cosiddetta Guerra Fredda.

Si può dire che lo Stato sovietico, al momento della sua dissoluzione, deteneva un sistema industriale – seppur sulla via dell’obsolescenza – di tutto rispetto, che consentiva un livello di produzione tale da permettere una modesta ma diffusa redistribuzione della ricchezza a larghissima parte della numerosa popolazione sovietica; poteva vantare un apparato militare secondo solo agli Usa, sia dal punto di vista tecnologico che dal potenziale offensivo; la produzione agricola, anche se gravemente menomata da enormi sprechi, consentiva di sfamare la popolazione ricorrendo in minima parte alle importazioni; poteva permettersi, grazie alle entrate derivanti dalla vendita delle enormi ricchezze naturali come il petrolio ed il gas, di acquistare beni dall’estero per sopperire alle carenze interne, mantenendo negli anni una bilancia commerciale – fino al 1988 – sempre attiva o in pareggio.

Alla fine degli anni ’80 però, il mondo stava cambiando. Il “gigante dai piedi d’argilla” stava cercando di modernizzarsi attraverso la perestrojka[1] e la glasnost’[2] intraprese dall’ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) Michail Sergeevič Gorbačëv; molti stati sotto l’influenza sovietica, come la Polonia e l’Ungheria, si erano fortemente indebitati con il FMI rendendosi sempre meno dipendenti da Mosca ed in molti altri cominciavano ad intravedersi manifestazioni di protesta sempre più evidenti che sfociarono nell’evento simbolo della caduta dei Paesi socialisti: il crollo del muro di Berlino (9 novembre 1989).

Tutto ciò non poteva essere ignorato dai vertici del PCUS ed una serie di riforme interne portò ad un’apertura del sistema politico sovietico che doveva avvicinarsi alle “democrazie occidentali”. Tali sconvolgimenti politici - come la rinuncia al partito unico e le prime elezioni multipartitiche - si rifletterono anche sulle decisioni economiche, portate avanti dall’uomo nuovo della politica russa: Boris Nikolaevič Eltsin.

Eltsin fu eletto Presidente della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa nel 1991 e fu il personaggio centrale degli equilibri politico-economici per il successivo decennio. Membro del PCUS, divenne ben presto fautore della cosiddetta «rivoluzione liberale» russa. Egli incaricò alcuni economisti di riformare totalmente l’economia nazionale per portarla il più vicino possibile a quel “libero mercato” che veniva indicato come l’unica via possibile per la ripresa economica; la sua squadra era guidata da Egor Timurovič Gajdar, un «alunno di Chicago», con riferimento alla scuola neoliberista di Chicago[3], che varò la famigerata «terapia d’urto», le cui conseguenze sono state così ben riassunte da un importante storico russo:

 

[…]negli anni Novanta in Russia abbiamo assistito a un crollo economico, a una crisi demografica, così come all’aumento della disoccupazione e della criminalità, all’abbassamento vertiginoso del tenore di vita, alla crescita delle tensioni sociali, e alla caduta e al peggioramento dell’istruzione, della sanità pubblica, della scienza e della cultura. Il motore delle riforme economiche liberali non si è avviato autonomamente, e lo stato si è trovato sull’orlo del baratro.[4]

 

Gajdar era supportato da molti altri giovani economisti cresciuti sotto l’ideologia liberista, come Anatolij Čubajs e da consiglieri occidentali come Jeffrey Sachs e Anders Aslund.

Nei prossimi capitoli si analizzeranno le principali decisioni prese e le relative conseguenze negli anni tra il 1992 ed il 1998, anno dell’ultima grave crisi economica russa.

 

I. LA LIBERALIZZAZIONE DEI PREZZI.

Gennadij Burbulis fu delegato da Eltsin, nel novembre del 1991, segretario di stato della Federazione Russa, con l’incarico di formare un governo e di sopraintendere a vari importanti ministeri. Come esecutore di un programma di riforme scelse un nome nuovo, il giovane Egor Timurovič Gajdar, portatore di idee ultraliberiste. Egli, subito dopo la laurea, entrò a far parte delle redazioni dei massimi organi di stampa, il «Kommunist» e la «Pravda», del partito per quanto riguarda le sezioni economiche e, dato il clima generato dalla perestrojka, poteva diffondere le sue idee di riforma del modello economico socialista con graduali modifiche correttive.

Quando però ebbe mano libera da Eltsin e Burbulis, cambiò la sua linea. Sembrava posseduto

 

da una furia iconoclasta. […] per impiantare in pochi mesi sul corpo di un paese che non l’aveva mai conosciuto un modello economico, sociale e civile, ricavato da studi intensi e da elaborazioni teoriche a lungo meditate, ma mai concretamente praticate […][5].

 

Gajdar rimarrà nella memoria dei russi per aver avviato quella conosciuta come “terapia shock”, che ora si analizzerà.

Il 2 gennaio del 1992 entrò in vigore il decreto di liberalizzazione dei prezzi. In Unione Sovietica i prezzi delle merci venivano fissati e stabiliti nei piani quinquennali dal Gosplan[6], non potevano modificarsi come in un sistema capitalistico perché non esisteva un libero mercato della domanda e dell’offerta. Prevedibilmente il provvedimento avrebbe portato ad una spirale inflazionistica e così puntualmente avvenne.

 

Eltsin e Gajdar continuavano ad affermare che l’aumento dei prezzi non avrebbe superato il 300 per cento nel primo trimestre, che l’inflazione sarebbe scesa in aprile al 10-12 per cento, e alla fine dell’anno nettamente sotto le due cifre.[7]

 

L’ottimismo dei due personaggi politici non era assolutamente frutto di accurate previsioni economiche suffragate da numeri, ma era solamente una speranza che nutriva il governo. Fino ad allora la gran parte dell’opinione pubblica non aveva attribuito la responsabilità della critica situazione economica all’esecutivo in carica e nemmeno al presidente Eltsin; il «nuovo governo democratico» operava da troppo poco tempo ed aveva ereditato un Paese in crisi, che necessitava di correzioni in alcuni campi anche drastiche; ma la liberalizzazione era sicuramente opera della nomenklatura salita al potere dopo il fallito «golpe d’agosto» del 1991; essa fu propugnata dalla squadra di “Chicago Boys” di Boris Eltsin e pertanto la popolazione, in seguito, avrebbe attribuito all’élite governativa le responsabilità di un peggioramento degli standard di vita.

In ogni caso le rosee previsioni governative non furono per nulla indovinate.

 

Nel primo trimestre del 1992 i prezzi, lasciati “fluttuare liberamente”, aumentarono dell’800-900 per cento per la maggior parte dei beni e servizi. Certi articoli, prima a bassissimo prezzo, rincararono a un tratto di venti o trenta volte. Il sale passò da 9 copechi[8] a 9 rubli al chilo, cento volte tanto; una scatola di fiammiferi da un copeco a 2,5 rubli, 250 volte tanto. I salari, invece, nel primo trimestre si limitarono a raddoppiare.»[9]. Questa impetuosa inflazione fu continua per tutto il 1992 e non, come auspicato dagli economisti, in un’unica soluzione a ridosso della liberalizzazione. Le stime che sono state prodotte, a seconda dei metodi utilizzati, indicavano un aumento dei prezzi «dalle 25-30 alle 100 volte[10].

 

In un contesto di inflazione galoppante, le conseguenze vennero da sé: la produzione diminuì del 20 percento, ma aumentarono i costi correlati, così i fabbricanti si vedevano costretti ad aumentare i prezzi; più salivano i prezzi più aumentavano i costi di produzione più aumentavano i prezzi, creando una spirale senza fine; le merci, che non potevano più venire acquistate dalla popolazione sempre più impoverita, rimanevano invendute e a livello generale man mano diminuivano dalla circolazione; le entrate statali diminuivano nonostante i tagli nel sociale e nel campo militare; le imprese non avevano più capitale da reinvestire; molte aziende agricole chiusero perché non potevano acquistare materie prime a prezzi inflazionati avendo venduto i prodotti a prezzi molto più bassi anche solo poche settimane prima; il contante cominciò a scarseggiare perché «le officine del Gosznak (l’ente statale per la stampa delle banconote) non erano preparate al sovraccarico di lavoro né ai nuovi tagli monetari»[11]; milioni di lavoratori venivano pagati con grossi ritardi; iniziò a diffondersi il baratto per pagare i salari e negli scambi tra privati; la disoccupazione cominciò a farsi largo - fenomeno sconosciuto fino ad allora in Unione Sovietica; dilagavano le attività illegali nel mercato nero ed enormi bazar deregolamentati in cui si vendeva di tutto invadevano le strade nelle principali città, a partire dalla capitale.

Queste conseguenze furono devastanti per la popolazione, gran parte della quale dovette dare fondo a tutti i risparmi, che vennero in breve polverizzati. Nonostante ciò non ci fu la temuta sollevazione popolare che avrebbe potuto portare ad “ritorno al passato regime”; gli scioperi e le manifestazioni aumentarono sì, ma non come ci si sarebbe potuto aspettare. Su questo tema molti sociologi hanno discettato a lungo. Alcuni sostengono che questo torpore generalizzato derivasse dagli stenti di settant’anni di comunismo in cui la popolazione non poteva liberamente protestare; altri che, avendo vissuto forse il periodo più prospero della storia russa[12], il popolo non avesse la capacità di reagire vivendo nella confusione più totale.

In ogni caso, al di là di queste dissertazioni teoriche, il risultato fu che il governo poté continuare quasi indisturbato ad attuare il suo programma.

Un conseguente, inevitabile intervento della terapia d’urto, fu di inasprire la politica monetaria aumentando i tassi d’interesse. Un atto dovuto nel tentativo di limitare l’inflazione, in quanto ad alti tassi la propensione al risparmio aumenta e diminuisce quindi la domanda di beni di consumo, provocando un abbattimento dei prezzi. Ma altro esito fu la riduzione degli investimenti da parte delle imprese che erano meno portate ad indebitarsi, venendo a costare molto di più il denaro preso a prestito.

Ricordiamo che queste teorie macroeconomiche valgono per un sistema capitalistico maturo, che riesce ad assorbire gli effetti delle politiche monetarie della banca centrale in un determinato lasso di tempo. In Russia invece si operava in un sistema al di fuori di ogni canone economico. Le aziende perciò, impossibilitate ad indebitarsi e senza un capitale proprio, azzerarono gli investimenti e molte chiusero aumentando la disoccupazione; numerose famiglie, che già da tempo limitavano i loro consumi ed erodevano i magri risparmi, precipitarono nella povertà più estrema.

La liberalizzazione dei prezzi però, non fu totale. Quelli delle risorse naturali infatti vennero mantenuti bassi. «Con la nuova “economia di mercato”, questo costituiva un invito palese: se, per esempio, puoi permetterti di comprare petrolio per poi rivenderlo in Occidente, hai la possibilità di guadagnare milioni se non addirittura miliardi di dollari. E la gente l’ha fatto. Anziché guadagnare creando nuove imprese, alcuni russi si sono arricchiti sfruttando una nuova forma della vecchia imprenditorialità – mettere a profitto le politiche sbagliate del governo.»[13].

Quello appena descritto dal premio Nobel J. E. Stiglitz era uno dei modi in cui in quegli anni si creò la categoria dei “nuovi ricchi” o “nuovi russi”, la classe di multimiliardari oggi ben conosciuta in tutto il mondo. Nel prossimo capitolo si vedranno le altre vie alla ricchezza offerte dalla transizione.

Cominciò conseguentemente ad emergere il fenomeno della «fuga di capitali» all’estero. I profitti ottenuti dalle esportazioni venivano depositati presso banche occidentali in conti correnti privati in valuta estera in modo da neutralizzare l’inflazione del rublo e non essere assoggettati alla tassazione del governo russo. Parte del ricavato in dollari nelle mani dello Stato, veniva impiegato per acquistare dall’estero beni di consumo che riempivano gli scaffali di negozi e supermercati rimanendo però invenduti data la scarsità della domanda. Sparirono così le “code davanti ai negozi alimentari” causate, in URSS, dalla scarsità di prodotti. Sparizione dovuta però alla sempre maggiore povertà della gente che nei negozi non ci andava nemmeno più. Il governo ottenne così un altro dei suoi obiettivi programmatici.

 

La situazione della Russia verso la fine del 1992 era, come abbiamo visto, molto grave.

A questo punto ci si può già chiedere: chi furono i responsabili di questi dissesti? Furono solo Gajdar ed il suo staff o le responsabilità vennero anche da fuori? Una risposta la dà Roj Medvedev:

 

Nell’impresa furono coinvolti anche vari esperti occidentali, guidati da Jeffrey Sachs. Le raccomandazioni canoniche del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Birs) furono adottate come base del lavoro, sebbene tali raccomandazioni non tenessero conto della struttura dell’economia russa e dei suoi aspetti particolari; e badassero invece a salvaguardare gli interessi dei ricchi paesi occidentali, sui cui contributi si reggono com’è noto praticamente tutte le istituzioni finanziarie internazionali.[14]

 

Le istituzioni internazionali citate sono intervenute nelle transizioni di tutti i Paesi dell’ex-blocco sovietico elargendo prestiti e rendendoli di fatto indebitati permanenti. La Russia più di ogni altra ha avuto prestiti dal FMI che le consentivano da una parte di avere vitali “boccate d’ossigeno”, ma dall’altra parte la rendevano sempre meno indipendente nelle scelte economiche da assumere. Queste infatti venivano sostanzialmente poste in essere dai “consiglieri” occidentali che in migliaia andarono a lavorare a Mosca in quegli anni. Consigli che si possono oggi ritenere fraudolenti, per favorire il saccheggio delle risorse naturali e non solo, si pensi all’immenso know-how tecnologico dell’industria spaziale o militare, a volte anche superiore a quello statunitense, che la Russia deteneva, ma anche in parte dettati da un’avventatezza sconsiderata.

Esemplificativo quanto dichiarato in un’intervista da Jeffrey Sachs, interrogato sulle ragioni del fallimento delle riforme liberali:

 

Quando abbiamo intrapreso le riforme ci sentivamo come dottori chiamati al capezzale di un malato. Ma quando abbiamo messo il paziente sul tavolo operatorio e lo abbiamo aperto, ci siamo accorti che la sua struttura anatomica e di suoi organi interni erano di un tipo tutto particolare, che non avevamo mai incontrato nelle scuole di medicina.[15]

 

II. LA SVENDITA DELLA PROPRIETA’ STATALE NELL’ERA ELTSIN.

Il secondo pilastro di riforme voluto dai “rivoluzionari liberali” e dal FMI fu quello della privatizzazione. Essa è considerata essenziale per il corretto funzionamento di un’economia di mercato, la quale prevede il raggiungimento del profitto quale obiettivo di ogni attività d’impresa ed il suo successivo reinvestimento nella produzione, con conseguente generale beneficio della società; la proprietà privata inoltre, sempre secondo la teoria liberista, dovrebbe essere garantita a tutti, in modo da poter offrire possibilità, anche a chi parte con poco o nulla, di avviare un’attività remunerativa. Questo schema necessita però di un apparato statale adeguato che regolamenti le varie fasi e disciplini i rapporti tra entità giuridiche, definisca delle leggi di bilancio, di tutela dell’ambiente, della concorrenza o dei rapporti di lavoro.

Tutto questo in Unione Sovietica non esisteva perché semplicemente non ce n’era bisogno. Era infatti lo Stato l’unico proprietario di tutte le imprese operanti sul territorio, per cui non aveva l’esigenza di autoregolamentarsi più di tanto.

Queste ponderazioni però non vennero prese in considerazione da nessuno, in quanto tutti credevano nel dogma che il mercato «si regola da sé» e che si dovesse realizzare tutto nel minor tempo possibile.

La privatizzazione dei grossi beni immobili produttivi[16], che in Occidente vide il suo culmine negli anni ’80 con le politiche reaganiane e thatcheriane, in Russia fu affrontata in due fasi.

 

A metà del 1991 venne istituita la Commissione di stato per la gestione dei beni statali e in novembre venne nominato come presidente Anatolij Čubajs, nome caldeggiato da Gajdar. Čubajs fu membro del Komsomol[17] prima e del PCUS poi, laureato in economia ma senza particolari ambizioni politiche, ricoprì il ruolo di professore associato presso l’Istituto di ingegneria ed economia di Leningrado[18].

Come ministro cominciò a lavorare alacremente al piano di privatizzazione insieme a Gajdar e ad un gruppo di amici e conoscenti di Pietroburgo con lo scopo, come dichiarato nella trasmissione televisiva Podrobnosti [Dettagli] del 29 giugno 1994, di «[…] costruire il capitalismo in Russia, e di farlo in pochi anni di attacco frontale, realizzando così norme di produzione che al resto del mondo avevano richiesto secoli»[19], palesando una piena sintonia metodologica con Gajdar.

L’alienazione avvenne in un primo momento attraverso il sistema dei voucher. Questo metodo venne ideato per dare un’aura di distribuzione equa e paritaria verso tutti i cittadini russi; nella sostanza la Commissione dei beni statali stimò tutta la proprietà pubblica sul suolo russo[20] in 1.260.500 miliardi di rubli del 1991 e la divise per il numero di abitanti (148,7 milioni), ottenendo la cifra di 8.467 rubli, arrotondata a diecimila. Questo valore venne materializzato in un buono cartaceo anonimo e trasferibile che venne distribuito tra la popolazione. In questo modo a ciascun cittadino, dal presidente all’ultimo manovale, venivano date le stesse possibilità di possedere parte dell’azienda in cui aveva lavorato per una vita; i fautori di tale iniziativa prospettavano un accrescimento del valore del voucher confidando nella crescita delle imprese privatizzate, dando la speranza che in questo modo si potesse eguagliare se non superare in equità il “sogno americano” del raggiungimento della ricchezza personale.

 

Quella dei voucher fu in verità una colossale truffa. Poiché erano trasferibili e vendibili la maggioranza dei cittadini li realizzò immediatamente, mossa dal bisogno e dal timore, più che giustificato, che la galoppante inflazione se ne mangiasse il valore in pochissimo tempo. I maggiori beneficiari furono i direttori e gli amministratori delle imprese vendute che diedero vita a società finanziarie e utilizzando i fondi d’impresa, fecero incetta di voucher presso la povera gente che se ne voleva disfare subito, diventando in tal modo gli azionisti di maggioranza e i proprietari di fatto del bene alienato. Ne beneficiarono inoltre speculatori d’ogni sorta, cresciuti all’interno dell’economia sommersa, che ne rastrellarono in poco tempo enormi pacchetti dalle mani di operai disoccupati […], di casalinghe […], di pensionati […]. Non furono pochi quelli che sacrificarono il buono a poche bottiglie di birra. I più testardi, quelli che li avevano voluti conservare, se li ritrovarono qualche mese dopo abbondantemente svalutati; mentre quelli che li avevano effettivamente investiti in azioni il più delle volte non ritrovarono più il referente iniziale poiché nel frattempo il bene nominale era stato venduto e passato ad altra proprietà. Di dividendi non era proprio il caso di parlare.[21]

 

Ecco quindi come un ristretto numero di procacciatori di buoni accumulò in breve tempo e con poco costo ingenti fette dell’ormai ex-proprietà pubblica. Questo fu un inganno scientemente perseguito dai responsabili economici, come ammette Gajdar nel suo libro:

 

Il voucher distribuito ha solo un significato sociale-psicologico […] solo una élite poteva rapidamente prendere coscienza delle possibilità che le si offrivano con la privatizzazione.[22]

 

Da allora i russi, così come Gajdar e la terapia schock, hanno impresso negativamente nella memoria Čubajs e la parola voucher.[23]

 

Si arriva pertanto alla seconda fase della privatizzazione, quella della svendita.

Il governo emanò un decreto sulla formazione di società per azioni[24] che contemplava tre varianti: la prima prevedeva che il “collettivo di lavoro”, cioè i dipendenti dell’impresa oggetto della privatizzazione, ricevesse gratis il 25 percento delle azioni con la possibilità di acquistarne un altro 10 percento a prezzo ridotto, ma questa opzione non suscitò molto entusiasmo a causa dello scarso potere negoziale dei lavoratori, cosicché solo il 2 percento del totale delle imprese fu privatizzato in tal modo; la terza, anch’essa pochissimo sfruttata, prevedeva la libera vendita in borsa di tutte le azioni della società a prezzi di mercato; quasi tutti i collettivi di lavoro scelsero quindi la seconda opzione, che prevedeva di dare ai lavoratori il 51 percento delle azioni rendendoli di fatto gli azionisti di maggioranza.

Qualunque dei tre metodi venisse usato, il risultato fu sempre lo stesso: coloro i quali erano riusciti a fare incetta di voucher poterono acquistare intere aziende, o buone percentuali di esse, a prezzi irrisori.

Ci furono alcuni esempi eclatanti, come quello dell’Uralmaš[25], la fabbrica di macchinari pesanti che era ed è ancora il più grande stabilimento della Russia[26], nel giugno 1993 venne privatizzata in cambio di buoni del valore di 2 milioni di dollari, una cifra ridicola se si pensa che con quell’importo si può acquistare, forse, un appartamento nel centro di Londra.

La gigantesca fabbrica automobilistica Zil[27],

 

[…] la sola che in questi anni di crollo ed anarchia abbia continuato a produrre, con una flessione di appena l' uno per cento, sfornando frigoriferi, tritacarne, camion, utilitarie e, ovviamente, le famose limousine dei potenti. Mosca cede ai privati la proprietà del colosso industriale, decine di ettari di terreno, centinaia di reparti, 103 mila operai, scuole, asili, complessi sportivi, laboratori, negozi. Una città nella città […][28]

 

fu privatizzata con 800.000 rubli (pari a 4,5 milioni di dollari) in buoni in base alla prima variante come spiega l’inviata di Repubblica in questo articolo:

 

«il 40 per cento delle azioni verranno distribuite gratuitamente tra gli operai della fabbrica. Un altro 10 per cento, anche questo gratuitamente, verrà accantonato in un fondo aziendale. Un altro 35 per cento verrà messo all' asta e distribuito tra i cittadini russi, mentre un' altra quota del 10 per cento resterà da parte, destinata ai futuri investitori stranieri. Il 5 per cento delle azioni residue, relative ai servizi sociali attinenti alla fabbrica, verrà venduto in denaro contante»[29].

 

Si possono citare altri casi eclatanti, come la cessione della principale azienda estrattiva del Paese, la Norilsk Nickel, acquistata dalla banca privata dell’oligarca Vladimr Potanin per 170 milioni di dollari a fronte di un giro d’affari di 3 miliardi; il cantiere navale di San Pietroburgo, «le Officine Baltiche, fu messo in vendita per 150 milioni di rubli, pagabili in voucher»[30];

 

A Mosca, l’Hotel Minsk, un edificio di medie dimensioni, fu venduto per una somma in buoni del valore nominale di 200.000 rubli[31].

 

Questo modo di privatizzare creò, secondo il parere di Antonio Rubbi, quella ristretta élite di oligarchi, conosciuti come “nuovi russi” o “nuovi ricchi”, che in poco meno di cinque anni riuscirono ad accumulare ricchezze fino ad allora inimmaginabili in Russia ed un altrettanto importante potere politico. Personaggi come Boris Berezovskij, Mikhail Khodorkovskij, Vladimir Potanin, Roman Abramovič, Oleg Deripaska e molti altri, riuscirono a diventare proprietari di immensi poli produttivi con una spesa risibile grazie al meccanismo “prestiti in cambio di azioni”[32], ma questo effetto delle privatizzazioni non fu casuale, faceva invece parte della strategia dei “liberali” che volevano creare una classe imprenditoriale che potesse reggere le sorti dell’economia così come avviene in Occidente.

In un’intervista Kacha Bendukidze, il neo-proprietario dell’Uralmaš, disse:

 

«Per noi la privatizzazione è stata una manna celeste. Ci ha permesso di farci avanti e di comprare dal governo tutto ciò che volevamo a condizioni favorevoli […] Abbiamo preso una bella fetta della capacità industriale russa, sebbene non fossimo in grado di comprare nemmeno un metro quadro di beni immobiliari a Mosca. Risultò più facile entrare in possesso dell’Uralmaš che di un singolo magazzino a Mosca […] Abbiamo comprato quello stabilimento per un millesimo del suo valore reale […]»[33].

 

Proseguendo nell’intervista però, si denota anche come fosse difficile far funzionare quei colossi, sia per il disastro economico generalizzato in Russia, che per le attitudini imprenditoriali dei singoli:

 

«Certo, se qualcuno ci offrisse un miliardo di dollari per l’Uralmaš diremmo di sì […] Nella mia vita passata ero biologo e comunista. Oggi sono uomo d’affari e liberale»[34].

 

A cinque anni di distanza dall’inizio delle riforme, si può tracciare un primo bilancio. Il «tredicesimo piano quinquennale», il primo al di fuori dell’era comunista, si rivelò – alla luce delle precedenti riflessioni – un totale insuccesso, una disfatta, una catastrofe. I numeri parlano chiaro:

 

Nel 1995 il prodotto interno lordo era di circa il 40 percento di quello del 1990; la produzione industriale il 42 percento del 1990, e quella agricola il 65 percento. Gli investimenti di capitale erano scesi al 28 percento di quelli del 1990. Queste cifre […] furono contestate da alcuni economisti, i quali presentarono dati che indicavano una flessione ancora maggiore. […] La produzione petrolifera, per esempio, fu nel 1995 di 307 milioni di tonnellate, pari al 58 percento del livello del 1990.[35]

 

E ancora:

 

Nel corso del quinquennio il sistema con cui il paese aveva provveduto al proprio approvvigionamento alimentare fu portato alle soglie della distruzione. In campo industriale la produzione siderurgica si era ridotta del 40 percento. Nel 1995 la produzione di autocarri era il 39 percento del livello del 1990; di trattori il 10 percento; di mietitrebbie solo il 6 percento![36]

 

Si potrebbero estrapolare decine di altri dati di questo tenore e tutti risulterebbero estremamente negativi, con la constatazione che

 

Il programma di stabilizzazione / liberalizzazione / privatizzazione non è stato, naturalmente, un programma di crescita. Era nato per creare le condizioni necessarie per la crescita e ha finito invece per creare quelle più adatte al declino. Non soltanto gli investimenti erano cessati, ma il capitale era esaurito, con i risparmi vaporizzati dall’inflazione e i ricavi della privatizzazione e i prestiti esteri finiti nelle mani sbagliate. La privatizzazione, accompagnata dall’apertura dei mercati dei capitali, non ha portato alla creazione di ricchezza, ma alla spoliazione delle attività.[37]

 

Insomma, la Russia a metà anni novanta era un Paese sull’orlo del collasso, il cui presidente Boris Eltsin poteva sì rivendicare qualche successo come l’eliminazione della scarsità dei beni di consumo, nuove opportunità di lavoro anche in proprio, il calo dell’inflazione, la lenta stabilizzazione del rublo, nuove banche commerciali, assicurazioni, mercati di titoli e borse merci o lo sviluppo di molte forme sane di impresa privata, ma a fronte di uno sperpero di ricchezza e di prestigio immane. I più colpiti ovviamente, furono i cittadini, che conobbero il flagello della disoccupazione; i dati ufficiali, che stimavano nel 1994 di un numero di disoccupati che variava tra i 2 e i 4 milioni[38], erano non del tutto veritieri in quanto inficiati dai dati occupazionali forniti dalle aziende stesse, interessate a dichiarare un numero alto di dipendenti per ricevere fondi statali per la protezione sociale. Le conseguenze tra la popolazione furono evidenti, eclatanti:

 

[…] di botto essi [i consumi - n.d.a.] si ridussero del 30-40 percento […] La vita media, che nel 1990 era di 66 anni per gli uomini e 74,4 per le donne, nel 1993 scendeva rispettivamente a 62 e 69 anni. […] Se la popolazione complessiva della Federazione Russa aveva raggiunto il suo picco massimo nel 1991 con 148 milioni e 704 mila, alla fine del 1993 aveva già perso più di mezzo milione di unità. […] Un dato da brivido è quello dei bambini abbandonati, i cosiddetti besprizorniki, stimati in 150 mila solo a Mosca e in oltre due milioni in tutta la Russia […] Da questo esercito di minorenni costretti a campare di espedienti usciranno nuove legioni di derelitti e mano d’opera a basso costo per la malavita e la criminalità, per lo smercio e il consumo della droga.[39]

 

Un quadro economico e sociale di una gravità inaudita, rinfocolato dalle insistenti pressioni esterne degli organismi internazionali[40] su una classe politica inadeguata che badava più al consolidamento del proprio potere[41] che al bene del Paese, che non trovava né una forma di unità per far fronte alle emergenze, né gli uomini giusti a cui affidare le redini dei ministeri più importanti.

Dopo un 1997 in cui si registrò un lieve miglioramento dei dati macroeconomici (PIL + 0,8%), una nuova e potente crisi finanziaria e valutaria sferzò lo stato russo nel 1998 dandogli quello che poteva essere il colpo di grazia.

 

 

III. LA CRISI DEL 1998.

Il 1998 è stato il punto peggiore della crisi riguardante la transizione russa. Dopo un 1997 “positivo”, il primo ed unico dell’éra Eltsin, rispetto agli anni precedenti, con un debole miglioramento del prodotto interno lordo, un coro unanime ed entusiasta da parte di politici, giornalisti, economisti occidentali e membri del governo russo inneggiava alla ripresa economica ed ai benéfici effetti che finalmente, dopo anni di sacrifici, la “rivoluzione liberale” aveva conseguito.

Riportando alcune dichiarazioni si rende meglio l’idea: «La Russia ha superato la china discendente e sta raccogliendo le forze per la risalita. Il nostro Paese si dirige in alto, e non verso il Golgota»[42], così dichiarava l’economista Michail Deljagin: «Nel nostro paese è terminato il declino della produzione e ha avuto inizio un’inversione di tendenza, ben visibile agli analisti seri. Mi sembra che niente possa fermare la Russia sulla via ascendente di una lunga e poderosa traiettoria di crescita sempre più vigorosa. Ciò sarà evidente non solo agli specialisti di economia e di statistica, ma avrà effetti anche nella famiglia di ogni lavoratore russo: in termini di salario, di reddito, di capacità di comprare un’automobile nuova e di fare vacanze estive in piena regola»[43], queste invece le dichiarazioni dell’ancora vice-premier Anatolij Čubajs.

Si trattava di dichiarazioni estemporanee e dettate dalla cieca fiducia dei tecnocrati neoliberisti nell’ideologia da essi propugnata, dato che l’andamento di fondo dell’economia – investimenti nella produzione effettiva, profitti e perdite delle imprese industriali, debito estero, debito interno ecc. – non segnalava affatto un miglioramento, semmai l’esatto opposto e la crisi che colpì lo stato eurasiatico ne fu la prova.

 

Lo Stato era fortemente indebitato con l’estero (140 mld di dollari) e all’interno (530 mld di nuovi rubli[44]), e l’aumento dei tassi di interesse provocato dalla crisi che investì l’Est asiatico l’anno precedente fece traballare il già precario equilibrio russo, che si schiantò quando i prezzi del petrolio cominciarono a diminuire. Il mezzo principale con cui lo Stato russo poteva permettersi di pagare i propri debiti e pagare le importazioni era la vendita delle risorse energetiche, petrolio e gas naturale; i Paesi dell’Est asiatico, suoi principali clienti, diminuirono fortemente la domanda di greggio, grazie alle politiche imposte dal FMI, provocando uno squilibrio tra domanda e offerta che fece crollare il prezzo dell’oro nero fino al minimo di 9,55 $ al barile in dicembre, arrivando a far diventare economicamente non razionale l’estrazione e la vendita. Il governo optò comunque per la continuazione dell’estrazione vendendo il greggio in perdita, perché se avesse interrotto il ciclo avrebbe immiserito milioni di lavoratori russi dell’industria petrolifera, con delle conseguenze sociali enormi, che avrebbero superato tutte quelle fino a quel momento causate dalle riforme post-sovietiche.

Contestualmente si verificò un primo crollo della borsa di Mosca in maggio, ed alcuni giornali, tra cui la Nezavisimaja Gazeta, esortavano il premier Kirienko ad effettuare una svalutazione del rublo[45]; ciò avrebbe consentito una ripresa delle esportazioni rendendo le aziende più competitive, ma la paura era di un ritorno all’iperinflazione, per non parlare delle resistenze politiche in quanto tale mossa avrebbe sconfessato il recente provvedimento della Banca centrale, avallato dal governo, di creare il “nuovo rublo”. Ma era ormai chiaro che la moneta fosse sopravvalutata e che non avrebbe potuto reggere ancora per molto. Un’altra opzione venne intrapresa dal governo e dalla Banca centrale russa, cioè di aumentare al 150 percento annuo i tassi di interesse sui titoli statali di rifinanziamento a breve termine[46], arrestando il panico in borsa ma creando ulteriore debito allo Stato. Questi alti tassi andarono a rimpinguare quel fenomeno conosciuto come “piramidi finanziarie” che negli anni ’90 colpì molti Stati appartenenti all’ex-influenza sovietica e che in Russia fu inspiegabilmente organizzato dal governo stesso! Una piramide è un modo vizioso per raccogliere capitali sul mercato interno «[…] per cui la prima ondata di prestiti viene pagata con denaro preso a prestito da una seconda cerchia di creditori. In sostanza, un prestito non rappresenta un’entrata reale[47]»; oltretutto lo Stato non poteva nemmeno fornire le garanzie di solvibilità necessarie al rimborso dei titoli e ciò emerse in agosto.

Determinanti nell’arrivare al default furono le ingerenze esterne del FMI, della Banca Mondiale e dell’amministrazione Clinton. In luglio il FMI erogò l’ennesimo prestito di 4,8 miliardi di dollari, spingendo «la Russia a contrarre prestiti più in valuta estera che in rubli. L’argomentazione era semplice: il tasso d’interesse sul rublo era molto più alto di quello sul dollaro. Contraendo prestiti in dollari, il governo poteva risparmiare. Ma questo ragionamento era viziato in partenza. La teoria economica di base suggerisce che la differenza di tasso d’interesse tra le obbligazioni in dollari e quelle in rubli doveva riflettere l’aspettativa di una svalutazione. I mercati si equilibrano in modo che il costo del credito commisurato al rischio (o il rendimento dell’attività creditizia) sia lo stesso»[48]; in pratica, se il rublo si fosse davvero svalutato, «la Russia avrebbe incontrato enormi difficoltà nel restituire i prestiti denominati in dollari»[49]. L’obiettivo del FMI era sostanzialmente quello di rendere talmente onerosa una svalutazione del rublo da scoraggiare il governo ad effettuarla, ma come vedremo non bastò.

L’ultima tranche di prestiti che il FMI e la Banca Mondiale concessero a fine luglio, finì, grazie ad un livello di corruzione tra i più alti al mondo, secondo quanto afferma Joseph Stiglitz, dispersa nelle tasche dei “nuovi ricchi” che, nel giro di poche ore, al massimo qualche giorno, li fecero uscire dai confini per andarli a depositare in conti correnti ben protetti dal fisco russo.[50]

 

Naturalmente, non furono soltanto gli oligarchi a trarre beneficio dal salvataggio. Le banche d’investimento di Wall Street e di altri paesi occidentali, che avevano insistito più di chiunque altro sulla necessità di un’operazione di salvataggio, sapevano che non sarebbe durata: approfittarono del sollievo momentaneo per salvare il salvabile e portare fuori dal Paese tutto quello che potevano.[51]

 

Dalle osservazioni sopra esposte si evince che questi grandi e magnificati organismi finanziari, che in Occidente godono di larghissima credibilità e fiducia, non sono altro che fautori di distruzione delle economie dei Paesi al di fuori del Washington Consensus, composti da tecnocrati la cui preparazione è in parte sopravvalutata[52] ed in parte utilizzata in malafede per salvaguardare gli interessi di pochi grandi oligarchi occidentalizzati.

 

Tornando alla questione centrale, cioè se ricorrere alla svalutazione del rublo o meno, il 17 agosto il governo Kirienko[53] annunciò un nuovo tasso di cambio “fluttuante”[54] che causò una crisi finanziaria globale. I tassi d’interesse richiesti ai mercati emergenti schizzarono alle stelle e molti Paesi in bilico o in ripresa come il Brasile, l’Argentina, l’Ecuador e la Colombia regredirono finendo in una crisi valutaria o debitoria; nemmeno gli Stati Uniti furono immuni dato che «La Federal Reserve Bank di New York organizzò il salvataggio privato di uno dei principali hedge funds della nazione […]»[55]. Ancora peggiori furono le conseguenze dell’annuncio di pochi giorni dopo del governo e della Banca centrale russi: sospensione dei pagamenti delle obbligazioni a breve termine; ciò significava, in sostanza, la bancarotta. Terza importante decisione fu quella di sospendere per tre mesi tutti i pagamenti di debiti in valuta estera e divieto di assumere nuovi crediti.

 

Tutti questi provvedimenti fecero giungere la crisi al suo apice e l’autunno fu durissimo per tutti, dalle banche agli operai, dagli imprenditori ai piccoli risparmiatori, ma fu il punto di partenza per una ripresa, quasi come se la crisi avesse “sbloccato” l’economia russa. Dal punto di vista politico, Eltsin licenziò Kirienko e fu costretto a cedere alle pressioni della Duma, per la prima volta dal 1993, nominando infine al suo posto Evgenij Maksimovič Primakov, già ministro degli Esteri e direttore del controspionaggio (Svr), in Occidente considerato un tecnocrate di matrice comunista. Primakov affidò la gestione dell’economia a Jurij Masljukov, che era stato presidente del Gosplan durante l’ultimo periodo della perestrojka, e pose alla testa della Banca centrale Viktor Geraščenko, anch’egli proveniente dalla schiera degli apparatchik riformisti del periodo gorbacioviano. Il governo Primakov realizzò quei limitati ma fondamentali provvedimenti necessari alla fuoriuscita dell’economia russa dalla fase più acuta della crisi. Alcuni osservatori e analisti di politica internazionale presero a considerare il 1998-’99 come un turning point nella politica russa, verso la graduale transizione dalla lunga e controversa presidenza Eltsin all’affermazione di una classe dirigente meno propensa all’assoluta ed interessata sudditanza ai dogmi del Washington consensus. Se il 1998 chiuse un’era, il 1999 ne aprì un’altra.

 

CONCLUSIONI.

Giunge il momento delle conclusioni, in cui si può esercitare un raffronto tra la situazione economico-sociale nell’Unione Sovietica precedente e successiva al processo di dissoluzione dello Stato unitario ed alla nascita di una pluralità di repubbliche cosiddette “indipendenti”, nell’analisi di uno storico e di un economista, entrambi di rilevante fama.

Scrive, in merito alla situazione economico-sociale ex-ante 1991, Angelo D’Orsi, citando un dossier redatto da Cristina Carpinelli e Alexander Hobel:

 

A partire dalla messa fuorigioco di Gorbacev in Unione Sovietica, rapidissimamente disunitasi, gli avvenimenti precipitarono […]. Il dato più grave è […] quello economico-sociale, con punte di forte drammaticità. In effetti, i cardini su cui poggiava il sistema furono completamente, precipitosamente abbattuti. Essi sono stati così riassunti: 1) l’occupazione era predominante nel settore statale (90% degli occupati); 2) il reddito da lavoro insieme ai trasferimenti sociali costituiva oltre i tre quarti del reddito totale; 3) l’imposta fiscale sul reddito individuale era quasi inesistente e, pertanto, non aveva la funzione di regolazione del reddito; 4) i sussidi per i minori corrispondevano al 3% del reddito lordo, tre volte il livello delle economie di mercato; 5) la distribuzione pro capite dei trasferimenti sociali era universale, vale a dire non esclusivamente diretta alle persone bisognose come nelle economie di mercato; 6) i social benefit erano erogati dallo Stato a costi bassissimi o gratuitamente; 7) il finanziamento statale si basava sui profitti delle imprese statali e non sul gettito fiscale proveniente dal reddito individuale e dai consumi come nelle economie di mercato; 8) i salari erano distribuiti più equamente che nelle economie di mercato, con differenze, seppur non elevate, tra le retribuzioni dei lavoratori di concetto e quelli manuali. Nel complesso, poiché le imposte e i trasferimenti sociali erano sostanzialmente neutrali, l’ineguaglianza si manifestava soprattutto come ineguaglianza retributiva; 9) sebbene i redditi medi e gli standard di vita fossero bassi, l’incidenza della povertà, per via del carattere universale dei trasferimenti sociali e della distribuzione abbastanza «egualitaria» dei salari, era relativamente bassa (tra il 5 e il 10%) rispetto agli standard internazionali, e poche erano le persone che vivevano in estrema povertà.

Con tutti i limiti di un “sistema bloccato”, e ormai preda di inefficienze e corruzione (a beneficio delle dirigenze di partito), ovviamente prescindendo dal piano delle libertà democratiche – assenti – e, soprattutto, dagli aspetti autoritari, vessatori e in certe fasi persecutori verso quanti fossero sospetti non di opposizione, ma di semplice «dissidenza», è evidente che non tutto quello che si era realizzato in URSS e nelle altre «democrazie socialiste» fosse da buttare.[56]

 

L’economista canadese Michel Chossodovsky descrive invece la situazione economico-sociale in Russia dopo il 1992, con le seguenti parole:

 

Con l’approfondirsi della crisi [in Russia], la popolazione si trovò sempre più isolata e vulnerabile. La “democrazia” era stata ufficialmente instaurata, ma i nuovi partiti politici, separati dalle masse, tenevano soprattutto conto degli interessi di mercanti e burocrati. L’impatto del programma di privatizzazione sull’occupazione fu devastante: oltre il 50% degli stabilimenti industriali fu condotto al fallimento entro il 1993. Inoltre, negli Urali in Siberia, intere città, appartenenti al complesso militar-industriale e dipendenti da crediti e approvvigionamenti statali stavano per essere chiuse. Nel 1994 (secondo cifre ufficiali), i lavoratori di circa 33.000 aziende indebitate, fra cui società statali e fattorie collettive, non riscossero regolarmente gli stipendi. Non solo si stava andando verso il costante impoverimento e la disoccupazione di massa; il tessuto della società russa si stava profondamente lacerando, con lo sfacelo delle istituzioni e la probabile disgregazione della Federazione Russa. I politici del G7 dovrebbero valutare con attenzione le conseguenze delle proprie azioni nell’interesse della pace mondiale. I rischi per la sicurezza geopolitica globale sono di vasta portata; la reiterata applicazione del pacchetto economico del FMI significa disastri per la Russia e l’Occidente.[57]

 

Nello specifico, conseguentemente agli alti interessi, il tasso di cambio si sopravvalutò rendendo difficili le esportazioni ma convenienti le importazioni; i continui prestiti erogati ebbero l’effetto di indebitare ulteriormente lo Stato senza apportare grandi benefici in quanto finirono per lo più nei conti correnti svizzeri degli oligarchi; le privatizzazioni furono una sorta di saldo di fine stagione in cui pochi individui riuscirono a diventare proprietari di aziende dal potenziale enorme impiegando pochissimo denaro e facendo leva su un sistema di corruzione che si era enormemente sviluppato rispetto all’era sovietica.

Questa lunga lista di errori aveva però origine da una gigantesca mancanza:

 

I riformatori economici radicali che hanno cercato di dare consigli alla Russia e a molti altri paesi in fase di transizione economica [...] ritenevano che l’imminente rivoluzione del mercato rendesse irrilevante qualsiasi conoscenza potessero offrire la storia, la sociologia o altra discipline. I fondamentalisti del mercato predicavano l’economia che si legge sui libri di testo – una versione ultra semplificata dell’economia di mercato che tiene in scarsissima considerazione qualsiasi dinamica di cambiamento[58].

 

Perseguendo invece nelle loro convinzioni, hanno generato non solo un abbattimento di tutti i valori economici (un dato tra tutti quello del PIL, che secondo la Banca Mondiale nell’anno 2000 equivaleva a meno di due terzi di quello del 1989[59]), ma un generale declino del tenore di vita della popolazione russa. Gli indicatori sociali, rapportando il 1998 al 1989, indicavano un abbassamento della vita media di 3,07 anni; la fetta di popolazione che viveva sotto la soglia di povertà è passata dal 2 al 23,8 percento; al quintile più basso della popolazione faceva capo una quota di reddito dell’8,6 percento; oltre il 40 percento dei cittadini disponeva di meno di quattro dollari al giorno per vivere; oltre il 50 percento dei bambini viveva in famiglie povere.[60]

 

In termini economici, il sistema fu

 

«completamente polverizzato dalla privatizzazione totale e dall’introduzione del cento per cento del libero mercato all’istante ed a qualunque costo […]. Sia gli economisti russi radicali sia i consulenti stranieri avevano ragione nel supporre che il sistema esistente, o per meglio dire il dirigismo economico, finché era esistito, fosse inferiore alle economie basate primariamente sulla proprietà e sull’impresa privata e che il vecchio sistema, anche in forma modificata, fosse condannato alla catastrofe. Tuttavia, entrambi fallirono nel confrontarsi con i problemi reali di come si dovesse trasformare in pratica l’economia centralmente pianificata in un tipo o in un altro di economia dinamicizzata dalla presenza del mercato». [61]

 

La dissoluzione dell’Unione Sovietica è stata da autorevoli geopolitici e storici, non solo russi, tra i quali Eric J. Hobsbawm, considerata una catastrofe sotto vari aspetti: economici, politici e sociali. Hobsbawm afferma infatti:

 

La distruzione dell’URSS provocò […] il rovesciamento di quasi quattro secoli di storia russa e il ritorno del Paese alle dimensioni e al profilo internazionali che esso aveva prima di Pietro Il Grande (1672-1725). Poiché la Russia, sotto gli zar o come URSS, era stata una grande potenza sin dalla metà del Settecento, la sua disintegrazione lasciò un vuoto internazionale tra Trieste e Vladivostok che non era mai esistito prima della storia moderna, tranne per breve tempo durante la guerra civile del 1918-20: una vasta zona di disordine, di conflitto e di potenziale catastrofe.[62]

 

BIBLIOGRAFIA.

 

Chiesa, G., Russia addio. Come si colonizza un impero, Editori Riuniti, Roma, 1999.

 

Chossudovsky, M., Globalizzazione della povertà e Nuovo ordine mondiale, EGA, Torino, 2003.

 

D’Orsi, A., 1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio, Ponte alle Grazie, Firenze, 2009.

 

Hobsbawm, E. J., Il secolo breve 1914/1991, Bur, Milano, edizione 2009.

 

Medvedev, R., La Russia post-sovietica. Un viaggio nell’era Eltsin, Einaudi, Torino, 2002.

 

Rubbi, A., La Russia di Eltsin, Editori Riuniti, Roma, 2002.

Stiglitz, J. E., La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino, 2002.


 

INDICE.

 

Introduzione…………………………………………………………………………………2

 

Capitolo I – La liberalizzazione dei prezzi…………………………………………………3

 

Capitolo II – La svendita della proprietà statale nell’éra Eltsin…………………………6

 

Capitolo III – La crisi del 1998……………………………………………………………11

 

Conclusioni…………………………………………………………………………………14

 



[1] Ricostruzione.

[2] Trasparenza.

[3] R. Medvedev, La Russia post-sovietica. Un viaggio nell’era Eltsin, Einaudi, Torino 2002, p.11.

[4] Ivi, p. VI.

[5] A. Rubbi, La Russia di Eltsin, Editori Riuniti, Roma 2002, p.132.

[6] Abbreviazione di Gosudarstvenny Komitet po Planirovaniyu, cioè la Commissione statale per la Pianificazione.

[7] R. Medvedev, op. cit., p.17.

[8] Il copeco (копе́йкаkopejk) entrò in vigore nel 1704 nella Russia zarista. Il rublo divenne così la prima moneta decimalizzata.

[9] R. Medvedev, op. cit., p.17.

[10] ivi, p.18.

[11] ivi, p.18.

[12] Secondo un recente sondaggio svolto dal centro Levada e pubblicato da Russia Today, più della metà della popolazione vede in Leonid Breznev il miglior capo dello stato nel secolo scorso, precedendo Vladimir Lenin e Josif Stalin; al penultimo ed ultimo posto dell’indice di gradimento figurano rispettivamente Boris Eltsin e Mikhail Gorbaciov (http://www.statopotenza.eu/7511/per-i-russi-breznev-il-miglior-leader-del-20-secolo-gorbaciov-il-peggiore) .

[13] J. E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002, p.144.

[14] R. Medvedev, op. cit., p.12.

[15] Cit. in R. Medvedev, op. cit. p.92-93.

[16] Fabbriche e imprese di grossa consistenza, complessi industriali e agroalimentari. Tralasciamo per brevità la cessione delle case a scopo abitativo, di piccole imprese, strutture commerciali e di servizi.

[17] La sezione giovanile del PCUS.

[18] Ora San Pietroburgo.

[19] R. Medvedev, op.cit., p.97.

[20] Ad esclusione di alcune grandi aziende che verranno privatizzate in tempi e modi differenti.

[21] A. Rubbi, op. cit., p.137.

[22] Op. cit., A. Rubbi, op.cit., p.137.

[23] Come facile immaginarsi, molti cittadini non ricevettero mai il buono di loro spettanza, basti pensare a quanto sia grande il territorio russo e in quale zone molto remote abiti una cospicua parte di essi.

[24] Questo decreto riguardava la parte più importante del tessuto produttivo russo; banche, industrie automobilistiche, società estrattive, aziende dell’industria pesante, dei servizi, insomma il cuore della produttività e della creazione di ricchezza dello Stato.

[25] Acronimo di Ural’s’kiy Mashinostroitelnyy Zavod.

[26] Al momento della privatizzazione impiegava più di 100.000 lavoratori.

[27] Zavod imeni Likhachova.

[29] ibid.

[30] R. Medvedev, op. cit., p.102.

[31] ibid.

[32] A. Rubbi, op. cit., p.154-171.

[33] Cit. in R. Medvedev, op. cit., p.103.

[34] ibid.

[35] ivi, p.159-160.

[36] ibid.

[37] J. E. Stiglitz, op. cit. p.145.

[38] A. Rubbi, op. cit., p.173.

[39] ivi, p.174-175.

[40] M. Chossudovsky, op. cit. p.310-311.

[41] Il punto più drammatico della politica russa fu raggiunto il 4 ottobre 1993, quando Boris Eltsin, con il sostegno degli Usa e del Fmi, diede ordine all’esercito di bombardare il palazzo del parlamento (da alcuni anni chiamato Casa Bianca) con centinaia di deputati e civili all’interno; le cifre ufficiali parlarono di 148 morti e oltre 500 feriti ma, secondo quanto dichiarato da alcuni funzionari del Ministero degli Affari Interni alla Nezavisimaja Gazeta, furono non meno di 1500. I rapporti tra il Soviet Supremo ed il governo erano conflittuali, così Eltsin emanò, un mese prima del bombardamento, un decreto di scioglimento (ukaz) che non venne accettato dall’opposizione. Si arrivò quindi ad alcuni giorni di scontri nelle strade di Mosca fino all’epilogo finale, con centinaia di arresti nelle file dei partiti d’opposizione, torture nelle carceri, decreti di messa al bando di molte organizzazioni politiche ed un sostanziale restringimento delle libertà democratiche. Una volta sciolto d’imperio il Soviet Supremo Eltsin sottopose la popolazione, nel dicembre 1993, ad un referendum costituzionale (tenutosi contestualmente alle elezioni per la nuova Duma) che, passato non senza pesanti sospetti di brogli, ridisegnò l’architettura istituzionale della Federazione Russa; la nuova costituzione consegnava al presidente ampi poteri, ridimensionando, di concerto, quelli del parlamento. Cfr. Roy Medvedev, op. cit., p.106-151, 231-259; M. Chossudovsky, Globalizzazione della povertà e nuovo ordine mondiale, EGA, Torino 2003, p.306-310.

[42] R. Medvedev, op. cit., p.321.

[43] Op. cit, R. Medvedev, op. cit., p.322.

[44] All’inizio del 1998 venne introdotto, grazie all’apparente stabilizzazione monetaria, il “nuovo rublo”, pari a 1.000 vecchi rubli.

[45] R. Medvedev, op. cit., p.340.

[46] R. Medvedev, op. cit., p.341.

[47] ivi, p.351.

[48] J. E. Stiglitz, op. cit. p.148-149.

[49] ibid.

[50] Cfr. J. E. Stieglitz, op. cit., p.149-152.

[51] J. E. Stiglitz, op. cit. p.152.

[52] Cfr. G. Chiesa, Russia addio. Come si colonizza un impero, Editori Riuniti, Roma, 1999, p.54-56.

[53] Il 23 marzo Eltsin annunciò che il primo ministro Viktor Stepanovič Černomyrdin, il vice-primo ministro Anatolij Čubajs ed il ministro dell’interno Anatolij Kulikov erano congedati. Secondo la legge russa questo aveva come conseguenza le dimissioni dell’intero gabinetto.

[54] Tra i 6,5 e i 9,5 rubli per dollaro. La precedente fascia andava dai 5,25 ai 7,15 rubli per dollaro.

[55] J. E. Stiglitz, op. cit. p.151.

[56] A. d’Orsi, 1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio. Ponte alle Grazie, Firenze, 2009, p.29-30.

[57] M. Chossudovsky, op. cit., p.312-313.

[58] J. E. Stiglitz, op. cit. p.139.

[59] ivi, p.153.

[60] ivi, p.154 e seguenti.

[61] Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914/1991, Bur, Milano, Edizione 2009, p.572.

[62] ivi, p.575.