Caso Eternit: tra testimonianze shock e prescrizione

 19 Aprile 2022

 

caso eternit 1

 

Nel campo dei drammatici eventi riconducibili all’amianto, il caso Eternit è di centrale importanza. La notorietà della vicenda si spiega in gran parte per le dimensioni delle conseguenze catastrofiche per la salutee per l’ambiente. Questo anche a causa dell’attenzione mediatica che l’ha riguardata.

Il Tribunale di Torino, in data 13 febbraio 2012, condanna alla pena di 16 anni gli imputati Stefhan Schmidheiny e Louis De Cartier De Marchienne. Per i delitti di cui all’art. 434 co. 2 c.p. (disastro innominato doloso, aggravato dalla verificazione del disastro) e 437 co. 2 (omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, aggravata dalla verificazione di infortuni). In relazione agli eventi lesivi per la salute e per l’ambiente derivati dalla produzione di amianto in diversi stabilimenti operanti sino agli anni Ottanta nel nostro Paese. Sono quelli di Casale Monferrato, Cavagnolo, Bagnoli e Rubiera.

Il Tribunale di Genova ha dichiarato falliti nel 1986 tutti gli stabilimenti di Casale Monferrato e Cavagnolo, Napoli-Bagnoli e Rubiera. I siti sono riconducibili alla holding Eternit Italia Spa prima di proprietà italiana, poi belga. Che fu ceduta a un gruppo svizzero di cui Schmidheiny e De Cartier erano ai vertici entrambi a partire dal settembre 1974.

Caso Eternit, la struttura della sentenza

La sentenza si compone di ben 713 pagine. Gran parte della motivazione descrive le condizioni di lavoro all’interno degli stabilimenti Eternit Italia, servendosi anche di testimonianze.

Sono servite a far emergere come il processo produttivo non rispettasse le più elementari regole precauzionali. Non solo nel periodo in cui l’azienda apparteneva al gruppo belga, ma anche nel periodo in cui apparteneva al gruppo svizzero. Un aspetto su cui si fa luce e fondamentale ai fini dell’imputazione è la dispersione delle polveri di amianto al di fuori dell’ambiente di lavoro.

Nella sentenza si distinguono modalità di dispersione di amianto comuni a tutti gli stabilimenti e modalità peculiari invece dei siti di Casale e di Cavagnolo.

Per quanto riguarda le prime, la sentenza rileva una serie di fonti di inquinamento dell’ambiente esterno alla fabbrica che si riscontrano in tutti i siti produttivi. Vale a dire le modalità di trasporto della materia prima, che avveniva su autocarri privi di copertura che percorrevano le strade cittadine. L’abitudine di affidare il lavaggio delle tute degli operai o il rammendo dei sacchi rotti ai familiari dei lavoratori. La polverosità creata dall’attività produttiva degli stabilimenti in tutta la zona adiacente all’impianto industriale. Le modalità di abbandono degli stabilimenti in seguito alla dichiarazione di fallimento di Eternit Italia.

Gli stabilimenti di Casale e di Cavagnolo

Oltre a queste, negli stabilimenti di Casale e di Cavagnolo vi erano altre fonti di dispersione dell’amianto al di fuori dell’ambiente di lavoro. Per quanto riguarda Casale, era usuale sino alla fine degli anni settanta l’abitudine di cedere gratuitamente o a prezzi assai contenuti a chiunque ne facesse richiesta il cd. polverino (cioè il materiale di risulta della tornitura).

Veniva utilizzato per pavimentare strade o cortili o come isolante nei lavori di costruzione o di manutenzione di edifici. A Cavagnolo, invece, era abitudine della popolazione il riutilizzo dei materiali di scarto, previa loro frantumazione, per sedimentare e rendere più agibili strade, aie e cortili.

Caso Eternit, le testimonianze dei lavoratori

Danno ben poco spazio all’immaginazione le testimonianze dei lavoratori durante il processo Eternit:

“Ho appreso successivamente, ma avevo già visto dal 1972, alcune cose: innanzitutto venivano o regalati o venduti, non so, ai lavoratori, dei sacchi vuoti per il trasporto dell’amianto, i sacchi di juta che arrivavano dalle miniere. Inoltre dei feltri, cioè dei tessuti spessi, che si usano sui macchinari e che dopo un certo tempo devono venire sostituiti, però sono ancora utilizzabili per altro, ma sono piene di fibre di amianto ed in particolare so che alcuni di questi feltri erano utilizzati come tappeti a casa dei lavoratori…” (deposizione Bontempelli, 28 giugno 2010, pag. 84 trascr.).

E ancora:

“Il polverino veniva prodotto regolarmente e i cittadini o i lavoratori che ne facevano richiesta, veniva dato… si dice gratuitamente, io avevo incontrato anche qualcuno che lo aveva pagato anche 100 lire a quintale”

Pubblico ministero: Questo in che periodo?

Teste: “Questo… verso la metà degli anni ’70, che l’aveva pagato 100 lire al quintale, con il motocarro…andavano a ritirarlo per i cortili, per i sottotetti quale coibentante, oppure veniva bagnato e poi si risolidificato quasi come cemento quindi si facevano magari l’aia, persino un’aia della chiesa, di Odalengo, un paese del Monferrato, si scoprì sette, otto anni fa, più o meno, che l’aia della chiesa era fatta di polverino, cioè gli usi erano molteplici.”

 

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(pavimento cortile realizzato con il polverino di amianto a Casale Monferrato)

 

Art. 437 c.p.: sulle cautele contro infortuni sul lavoro

L’articolo 437 c.p. così recita: “Chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è della reclusione da tre a dieci anni”.

“Quanto alla fattispecie primo comma, non necessita di particolare verifica perché che i danni che il reato esaminato in questa sede ha provocato sono così evidenti, da rendere superfluo affrontare la questione affrontata. La condotta consiste nella mancata adozione delle cautele richieste specificamente dalla normativa antinfortunistica, e più in generale di tutte le cautele imposte al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c.”.

Per quanto riguarda il secondo comma, la sentenza spiega che la necessità del dolo rispetto all’evento-infortunio non significa che esso debba essere accompagnato da lesioni personali poiché non bisogna confondere il concetto di infortunio con quello di lesioni personali che ad esso possono conseguire, perché non è detto che, in tutti i casi di infortunio, si registrino anche delle lesioni, ben potendo ipotizzarsi un infortunio sul lavoro privo di lesioni personali.

 

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(operaio al lavoro in una fabbrica di amianto senza protezioni)

 

Ex art. 434 c.p.: disastro innominato (ambientale e sanitario)

La motivazione relativa al reato di cui all’art. 434 c.p. prende le mosse dalla nozione di disastro fornita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 327 del 2008, secondo cui per disastro deve intendersi “sul piano dimensionale un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone”.

Così con riferimento a manifestazioni gravi o allarmanti di inquinamento, ritenute integrare un “disastro ambientale”. Ovvero in relazione a plurimi eventi lesivi ritenuti espressione, sulla base di indagini epidemiologiche, di un eccesso di mortalità rispetto ai coefficienti attesi (disastro sanitario).

La sentenza osserva come nel caso in esame l’accertamento della condotta necessaria per la fattispecie disciplinata dal primo comma dell’art. 434 assume un’importanza relativa. Perché non siamo in presenza di un fatto soltanto diretto a cagionare un disastro, bensì di un fatto che ha provocato un disastro di portata catastrofica. Come si evince dalla descrizione di quanto è realmente accaduto e continua ad accadere e dal numero delle persone offese, purtroppo non ancora definitivamente quantificabili.

La responsabilità di Schmidheiny e De Cartier

Gli imputati pur non ricoprendo alcuna carica formale dell’azienda in esame, furono accusati di essere perfettamente a conoscenza delle condizioni in cui tali stabilimenti si trovavano. Come pure della pessima qualità dei rispettivi ambienti di lavoro, della pericolosità delle specifiche lavorazioni, dell’elevata mortalità degli operai e dei cittadini che ne derivava.

Per quanto riguarda invece diffusione dell’amianto al di fuori dei luoghi di lavoro, vero è che non sono state realizzate personalmente dagli imputati, ma essi – sempre secondo l’accusa – ne erano a “piena conoscenza” e non ne hanno impedito la realizzazione.

Il 19 Novembre del 2014 la Corte di Cassazione annulla le precedenti condanne (anche quella di secondo grado), sulla base della prescrizione. È ora in corso il processo Eternit bis diviso in 4 tronconi. L’accusa verso Schmidheiny (De Cartier De Marchienne Louis nel frattempo è deceduto), è ora quella di omicidio colposo.

Processo Eternit bis Napoli

L’imprenditore anche nel processo incardinato a Napoli è stato, però, condannato soltanto per uno degli 8 decessi contestati, a 3 anni e 6 mesi di reclusione. Per sei capi di accusa è intervenuta ancora la prescrizione, per un altro è stato invece assolto. In questo troncone, come in altri del processo Eternit bis, l’Ona – Osservatorio nazionale amianto, si è costituita parte civile attraverso l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’associazione.

L’Ona è da sempre al fianco delle vittime e dei loro familiari, che ancora chiedono giustizia. L’amianto è stato ed è ancora per il Paese una ferita aperta. Con oltre 31mila decessi soltanto per mesotelioma, il tumore sentinella della presenza dell’asbesto, come riportato nel VII Rapporto ReNaM dell’Inail.

A queste vanno aggiunte tutte la altre malattie asbesto correlate, come spiegato dall’avvocato Bonanni nella sua ultima pubblicazione: “Il libro bianco delle morti di amianto in Italia – ed. 2021“. L’organizzazione punta anche alla bonifica dei siti contaminati e per questo ha realizzato una App per le segnalazioni. Tutti i cittadini possono utilizzarla.

 

Arianna Donateo

Da ona