Traccia dell’intervento per il dibattito “1980: i 35 giorni che hanno cambiato l’Italia. Cause ed effetti della madre di tutte le sconfitte”

Organizzato da Sinistra Critica nel 30° anniversario dell’ottobre 1980   circolo ARCI Oltrepo di Torino - venerdì 22 ottobre 2010

raccontano la storia: Nino De Amicis, storico del movimento operaio – Pietro Perotti e Cesare Allara, già delegati FLM Fiat Mirafiori – Franco Turigliatto, responsabile Lavoro LCR anni ’80

 

Due sono le domande a cui rispondere per capire gli avvenimenti torinesi dell’autunno 1980 e la relazione che essi hanno con la situazione attuale.

La sconfitta dei lavoratori ai cancelli della FIAT dopo 35 giorni di lotta era inevitabile? E se non ci fosse stata quella sconfitta, oggi i rapporti di forza fra le classi in Italia sarebbero diversi da quelli che sono? In altre parole, e per stare all’affascinante titolo del dibattito, l’autunno 1980 a Torino è la madre di tutte le sconfitte?

Alla prima domanda rispondo con quasi assoluta certezza in modo affermativo. Forse, un forse oltremodo aleatorio, se gestita in modo più energico dalle avanguardie del consiglio di fabbrica, la battaglia dei 35 giorni avrebbe potuto finire in un modo meno catastrofico, ma la guerra a mio avviso era ormai irrimediabilmente perduta.

Se quanto ho affermato è vero, conseguentemente l’autunno 1980 ai cancelli della FIAT non può essere considerato la madre di tutte le sconfitte. La matrice della sconfitta degli operai FIAT va invece ricercata negli avvenimenti degli anni ’70 e soprattutto nelle scelte politiche che in quegli anni fecero i sindacati e i partiti della sinistra: insomma, a mio avviso, l’ottobre 1980 notificò una sconfitta che era già maturata ampiamente in precedenza.

 

Una disamina del comportamento delle forze politiche di sinistra e dei sindacati in quei fatidici anni ’70 è anche la migliore chiave di lettura per comprendere le ragioni della storica disfatta culturale e politica culminata nell’aprile 2008 con l’uscita dal Parlamento italiano di qualsiasi rappresentanza della cosiddetta “sinistra radicale”, comunista o sedicente tale. Nonché del declino e della crisi della democrazia rappresentativa così com’era stata prevista dalla Costituzione; crisi della rappresentatività che spianerà la strada a Berlusconi e al berlusconismo di destra e di sinistra. Responsabilità questa, che come dimostrano i fatti, è tutta, ma proprio tutta, da addebitare alle forze della sinistra istituzionale e alla complicità dei sindacati.

Va notata innanzitutto l’eccezionale durata in Italia del ciclo di lotte iniziate alla fine degli anni ’60, lotte di cui la sinistra extraparlamentare ne fu l’avanguardia, dentro e fuori del sindacato. In altri dibattiti fatti in precedenza, quasi tutti i protagonisti di quelle lotte hanno convenuto che era impossibile, anche per ragioni fisiche, mantenere per tanti anni altissimi livelli di militanza e di conflittualità. Mancò una sponda politica, mancò il partito della classe operaia (come vedremo più avanti, il PCI non era più tale) che avrebbe dovuto amplificare le lotte in fabbrica e produrre quelle alleanze sociali che avrebbero permesso alla classe operaia di sentirsi meno isolata. A ben vedere, il partito e le alleanze sociali è ciò che manca ancora oggigiorno. Questo enorme pezzo di responsabilità della sconfitta va tutto attribuito alle organizzazioni della sinistra extraparlamentare.

Quel ciclo di lotte operaie avviene verso il termine di quella che lo storico inglese Eric Hobsbawm ne “Il secolo breve” ha definito “l’età dell’oro”, cioè quel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale a circa la metà degli anni ’70, così soprannominato perché un’ondata di relativo benessere investì in varia misura l’Occidente capitalistico.

Molto brevemente, sono proprio le lotte dei lavoratori, unite alla saturazione dei tradizionali mercati europei, alla crisi petrolifera determinata dalle nazionalizzazioni operate nei primi anni ’70 nei paesi arabi e alla guerra del Kippur dell’ottobre 1973, che affrettano la fine del ciclo keynesiano.

Si pone per i padroni il problema di ricreare quei margini di profitto che un’economia basata sulla spesa pubblica assistenziale, sull’inflazione, sul welfare-state ecc, non gli può più garantire, cambiando anche un’organizzazione della produzione che si era rivelata assai vulnerabile.

La riorganizzazione del sistema capitalistico si appoggia nei primi anni ’70  alle teorie del movimento neo-liberista di cui sono sostenitori l’economista Milton Friedman e l’università di Chicago, teorie basate soprattutto sulle privatizzazioni, sulle liberalizzazioni, sull’antistatalismo in generale.

Queste “nuove” teorie sono sperimentate subito nel Cile di Pinochet, ma il più famoso e rigoroso dei Chicago Boys (cioè i seguaci di Friedman) rimane l’economista Domingo Cavallo che venne nominato ministro dell’Economia in Argentina nel 1991. Negli anni ’90 propinò appunto una “cura da Cavallo” al suo paese, stabilendo per legge la parità del cambio fra il dollaro USA e il peso argentino, azzerando un’inflazione a quattro cifre, ma provocando poi nel 2001 il disastro del debito pubblico argentino con le conseguenze che tutto il mondo ancora ricorda.

 Questi fattori internazionali uniti a quelli specifici italiani che adesso andrò molto sinteticamente ad enunciare, mi portano a concludere che, anche se non ci fosse stata la sconfitta dell’ottobre 1980, per la natura dei sindacati e della “sinistra” italiana che vedremo fra breve, i rapporti di forza tra le classi sarebbero più o meno quelli che ci ritroviamo oggi.

Venendo quindi all’Italia, occorre tenere conto di due fattori essenziali per comprendere gli avvenimenti: la subalternità della CGIL al PCI per cui la politica del sindacato era strettamente legata alle esigenze del partito, e soprattutto il cambiamento della natura del PCI, cambiamento che a mio parere avviene intorno all’inizio degli anni ’70, sicuramente nel 1972 con la fine della segreteria di Luigi Longo.

A quel tempo il PCI era l’unico partito di sinistra alternativo alla DC. Il PSI ormai dai primi anni ’60 aveva optato per la collaborazione governativa con la DC e con gli altri partiti centristi, formando con questi alleati i primi governi di centrosinistra; ed è proprio per questa sua vocazione governista che inizia a trasformarsi, già negli anni ’60, da partito operaio a partito degli affarismi e delle clientele. 

Il PSIUP, nato nel gennaio 1964 da una scissione da sinistra del PSI, nelle elezioni del  maggio 1972 non ottiene il quorum e si scioglie. Molti suoi iscritti come ad esempio Fausto Bertinotti aderiscono al PCI, mentre con la nuova segreteria Berlinguer fanno rapidamente carriera nel partito giovani rampanti come D’Alema, Fassino, Veltroni e si iscrivono personaggi come Sandro Bondi, al suo paese soprannominato “ravanello” perché rosso fuori e bianco dentro. 

E’ sbagliato, parlando dei personaggi sunnominati, tirare in ballo la categoria di tradimento degli ideali del partito. Effettivamente costoro, come hanno più volte dichiarato, non furono mai comunisti , non volevano in alcun modo cambiare radicalmente lo stato di cose presente, ma semplicemente gestire al posto della DC o con la DC il sistema capitalistico vigente. Cosicché all’interno del più grande partito comunista dell’Occidente, i comunisti erano una trascurabile minoranza e facevano riferimento prevalentemente ad Armando Cossutta.

I tanti cambi di nome che il partito effettua, PCI-PDS-DS-PD, segnano anche le sue innumerevoli evoluzioni ideologiche: da partito della classe operaia a partito socialdemocratico nel senso peggiore del termine, a partito neoliberista, a concorrente della destra nella difesa degli interessi padronali,  dalle ordinanze della BCE a quelli di Marchionne.

Tornando agli anni ’70, basta mettere in fila alcuni dei principali eventi politici e sindacali per rendersi conto delle trasformazioni.

Dopo il colpo di stato in Cile contro il governo di Salvador Allende l’11 settembre 1973, Berlinguer con tre articoli su Rinascita  lancia il “compromesso storico”. I tre articoli escono fra il 28 settembre 1973 e il 12 ottobre 1973 con il titolo generale di Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile. I titoli sono: Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni – Via democratica e violenza reazionaria – Alleanze sociali e schieramenti politici.

Scrive Berlinguer: “Sarebbe del tutto illusorio pensare che anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51% dei voti e della rappresentanza parlamentare … questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse espressione di tale 51%. Ecco perché noi parliamo non di una “alternativa di sinistra”, ma di una “alternativa democratica”, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di un’intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico”.

Grazie soprattutto alle lotte e alle conquiste dei lavoratori, alle elezioni amministrative del 15 giugno 1975,  vi è una grande avanzata delle sinistre e in particolare del PCI. Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Venezia sono conquistate dalla sinistra. A Torino, un numero impressionante di cittadini “entusiasti”vuole iscriversi al PCI; la federazione torinese blocca per un breve periodo di tempo le iscrizioni.

In un’intervista a Gianpaolo Pansa del Corriere sella Sera del 15 giugno 1976, Berlinguer dichiara: “Non desidero affatto l’uscita dell’Italia dalla NATO, perché dentro il Patto Atlantico, sotto questa organizzazione, l’Italia oltre che contribuire a consolidare gli equilibri internazionali, permette di costruire il socialismo nella libertà”.

Alle elezioni politiche del 20-21 giugno 1976 il PCI raggiunge il 34,4%, miglior risultato mai ottenuto.

Il 29 luglio 1976 nasce il nuovo governo monocolore Andreotti che ottiene la “non sfiducia” di tutti i partiti compreso il PCI e ad eccezione del MSI.

Nell’ottobre 1976 durante un Comitato Centrale del PCI, Berlinguer enuncia la “politica dell’austerità” ed il 15 gennaio 1977, ad un convegno di intellettuali al teatro Eliseo di Roma, ne precisa i contenuti.

Solo undici giorni dopo, il 26 gennaio 1977, con l’intento di “ frenare l’inflazione e difendere la moneta attraverso il contenimento del costo del lavoro e l’aumento della produttività”, CGIL-CISL-UIL firmano un accordo con la Confindustria che prevede l’eliminazione degli scatti futuri di contingenza dal conteggio del TFR e l’abolizione di sette festività, cinque religiose e due civili: Ascensione e Corpus Domini che vengono spostate col consenso del Vaticano dal giovedì alla domenica successiva; San Giuseppe (19 marzo), S. S. Pietro e Paolo (29 giugno) e l’Epifania (6 gennaio) che verrà ripristinata nel 1986; l’anniversario della vittoria (4 novembre) e la festa della repubblica (2 giugno) che sarà ripristinata nel 2001.

L’accordo regala una valanga di miliardi di lire ai padroni sottraendoli ai lavoratori, ed aumenta l’orario di lavoro. Qualcuno quantificò in 250.000 i posti di lavoro non più disponibili per l’aumento dell’orario annuale di lavoro. E’ il primo accordo nella storia sindacale volto solo a peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori.

Il 17 febbraio 1977, il segretario generale della CGIL Lama parla all’università La Sapienza di Roma, ma viene contestato da studenti dell’Autonomia in lotta contro la riforma Malfatti. Seguono scontri fra servizio d’ordine del PCI e studenti, e Lama è costretto a fuggire.

Gli studenti scandiscono slogan ironici: Lama star, superstar, i sacrifici vogliamo far  - L’ama o non L’ama, più nessun Lama – I lama stanno nel Tibet – Ti prego Lama non andare via, vogliamo ancora tanta polizia – Sacrifici, sacrifigici – Andreotti è rosso, Fanfani lo sarà -  Più baracche meno case – Più lavoro meno salario -  Potere padronale – E’ ora, è ora, miseria a chi lavora – Il capitalismo non ha nazione, l’internazionalismo è la produzione.

Nel giugno del 1977, sempre col nobile intento di “favorire l’occupazione” viene varato il “contratto di formazione lavoro”. Lo Stato offre incentivi  in forma di sgravi contributivi al datore di lavoro che  può assumere ragazzi con lo scopo di insegnarli un mestiere. In realtà, per il ragazzo, è una forma di assunzione al lavoro in condizioni peggiori. Inizia la frantumazione dei contratti dei lavoratori.

In una intervista che appare su Repubblica  del 24 gennaio 1978, Lama  dichiara che per far uscire l’Italia dalla crisi economica, “il sindacato propone ai lavoratori “una politica dei sacrifici”. Sacrifici non marginali, ma sostanziali”.  Lama afferma che “La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta, i miglioramenti che si potranno chiedere dovranno essere scaglionati nell’arco dei tre anni di durata dei contratti collettivi”.

Lama sconfessa dieci anni di rivendicazioni e conquiste sindacali. Il salario non può più essere una variabile indipendente, “… si stabiliva un certo livello salariale ed un certo livello dell’occupazione e poi si chiedeva che le altre grandezze economiche fossero fissate in modo da render possibili quei livelli di salario e di occupazione. Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza …”.

Lama afferma infine che le aziende hanno il diritto di licenziare: “C’è un certo numero di aziende che ha un carico di dipendenti eccessivo … Perciò, sebbene nessuno quanto noi si renda conto della difficoltà del problema, riteniamo che le aziende, quando sia accertato il loro stato di crisi, abbiano il diritto di licenziare”. 

Il 13-15 febbraio 1978, l’assemblea di CGIL-CISL-UIL che si svolge nel quartiere romano dell’EUR ratifica la nuova linea sindacale proposta da Lama: è la svolta dell’EUR.

Il 28 febbraio 1978 Aldo Moro, nel corso dell’assemblea dei gruppi parlamentari della DC, avanza l’ipotesi di una futura maggioranza parlamentare comprendente DC e PCI. Il governo del paese tanto agognato dal PCI sembra a portata di mano e la classe operaia forse si fa stato come recitava la propaganda del PCI.

Il 16 marzo 1978, le Brigate Rosse sequestrano Moro. Nasce il primo governo di solidarietà nazionale, presieduto da Giulio Andreotti che ottiene l’appoggio incondizionato del PCI nonostante fossero state respinte tutte le sue richieste.  Il 9 maggio viene ritrovato il cadavere di Moro ucciso dalle Brigate Rosse.

Il 9 ottobre 1979, sessantuno dipendenti Fiat ricevono una lettera di licenziamento per “aver costantemente manifestato comportamenti non consoni ai principi della civile convivenza nei luoghi di lavoro”. Pochi giorni dopo, il dirigente del PCI torinese Adalberto Minucci dichiara che “assumendo studenti e disadattati, la Fiat ha raschiato il fondo del barile”. Un altro dirigente del PCI, Giorgio Amendola in un articolo su Rinascita si domanda perché il sindacato “non ha preso per primo l’iniziativa di una lotta coerente contro ogni forma di violenza e di teppismo in fabbrica e contro il terrorismo”. Per avallare meglio le tesi aziendali, Amendola paragona le “violenze” degli operai con le violenze fasciste nei primi anni ’20.

Mentre il PCI cercava di rendersi credibile agli occhi dei padroni quale gestore del sistema capitalistico e di conserva  CGIL-CISL-UIL abbracciavano le ragioni di Confindustria regalandogli moderazione salariale,  aumento delle giornate lavorative annuali e salario differito, la FLM ancora sino al 1979, grazie all’ancora alta mobilitazione operaia, conquistava miglioramenti in materia di orario di lavoro, salario e condizioni di vita in fabbrica.

Questa contraddizione tra la FLM e CGIL-CISL-UIL propone qualche analogia con l’attuale contrapposizione tra la FIOM e la CGIL.

Nell’ottobre 1980 ai cancelli di Mirafiori non ci sarà solo la resa dei conti fra la FIAT e la FLM, ma sarà anche e soprattutto la resa dei conti tra la FLM da una parte e PCI-CGIL-CISL-UIL dall’altra.  In questo senso, è sbagliato affermare che nell’ottobre 1980 il sindacato fu sconfitto. In realtà come si è visto, dai cancelli FIAT esce sconfitto solo il Sindacato dei Consigli, la FLM, in particolare la FLM torinese. 

Il PCI e CGIL-CISL-UIL avevano da tempo deciso che in futuro la loro legittimazione l’avrebbero ricevuta non più dai lavoratori, ma dal padronato.

Tanto che trent’anni dopo, nella situazione odierna, tutte le categorie hanno un loro padrino politico. Gli interessi delle varie mafie godono di un’ampia rappresentanza, trasversale a tutti i partiti; la stessa cosa dicasi per gli evasori fiscali di tutte le taglie. Per rappresentare gli interessi dei cosiddetti “imprenditori”, si sgomita assai fra centrodestra e centrosinistra. Persino i fuorilegge delle quote latte trovano dei validi sostenitori.

L’unica categoria orfana, e che continua ad avere sempre l’ombrello in quel posto, come disegna Vauro, sono i lavoratori. Al momento, senza speranza di cambiamenti, visto come vanno le cose in quell’area politica che in teoria dovrebbe salvaguardare gli interessi delle classi meno abbienti.

Il sogno iniziale del compagno Lenin si è veramente trasformato in un incubo:  da Vladimir Ilic a Vladimir Luxuria e a dimostrazione che al peggio non c’è mai fine, da Luxuria a Niki Vendola. Non ci resta che piangere?

Cesare Allara