Perché tornare a parlare di Che Guevara?

 

Il Che, mio fratelloI cambiamenti importanti al corso della Storia scaturiscono quasi sempre da situazioni di precari e compromessi equilibri sociali. I cambiamenti più repentini vengono in genere connotati come rivoluzioni. Se si parla di rivoluzioni, è facile che il fenomeno venga associato al nome di Che Guevara, propugnatore della rivoluzione più famosa e riuscita degli ultimi secoli.

A sessant’anni dal Trionfo della Rivoluzione Cubana, la figura di Ernesto Guevara de la Serna conserva ancora tutto il potere evocativo dei più nobili e autentici sentimenti che lo ispirarono: la ribellione contro l’ingiustizia, il desiderio di riscatto per gli olvidados e di liberazione del genere umano – a partire dai più deboli – dall’asfissiante giogo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Liberazione di tutti gli uomini, non solo di minoranze da proteggere di volta in volta.

La Memoria del Guerrigliero Eroico è viva nella testa e nel cuore di chi, almeno idealmente, è ancora “capace di sentire nel profondo ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo”, ma è purtroppo innegabile che la storia del Che e delle sue gesta abbiano subìto in questi anni di omologazione e addomesticamento ideologico un attacco che ne ha sfocato i contorni, fino al punto di disinnescare il potere deflagrante del significato autentico e originale di Rivoluzione, fino al punto di trasformare la carica sovversiva in antidoto, come un vaccino, come un esorcismo: se ne parliamo liberamente, vuol dire che non c’è bisogno di rivoluzioni. Fino al punto che oggi è legittimo domandarsi se Ernesto Guevara de la Serna, il Che, rappresenti ancora un ideale di resistenza o se sia invece ridotto al rango di icona pop, di “santino” a cui chiedere pietosa intercessione.

Ecco perché è arrivato il momento di tornare a parlare del Che. Non si tratta di correggere una strategia di marketing, ma dell’urgenza di risvegliare un ideale sopito; di liberare, senza più soffocarla, la rabbia per essere stati raggirati dal mito della fine delle ideologie; di gridare in faccia a chi ci ha propinato questa menzogna che il re è nudo; e anche di rimproverare a noi stessi di aver creduto alla buona fede e al ravvedimento di chi ha già tutto e vuole anche la nostra dignità.

Finché se ne parla non c’è bisogno di rivoluzione. E’ vero, hanno finito quasi per farcelo credere. Ci hanno raccontato che dove si fanno le rivoluzioni – di tutti i colori! – è perché è necessario farle, eppure qui da noi, dove non sarebbero necessarie, protezione e sicurezza sociale hanno fatto inquietanti passi indietro, e i diritti umani fondamentali – lavoro, salute, istruzione e casa – sono tutt’ora e più che mai ostaggio delle logiche opportuniste e ipocrite del dio mercato, nel segno di una narrazione che cancella di fatto ogni possibilità di opporvisi.

Il razzismo, per fare un esempio, è combattuto nel Cinema a suon di proclami contro Peter Pan, ma è considerato una fatalità se a praticarlo è la polizia nelle strade degli Stati Uniti. Si combatte il  fascismo dei pastifici che da 70 anni ne farebbero l’apologia con le abissine e le tripoline, ma sono tollerati il nazismo in Ucraina e il genocidio in Palestina. Come disperata consolazione c’è solamente da augurarsi che a praticare tale pelosa tolleranza e a invocare il ritorno di un Che non siano le stesse persone.

Perché tornare a parlare del Che? E’ la domanda che si è fatta anche Juan Martín Guevara, il più piccolo dei fratelli di Ernesto – sedici anni più giovane – che per cinquant’anni si è rifiutato di parlare del fratello maggiore per dolore, per pudore, per timore dello sciacallaggio mediatico, per non essere equivocato, perché schivo come Ernesto e quindi per non avvantaggiarsi in alcun modo, e infine perché sua sorella Célia era assolutamente contraria.

Nel 2017, Juan Martín Guevara, con l’aiuto e il supporto della giornalista francese Armelle Vincent, decide invece di ripensarci e scrive Il Che, mio fratello. Juan Martín è “capitolato” davanti al solito “Grande Dilemma”: il mito ha consentito all’eroe di sopravvivere agli eventi della Storia e di scavalcare l’oblio, ma lo stesso mito rischia di distruggere l’uomo, di confonderlo con il divino, mentre Ernesto era invece solo e semplicemente un uomo. Nella semplicità di questa verità sta tutta la potenza rivoluzionaria della sua esistenza: era un uomo, nient’altro che un uomo.

Juan Martín Guevara, a 73 anni, si è sentito chiamato a una scelta definitiva: lasciare che il mito ne completasse la beatificazione, oppure raccontare suo fratello Ernesto “come fosse stato mio fratello”, come un uomo che fu bambino e ragazzo, con le sue paure, i suoi dubbi e i suoi problemi.

Juan Martín ha scelto tra tacere ancora oppure rinunciare alle ragioni – sacrosante – che in questi 50 anni lo avevano spinto al silenzio. Ha accettato il rischio, ha superato il dolore e il pudore, ha deciso di confrontarsi, di lottare contro i professionisti della provocazione, di affrontare di petto gli sciacalli dell’informazione i quali, se avessero voluto equivocare, non avrebbero comunque atteso scuse o pretesti. E dunque…

E’ servito parlare? Innanzi tutto è servito per polverizzare qualche luogo comune, come quello che vorrebbe il Che esperto di guerriglia, cinico regolatore di conti, scrittore di diari e racconti di viaggio, ma pensatore solo a tempo perso. Ernesto Guevara de la Serna è stato un pensatore a tutto tondo, cinquemila pagine di riflessioni e confutazioni, di teorie economiche, di critica politica e analisi geopolitica, di studio e applicazione delle teorie marxiste, senza mai abbassare lo sguardo, neanche al cospetto degli amici sovietici. Tanta, tantissima roba.

Il Che serve e servirà sempre per scrollare dal torpore le generazioni che non ne conoscono il mito, ma anche quelle che hanno conosciuto l’uomo e nel mito si sono assopite.

Occore riprendere il cammino, continuare l'esplorazione e l'analisi del suo pensiero, della sua opera e della sua azione. L'Uomo Nuovo continua ad essere necessario e forse ora più che mai, così come  necessaria è la solidarietà internazionalista che il Che vide nella tenerezza dei popoli e che predicò con l'esempio, rinunciando ad allori e privilegi, senza risparmio di sacrifici, consacrandosi alla lotta.
Il comportamento di Cuba in questi tempi di pandemia non è stato casuale, non è caduto dal cielo, e ci dice molto di cosa abbia seminato l’insegnamento e l’esempio del Che, e dovrebbe far riflettere sul crimine che commettiamo quando insistiamo a volerla soffocare.

L'Uomo Nuovo non è un'invenzione, ma la somma dell’idea di libertà e progresso che dovrebbe muovere l'umanità. Fa parte della storia dello spirito dall'Antichità all'Illuminismo, passando per il Rinascimento. Presuppone etica e responsabilità, coscienza sociale e dedizione. Un mondo migliore non è possibile senza un uomo migliore, e lotta, fatica e sacrificio sono l'educazione attraverso cui si realizza. E' la riaffermazione della vita contro la morte. E’ la partecipazione contro lo sfruttamento e la fame. E' umanità profonda, solidale, inarrestabile se è unita. E’ fumo negli occhi dei potenti che per questo la ostacolano, la dividono, la demonizzano e perseguitano dovunque si manifesti.
L'Argentino Ernesto Guevara de la Serna, il Che, è una delle più grandi personalità del XX secolo insieme a Nelson Mandela, Mao Tse-Tung e Ho Chi-Minh. Assassinato, sotterrato anonimamente e diffamato, continua a vivere nelle sue idee.

Dice Juan Martín: “C’è stato un tempo in cui i libri ‘sovversivi’ erano censurati. Il metodo usato oggi è impedirci di leggere spingendoci a guardare la televisione, a navigare in Internet (…). La loro immediatezza mi disturba, tutto ormai deve essere per forza istantaneo, mentre dovremmo invece prenderci il tempo per pensare. (…) Dobbiamo fare qualcosa e sento che il momento è propizio per la diffusione della filosofia di Ernesto. Il suo pensiero è così vasto e lui non ha avuto il tempo di metterne in pratica i principi fondamentali. Io ho almeno il dovere di farli conoscere”.

Vogliono farci credere che sia stata una parentesi. Adesso è ora, dobbiamo riprendere il cammino.

 

Luigi Mezzacappa è coordinatore del Gruppo PatriaGrande del CIVG