Breve storia dell’Islam in Cina. Dalla Rivoluzione Culturale ai giorni nostri - Seconda parte

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Se si dà credito ai titoli dei nostri giornali, sembra che nella RPC sia in atto una severa restrizione della libertà religiosa. Ecco alcuni titoli del 2019-20: “La Cina continua la sua lotta all'Islam”; “Un rapporto sulla persecuzione cinese contro i musulmani”; “In Cina anche i musulmani sono rinchiusi in campi di lavoro forzato”; “Divieto di figli e lavori forzati per la minoranza musulmana in Cina”;

“La Cina distrugge moschee e altari della minoranza musulmana” [da osservare che i musulmani non hanno altari di nessun tipo]; “Il Papa difenda i musulmani dalle persecuzioni cinesi” e altro ancora, sempre sullo stesso tono allarmistico e senza mai citare i pericoli legati al terrorismo/radicalismo. Un’informazione che abbraccia la logica dei “due pesi e due misure” qualora il radicalismo colpisca nei Paesi occidentali oppure in Cina. Inoltre nessuno spiega come in Cina la convivenza di comunità religiose e il rapporto con lo Stato siano normati, e neppure viene detto che le religioni straniere (compresi Cristianesimo e Islam) sono riconosciute per dettato costituzionale con tutele di garanzia o che l’apparato legislativo in proposito è periodicamente implementato da miglioramenti e revisioni.

 

Etnie e statistiche

 

L’Islam è in Cina Yīsīlán jiào, che significa “Religione Pura” e si colloca nel quadro della “convivenza armoniosa socialista”.

Vediamo prima di tutto i numeri e le etnie coinvolte: le statistiche della popolazione del Kuomintang nel 1936 stimavano una popolazione musulmana di circa 50 milioni di individui, affermando che “Ci sono in Cina 42.371 moschee, in gran parte nel Sinkiang, Qinghai, Manciuria, Gansu, Yunnan, Shensi, Hopei, e Henan”. Secondo dati ufficiali dell’anno 2010-11 (Cia World Factbook)in Cina i musulmani censiti sono il 2% della popolazione, ovverosia almeno 20 milioni. [Tanto per orientarsi: il cristianesimo – comprensivo di protestanti (2.2%) e di cattolici (0.2 %) – rappresenta il 2.4 % della popolazione cinese, ovvero 33 milioni di individui].

Le minoranze etniche di fede islamica sono 10 tra le 56 riconosciute dalla Repubblica Popolare; il numero delle moschee (Libaisi, ovvero “Tempio della Preghiera”) è stimato tra 35.000 e 45.000. Per alcuni autori (F. Sisci, Cina e Tibet. Utet, 2008), i musulmani cinesi sarebbero in realtà 100 milioni, e ben 16 dei 56 gruppi etnici riconosciuti dallo Stato.

Secondo l’atlante della distribuzione delle minoranze (Zhongguo shaoshu minzu fenbu tuji, 2002) le 10 etnie di fede islamica sono: Hui(9.816.805), Uyguri(8.399.393), Kazaki (1.250.458), Dongxian (513.805), Kirghizi (168.823), Salar (104.503), Tajiki (41.028), Bao’an (16.505), Uzbeki (12.370) e Tatar (4.890). Secondo dati governativi del 2013, i luoghi di culto sono 35.000 e gli imam più di 45.000.

La stragrande maggioranza dei musulmani (Uyguri, Hui, Uzbeki e Tatar) aderiscono alla tradizione sunnita in materia di diritto rappresentata dalla scuola hanafita, mentre Tagiki e Kirghizi sono per lo più sciiti. L’Islam cinese ha avuto storicamente momenti di coesione, come l’adozione del rito hanafita, ma rimane un insieme eterogeneo di dottrina mistica (sufismo), Shi’a duodecimana ed elementi sunniti (ortodossi). La vocazione prioritariamente commerciale dell’Islam cinese ha limitato elaborazioni dottrinali paragonabili a quelle avvenute in ambito arabo o in Asia centrale. L’Islam cinese è sempre stato vincolato alle politiche imperiali e, in seguito, dello Stato repubblicano e poi comunista, senza che emergessero fermenti culturali in grado di produrre una ricaduta etico-filosofica, infatti esso si è sempre dimostrato interessato – a garanzia della propria sopravvivenza – al riconoscimento delle peculiarità culturali di ogni singola comunità.

 

Costituzione e “Norme relative agli affari religiosi”

 

Già in cantiere nel 2001, il Decreto n. 426 del Consiglio degli Affari di Stato “Norme relative agli affari religiosi” (Zōngjiào shiwu tiaoli) viene firmato da Wen Jiabao e approvato il 7 luglio 2004. Entrato in vigore il 1° marzo 2005, il Decreto è recepito nella Costituzione della RPC (testo del 14 marzo 2004) che nel Capitolo II (Diritti fondamentali e doveri dei cittadini), Articolo 36 sancisce:

“I cittadini della Repubblica Popolare Cinese godono della libertà di credo religioso. Nessun organo dello Stato, organizzazione pubblica o individuo può costringere i cittadini a credere o non credere, né discriminare i cittadini che credono o non credono in una religione. Lo Stato protegge le normali attività religiose. Nessuno può fare uso della religione per impegnarsi in attività che disturbano l’ordine pubblico, mettere in pericolo la salute dei cittadini o interferire con il sistema di istruzione dello Stato. Gli enti religiosi e gli affari religiosi, non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera [o controllo estraneo, n.d.r.]”.

Le nuove Norme del Decreto 426, frutto di un lavoro durato diversi anni e che ha coinvolto organizzazioni religiose ed esperti in campo giuridico-religioso e dei diritti umani, prevedono trasparenza nella gestione degli affari religiosi e una maggiore protezione giuridica. Esse confermano e accelerano la tendenza governativa ad andare incontro alle aspettative dei cittadini credenti, perché una migliore collaborazione tra le varie comunità religiose è considerata oggi necessaria in vista della costruzione di una “società armoniosa”. Le norme in questione sono disposizioni regolamentari nell’ambito del principio legislativo costituzionale perciò la loro attuazione concreta dipende dal Dipartimento per gli Affari Religiosi del Consiglio degli Affari di Stato, arbitro nelle questioni riguardanti le organizzazioni religiose.

Il Decreto 426, composto da 48 articoli e suddiviso in 7 sezioni, affronta temi che abbracciano tutti i settori della vita religiosa, con lo scopo di uniformarne gli aspetti e sottrarli alla varietà di applicazione delle amministrazioni locali. Vengono infatti definiti i limiti di potere dei funzionari pubblici al fine di prevenire abusi e controllare l’operato di chi è preposto (a livello locale) all’attuazione della politica religiosa governativa. Gli articoli 38 e 39 fissano i termini di punibilità di coloro che, per corruzione o interessi personali, compiano degli abusi; si ribadisce che chiunque violi i diritti delle organizzazioni religiose sarà perseguito in base alle norme del Codice Civile, o penalmente in caso di reato. Una novità riguarda la possibilità per le associazioni religiose di possedere terreni e beni immobili, tanto che una sezione è dedicata alla tutela statale dei beni posseduti dagli enti religiosi, con la definizione del diritto legale o personalità giuridica dell’organizzazione religiosa stessa (in precedenza era lo Stato a concedere i terreni per edificare le sedi). In materia di gestione delle sedi (art. 48) sono precisati gli obblighi nella richiesta e nella concessione dei permessi per l’edificazione di strutture. Nella terza sezione sono indicati l’iter burocratico e i tempi entro i quali i funzionari hanno l’obbligo di dare risposta alle domande di allestimento o costruzione di strutture religiose (art. 13). Anche per l’apertura di scuole per la formazione del personale vengono fissate procedure nazionali più precise (art. 8 e 9).

 

L’Associazione Islamica di Cina e storia recente

 

I musulmani cinesi sono rappresentati in modo ufficiale dall’Associazione Islamica di Cina (A.I.C.) (Zhōngguó Yīsīlánjiào Xiéhuì) riconosciuta dallo Stato e supervisionata dall’Amministrazione del Dipartimento per gli Affari Religiosi del Consiglio degli Affari di Stato. Nel luglio 1952 i leader musulmani Burhan Shahidi, Liu Geping, Saifuddin Azizi (futuro Presidente della Regione Autonoma Xinjiang), Yang Jingren, Pu-sheng, Ma Jian, Pang Shiqian e Ma Yuhuai si incontrarono a Pechino per discutere della fondazione, avvenuta l'11 maggio 1953, della prima organizzazione islamica nazionale unificata, ideata per unire tutti i musulmani cinesi. Alla riunione inaugurale a Pechino parteciparono i rappresentanti di 10 nazionalità. Dalla sua fondazione fino ad oggi, ci sono state periodiche conferenze nazionali, sospese tuttavia negli anni della Rivoluzione Culturale lanciata nel 1966.

Concluso il decennio della Rivoluzione Culturale che aveva visto una pesante stretta nella politica religiosa e la chiusura di migliaia di moschee, si avviò una politica di liberalizzazione promossa da Deng Xiaoping nel III Plenum del Comitato Centrale del PCC (dicembre 1978). Si inaugurò così una nuova fase per i musulmani cinesi, considerati un elemento importante per migliorare i rapporti diplomatici e gli scambi commerciali con i paesi arabi. Vennero così intrapresi importanti passi avanti: riapertura delle moschee, ripristino dei diritti dei leader musulmani condannati durante la Rivoluzione Culturale, ripresa ufficiale dei pellegrinaggi alla Mecca; sostegno alla ricerca e a programmi di studio di lingua araba, partecipazione di rappresentanti musulmani alla Conferenza Mondiale sulla pace e le religioni. Vennero inoltre valorizzate le tradizioni alimentari attraverso l’apertura di negozi e ristoranti islamici (in treni, aerei, mense aziendali), ispettori governativi vennero inviati ai macelli per verificare il rispetto delle leggi islamiche di macellazione; i lavoratori musulmani iniziarono a godere di bonus speciali e congedi per la celebrazione delle proprie festività; vennero eletti delegati musulmani a tutti i livelli politici e religiosi.

Nell’aprile 1980, la direzione dell’A.I.C. parlò di “un ponte” tra governo e comunità islamica per l’attuazione di una politica religiosa aperta e tollerante. Nel marzo 1987 la V Assemblea Nazionale dell’A.I.C. si riunì a Pechino per ridefinire gli obiettivi dell’associazione: collaborare con il governo per l’attuazione della politica religiosa, promuovere una migliore gestione degli affari religiosi e delle tradizioni dell’Islam nel rispetto dei diritti giuridici islamici. Tutti i gruppi etnici che adottano l’Islam si ripropongono di partecipare alla costruzione della civiltà materiale e spirituale socialista e di rafforzare relazioni e scambi amichevoli, migliorando la comprensione con i correligionari all’estero a salvaguardia della pace mondiale. I capi religiosi iniziarono così ad appellarsi ai fedeli ribadendo la necessità di studiare i provvedimenti politici riguardanti le minoranze e le religioni nazionali, di contribuire alla gestione democratica delle moschee e di migliorare l’istruzione e la formazione dei funzionari religiosi. Venne inoltre promossa la pubblicazione delle scritture islamiche, il supporto ai periodici musulmani e la valorizzazione dei monumenti storici dell’Islam cinese.

Tuttavia, a partire dall’agosto 1980 nello Xinjiang iniziarono a sorgere movimenti di protesta che rivendicavano l’indipendenza della regione predicando la guerra santa. Nella primavera del 1988 le proteste si accesero ulteriormente, specialmente in seguito alla nuova legge sul controllo delle nascite (che consentiva alle minoranze il previlegio di tre figli rispetto al figlio unico concesso all’etnia Han). I disordini proseguire nel 1988-89 in varie città dello Xinjiang. Gli indipendentisti poterono contare sul sostegno di agitatori sovvenzionati dai servizi russi, interessati al controllo del Turkestan Orientale.

Nel tentativo di sedare gli animi, a novembre 1988 vennero convocati a Pechino tutti i segretari generali dell’A.I.C. delle province e regioni autonome, insieme ai direttori dei seminari islamici. Le parole d’ordine furono: rendere trasparente e democratica l’amministrazione delle moschee, aumentare qualitativamente il livello dei seminari di formazione, facilitare ed incrementare l’autonomia finanziaria dell’Associazione.

Dopo piazza Tiananmen, l’intera dirigenza A.I.C. si riunì per ribadire il proprio sostegno alle posizioni di Deng Xiaoping: migliore educazione patriottica dei giovani, concorrente a “distinguere giusto e sbagliato, mantenere la pace e l’unità del Paese” affinché il governo possa “attuare la sua politica nei confronti delle minoranze e delle religioni”.

Nel 1990 venne lanciata una campagna supportata dai circoli religiosi musulmani, contro il fondamentalismo/fanatismo islamico “regionale” e contro le “forze ostili straniere” che tentavano di fare proseliti e creare tensioni. In contemporanea un gruppo di uyguri, organizzati nel Turkestan Islamic Party of East, proclamava la “guerra santa” con l’obiettivo dichiarato di stabilire uno stato indipendente. Secondo il rapporto del 21 gennaio 2002 del Consiglio di Stato, tra il 1990 e il 2001 tale organizzazione ha commesso oltre 200 atti di terrorismo, tanto che il gruppo viene designato organizzazione terroristica da Unione Europea, Kirghizistan, Kazakistan, Pakistan, Russia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, USA e messo fuori legge dalla RPC in quanto alleato con il Movimento Islamico dell’Uzbekistan, con i Talebani pakistani di Al-Qaeda e attivo nella guerra civile siriana in collaborazione con le brigate uzbeke Jabhat al-Nusra, e IS (ISIL) in attacchi e dissacrazioni di chiese cristiane. La regione dello Xinjiang e quelle implicate in attacchi terroristici vennero chiuse al turismo. Ciò generò una serie di accuse sulla gravità dell’intervento repressivo governativo, che venne prontamente denunciato dai difensori occidentali dei diritti umani, subito pronti a mettere in cattiva luce l’operato di Pechino volto ad impedire la disgregazione dello Stato.  Tuttavia, in aldilà della narrativa occidentale, sia la costruzione e l’ampliamento delle moschee che la moltiplicazione delle scuole coraniche stavano a dimostrare l’interesse governativo per l’Islam in ogni attività che potesse avere ricadute positive su pubblica amministrazione, giustizia, educazione, famiglia, agricoltura, tutela e valorizzazione dei beni culturali. Purtroppo a partire dal 2008, l’anno delle Olimpiadi di Pechino, gli attacchi terroristici in Xinjiang si sono infittiti e sono diventati sempre più cruenti, raggiungendo il culmine nel 2009 e 2014 (Urumqi e Kunming). In questo scenario, le fonti giornalistiche anti-cinesi, le denunce e le inchieste pilotate sui diritti umani continuano a dare risonanza alle limitazioni e ai controlli sulle attività religiose e denunciano, spesso fornendo prove fotografiche del tutto inventate, l’esistenza dei famosi “campi di rieducazione per islamici” che nessuno ha mai effettivamente visto.

Per concludere questa panoramica, è chiaro a chi si preoccupa di andare alle fonti che in Cina l’Islam non è affatto perseguitato, anzi in molte città ci sono gradevoli e vivaci quartieri musulmani di antica fondazione, come a Xi’An con il suo caratteristico bazar, le splendide dimore storiche dei ricchi commercianti musulmani e la maestosa Grande Moschea, inserita nel Patrimonio dell’Unesco nel 1985: un fiore all’occhiello della tutela dei beni culturali, i cui lavori di costruzione iniziarono nel 742, primo anno del regno dell’imperatore Xuanzong (dinastia Tang). Persino in Tibet da circa mille anni c’è una piccola comunità musulmana (nota come Kachee) con moschee, scuole e un quartiere etnico a Lhasa presso la Bada Masjid o Grande Moschea. La comunità musulmana tibetana gode del riconoscimento di identità religiosa (non etnica) da parte dello Stato e oggi le 4 moschee di Lhasa sono ben tutelate dalle forze dell’ordine.

Per di più oggi anche l’Islam è diventato business. Turisti islamici di varie etnie riconoscibili assiepano i luoghi storici e i monumenti, si tengono conferenze degli imprenditori Hui (allevatori e agricoltori), vengono organizzate sagre del cibo musulmano, c’è una Fiera Internazionale del cibo halal e dei prodotti per musulmani. Ogni anno il giro d’affari dell’industria del cibo halal supera abbondantemente i 700 milioni di yuan. La Qinghai Yijia Ethnic Commodities Company Ltd, una delle più grandi fabbriche al mondo di prodotti sviluppati per praticanti musulmani, invia i propri prodotti in Arabia Saudita, Pakistan, Malaysia, Emirati Arabi e Nigeria… con il beneplacito dell’autorità statale…

 

 

Maria Morigi è membro del Comitato Scientifico del CIVG e collabora con l’Osservatorio Italiano sulla Nuova Via della Seta. È autrice di numerosi articoli e saggi di storia delle religioni e geopolitica, fra cui “La Perla del Drago – Stato e religioni in Cina” e “Xinjiang ‘Nuova Frontiera’ – Fra antiche e nuove Vie della Seta” (Anteo Edizioni).