La reporter che racconta il mondo, non vedeva neanche gli ombrelli a Cuba

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16 dicembre 2020

 

 

Doveva essere più o meno gennaio del 2012. In quel periodo, sulle pagine del quotidiano La Stampa imperversava Yoani Sánchez, la “coraggiosa blogger cubana invisa al regime dei fratelli Castro”. Due anni prima avevo visitato Cuba per la prima volta e ricordo di averla trovata molto diversa da come i media più accreditati la descrivevano: un’isola allo sbando e disillusa, militarizzata e abbrutita da un soffocante stato di polizia. Percorrendola in lungo e in largo non ricordo di aver incrociato un solo posto di blocco, e i rarissimi poliziotti che vidi presidiare le strade delle città erano disarmati.

Qualche tempo prima avevo trascorso una breve vacanza in Egitto e Israele. Per la nostra stampa quei Paesi non erano stigmatizzati come lo era invece Cuba, anzi: il secondo era ed è addirittura identificato come l’unica democrazia del Medio Oriente. Eppure, sulle strade egiziane incontrammo posti di blocco ogni due-tre chilometri che ci chiedevano di mostrare i passaporti, e i soldati che in Israele “garantivano” la sicurezza con i fucili a ripetizione a tracolla avevano facce di ragazzi non più che sedicenni. A Cuba, la “feroce dittatura”, non vidi niente di tutto questo, e ricordo di essermi sentito infinitamente più sicuro.

Nonostante sia sempre stato abbastanza impermeabile a certe narrazioni, devo ammettere che anni e anni di notizie martellanti avevano lentamente finito per instillare anche in me la convinzione che il Sol dell’Avvenire al sabor caribeño sarebbe o prima o dopo definitivamente tramontato, e che quindi non valeva più la pena immaginare uno scenario diverso da quello che si era imposto per “manifesta superiorità” su tutti gli altri dopo la caduta del Muro di Berlino. Come disse Fukuyama, la Storia era finita: il migliore dei mondi possibili era il nostro.

Quello storico evento fu salutato da tutti al grido di “mai più muri”, eppure di lì a poco ne vennero eretti altri per i quali non ricordo paragonabili chiamate all’indignazione generale. Forse certi muri sono sbagliati e certi altri invece sono giusti. Voglio avvertire che la mia attuale percezione della qualità e dei problemi dell’informazione – nazionale e internazionale – è pessima, e risente di una più che decennale progressiva sedimentazione di disinganni e frustrazioni. Non è stato sempre così, ma pur non avendo mai creduto ciecamente a nulla, il definitivo cambiamento fu innescato, come qualche volta càpita, da una piccola scintilla, da un fatto addirittura futile, se vogliamo.

Due giorni prima di imbarcarmi sull’aereo che nel 2012 mi portò per la seconda volta a Cuba, lessi un articolo di Yoani Sánchez che spiegava che la miseria dei cubani è così disperata che quando piove si coprono la testa con i sacchetti di nylon della spesa. Non hanno ombrelli, i poverelli, perché non sanno dove comprarli. Esistono, certo, ma solo nei negozi in valuta per i turisti, inaccessibili ai poveri cubani, i quali trattano i pochi ombrelli che hanno come fossero reliquie, perché glieli hanno regalati i familiari fuggiti e residenti a Miami, e non vogliono rovinarli.

 

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Il giorno dopo l’arrivo, a passeggio nelle calli di Habana Vieja, provai l’ebbrezza di un acquazzone tropicale. Non un uragano, per fortuna era marzo, ma a quelle latitudini non si scherza mai, e le pioggerelline primaverili finiscono per assomigliare comunque ai nostri temporali: un minuto prima il sole, un minuto dopo gocce grandi così. Non so come successe, non so dove li tenessero nascosti, ma in quel minuto sbucò dal nulla un esercito di ombrelli: belli, colorati, caraibici. Sorpresi dall’acquazzone, ci rifugiammo nei negozi di Calle Obispo, la strada dello shopping turistico. I negozianti ci rifornirono di sacchetti di nylon da mettere in testa per riprendere il cammino e consentirci di rientrare in albergo. Mi venne in mente l’articolo di Yoani Sánchez che avevo letto solo due giorni prima e pensai che la “coraggiosa blogger” aveva raccontato il vero, solo che evidentemente non aveva verificato se chi circolava in strada con un sacchetto in testa fosse un cubano oppure un turista.

Da allora non riesco più ad ascoltare una sola notizia del TG senza chiedermi cosa possa riuscire a farci credere sulla politica, sulle dinamiche sociali, sui fatti che orientano la Storia e su tutti i grandi fenomeni complessi di difficile decodifica. Dove ci può portare un’informazione che riesce a raccontarci una cosa per un’altra perfino su una piccola e marginale storia come quella degli ombrelli dei cubani, oltretutto facilmente verificabile? Una volta si diceva che l’informazione è il cane da guardia del potere, nel senso che lo controlla. Oggi cos’è, cos’è diventata? E’ il cane da guardia del potere, nel senso che è il suo cane.

Come sempre, e a partire da quando lo sterminio degli indiani del Nord e i genocidi degli indios del Sud furono fatti passare come atti necessari o generosa evangelizzazione, basta confezionare “il pacco” con un bel fiocco, usare buoni sentimenti e un pizzico di commiserazione, magari versare una lacrimuccia per garantirsi l’impunità. L’informazione si è fatta spesso complice di quei crimini e di tanti altri perpetrati nei secoli successivi. Oggi può riuscire a dimostrare di stracciarsi le vesti per i diritti umani difendendo un detenuto omosessuale in Egitto e non muovere un dito per un altro detenuto nel Regno Unito che gli Stati Uniti attendono scalpitanti di incriminare per aver svelato verità inconfessabili.

Ho smesso di credere che i dibattiti sulle pagine dei giornali e negli studi dei telegiornali e dei talk show abbiano come obiettivo la decodifica della complessità del mondo o soddisfare il desiderio dei cittadini di capirla. Il mondo è sempre più difficile da decifrare anche perché l’informazione, a dispetto di quella che dovrebbe essere la sua ragion d’essere, fa di tutto per ingarbugliarlo. Ricordo quando, con i ragazzi in età di scuola media, ci alzavamo alle sei e mezza per preparare la colazione ed essere puntuali a scuola e al lavoro. Accendevamo la televisione e “Uno Mattina” ci spiegava che, a fronte dell’ennesima contingenza economica sfavorevole, avremmo dovuto far fronte a nuovi aumenti delle bollette e al taglio della spesa pubblica. “Ce lo chiedono i mercati”, “Ce lo chiede l’Europa” recitavano già allora i cronisti. Non ricordo nessun giornalista divorato dall’ansia di conoscere i motivi di quelle richieste, né cosa chiedessero invece i cittadini.

Per non soffrire, oggi faccio di tutto per evitare di ascoltare TG e leggere giornali mainstream, anche se ogni tanto cedo, più che altro per capire quanto il limite già colmo sia stato superato. Per questo motivo, nel pomeriggio del 26 novembre 2016 decisi di seguire il servizio speciale di “La Vita in Diretta” – il cosiddetto rotocalco di RaiDue – su Fidel Castro che era deceduto poche ore prima. Fu sinceramente disgustoso.

Diamo la linea al nostro inviato all’Avana. C’è tanta gente nelle strade! Dicci: riesci a capire se sono in strada perché devono rispondere all’appello del partito oppure perché vedono in Fidel Castro uno dei padri fondatori della Patria a cui bisogna comunque portar rispetto, nonostante le sofferenze che ha inflitto? Com’è la gente?”. E il cronista: “Guarda, davvero non si può dire come mai tanta gente sia scesa in strada, ma molti sembrano realmente commossi”.

 

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Chiaro che non poteva dire perché c’era tanta gente in strada: il corrispondente non lo capiva, e quindi non poteva saperlo. E se lo avesse saputo, a maggior ragione non avrebbe potuto dirlo, perché sarebbe stato sconveniente. Un giornalista autentico, solo per far capire cosa intendo, avrebbe dovuto come minimo ricordare che, a Cuba, gli iscritti al partito non arrivano al 10% della popolazione, mentre nelle strade c’era il mondo. Così come Yoani Sánchez avrebbe dovuto spiegare perché gli ombrelli a Cuba si trovano solo nei negozi in valuta, e cosa sono i negozi in valuta.

Si può avere qualsiasi idea, si può pensare ciò che si vuole su qualsiasi cosa e anche su Fidel Castro, ma non si può trattare un pezzo di storia del mondo e dell’umanità con una tale superficialità, perpetuando ciò che in America Latina viene definita la mentalidad de Cristobal Colon, la mentalità di Cristoforo Colombo: sguardo sufficiente da colonizzatore alla “ti spiego io cos’è la civiltà”, da conquistador che guardava agli indigeni come i genieri della corona spagnola guardavano alla vegetazione della foresta pluviale, vegetazione da sradicare per far passare le carrozze. Si può pensare qualsiasi cosa, ma non si può insultare l’intelligenza degli spettatori e poi lamentarsi che gli ascolti si inabissano, che la colpa è dei canali tematici e delle pay tv. E poi giocare al ribasso, continuando a scegliere giornalisti che non sanno leggere la realtà e raccontano le notizie con un taglio da pettegolezzo.

Ricordo che all’epoca litigai con una cara amica perché sosteneva che in Italia c’era libertà di stampa, che bastava cercarle e si trovavano tutte le sfumature di pensiero. Mi spiegò che esistevano testate che riportavano punti di vista “altri”, ma riuscimmo a nominarne una sola: un bimestrale di quattromila copie di tiratura. Andai su tutte le furie e poi mi scusai, ma se ci ripenso avevo ragione io. A quel tempo i quotidiani nazionali di informazione generalistica più diffusi avevano una tiratura che superava i due milioni di copie; oggi non arrivano a seicentomila. Mi dispiace per loro, ma una deblacle così drammatica non può essere addebitata tutta e solo a cause esterne. Non può essere solo colpa della tecnologia, di Google che si arroga indebitamente il mestiere e delle fake news. Per motivi e con percorsi diversi, alla lunga i lettori arrivano tutti alle stesse conclusioni, e non basta autonominarsi paladini né dichiararsi detentori della verità per cambiare un fatto: questa informazione non è più credibile.

 

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Tornai nuovamente a Cuba pochi mesi dopo la “scomparsa fisica” di Fidel Castro, come dicevano tutti i cubani con cui mi trovai a parlare. Uno di questi, al termine di una bella serata trascorsa in un locale sul Malecon, mi chiese: Tu sabes quien serà el proximo líder despues Fidel?, tu sai chi sarà il prossimo líder dopo Fidel? Risposi che, per quanto ne sapevo, avrebbe potuto essere il vice presidente del Consiglio di Stato, Miguel Diaz-Canel. Disse: “No”. Dissi: “Beh, allora non lo so”. Mi guardò sorridendo: “Davvero non lo sai?”. Dissi: “No, non lo so, magari l’ho letto su qualche sito, ma evidentemente non me lo ricordo”. Tacque. Di nuovo mi guardò e sorrise: “Non riesci a immaginarlo?”. Dissi: “No, te l’ho detto, pensavo a Miguel Ca…”. Mi interruppe: “Allora te lo dico io chi sarà il lìder dopo Fidel”. Tacque ancora, e di nuovo sorrise. Intuii che voleva tenermi sulle spine, che voleva creare le premesse per un effetto sorpresa. Alla fine me lo disse: “Dopo Fidel il nuovo lìder sarà Fidel”. Solo a quel punto riuscii a spiegare la mia intuizione, capii perché disse “dopo Fidel”, e non “dopo Raúl”. Non era il lìder politico quello a cui alludeva, dovevo capirlo. Abbozzai un timido sorriso, allungai una mano a sfiorargli una spalla e, sperando che non mi sentisse, sussurrai: Perdone, no entendí la pregunta, scusami, non avevo capito la domanda. Per capire non è sempre necessario fare domande: basta ascoltare quelle che ti fanno gli altri. Il giornalismo di oggi questa cosa qui l’ha dimenticata.

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Gabriel García Márquez

 

Il 7 ottobre 1996, in occasione della 52ma assemblea della Società Interamericana della Stampa che si tenne a Los Angeles, Gabriel García Márquez – che come sappiamo fu anche e soprattutto giornalista – pronunciò il discorso “Il mestiere più bello del mondo”. Tra le tante cose, disse: “Alcuni [giovani giornalisti] si vantano di riuscire a leggere al contrario un documento segreto che sta sulla scrivania di un ministro, di ricordare a memoria dialoghi casuali che poi riportano senza nemmeno informare l’interlocutore, di usare come notizia un colloquio confidenziale. La cosa grave è che questi attentati etici sono la conseguenza di una concezione avventata del mestiere, assunta coscientemente e fondata orgogliosamente sulla sacralizzazione della notizia data per primi, a qualsiasi costo e sopra ogni cosa. Non gli viene il dubbio che la migliore notizia non è quella che si dà per primi, ma quella che si dà meglio”. E poi: “Prima ancora che fosse inventato, il mestiere [di giornalista] si basava su tre strumenti di lavoro: il bloc notes, un’etica a tutta prova e un paio di orecchie che usavamo per ascoltare quello che ci dicevano. L’uso professionale ed etico del registratore è ancora oggi tutto da inventare. Qualcuno dovrebbe spiegare ai giovani colleghi che la memoria del registratore non è un sostituto della nostra memoria, ma una semplice evoluzione dell’umile blocco di appunti. Il registratore sente ma non ascolta, ripete ma non pensa, è fedele ma non ha cuore e la sua versione alla lettera non è affidabile come quella di chi fa attenzione alle parole, le valorizza e le qualifica con l’intelligenza e la morale. (…) Il registratore è colpevole di esaltare l’intervista (…) così la voce della verità non è più del giornalista, ma quella dell’intervistato”. Sarà per questo che il giornalismo è diventato semplice portavoce e ha perso le sue deflagranti potenzialità originarie?

Secondo Márquez la soluzione era che il giornalista tornasse ad usare il bloc notes e reimparasse ad ascoltare e usare l’intelligenza. “L’unica consolazione – diceva – è che molte violazioni etiche che avviliscono e disonorano il giornalismo di oggi non avvengono sempre per immoralità, ma spesso per mancanza di padronanza professionale”. Gabriel García Marquez era un signore, una persona speciale di animo nobile. Io no. Io, purtroppo, la vedo più nera. “Gabo” aveva ragione: i giornalisti opportunisti e in malafede sono una sparuta minoranza, ma basta una non convinta consapevolezza della responsabilità del mestiere per fare danni. Ai miei occhi, purtroppo, la scarsa coscienza di questa responsabilità è sufficiente per considerare “complice” il giornalista che non assuma su di sé gli effetti di ciò che scrive. I danni prodotti da certo giornalismo sugli equilibri sociali sia a livello locale che internazionale sono inammissibili.

Mi sento molto vicino alla visione dell’universo dell’informazione di Noam Chomsky, linguista e filosofo statunitense che insegna al MIT di Boston, e di Udo Ulfkotte, giornalista tedesco della Frankfurter Allgemeine Zeitung, trovato senza vita nella sua abitazione per cause che le autorità hanno deliberatamente scelto di non accertare. Il primo ha regalato a chi sa ascoltare un prezioso “decalogo della mistificazione”, una sorta di guida all’interpretazione dei meccanismi attraverso i quali i grandi organi di informazione assoggettano la realtà dei fatti agli interessi dei potentati economico-finanziari oppure riconducono a loro vantaggio qualsiasi accadimento avverso. Non rivelo certo segreti marziani, ma per completezza voglio citare almeno il titolo dei capitoli passati in rassegna dal professore di Boston: 1°, distrarre; 2°, creare problemi e offrire soluzioni; 3°, indurre accettazione attraverso notizie in crescendo; 4°, descrivere scenari senza alternative; 5°, rivolgersi al lettore come fosse un bambino; 6°, stimolare l’emotività invece dell’analisi; 7°, mantenere la discussione a livelli di mediocrità; 8°, apologizzare la mediocrità; 9°, autocolpevolizzare il lettore; 10°, sfruttare la psicologia collettiva. Il terzo punto è noto anche come “teoria della rana bollita”. Sfido chiunque, anche solo leggendo i titoli, a non sentir odore di attualità.

Il secondo, nel suo libro “Giornalisti comprati”, si autodenuncia prima di accusare i colleghi sostenendo che tutto il sistema mediatico occidentale, tranne alcune encomiabili eccezioni, è sotto il ferreo controllo dell’alta finanza e dei servizi segreti della più grande potenza mondiale. Confessa di essere stato egli stesso assoldato in questo esercito, se ne vergogna e fa pubblica ammenda. All’uscita, il libro ebbe una buona diffusione nonostante fosse stato snobbato dalla stampa tedesca, così fu necessario alzare il livello dello scontro dall’indifferenza al discredito del povero Ulfkotte, che nel frattempo era morto. Udo era ammalato di cancro, ma il suo decesso, a 56 anni, fu repentino e inaspettato. Infarto, scrissero i giornali, ma l’autopsia non fu mai ordinata dalle autorità e il suo corpo fu cremato nel giro di poche ore. Una storia da film di spionaggio degno della più feconda immaginazione hollywoodiana, che ogni tre per due ci ammicca ricordandoci che la realtà supera spesso la fantasia, tanto poi quando la realtà supera la realtà ci pensa la stampa a distrarci.

 

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Julian Assange

 

Eppure io, proprio mentre il Regno Unito insiste nella detenzione illegale di Julian Assange colpevole di aver rivelato trame e complotti della maggior potenza mondiale, non sono rimasto tanto colpito dalle pazzesche trame di spionaggio e complotto quanto dal racconto di come ordinari giornalisti possano trasformarsi in casse di risonanza dell’informazione omologata e allineata, conformista e acritica senza traumi e, anzi, con autocompiacimento. Secondo Udo, tutto avviene sul filo della più labile consapevolezza, senza che siano necessarie particolari predisposizioni né prese di coscienza da parte dei giornalisti che, alla fine, si ritrovano adagiati nel ruolo di “ripetitori”. Per entrare nelle file dell’esercito del pensiero unico non servono iniziazioni né requisiti, basta semplicemente una graduale e progressiva “conformazione”.

In altre parole, secondo Ulfkotte per una multinazionale o una piccola azienda, un ente o un’organizzazione, non sarebbe necessario “comprare” o corrompere un giornalista: gli basterà blandirlo, fargli i complimenti, offrirgli il podio o la platea di un congresso di due giorni in una amena località di villeggiatura, regalargli la sensazione di far parte di quelli che contano o, in definitiva, porgergli su un piatto d’argento la possibilità di un’intervista esclusiva rilasciata nell’occasione da un personaggio di rilievo, uno scoop che lo proietterà nell’olimpo del giornalismo. Questo tipo di inviti, magari addirittura estesi all’amica/o, all’amante o alla moglie/marito, costa ed espone infinitamente meno di una mazzetta, e produce effetti più importanti e sicuri: una riconoscenza senza scadenza.

 

*Luigi Mezzacappa è coordinatore del Gruppo PatriaGrande del CIVG