Nuove pericolore tensioni in Iraq

19 ottobre 2020

 

Iraq, coalizione a guida Usa ridimensionerà azioni anti-Isis - Il Sole 24  ORE

      Contesto turbato

 La situazione sembra di nuovo peggiorare in Iraq in larga misura come conseguenza dell’assassinio del capo della Forza Quds iraniana Qassem Soleimani e del capo delle milizie sciite irachene Abu Mahdi al-Muhandis avvenuto lo scorso 3 gennaio all’aeroporto internazionale di Baghdad ad opera di un drone statunitense.

L’assassinio ha creato una grave situazione di instabilità generando una iniziale reazione armata iraniana con attacchi mirati contro basi USA dislocate nel Paese arabo alle quali ha fatto seguito fino al giorno d’oggi una serie ininterrotta di attacchi perpetrati dalle milizie sciite irachene facenti parte delle cosiddette Unità di Mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaabi in arabo), vicine all’Iran ma, a partire dall’uccisione del loro capo al-Muhandis, paradossalmente più pericolose, essendo meno controllate e meno subordinate agli interessi iraniani, maggiormente inclini a colpire in qualsiasi momento ed in qualsiasi circostanza contro l’odiato nemico, dando libero sfogo al loro incontenibile risentimento.

Per opportuna memoria occorre ricordare che le succitate Unità, composte da volontari, furono create nel 2014 all’indomani dell’occupazione da parte dell’ISIS di larghi spazi del nord e dell’ovest dell’Iraq. Esse nacquero quando il Grande Ayatollah Alì al Sistani, la massima autorità religiosa nel Paese, lanciò un appello di mobilitazione contro il pericolo rappresentato dal dilagare del terrorismo sunnita. Al momento esse sono integrate nelle forze regolari irachene ed hanno inoltre una cospicua rappresentanza politica in Parlamento.

Le forze americane presenti in Iraq, recentemente ridottesi da più di 5300 a 3000 unità in esito ad intese concluse con il governo iracheno diretto dal Primo Ministro Mustafa al-Khadimi, continuano a pagare il prezzo della proditoria eliminazione fisica del carismatico al-Muhandis attraverso ripetuti attacchi contro anche la cosiddetta Green Zone, area dove tra le altre Rappresentanze diplomatiche è dislocata l’Ambasciata statunitense, obiettivo principale delle milizie a causa delle attività, propriamente non afferenti alle funzioni diplomatiche, che a parere delle formazioni filo-iraniane sarebbero svolte da quella Rappresentanza. Secondo quanto si è appreso il numero degli attacchi alla presenza USA nel Paese sarebbe stato a partire dallo scorso gennaio poco meno di un centinaio.

 

         Una decisione mal soppesata          

La pressione delle formazioni filo-iraniane ha creato problemi e difficoltà crescenti per il Governo di Baghdad che viene a trovarsi coinvolto nel braccio di ferro ingaggiatosi tra le milizie e le unità USA ancora presenti nel territorio. Il Primo Ministro al-Khadimi, ex-capo dei servizi di intelligence, il cui mandato dovrebbe esaurirsi nel 2021 nell’occasione delle previste elezioni, in buoni rapporti sia con gli americani che con gli iraniani (la sua nomina sarebbe stato il risultato di una trattativa segreta tra Washington e Teheran), ha ritenuto opportuno ad un certo momento, allo scopo di venire incontro alle pressioni americane, forse senza riflettere sulle conseguenze dei suoi atti, di procedere all’arresto di un gruppo di militanti appartenenti ad una delle più temibili formazioni, Kataib-Hezbollah (Brigate Hezbollah), protagonista dei più cruenti attacchi contro le basi USA. Kataib Hezbollah fa parte, unitamente all’Organizzazione al-Badr (rilevante forza politica e militare diretta dal carismatico Hadi al Amiri) e alla milizia Ahl al-Haq, della galassia delle unità militari sciite appartenenti alle succitate Unità di Mobilitazione Popolare, una forza autenticamente irachena formatasi all’indomani dell’invasione USA del 2003 e rafforzatasi in conseguenza del dilagare nel Paese degli estremisti sunniti nell’estate del 2014.

Come era da prevedere la mossa di Kadhimi ha avuto l’effetto di scatenare rappresaglie devastanti che hanno portato ad una situazione dalla quale il rispettato leader iracheno non sa più come uscire, preso com’è tra due poli determinati a condurre lo scontro verso una soglia assai pericolosa. Ben quattordici attivisti dei diritti umani, vicini al Primo Ministro e nemici giurati del militantismo sciita, sono stati assassinati per vendicare la repressione governativa mentre altri sono stati rapiti e di loro non si hanno al momento notizie.

 L’entità delle reazioni ha fornito la prova di come le misure coercitive fossero state poste in essere senza una attenta considerazione della forza e del livore incontenibile che anima le milizie sciite sulle quali – è bene ripetere- il defunto carismatico Abu Mahdi al-Muhandis esercitava un potere indiscusso e difficilmente contestabile, essendo in grado di esercitare un controllo politico sui suoi irrequieti adepti. Tutto ciò suona conferma di come la criminale policy USA di procedere all’eliminazione fisica dei vertici a capo di formazioni considerate “terroriste” si riveli alla prova dei fatti fallimentare nella misura in cui, in luogo di estirpare il presunto “male”, attizza ulteriormente le tensioni, facendo esplodere i risentimenti, producendo un risultato in larga misura lontano da quello desiderato.

 

 Iraq Struggles to Contain Wave of Deadly Protests - The New York Times

         Brutali reazioni USA       

                     L’uccisione proditoria di Soleimani e di al-Muhandis pone ora gli americani di fronte ad una situazione dalla quale scenari poco rassicuranti potrebbero derivare. Di fronte a simile sconquasso l’Amministrazione Trump ha ritenuto opportuno di informare che, ove “l’impotente governo iracheno” non fosse in grado di garantire la sicurezza della propria Rappresentanza diplomatica a Baghdad, avrebbe proceduto senza esitazione alla sua chiusura; misura interpretata dai vertici politici iracheni come un vero e proprio abbandono del Paese esposto al rischio di una esplosione settaria ricalcante gli anni di sangue vissuti dall’Iraq nel periodo 2006-2008, dei quali, è utile ricordare, gli americani, come forza occupante all’epoca, portano una pesante responsabilità.

                       Diversa si è rivelata l’interpretazione della mossa USA da parte delle formazioni filo-iraniane secondo le quali quel che si celerebbe dietro di essa non sarebbe altro che una sorta di “political game” (gioco con intenti politici) volto ad accrescere la pressione su quegli ambienti nazionali, composti prevalentemente da curdi e sunniti, desiderosi di non affrancarsi da una presenza yankee, per converso aborrita dai militanti sciiti e non gradita dai dimostranti che da diverso tempo invadono le piazze delle città irachene in segno di protesta contro il corrotto malgoverno della classe politica del Paese. Ai succitati ambienti contrari ad una dipartita degli USA, appartengono, oltre che il Primo Ministro Kadhimi, anche il Capo dello Stato, il curdo Barham Salih, detestato dai militanti sciiti, l’uomo di fiducia ed il prezioso punto di riferimento degli americani nel Paese.

                       Gli elementi di preoccupazione per un quadro generale che rischia di gettare l’Iraq in una guerra dagli sbocchi imprevedibili non si fermano qui. Secondo informazioni apparse nei media arabi una delle conseguenze della possibile chiusura dell’Ambasciata USA potrebbe essere la concretizzazione dell’intendimento del Pentagono di dar corso ad una serie di bombardamenti mirati contro ottanta siti accuratamente prescelti per il fatto di ospitare centri di importanza operativa sul piano militare delle milizie filo-iraniane.

                        Si può agevolmente intuire cosa seguirebbe alla materializzazione di tali decisioni alla vigilia dello scrutinio elettorale americano del 3 novembre che sembra caratterizzarsi per un passaggio politico alquanto delicato per gli Stati Uniti. Per l’Iraq essa potrebbe portare ad una guerra totale in un contesto regionale minato da gravissime tensioni dove i recenti Accordi di normalizzazione conclusi da Israele con gli Emirati ed il regno di Bahrein lasciano prevedere in prospettiva seguiti tutt’altro che rasserenanti, diversamente da quanto superficialmente fatto credere dai media occidentali ed anche nostrani, a parere dei quali i suddetti Accordi dischiuderebbero nell’area del Golfo una prospettiva di… stabilità e prosperità… con buona pace dei Palestinesi. 

 

          Fallimento americano

                        In effetti non sono pochi coloro in Iraq inclini a parlare di un “Perfect Storm” o catastrofe che sarebbe sul punto di sconvolgere la martirizzata realtà irachena. Dal momento della criminale e demenziale aggressione USA del 2003 l’Iraq non ha conosciuto pace come conseguenza anche delle politiche su base settaria imposte dall’invasore americano che, oltre a consentire grazie all’intervento il reingresso dell’Iran nel contesto politico iracheno, producendo un risultato contrario agli stessi interessi della superpotenza, ha anche avuto il discutibile merito di aver consentito il verificarsi di un evento mai accaduto prima di allora nella millenaria storia del mondo arabo. Quale? Il rovesciamento di un regime diretto da un sunnita quale era il dittatore Saddam Hussein e la sua sostituzione con un altro sistema politico a direzione sciita.

                      Né si potrebbe passare sotto silenzio il fatto che fu proprio dagli effetti di quello sciagurato attacco e dalle abusive politiche perseguite nel Paese dalla potenza occupante che prese forma e sostanza il terrorismo sanguinario dell’ISIS, nato per l’appunto dalla fusione delle sconfitte formazioni di al-Qaeda in Iraq con la pletora dei quadri iracheni facenti parte dell’apparato di sicurezza nazionale, letteralmente e sconsideratamente smantellato dall’invasore USA. In effetti sul particolare che l’organizzazione creata dal defunto califfo Abu Bakr al- Baghdadi, iracheno di Samarra, traesse forza e spinta propulsiva da elementi provenienti dall’humus iracheno, sussiste una generale concordanza di opinioni.

                         Ebbene quel che si può affermare con certezza è che uno degli altisonanti risultati dell’aggressione USA è stato anche di aver spianato la strada all’irrompere dell’estremismo sunnita nel cuore del Levante, particolarmente in Iraq ed in Siria, alimentato in particolare dall’Arabia saudita alla ricerca di una rivincita settaria e dai due Paesi del fronte islamista, Turchia e Qatar.

                         In proposito è bene rilevare come a tutt’oggi le milizie dello Stato islamico continuino ad essere ben operanti, sia in Iraq che in Siria, minando alla base i tentativi di assicurare un quadro di sostenibile sicurezza negli spazi dove tuttora fanno pesare in maniera cruenta la loro presenza.

 

Iraq, proteste contro i raid davanti all'ambasciata Usa - Corriere.it

 

              Una logica perdente

                           Ergo le terre d’Islam continuano ancora a pagare l’amaro prezzo di un’aggressione che ha sconvolto i precari equilibri della regione. E non è stato l’ultimo esempio di come le relazioni con la realtà islamica risentano di una mentalità di dominio e sopraffazione. L’attacco della coalizione NATO alla Libia del 2011 ha replicato nella sua demenziale e criminale essenza quel che si era prodotto nel 2003, spianando anche in quel caso la strada al dilagare del jihadismo militante che ha reso tutto il retroterra africano un’area ingovernabile dove la violenza regna sovrana e dove le formazioni locali collegate ad al-Qaeda e all’ISIS, nonostante la massiccia presenza militare francese e di altri Paesi occidentali, continuano a colpire senza sosta.

                             L’Iraq rischia di ripiombare nel caos a causa di questa stessa mentalità di dominio che non ammette il dialogo ed il rispetto delle differenze. Questo avviene nel momento in cui quel grande Paese è percorso da un’ondata di proteste e di contestazioni provocate dal rifiuto di sottostare al potere di classi dirigenti ritenute corrotte ed abusive. Un’élite politica che non solo soffoca e reprime ma attraverso i suoi malsani comportamenti apre le porte a coloro, particolarmente i gruppi armati, che attentano alla sicurezza ed alla pace dei cittadini in una spirale di esplosiva violenza.

                            E’ quel che sta avvenendo in Iraq dove lo Stato islamico, dato pomposamente per sconfitto dal Presidente Trump, è per converso risorto, tornando a mietere vittime nel centro-nord dell’Iraq e nell’est della Siria. Da qui una rivolta civile che non ha l’aria di abdicare nonostante il tributo di sangue pagato da giovani vite ad opera di una crudele repressione.

                            Indubbiamente aver eliminato due figure di assoluto rilievo come Soleimani e al-Muhandis in un contesto così turbato è stato come gettare una palla di fuoco in una pozza di petrolio. Da qui l’esplosione delle milizie sciite, che sono irachene e che fanno parte integrante del contesto reale del Paese, e non, come sostenuto superficialmente od in malafede in Occidente, solo ed esclusivamente “proxy forces”,  da qui l’esasperazione dei contrasti ed una rivolta della società civile che non accetta di continuare ad essere sottomessa al potere di una classe politica condizionata dalle esiziali interferenze esterne. E’ dall’aggressione USA del 2003 che tali interferenze hanno iniziato a condizionare pesantemente il divenire dell’Iraq, trasformatosi in un campo di battaglia tra Stati Uniti ed Iran e dove la longa manus settaria dell’estremismo sunnita trova il modo di rendere la vita impossibile all’odiata componente sciita, considerata dai jihadisti sunniti “un nemico peggiore dei cristiani e dei giudei”. Incredibile ma vero!  La dilagante corruzione, il malgoverno ed anche gli abusivi comportamenti delle milizie sciite nel centro-nord del Paese a maggioranza sunnita sono tra le ragioni fondamentali dell’attuale turbato quadro politico iracheno. In tale contesto qualsiasi tentativo dell’attuale Primo Ministro di restaurare l’autorità dello stato, indebolendo formazioni e schieramenti nati dalla reazione armata all’aggressione americana prima e all’occupazione dello spazio iracheno da parte dello Stato islamico dopo vengono visti come scelte dettate dai decisori di oltre Atlantico.

                            Questo è il risultato delle politiche perseguite dall’Occidente sui due versanti dell’Atlantico. Non aver mai accettato di stabilire un dialogo con le forze vive di società segnate dal messaggio islamico, dove, diversamente da quel che per malafede od ignoranza i populisti di ogni risma tendono a propagandare, i valori della tolleranza e del rispetto reciproco esistono e dovrebbero essere sfruttati per creare nella regione forme di pace e stabilità più durature e più sostenibili rispetto a quelle ora esistenti in Medio Oriente.

                             Ed invece questo non avviene e la militarizzazione della relazione col mondo islamico non prescinde mai dal ricorso a strumenti che continuano a rivelarsi perdenti, fonte di guerre e di catastrofi. Gli esempi degli ultimi vent’anni, volendo non andare oltre, sono davanti a noi: Iraq, Libia, Siria e per ultimo, ma solo in ordine di tempo ma primo per le apocalittiche conseguenze, il povero Yemen.

                              Quel che si teme a Baghdad è che in Iraq si possa ricreare una situazione definita dalla politologia anglosassone  una “ Perfect Storm”. E da parte nostra non si riesce a comprendere come si continui ad ignorare il lascito di amare terribili passate esperienze e si continui imperterriti a privilegiare gli strumenti, ereditati da un passato coloniale mai ripudiato, della guerra e del dominio.

 

 

            Interlocutori ignorati                 

                              Ciò diventa tanto più incomprensibile ove si pensi al messaggio politico trasmesso da figure di assoluto rilievo della nomenclatura religiosa del Paese. Figure, come il Grande Ayatollah Ali al Sistani che, dalla sua modesta dimora nella città santa di Najaf (una delle quattro esistenti in Iraq), lancia messaggi di comprensione e di sostegno al movimento di protesta della società civile, nel solco di una visione che tiene a cuore gli interessi nazionali. In ciò seguito da un’altra figura religiosa ma più marcatamente impegnata nell’agone politico Moqtada al-Sadr, uscito vincitore dalle ultime elezioni politiche del maggio 2018, simbolo della implacabile opposizione all’occupazione americana degli spazi iracheni, molto popolare nei quartieri diseredati di Baghdad che vedono in al-Sadr un leader nazionalista più vicino agli interessi del Paese.

                          Il ruolo di queste due figure non deve essere sottovalutato per l’impatto che hanno sui gangli profondi della società irachena. Gli appelli del leader religioso al-Sistani hanno ben poco di settario manifestando una evidente distonia con le esternazioni dettate dalla logica della real politik del Leader Supremo iraniano Alì Khamenei. La visione venata di autoritarismo emanante dai vertici religiosi nella Repubblica islamica non traspare dai messaggi esternati da Najaf nei quali si pone ben in rilievo come è solo da una società ispirata ai valori di tolleranza, rispetto per le differenze e libertà può scaturire un leader in grado di interpretare al meglio le aspirazioni profonde della base sociale. In estrema sintesi secondo la massima autorità religiosa irachena è dal basso che deve partire il processo e non, come traspare dalla narrativa iraniana, dall’alto.

                           Su un piano differenziato ma allineato sulle stesse linee di pensiero si colloca l’azione politica di Moqtada al-Sadr, ora a capo di milizie significativamente denominate “Peace Brigades”. In effetti il suo coinvolgimento nella competizione politica irachena ha costituito la conferma di un impegno volto a coinvolgere forze e schieramenti fino al 2018 del tutto esclusi. La decisione di stringere un patto di alleanza elettorale col Partito comunista iracheno, forza di cui non si è mai volutamente parlato ma che occupa uno spazio di rilievo nella storia politica recente dell’Iraq, nonché con schieramenti indipendenti provenienti dalla società civile si è rivelata la ragione principale a base del suo inatteso successo elettorale del maggio 2018, prevalendo su formazioni aventi una matrice più propriamente settaria.

                              Queste sono le componenti della società irachena con le quali sarebbe stato utile ed appropriato stabilire un dialogo nella prospettiva di pervenire ad un inizio di soluzione dei mali di una società in cerca di una sua redenzione dopo l’inferno provocato dall’aggressione del 2003. Tutto questo non è stato fatto quando, all’indomani della conclamata e non effettiva vittoria contro l’ISIS alla fine del 2017 ed alla vigilia dello scrutinio elettorale, si presentavano le condizioni più idonee per un rilancio del processo politico mirato ad una attenuazione delle tensioni e ad una seria considerazione delle legittime rimostranze di fasce giovanili che, per effetto generazionale, hanno in poco o in nulla vissuto la tragedia del 2003.

 

How to Cope with Iraq's Summer Brushfire | Crisis Group

         Involuzione del quadro regionale

                               Ma sia la negativa evoluzione del quadro regionale con tutte le sue mal condizionanti implicazioni sia le sciagurate scelte dell’Amministrazione Trump volte all’esasperazione dello scontro con l’Iran con il ritiro dall’accordo concluso da Obama nel 2015 hanno impedito che quel processo finalmente prendesse inizio. La scriteriata decisione presa da Trump di orientare la politica USA verso la creazione di un blocco sunnita (!) anti-iraniano ha esasperato le tensioni settarie spingendo il fronte conservatore arabo, particolarmente l’Arabia saudita e gli Emirati, oltre che a scatenare la disastrosa guerra in Yemen, ad assumere politiche di viscerale contrapposizione non solo contro Teheran ma anche contro quei Paesi del Golfo, quali in primis Qatar, interessati a mantenere una relazione positiva e costruttiva con la Repubblica islamica, la conditio sine qua non per un sostenibile equilibrio di pace e stabilità nella regione.

                                Il risultato di queste malsane scelte ha comportato conseguenze distruttive per l’Iraq divenuto un terreno di scontro tra due opposti schieramenti in una logica che non lasciava spazio ad iniziative politiche sul piano interno orientate verso una presa in considerazione delle sfide e dei gravi problemi affliggenti la vita di un’intera comunità. In effetti se c’è un Paese dilaniato dalle tensioni settarie questo è l’Iraq, la vera culla dell’Islam sciita, dove la maggioranza della popolazione professa quel culto, in larga misura concentrata al sud a differenza del nord dove la maggioranza è sunnita. Alla luce del contesto indicato l’Iraq non poteva non essere la vittima predestinata della irresponsabile politica USA perseguita nell’area.

 

            Aumento delle tensioni

                             Ed ora l’Iraq vede approssimarsi nuovamente la soglia del precipizio che sembrava allontanarsi dopo la proclamata vittoria sullo Stato islamico. L’assassinio di Soleimani e di al-Muhandis è stata la scintilla dalle quali dinamiche dirompenti hanno preso corso.  Basti pensare che appena due giorni dopo l’efferato assassinio di Soleimani avvenuto lo scorso 3 gennaio il Parlamento di Baghdad approvava una risoluzione unanimemente appoggiata, anche da parte dello speaker sunnita Mohammed al-Halboulsi, con la quale si invitava il Governo iracheno, all’epoca presieduto dal tecnocrate Adil Abdul-Mahdi, a richiedere alle unità militari americane stanziate in Iraq di lasciare il Paese.

                          La suddetta risoluzione seppur non giuridicamente vincolante rivestiva tuttavia un’enorme importanza politica apparendo un’impattante testimonianza della volontà del popolo iracheno di non pagare le conseguenze di politiche dissennate adottate da un Paese situato a migliaia di chilometri di distanza, la cui logica di dominio prescinde in toto da una conoscenza e considerazione delle realtà sulle quali viene ad operare.

                          Vi è inoltre da rilevare come l’efferato crimine interveniva nel bel mezzo di una crisi politica interna che ha portato lo scorso maggio all’uscita di scena di Adil Abdul-Mahdi, colui che aveva sollecitato la presa di posizione del Parlamento sulla presenza USA in Iraq, ed alla sua sostituzione con Mohammed al-Khadimi, nominato soprattutto per i suoi positivi rapporti con Washinton e Teheran, in un momento di acerrima contrapposizione tra le due Potenze rivali.

                           Le conseguenze di quel che avvenne all’aeroporto di Baghdad il 3 gennaio scorso non si sono fermate qui. La repentina risoluzione del Parlamento ha registrato, come già segnalato, un seguito fortemente destabilizzante segnato dall’inizio di una serie di attacchi alle basi USA perpetrati dalle milizie sciite filo-iraniane il cui numero è andato accrescendosi, comprendendo anche unità fino a quel momento sconosciute. Il leit motiv del militantismo sciita in Iraq ha ora una nuova impattante parola d’ordine: dare seguito e concretezza alla volontà espressa dal Parlamento di Baghdad di mandar via dal suolo iracheno le forze di occupazione USA, presenti in Iraq, secondo la narrativa delle milizie, non per contrastare l’ISIS ma per condizionare pesantemente il desiderio di indipendenza della nazione irachena in una strategia di irriducibile contrapposizione all’Iran portata avanti in ostentata collusione con Israele.

                             Al riguardo occorre segnalare che la summenzionata milizia filo-iraniana Kataib Hizbollah è giunta perfino a condizionare la sospensione degli attacchi alla presenza USA all’indicazione di una data limite, tuttavia imprecisata, a partire dalla quale le forze americane dovranno lasciare il suolo iracheno, rispettando la risoluzione parlamentare dello scorso 5 gennaio, facendo balenare in caso contrario la minaccia di “rappresaglie terribili contro gli invasori”. Espressioni che sarebbe sciocco liquidare con superficiale arroganza.

                              Questo avviene nel momento in cui le tensioni nella regione rimangono ad un livello alto a causa anche dei summenzionati due recenti Accordi di normalizzazione con Israele conclusi prima dagli Emirati arabi uniti e poi da Bahrein che lasciano prefigurare una destabilizzante penetrazione politica della potenza sionista nell’area del Golfo in chiave dichiaratamente anti-iraniana con le conseguenze che ciò comporterebbe nella regione.

                                L’odio ed il risentimento verso Israele esistente al livello delle masse arabe si rivelano un dato impressionante secondo quanto emerso da un’indagine effettuata recentemente in materia dal Doha Institute, qualificato centro demoscopico operante a Qatar. Le percentuali scaturite da quella ricerca forniscono il termometro dell’indice di ostilità nutrito verso l’entità sionista. Basti pensare che appena il 6% dei sauditi approverebbe un accordo con Israele mentre in Giordania, Paese avente relazioni diplomatiche con Israele, ben il 94% lo avverserebbe.

                               Il che effettivamente aggraverebbe un quadro complessivo dove il perdurare della infame guerra in Yemen, in corso ormai da quasi sei anni, rappresenta un altro fattore di tensione nella misura in cui continua ad essere visto come nient’altro che una “proxy war” e non invece come la resistenza frapposta da un popolo all’aggressione saudita.

                                Le variabili sopra esposte non possono non far registrare un aumento considerevole della tensione in Iraq dove nuove manifestazioni popolari di protesta contro la corrotta e screditata classe politica sono previste nell’immediato futuro mentre il riesplodere del terrorismo dell’ISIS, particolarmente nel cosiddetto “Triangolo della Morte” interessante i vasti spazi compresi tra Kirkuk, città multietnica alla frontiera con il Kurdistan iracheno, e la capitale Baghdad, accresce le sofferenze delle popolazioni, esasperando i contrasti su base settaria, sempre covanti nel Paese.  Contrasti che a dire il vero sono anche da attribuire alle cruente vessazioni inflitte nelle regioni sunnite dalle milizie filo-iraniane, più volte segnalate e condannate dalle Organizzazioni umanitarie.

 

 

              Inquietanti  prospettive

                                  In definitiva lo scenario che ora si presenta in un Paese che non si è più ripreso dalle devastazioni inflittegli nel 2003 dove, ulteriore vulnus all’entità irachena, l’aviazione e le forze terrestri della finitima Turchia nel perseguimento della politica nazionalista ed avventurista di Erdogan violano impunemente e regolarmente gli spazi iracheni per dare scacco alle formazioni curde del PKK, lascia presagire ben poco di incoraggiante. Vi è inoltre da ricordare che il governo attualmente presieduto da al-Kadhimi non è altro che un governo a termine avente l’incarico di preparare le elezioni politiche nel Paese previste per il prossimo mese di giugno. Il che non può non far prevedere un inasprimento del clima politico in un quadro di malessere ed insicurezza causati dai fremiti repressivi del Primo Ministro, ben accolti da ambienti curdi e sunniti, e dalle rappresaglie delle milizie sciite che di recente hanno allargato la cerchia degli obiettivi da colpire, includendovi anche sedi e rappresentanze dell’odiato governo regionale curdo, visto come tramite degli interessi USA.

                                  Né si può sottovalutare le incidenze dell’andamento negativo del ciclo economico determinato in larga misura da un prezzo del petrolio incapace di varcare la soglia dei $45 al barile, troppo bassa per soddisfare le esigenze di sviluppo dell’economia irachena, attualmente in uno stato di crisi profonda tale da rendere invivibile l’esistenza dei cittadini comuni, esposti come altre comunità al mondo all’imperversare della pandemia del Covid-19.

                                    Ma quel che più è paventato in prospettiva rimane l’incubo di una nuova esplosione della guerra settaria tra le formazioni dell’estremismo sunnita e le milizie filo-iraniane, una apparente sorta di guerra per procura tra l’Arabia saudita e l’Iran, anche se poi non lo è perché trae stimolo e linfa da mali reali presenti nel Paese e da ferite inflitte mai curate. Molto dipenderà comunque dalle incombenti elezioni USA il cui esito potrebbe orientare gli eventi verso direzioni meno angoscianti, anche se la perdita di credibilità della politica USA nella regione ha subito colpi durissimi difficili da sormontare per una sua riabilitazione.

                                    Il ruolo dello schieramento nazionalista facente capo alle visioni del Grande Ayatollah Ali al Sistani, voce molto ascoltata dalla massa degli iracheni, si rivelerà di grande ausilio per guidare l’Iraq verso un approdo di più sostenibile stabilità, facendo prevalere la logica di quella saggezza politica e senso di equilibrio e tolleranza che in ultima analisi fanno parte dello spirito profondo della religione del Profeta.

                                 Sul suo stesso sentiero incede ora Ammar al-Hakim, rispettata figura religiosa dello sciismo iracheno, leader politico del Movimento Nazionale della Saggezza (Hikma in arabo), a capo del Consiglio Supremo Islamico in Iraq dal 2009 al 2016. Nel corso dei suoi sermoni del venerdì al-Hakim ripropone il messaggio politico di al-Sistani, reiterando il concetto che l’Iraq debba procedere ad un nuovo contratto sociale, “nel segno dell’unità, della sovranità e del primato dell’autorità dello Stato centrale”. Perché questo? La ragione va ricercata nel fatto, accennato all’inizio, che molti di coloro che rischiano la vita scendendo nelle piazze irachene appartengono ad una generazione che di fatto non ha vissuto il dramma dell’aggressione USA del 2003. E di questo indubbiamente si ha da tener conto, venendo incontro ad esigenze che negli anni di sangue successivi alla guerra di aggressione erano inevitabilmente meno avvertite. Esigenze che erano soverchiate dagli interessi della Potenza occupante e dalle violente reazioni di forze nazionali decise a contrastare la violazione del patrio suolo.

                                     Ora la situazione appare radicalmente mutata e le sfide che si presenteranno nel futuro immediato per l’entità irachena manifesteranno tratti ben diversi. Ma ciò non toglie che il lascito di quei terribili anni continuerà a pesare sul divenire dell’Iraq. Si dovrà fare i conti con le interferenze esterne che nel clima malsano prevalente nella regione continueranno ad avvelenare il quadro politico iracheno, spingendo il corso degli eventi verso approdi non in linea con le reali esigenze del Paese.

                                     Un quadro come si può ben notare estremamente complesso che meriterà un attento monitoraggio ed una appropriata comprensione, ove si tengano a mente le incidenze che potrebbero derivare dall’implosione di un’entità del peso e dell’importanza dell’Iraq.

                                       L’auspicio espresso dalle voci più responsabili e più coscienti della soglia di pericolo cui si rischia di andare incontro è che quello che seguirà alla scadenza del prossimo 3 novembre oltre Atlantico possa costituire la prima tappa di un’inversione di tendenza che conferisca una qualche sostanza alla speranza. Spes ultima dea, secondo l’antico detto latino.  E’ vero, la speranza sussiste anche se alquanto esile essa appare.

                                

US troops fire tear gas at pro-Iran protesters in Iraq           

 

Angelo Travaglini diplomatico in pensione, membro del Comitato Scientifico del CIVG