Tribunale penale Internazionale per i crimini commessi in ex-Jugoslavia (Tpi) - Parte III

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1.3.3 I poteri del Consiglio di Sicurezza in base al capitolo VII della Carta

 

Se le decisioni del Consiglio di Sicurezza riguardano comportamenti e fatti interni internazionalmente rilevanti a seguito degli accertamenti previsti dall’articolo 39, l’eventuale sanzione o misura collettiva imposta dal Consiglio, non può consistere in comandi e meccanismi che tendano a modificare in modo puntuale per via giuridica l’ambito interno dello Stato destinatario. Non possono in nessun caso ritenersi obbligatorie modifiche all’ordinamento interno per dare effetti agli atti del tribunale penale internazionale.

L’articolo 7, al paragrafo 2, prevede che “potranno essere istituiti in conformità con la presente Carta quegli organi sussidiari che saranno ritenuti necessari”. E l’articolo 29 afferma: “Il Consiglio di Sicurezza può istituire quegli organi sussidiari che ritenga necessari per l’esercizio delle sue funzioni”. Il previsto TPI, a prima vista, sarebbe un organo sussidiario del C.d.S. Ma se si legge in maniera rigorosa l’articolo 29 e se si considera un’interpretazione del Conforti, si scopre che il C.d.S. può sì istituire organi sussidiari, però questi debbono avere funzioni che l’organo principale potrebbe esercitare in proprio, almeno nel loro nucleo essenziale[1].

Come abbiamo visto, la Camera d’Appello del Tribunale il 2 ottobre 1995 rispondendo all’istanza della difesa dell’imputato Dusko Tadic[2], ha sostenuto che il fondamento del TPI dovrebbe rinvenirsi nell’articolo 41, trattandosi di una misura atipica non implicante l’uso della forza.

Lo scrivente, tuttavia, ritiene che le misure coercitive non possano travalicare i poteri complessivi delle Nazioni Unite e dei loro organi e non è concepibile un potere giurisdizionale specifico, se non si presuppone quello generale: norme specifiche di competenza giurisdizionale penale non sono configurabili in capo agli organi, principali o sussidiari, delle Nazioni Unite, in mancanza di un quadro, attuale o solo potenziale, di corrispondenti norme generali prodotto dalla sovranità statale. In sintesi: il Consiglio di Sicurezza non può istituire un tribunale come suo organo sussidiario, perché per farlo occorrerebbero poteri inerenti la sovranità statale, che il Consiglio di Sicurezza non ha.

Si deve rammentare peraltro che le misure ex capitolo  VII non sono affatto riferibili alle azioni contro singoli individui[3]  Il capitolo VII si riferisce alle azioni intraprese per fronteggiare minacce alla pace, rottura della pace e atti di aggressione, rispetto alle quali il Consiglio di Sicurezza può intraprendere misure implicanti o meno l’uso della forza (diplomatiche, economiche, militari). Il capitolo VII non prevede alcuna forma di coercizione nei confronti degli individui. Le misure coercitive del capitolo VII configurano una forma di autotutela collettiva che, sulla base della Carta delle Nazioni Unite e dunque della rigorosa osservanza delle indicazioni di questa, convenzionalmente accettate dagli Stati membri, risulta dall’estensione della possibilità di autotutela, del singolo Stato, i cui diritti sono lesi o minacciati, in capo ad altri soggetti internazionali operanti in connessione con lo Stato leso sulla base delle determinazioni collettive del C.d.S. prese nei termini statuari[4]. La risoluzione del C.d.S. rende lecita la “collettivizzazione” della misura, nel senso che, accanto allo Stato leso, unico legittimato in diritto internazionale generale, possono lecitamente intervenire altri membri delle Nazioni Unite. Lo Stato, contro cui le misure coercitive sono prese, non ha obblighi o soggezioni giuridiche rispetto alle misure. La differenza tra le misure degli articoli 41 e 42 è la seguente. Con le prime (misure non implicanti uso della forza), la risoluzione del C.d.S. serve semplicemente a rendere lecita la partecipazione di Stati membri terzi, diversi da quello leso. Queste però sono misure prese dagli Stati su delibera  (o invito) del C.d.S.. Le misure ex articolo 41 sono state invocate dai giudici del Tribunale per sostenere la legittimità dell’istituzione dello stesso[5]. Tuttavia questa norma non è da ritenere applicabile, poiché essa implica misure destinate strutturalmente ad avere un impiego temporaneo e non definitivo come le sentenze che modificano lo stato e la condizione giuridica delle persone.

Le misure ex articolo 42 (che implicano l’uso della forza) sono azioni dirette del C.d.S., anche se attraverso le forze poste a disposizione da altri Stati membri, ma sotto comando delle Nazioni Unite: e questo proprio in virtù del principio di centralizzazione dell’uso della forza, che comunque dovrebbe venire applicato con modalità e finalità diverse da quelle della guerra classica, cioè come azione limitata di polizia internazionale. Abbiamo ricordato che nell’ambito delle azioni previste dall’articolo 41 rientrano quelle congrue rispetto a quelle che può assumere uno Stato. Tra queste non si direbbe possa rientrare l’istituzione di un tribunale penale internazionale per crimini di guerra (da non confondersi coi precostituiti tribunali militari degli Stati). Ma soprattutto, l’istituzione autoritativa da parte del Consiglio di Sicurezza del TPI si manifesta come azione diretta del Consiglio di Sicurezza stesso, e non degli Stati membri. Da questo punto di vista, sarebbe stato più corretto l’invito (o comando) agli Stati membri di istituire essi stessi con convenzione il Tribunale. Ma in mancanza di partecipazione o di consenso degli Stati “direttamente coinvolti”, non si sfuggirebbe al complesso delle altre obiezioni e, ma anzi si aggiungerebbe un fattore di debolezza ulteriore: quel carattere autoritativo, che in qualche modo può essere riconosciuto in capo al Consiglio di Sicurezza, sfuggirebbe completamente a un atto convenzionale anche adottato “in attuazione” della decisione consiliare. Dunque quell’atto non potrebbe essere considerato vincolante per quegli Stati che non ne divengano parte.

 In un fondamentale saggio sui poteri del Consiglio di Sicurezza, Gaetano Arangio-Ruiz,[6] ex membro della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite nonché uno dei maggiori studiosi della dottrina italiana, sostiene: '' “The impression remains that international lawyers are inclined, on the whole, to be satisfied with marginal criticism and marginal procedural suggestions aimed at making the Security Council’s action legally less questionable and politically more palatable… one does not see, in the literature, an adequate treatment of a legal problem of Charter interpretation and application which has remained for about half a century under the sway of questionable Charter readings… One perceives, at times, in scholarly attitudes on the subject, an inexplicable renunciation by the legal commentator of his duty in the face of power politics and ‘realism’. Le conclusioni di Arangio-Ruiz sul TPI sono perentorie:

"Clearly, the establishment of a tribunal with tasks comparable to those entrusted to the ICTY would inevitably have a very serious impact on the rights or obligations of the States whose sovereignty and criminal jurisdiction would be affected by the carrying out of those tasks. Two possibilities – assuming the impracticability of a treaty – were thus theoretically open as a matter of law to the Council. One was to take action by armed force in the territory involved, thus opening the way to the possible establishment of a criminal law court within the framework of military operations carried out by the U.N. or given States under article 42 or article 51… The other way was to set up the criminal court per se, as an isolated measure affecting the involved States’ prerogatives of criminal jurisdiction outside the framework of any military operations under the Charter and general international law. Unable or unwilling to pursue the former course, and led astray by legal experts, the Council chose to pursue the latter course. In so doing the Council did not take a legitimate peace-enforcement measure under any article or articles of Chapter VII, notably under article 41. It took, simply, a law-making (not to mention law-determining and law-enforcing) measure which fell outside its functions under Chapter VII or any other provision of the Charter or general international law. The U.N. ignored, in so doing, the capital distinction established in the Charter between peace-enforcement, on the one hand, and law-making, law-determining or law-enforcing, on the other hand: the latter “functions” not having been attributed to U.N. bodies beyond specified areas”.

Il capitolo VII è, secondo la posizione maggioritaria, la base giuridica per la creazione da parte del Consiglio di sicurezza di un organo straordinario e senza precedenti come il TPI. Ma quest’interpretazione è assai discutibile. Prima di tutto, il potere discrezionale sconfinato del Consiglio nel definire le minacce o i pericoli per la pace (non si parla di pace internazionale come invece si legge nella norma) ai sensi dell'articolo 39 della Carta, è il risultato di un'accezione erronea sfortunatamente corroborata da prassi fuorvianti e dall’acquiescenza degli Stati. In secondo luogo, alla base della creazione del TPI c'è l'affermazione che il Consiglio di Sicurezza abbia possibilità illimitate nell'adottare ogni sorta di misura che ritiene utile e necessaria ai fini del mantenimento della pace. Ciò è stato confermato anche in anni recenti, da una prassi illegale, ma è profondamente falso. Gli articoli 41 e 42 della Carta prevedono due tipi di misure (rispettivamente implicanti o non l'uso della forza), senza dubbio in maniera esemplificativa, in modo da limitare le tipologie connesse con la funzione di autotutela, in cui è proibita l'azione individuale degli Stati, e dove ci si debba affidare all'azione collettivamente decisa. Secondo il tradizionale diritto internazionale, lo Stato leso poteva assumere iniziative unilaterali di autotutela, inclusive di contromisure o rappresaglie. Ciò ora è stato integrato da iniziative collettive, pur sempre dello stesso tipo, ma adottate sotto l’egida di un organismo internazionale. Con ciò si vorrebbe limitare l'autotutela individuale a favore di quella collettiva, rimuovendo situazioni (reali o imminenti) minacciose per la pace, senza imporre soluzioni di merito della controversia o situazione sottostante (previste dal capitolo VI ma solo sotto forma di raccomandazioni). In questo senso, l’azione coercitiva del capitolo VII è una pura funzione esecutiva. Perciò nessun potere di modifica dell'esistente ordine giuridico, o di creazione di norme generali è attribuito all'ONU e in particolare al Consiglio di Sicurezza in base al capitolo VII. L'istituzione da parte del Consiglio di un tribunale internazionale con lo scopo di giudicare i crimini perpetrati da individui è una questione che solleva parecchi dubbi. Il requisito minimo per la legittimità di un organo del genere dovrebbe l’esistenza, alla sua base, di un accordo tra gli Stati, un accordo che rientri nel quadro delle regole delle Nazioni Unite, che rispetti le istanze costituzionali dei paesi coinvolti e i principi fondamentali dei diritti umani. La convenzione sul genocidio del 1948, ovviamente accettata dagli Stati, prevede la costituzione di un tribunale, che non è mai stato creato, la cui giurisdizione abbia l'esplicito consenso degli Stati. Altri successive corti internazionali sono state istituite a seguito di accordi internazionali. La creazione del TPI (e del successivo tribunale del Rwanda) ad opera del Consiglio di Sicurezza è inammissibile da un punto di vista strettamente giuridico. Insomma nessun organo delle Nazioni Unite, in particolare il Consiglio di Sicurezza, è abilitato a sostituirsi con atto di autorità alla volontà degli Stati Membri e a vincolare con le proprie risoluzioni alla giurisdizione di un Tribunale internazionale quegli Stati che non vi abbiano liberamente consentito nel quadro di una convenzione liberamente sottoscritta. L'opposta opinione, che corrisponde con quella del TPI stesso, si basa sull'interpretazione estensiva degli articoli 39, 41, 42 tendente a dare ampio potere discrezionale al Consiglio di Sicurezza. Accettare questa dottrina equivale ad accettare una dittatura mondiale del Consiglio di Sicurezza su individui e Stati. La risoluzione 827 (1993) che dà vita al TPI si pone su questa via. La risoluzione 827 non è né una decisione collettiva che prevede misure non implicanti uso della forza, né una decisione riconducibile all’articolo 42. Non è, in generale, un mezzo collettivo di autotutela atto a limitare l'autotutela individuale ad opera degli Stati: si è mai vista un’istituzione come un tribunale usata come contromisura o come rappresaglia da uno Stato leso? Secondo la corretta interpretazione, il Consiglio di sicurezza non ha tale potere: l’istituzione di un organo di questo tipo non è una misura esecutiva, ma una misura che implica un potere legislativo e un potere giudiziario sugli individui, mai conferiti in capo al Consiglio di sicurezza.

Non si ritiene fondato trovare rifugio, per giustificare l’operazione, in altre norme come ad esempio nell’articolo 7 della Convenzione del Genocidio del 1948, che recita: “Ogni parte contraente può rivolgersi agli organi competenti delle Nazioni Unite, per le misure che ritengano appropriate per la prevenzione e la repressione degli atti di genocidio o di uno qualsiasi degli altri atti enumerati all’articolo 3”. L’articolo 6 della medesima Convenzione prevede che “Le persone accusate di genocidio o di uno qualsiasi degli altri atti enumerati all’articolo 3 saranno tradotte davanti ai tribunali competenti dello Stato, sul cui territorio l’atto è stato commesso, o davanti alla Corte penale internazionale, che sarà competente nei rapporti con quelle parti contraenti che ne avranno riconosciuto la giurisdizione”. Il fatto che il sopra citato articolo 7 preveda una Corte Penale Internazionale, non autorizza il C.d.S ad una funzione di supplenza: anche perché la Corte penale internazionale sarebbe dovuta essere accettata espressamente dagli Stati, come poi accaduto con lo Statuto di Roma del 1998.

In mezzo secolo di storia dalla fondazione delle Nazioni Unite, mai il suo organo politico, nonché esecutivo, il C.d.S. appunto, mai si era attribuito il diritto di fondare un tribunale, per la quale ci vorrebbe il potere legislativo. Un organo legislativo universale non esiste, per cui ad un tribunale internazionale si può arrivare solo tramite accordo tra Stati.

E’ curioso riportare qui di seguito quanto disse il Segretario Generale delle Nazioni Unite nel maggio 1993: “The approach which in the normal course of events would be followed in establishing an international tribunal would be the conclusion of a treaty by which the member States would establish a tribunal and approve its statute. This treaty would be drawn up and adopted by an appropriate international body (for example the General Assembly or a specially convened conference), following which it would be opened for signing and ratification. Such approach would have the advantage of allowing for a detailed examination and elaboration of all issues pertaining to the establishment of the international tribunal. It would also allow the States partecipating in the negotiation and conclusion of the treaty to fully exercise their sovereign will in particular whether they wish to become parties to the treaty, or not”. Con la risoluzione 827 del 25 maggio 1993, il Consiglio di Sicurezza ha ampliato ulteriormente il suo inesistente potere legislativo. Il Consiglio di Sicurezza in questa risoluzione rievoca le convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, nonché la convenzione sulla prevenzione e la punizione dei crimini di genocidio del 9 dicembre 1948, che affidano però alle corti nazionali il compito di indagare su siffatti crimini.[7]

In diritto internazionale la questione riguardante la guerra e la pace è divisa in norme riguardanti il diritto di far la guerra (jus ad bellum) e le norme che regolano lo svolgimento della guerra (ius in bello), che hanno lo scopo di alleviare gli orrori che sono generati da un conflitto armato. Il Consiglio di Sicurezza, che ha il compito di proteggere la pace e la sicurezza internazionali, sanzionando l’illecita minaccia o l’illecito uso della forza, si occupa pertanto dello jus ad bellum. Il diritto penale internazionale, da parte sua, ha lo scopo primario il prevenire e punire i comportamenti illeciti consumatisi durante il conflitto bellico, al fine appunto di “rendere più umana” una guerra, quindi rientra nell’ambito dello jus in bello. Tra gli illeciti che rientrano nell’ambito del diritto internazionale penale, sono solo i cosiddetti “crimini contro la pace” ad avere un’attinenza con lo jus ad bellum;solo tramite la commissione di questi illeciti si violano le norme che formano lo jus ad bellum, mentre gli altri crimini internazionali rilevano della categoria dello jus in bello. Lo Statuto del TPI stabilisce che questo tribunale deve processare tutti i crimini di diritto internazionale penale, fatta eccezione per i  crimini contro la pace e la sicurezza. Il tribunale dell’Aja non si occupa pertanto proprio di quei crimini che violano i valori di cui il Consiglio di Sicurezza è tutore. Ciò significa che gli scopi che il tribunale deve raggiungere non corrispondono con quelli del Consiglio di Sicurezza, di cui il primo è organo sussidiario. Perciò il Consiglio di Sicurezza non è autorizzato ad istituire un tribunale né sulla base delle sue funzioni, né sulla base delle finalità che deve portare perseguire.[8]



[1]     Conforti, Scritti di diritto internazionale, opera citata, pag. 539 e ss.

 

[2]     Vedere sul sito internet www.un.org/icty sentenza Tadic it-94-1ar-72 par.119

 

[3]     Vedi relazione del professor Hans Koechler, Global justice or global revenge, International criminal justice and the Role of Nations Security Council, durante la conferenza tenutasi All’Aja il 26 Febbraio 2005 “ The Hague Procedings against Slobodan Milosevic: emerging  issue in International Law.

 

[4]     Aldo Bernardini, La Jugoslavia assassinata, Napoli 2005 p. 15 e ss.

 

[5]     Antonio Cassese, Il Tribunale penale per la Ex Jugoslavia: bilancio di due anni di attività, pag. 182 in F. Lattanzi, E. Sciso (a cura di), Dai Tribunali penali internazionali ad hoc a una Corte permanente, Editoriale Scientifica, Napoli 1996, pag. 182 e ss

 

[6]     G. Arangio-Ruiz, On the Security Council's “law making', Rivista di Diritto Internazionale 2000, pag. 609 e ss.

 

[7]     Vedere la relazione della professoressa Kosta Cavoski, docente di teoria generale del diritto presso la facoltà di giurisprudenza all’università di Belgrado. La relazione, il cui titolo è “Unjust from the start” è scaricabile presso il sito www.pasti.org

 

[8]     Vedere la relazione dei professori di diritto dell’Università di Belgrado, “ Belgrade law professors’ verdict” reperibile al sito www.icdsm.org/document/verdict.htm

 

 

 

*Pacifico Scamardella. Laurea Magistrale in Giurisprudenza 

Membro del Comitato Scientifico del CIVG