24 Marzo 1999 – 24 marzo 2020: Jugoslavia

 

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 Sono passati ventun anni, ma ogni volta che si ripresenta questa data, ricordo, più che gli avvenimenti effettivi, ormai sfocati, le sensazioni che mi avevano procurato. Lo smarrimento nell’ ascoltare una voce al telefono che con calma rassegnata mi comunicava da Belgrado: Ci stanno bombardando. Il colpo nello stomaco, quando seduta a cena, scoppiava il suono stridente della sirena che annunciava il prossimo bombardamento. Il pasto continuava con i commensali impassibili, però tutti con l’orecchio teso a percepire il rombo dell’aereo in picchiata, seguito poco dopo da un’esplosione. Ricordo ancora l’odore acre della nuvola di polvere densa che si allungava come un’entità fantasmagorica lungo Knez Milosha dal palazzo del Ministero della Difesa colpito.

Ricordo la straordinaria energia che ogni mattina coinvolgeva migliaia di persone di ogni età in Piazza della Repubblica a danzare e condividere il momento al suono di gruppi musicali e rock. Un modo per ribellarsi all’ineluttabile ingiustizia di quei bombardamenti e ricaricare le forze tutti insieme. La sera, la città era completamente illuminata, ma vuota. La gente nei rifugi, a casa, in attesa della sirena e del razzo che avrebbe colpito una nuova parte della loro città. Camminavo per le strade deserte in un’atmosfera surreale.

Come surreale e commovente è il piccolo monumento di pietra in cima alle scale che costeggiano gli studi della Televisione di Belgrado. È una stele semplice con i nomi dei giovani uccisi da un missile una notte, mentre stavano lavorando ai filmati per il giorno dopo. Sotto i nomi è incisa una breve parola: perché?

Se è vero che la NATO è stata proposta per il Premio Nobel per la Pace 2020, allora  bisogna considerare tutti i personaggi e le istituzioni candidati con una diversa attenzione e capire che il premio, una volta serio e ambito, è stato stravolto. Lo vince chi opera tradendo le leggi internazionali, anzi trasformando l’illegalità in normalità e merito.

 

JTMV

 

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Dal mio libro Il Corridoio, pubblicato nel 2005 da Città del Sole - capitolo Belgrado pagina 273

 “Il 24 marzo 1999, la NATO attaccava la Jugoslavia con ondate di bombardieri. Nello stesso giorno i capi di Stato europei, riuniti a Berlino, confermavano il loro appoggio all’intervento NATO.

Il 2 aprile, la Russia richiedeva una riunione ministeriale del G8 e annunciava l’invio di proprie unità navali nell’Adriatico a scopo di monitoraggio.

Belgrado era già stata duramente bombardata durante la Seconda Guerra Mondiale. Il giorno della Pasqua Ortodossa, il 6 aprile 1941 l’incursione tedesca aveva provocato 10 mila morti, nel 1943 e durante la Pasqua del 1944 gli alleati avevano pesantemente colpito la città.  Questa coincidenza dei bombardamenti intorno al periodo pasquale aveva molto toccato i belgradesi, che avevano ricevuto i primi missili con incredulità e poi affrontati con fatalismo. Tutte le atrocità subite in passato ritornavano come parte della loro memoria comune. Si era anche attivato lo spirito caustico, tipico dei belgradesi, attraverso il quale esorcizzavano amarezza, frustrazioni e paura.Reagivano unendosi senza distinzione intorno al capo: Slobodan Milošević. Se gli occidentali avevano voluto abbattere il potere del Presidente serbo intervenendo con la NATO, avevano ottenuto l’effetto contrario

 

La nota più angosciante era la sirena d’allarme che risuonava fra le 20 e le 20 e trenta, a volte dopo i primi tonfi dei missili. L’attesa del suono cupo diventava quasi una dipendenza. Quando non suonava la gente continuava le attività normali, ma con un nervosismo latente che veniva placato dal risuonare dell’urlo. L’attesa era peggiore della certezza di poter essere colpiti e si aspettavano i colpi come il suono di un campanello che comunica l’arrivo di invitati ritardatari.

 

Il tempo era stupendo fra le due Pasque, quella cattolica e quella ortodossa. Sembrava estate, i giardini della fortezza turca di Kalemegdan erano pieni di bambini che giocavano, di vecchi al sole e gruppi di giovani. La Kneza Mihajlova era affollata di gente ai tavolini dei caffè, altri passeggiavano fermandosi davanti ai venditori di oggetti propagandistici fra le spille bianche e nere con il bersaglio e la scritta “target”, indossate da tutti, e i volantini con le caricature di Clinton, Albright e Holbrooke. I piccoli poster rappresentavano i diversi personaggi con caustica ironia. Non si poteva guardarli senza sorridere.

 

In Piazza della Repubblica, davanti al teatro dell’opera, era stato allestito un palco dove, ogni mezzogiorno, gruppi musicali diversi si esibivano in un bagno di folla. I concerti entusiasmavano per l’impegno degli interpreti e la partecipazione del pubblico. Era un modo efficace per infondere ritmicamente energia e coesione.

 

La distruzione dei ponti di Novi Sad aveva ferito ed infuriato la gente che reagiva con sprezzanti battute. Un fervore di eventi coinvolgeva i cittadini, dalle riunioni quotidiane al club degli scrittori, alle catene umane sui ponti, intorno alla televisione, alle strutture, alle fabbriche, uniti nella difesa del diritto alla vita.

     Questa volontà di vivere, alla sera fra le otto e le otto e mezzo, veniva intaccata   dall’ angosciante attesa dell’allarme e dopo il suono lacerante della sirena seguiva l’aspettativa del rumore secco e asettico della morte volante. Le strade si svuotavano, anche se i locali pubblici erano sempre aperti, le famiglie si trasferivano nei rifugi con i vecchi ed i bambini, in attesa dell’urlo della sirena del mattino che indicava il ritorno alla normalità. Le scuole erano chiuse, molti non lavoravano. Con il sole la vita riprendeva, la gente si confrontava sulle notizie dei bombardamenti, i nuovi micidiali sbagli degli aerei NATO. Era lo stare insieme, tutti uniti contro quella che la popolazione considerava, ancora con stupore, un’ingiusta intrusione negli affari interni di una nazione.

Il governo della città, affidato ad elementi della SPO, funzionava molto bene. Le strade erano magicamente pulite, i cittadini stessi erano molto più attenti, come se la morte dovesse giungere in una città ordinata. In punti strategici stazionavano ambulanze e autopompe pronte ad intervenire. Ma rimaneva in tutti la sensazione che potesse essere la fine, una fine accettata fino in fondo. I bombardamenti quotidiani, la consapevolezza di poter essere attaccati dall’Ungheria o dalla Bosnia, magari in Vojivodina da quell’Occidente a cui sentivano di appartenere nonostante tutto, acuiva sempre di più la sindrome di Kosovo Polije[1]- la pulsione a morire tutti per l’onore della patria - alla quale l’ottusità occidentale sembrava spingerli. L’episodio storico si trasformava in una metafora molto presente nello stato d’animo della gente. I serbi erano soli, inascoltati, condannati dai media, avevano contro il mondo e sembrava lontana una possibile soluzione se la NATO continuava a bombardare.

Un’amica, giornalista ed intellettuale, alla quale obbiettavo che la gente sui ponti o ai concerti sembrava divertirsi, mi aveva risposto “si divertono perché sono disperati!”. La sua casa piena di libri e quadri era stata riordinata come mai prima: aveva messo vecchie collane ad ornare recipienti di cristallo e specchi, “perché se muoio tutto è a posto”.

La sensazione di irreparabilità si percepiva distinta. I serbi non avrebbero accettato l’entrata delle truppe NATO in Kosovo ed erano tutti d’accordo con le decisioni del governo, anche le opposizioni. Rimaneva soltanto un interrogativo: perché la Jugoslavia aveva rifiutato di firmare l’accordo di Rambouillet e perché   non si riusciva a conoscere i termini del trattato. Nessun media internazionale li aveva riportati (su internet erano comparsi dopo qualche tempo, ma pochi in Serbia avevano accesso al sistema), ma, cosa ancora più assurda, nemmeno i media jugoslavi avevano spiegato per bene a cosa era dovuta la tragedia che subiva una nazione di dieci milioni di persone. (…).

 

Una accusa era stata lanciata dalla NATO, che sosteneva che la propaganda jugoslava stesse usando le reti televisive di Stato per mostrare alla popolazione solo gli esiti dei bombardamenti alleati e non le condizioni precarie degli albanesi kosovari in fuga verso l’Albania. Di fatto, quando i media occidentali avevano passato le prime immagini degli effetti dei bombardamenti, l’ago della bilancia dell’opinione pubblica europea si era pericolosamente spostato oltre il 50% in favore dell’arresto immediato dei bombardamenti. Attraverso le pietose immagini delle colonne dei rifugiati alle frontiere macedoni ed albanesi, ripetitivi primi piani su bimbi e donne in pianto, il favore era rientrato. Sulle reti televisive italiane Salim Berisha aveva concitatamente accusato i serbi di stupri, eccidi e torture, evocando immagini granguignolesche, in realtà mai verificate.

 

Comunque l’accusa di disinformazione lanciata dalla NATO, veniva trasformata in pioggia di missili sui ripetitori televisivi, che squadre di efficienti operai rabberciavano nel tempo più breve possibile. Il 23 aprile un missile colpiva gli studi televisivi di Belgrado nella centrale via Aberdareva alla 2.06 del mattino. Un centinaio di giornalisti e tecnici si trovavano nello stabile, 10 morirono, in maggior parte ragazzi e ragazze che facevano il turno di notte, gli altri riportarono ferite molto gravi. Angosciante la storia di una delle vittime, seppellita sotto quintali di cemento, che parlò attraverso il suo cellulare finché le batterie morirono e lei con loro. Le troupes straniere che usavano la struttura come appoggio tecnico, da alcuni giorni si erano tenute lontane dopo che la CNN aveva abbandonato gli studi.

 

Si aveva, curiosamente, l’impressione che in alcuni casi gli obiettivi fossero già conosciuti; alcuni erano ovvi, ad esempio i palazzi governativi. Il direttore di un museo che abitava nei pressi della Kneza Milosha, dove si trovano le sedi dei Ministeri d’Informazione e degli Affari Esteri, oltre ai due palazzi del Quartiere Generale dell’Esercito, una mattina, all’inizio delle incursioni, aveva ricevuto la visita di due cortesi ufficiali in borghese che gli avevano spiegato che sarebbe stato meglio se si fosse trasferito presso amici, perché l’intera zona era a rischio. Effettivamente dieci giorni dopo i ministeri venivano colpiti e pesantemente danneggiati, fortunatamente senza perdite, gli uffici erano stati trasferiti altrove e le strutture svuotate. 

 

Dopo i primi giorni di bombardamenti su tutta la Jugoslavia che, secondo il giudizio del Segretario di Stato US Madeline Albright, avrebbero dovuto piegare il governo di Belgrado, non vi era segno di accordo possibile. La NATO, secondo i piani, doveva passare alla fase due che implicava obiettivi impegnativi come ministeri, luoghi di potere e voli radenti per colpire carri armati e semoventi. Il rifiuto dei serbi a cedere alle pressioni diplomatiche, malgrado l’incalzare dei bombardamenti – colpita il 22 aprile anche la villa datata 1933 che era stata la residenza di Tito, poi di Slobodan Milosevic, nel quartiere di Dedinije - facevano paventare l’inizio della fase tre, dove ai bombardamenti avrebbe dovuto seguire l’invasione da terra che nessun alleato voleva.

 

Sul piano morale la politica statunitense e la NATO erano perdenti. Con l’aumento dei “danni collaterali”, come venivano definiti dagli alti ufficiali atlantici - questa denominazione copriva la distruzione di villaggi, ospedali, scuole, monasteri, case civili e l’avvelenamento dei corsi d’acqua in seguito al ripetuto bombardamento di raffinerie e impianti chimici - il rischio della perdita di immagine era proporzionale. Questo timore crescente rendeva gli USA e la NATO ancor più intransigenti nel pretendere una resa totale, inaccettabile per i Serbi.

 

La guerra “umanitaria” aveva scatenato un’immane tragedia: centinaia di migliaia di kosovari in fuga, diverse città serbe colpite con centinaia di morti e feriti civili di cui il 40% erano bambini, Macedonia, Albania e Montenegro sopraffatte dalla bomba umana e la rovina economica dei paesi limitrofi con il bombardamento dei ponti sul Danubio a Novi Sad, dove le macerie nel fiume impedivano il passaggio dei trasporti fra Austria, Ungheria, Romania e Bulgaria. Alla catastrofe umanitaria si aggiungeva quella ecologica dovuta ai ripetuti bombardamenti sulle raffinerie e sugli impianti chimici di Pancevo sul Danubio, le cui proporzioni e conseguenze sono tuttora incalcolabili.

 

Il 30 marzo Milosevic offriva il ritiro delle truppe dal Kosovo in cambio della cessazione dei bombardamenti. La NATO rifiutava. Il 7 aprile, il gruppo di contatto confermava le cinque condizioni poste dalla NATO per sospendere i bombardamenti:

 1. Cessazione dei combattimenti e della repressione operati dalle forze jugoslave in Kosovo. 2. Ritiro di tutte le forze militari e di polizia dal Kosovo. 3. Presenza di una forza internazionale in Kosovo. 4. Rientro in Kosovo dei rifugiati albanesi. 5. Soluzione politica sulla base della bozza di accordo di Rambouillet. Questi stessi punti verranno confermati dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, pochi giorni dopo e dal G-8 riunito a Dresda.

Le iniziative diplomatiche si moltiplicavano, mentre i bombardamenti mietevano sempre più vittime civili. Il 23 aprile, il russo Viktor Crnomyrdin a Belgrado parla della disponibilità di Milosevic ad accettare l’entrata di forze straniere in Kosovo.

Nello stesso giorno, a Washington la NATO festeggia il suo cinquantenario. In quella occasione viene riconfermata la volontà di continuare la guerra fino al successo totale.

La notte fra il sette e l’otto maggio a Novi Beograd venivano colpiti l’Ambasciata Cinese con tre morti e l’Hotel Jugoslavija. Quella notte anche il Quartiere Generale dell’Esercito Jugoslavo e il Ministero della Difesa vennero raggiunti da missili. Il bombardamento dell’Ambasciata Cinese con morti e feriti fu giustificato con l’improbabile scusa che nelle informazioni su cui si basavano i bombardamenti il palazzo figurava come proprietà governativa. La Cina chiese una riunione immediata del Consiglio di Sicurezza, ma non ottenne nessuna mozione di censura per la NATO. Sorse allora l’ipotesi che si fosse trattato di un messaggio alla Cina.

C’è infatti un precedente: dopo Jalta, la Russia, soddisfatta di avere ottenuto l’Europa dell’Est, aveva promesso che avrebbe attaccato il Giappone tre mesi dopo la resa della Germania, avvenuta nel maggio 1945. Il presidente USA, Henry Truman, informò allora gli inglesi di voler impiegare la bomba atomica su due città giapponesi per costringere il Giappone ad arrendersi. Stalin però, incontrando Winston Churchill a Potsdam, lo informò che i Giapponesi erano pronti a negoziare la pace. Churchill riferì la cosa al presidente americano. Il 6 agosto seguente, l’Enola Gay sganciava la bomba atomica su Hiroshima. Il 9 agosto era la volta di Nagasaki. Perché l’inutile massacro? Per mostrare la forza del nuovo ordigno e far capire alla Russia chi era il più forte? Un ammonimento? La Russia entrava in guerra contro il Giappone l’11 agosto. [2]

Il 10 maggio, Belgrado annunzia di aver iniziato il ritiro unilaterale delle proprie truppe dal Kosovo.

Il 27 maggio, il Tribunale internazionale dell’Aja per i Crimini nella ex Jugoslavia accusava Milosevic e alcuni altri dirigenti politici e militari di crimini di guerra. Il 25 giugno seguente, gli USA avrebbero offerto una taglia di cinque milioni di dollari a chi avesse dato informazioni utili alla cattura di Milošević. Grottesco immaginare la firma di un trattato di pace con un ricercato!

Il primo giugno, Belgrado indirizzava una lettera al presidente della UE confermando l’accettazione delle condizioni del G-8 e nei giorni seguenti il parlamento di Belgrado approvava il piano di pace proposto dal russo Crnomyrdin e dal finlandese Martti Ahtissari, inviato europeo. L’otto giugno i Ministri degli Esteri del G-8 mettevano a punto la risoluzione da presentare per approvazione al Consiglio di Sicurezza delle NU. Dopo gli incontri di Kumanovo, il dieci giugno iniziava il ritiro delle truppe jugoslave dal Kosovo. Javier Solana ordinava la sospensione dei bombardamenti e le truppe NATO entravano in Kosovo Metohija. Il Consiglio di Sicurezza adottava la Risoluzione 1244 che poneva fine alla guerra.

 

24 Marzo 1999 – 24Marzo 2020 :                                 NOI NON DIMENTICHIAMO

 

 

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    Forum Belgrado Italia – Assoc. SOS Yugoslavia - SOS Kosovo Metohija



[1]La battaglia del 1389, quando il duca Lazar, e i suoi alleati erano stati massacrati fino all’ultimo uomo dai turchi, ma l’onore era stato riscattato dal nobile Obilic prima di morire anche egli.

[2]Télématin, France 2, maggio 2000