Il rapporto 2020 di Human Rights Watch sulla Cina: l’opinione di Maria Morigi

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27 gennaio 2020

 

 

Lo scorso 14 gennaio, Human Rights Watch ha rilasciato il rapporto 2020 sulla situazione globale dei diritti umani, in cui la Repubblica Popolare Cinese è pesantemente messa sotto accusa: dallo Xinjiang a Hong Kong, passando per il progetto della Nuova Via della Seta, per l’ennesima volta assimilato a una trappola economica finalizzata a piegare la volontà politica degli stati coinvolti agli interessi di Pechino.

Abbiamo chiesto un parere all’esperta sinologa Maria Morigi*. 

Il rapporto 2020 Human Rights Watch di Kenneth Roth, avvocato americano (n. 1955) e direttore esecutivo di HRW dal 1993, dal titolo “La minaccia globale della Cina ai diritti umani” fornisce un ventaglio di dogmatiche certezze prive di qualsiasi supporto storico e documentato. Il tentativo è quello di denunciare che il governo cinese non solo considera i diritti umani una “minaccia esistenziale per le persone di tutto il mondo”, ma ha attuato anche “un regime di sorveglianza di massa senza precedenti”, “usando la sua crescente influenza economica per mettere a tacere i critici” e “ripudiando il sistema internazionale per i diritti umani”. Il rapporto è così articolato: La logica di Pechino - Il libero stato di sorveglianza - Il modello cinese per la dittatura prospera - La campagna cinese contro le norme globali - I facilitatori -  Gli elementi del potere cinese - Sovversione delle Nazioni Unite - Censura globale – La sfida in ascesa. 

 

A fronte delle mirabolanti osservazioni iniziali di Kenneth Roth sulla censura di Internet in Cina, non posso che avere una reazione stupita e ‘automatica’, poiché ho sperimentato che qualsiasi studente dell’Università di Pechino è in grado di usare, oltre all’account del sistema universitario, anche un proprio altro account che gli consente di accedere ai siti e ai blog di discussione di quasi ogni altro luogo del pianeta. Essendo io ospite e per di più quasi incapace di informatica, non ho voluto usufruire dei suggerimenti di colleghi e studenti, ma ho preferito attenermi alle regole che vincolano formalmente i dipendenti statali. E testimonio che già anni fa erano assai frequentati dai netizen (in cinese wǎngmín 网民, letteralmente ‘popolo della rete’) siti di discussione e critica, con buona pace del Grande Firewall. A tal proposito basterebbe anche leggere qualche giallo, tipo “Cyber China” (caso dell'ispettore capo Chen Cao di Shanghai) in cui l’autore, Qiu Xiaolong che vive negli Stati Uniti, non è certo ‘tenero’ nell’illustrare il burocratico sistema statale cinese. I suoi gialli sono peraltro in vendita libera e ben visibili anche in Cina presso edicole e librerie: li ho conosciuti su segnalazione di colleghi cinesi e poi letti in traduzione italiana.

 

La mia seconda reazione è relativa alla proclamata e teorica universalità dei Diritti Umani, i quali auspicano che i singoli individui siano effettivi soggetti del diritto (Dichiarazione Universale del 1948). La Dichiarazione infatti, pur nella carenza di strumenti giurisdizionali, proietta su scala globale un insieme di affermazioni di libertà e diritti individuali irrinunciabili che sono, in gran parte, il frutto utopistico della sola cultura occidentale e riflettono l’aspirazione delle potenze occidentali a dominare il mondo attraverso il proprio linguaggio e la propria cultura. Proprio per questo motivo e secondo l’opinione di autorevoli giuristi (Danilo Zolo), la Dichiarazione del 1948 non rappresenta in realtà alcuna universalità, non essendo in grado di tener conto di situazioni e modi di sentire legati a culture locali pur degne di rispetto. Ha provocato inoltre la moltiplicazione di guerre “umanitarie”, guerre per “esportare la democrazia”, un numero enorme di vittime civili e la classificazione di “Stati canaglia” (‘rogue states’ come Cuba, Iran, Sudan, Siria, Nord Korea, Venezuela, ecc.).

Il nostro avvocato dei Diritti Umani sembra inoltre ignorare completamente il variegato e fertile dibattito che ha avuto luogo, proprio all’interno della Repubblica Popolare Cinese, in vari ambiti e livelli (accademici, di Partito e di opinione pubblica). Fin dalla svolta di Deng Xiaoping negli anni ’80, si discuteva - ma ancora si discute - su Valori Universali occidentali e Valori Cinesi, Diritti collettivi e individuali, nella prospettiva di uno Stato che persegue la Via Socialista indicata dal Partito con l’obiettivo dello sviluppo e dell’uscita dalla povertà dell’intera nazione, e che pratica  una capillare democrazia deliberativa fatta di rappresentanze elette a livello regionale, di distretto, di provincia e di comune per categorie di lavoratori e minoranze. Evidentemente al Dott. Roth sfuggono i principi e le modalità applicative del sistema legislativo e giuridico cinese, per cui egli parla indifferentemente di regime e/o di dittatura in modo approssimativo e privo di conoscenza storico-giuridica.

 

Quanto alla parte più corposa della denuncia, riguardante le repressioni e gli abomini perpetrati in Xinjiang, non desidero inoltrarmi nei dettagli delle accuse che, mancando di prove evidenziali, non meritano neppure un contraddittorio specifico. Faccio solo osservare che il nostro paladino dei Diritti Umani ignora o finge di ignorare le disposizioni in materia che discendono da applicazioni legislative specifiche (e continuamente aggiornate a vantaggio delle singole minoranze), rispettose della Carta Costituzionale approvata dal Congresso Nazionale del Popolo il 4 dicembre 1982 che traccia il sistema dell’autonomia regionale. 

La Costituzione, che ha la funzione di legislazione-base per garantire efficienza e praticabilità del sistema, contiene 138 articoli, 16 dei quali riguardano le cinque regioni autonome: Mongolia Interna, Xinjiang, Guangxi, Ningxia e Tibet, cui si aggiungono varie prefetture, contee e villaggi che godono di autonomia.  Principio ispiratore della Costituzione è il riconoscimento alle regioni autonome di diritti e facoltà amministrativo-gestionali; all’Art. 4 dei Principi Generali, è stabilito che tutti i gruppi etnici presenti nel Paese sono uguali innanzi alla legge, che lo Stato protegge i diritti legali e gli interessi delle minoranze etniche, vietando ogni tipo di discriminazione e di oppressione su base etnica, considerando penalmente perseguibile ogni atto che possa minare le basi dell’unità nazionale o istigare alla secessione. L’unità dello Stato è ribadita attraverso il saldo legame fra le nazionalità stesse, poiché “Tutte le regioni autonome sono parti inalienabili della Repubblica Popolare Cinese”. La RPC, dunque, riconosce una sfera di autonomia alle varie nazionalità, purché ciò non ostacoli il sistema socialista e si sviluppi nel quadro unitario dello Stato, rappresentato dall’Assemblea Nazionale del Popolo. Sin dal 1950, i delegati e i membri rappresentanti presso i principali consessi locali e centrali venivano selezionati in modo che fosse garantito il principio di rappresentanza proporzionale per tutte le minoranze. 

I poteri concessi alle regioni autonome sono contenuti nella sezione del Capitolo 3, intitolato “Organi dell’autogoverno nelle regioni autonome nazionali”, dove si prevede: rappresentanza proporzionale al governo della regione autonoma (Art.114), autonomia nella gestione delle finanze (Art. 117), libertà di sviluppare le proprie lingue, culture, tradizioni locali e religioni (Art.119), organizzazione di forze di sicurezza locali per il controllo dell’ordine pubblico (Art. 120). 

Quanto alla diffamante affermazione sull’educazione dei bambini “normali” in Xinjiang, assicuro che ho visitato scuole, preso visione di programmi scolastici, verificato che gli insegnanti vengono adeguatamente formati per la pratica del bilinguismo (differenziato per aree etnico-territoriali anche nelle contrade più sperdute). Soprattutto, non sono riuscita ad identificare orfani infelici e repressi. Quindi finiamola con le falsità, perché, se c’è un popolo che crede nella famiglia e considera un valore i propri bambini, questi sono proprio i cinesi tutti, e non solo gli Han. Basta guardarsi intorno in ogni contrada della Cina.

 

Sull’argomento della persecuzione religiosa, bisogna notare che da tempo la nostra stampa (cattolica e non) e i rapporti sui Diritti Umani sono “infestati” da terribili resoconti e preoccupate opinioni sulla “sinizzazione” delle religioni in Cina. Tuttavia, anche qui devo deludere gli allarmisti perché non mi risulta che in Cina sia in atto una guerra di o contro le religioni, le quali rimangono perfettamente garantite in termini costituzionali, come sa bene chi si occupa della questione e conosce gli svolgimenti della politica religiosa cinese a partire dalle più antiche dinastie storiche. 

A tal proposito, consiglio di tener presente, ancora una volta, la Costituzione: Testo definitivo del 14 marzo 2004, Capitolo II (Diritti fondamentali e doveri dei cittadini), Art. 36 “I cittadini della Repubblica Popolare Cinese godono della libertà di credo religioso. Nessun organo dello Stato, organizzazione pubblica o individuo può costringere i cittadini a credere o non credere, né discriminare i cittadini che credono o non credono in una religione. Lo Stato protegge le normali attività religiose. Nessuno può fare uso della religione per impegnarsi in attività che disturbano l’ordine pubblico, mettere in pericolo la salute dei cittadini o interferire con il sistema di istruzione dello Stato. Gli enti religiosi e gli affari religiosi, non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera [o controllo estraneo, n.d.r.]”.

Se si vuole possiamo dire che la politica governativa è dominata da “Ragion di Stato”, ma inviterei i molti diritto-umanisti a non usare perifrasi false ed offensive come “snaturare le religioni e/o distruggere i valori presenti nelle religioni”. Così si trova scritto in vari articoli propagandistici e liquidatori che dimostrano solo di non avere la più pallida idea delle garanzie costituzionali e delle direttive generali nell’apparato statale cinese. Sinizzare le religioni è infatti la direzione sottolineata da Xi Jinping nel suo rapporto all’apertura del XIX Congresso del PCC (18-24 ottobre 2017) che ha visto partecipanti come ospiti speciali i cinque leader religiosi delle confessioni riconosciute e tutelate – Buddismo, Taoismo, Islam, Cattolicesimo e Protestantesimo. Nel suo discorso, Xi Jinping ha detto che il Partito applicherà la sua politica di base sulle attività religiose, mantenendo il principio che le religioni in Cina devono essere integrate con la cultura cinese e adattate alla società socialista. Tanto che alla fine del 2017 la comunità protestante, l’Associazione Patriottica Cattolica Cinese e le comunità islamiche hanno concordato una politica di base per realizzare entro 5 anni le misure per la sinizzazione e soprattutto il controllo della radicalizzazione in moschee dello Xinjiang. Per quanto riguarda la trasparenza confermo che tutto ciò che riguarda l’Islam si trova pubblicato sul sito web dell'Associazione Islamica Cinese. 

 

Una delle accuse più preoccupanti riguarda il fatto che Pechino sembra costruire metodicamente una rete di Stati dipendenti dai suoi aiuti, e che quelli che si sottraggono rischiano ritorsioni. Strumento dell'influenza della Cina sarebbe la "Belt and Road Initiative" (BRI) che facilita l'accesso cinese ai mercati e alle risorse naturali in 70 paesi. I progetti legati alla BRI ignorerebbero ampiamente i diritti umani e gli standard ambientali, non consentendo alcun input da parte di chi potrebbe essere danneggiato. Secondo le accuse, negoziati e trattative condotti dietro le quinte e inclini alla corruzione, avvantaggerebbero le élite al potere seppellendo la popolazione sotto montagne di debiti. Un vero assalto globale ai diritti umani con complici consenzienti, cioè dittatori, autocrati, monarchi, governi, aziende e persino istituti accademici, apparentemente impegnati per i diritti umani ma che, in realtà, hanno l’obiettivo di indebolire il sistema dei diritti umani, dando priorità all' interesse per la ricchezza della Cina.

 

Nel rapporto emerge spesso la nota della “invidia” (non so come altro chiamarla!) per l’autorevolezza riconosciuta al presidente Xi Jinping. Invidia che si trasforma spesso in disprezzo e dileggio nei confronti di un’intera civiltà che non è compresa perché nessuno sforzo viene fatto per comprenderla, ma anzi è considerata aliena, ingannatrice e colpevole di non praticare metodi e sensibilità rispondenti ai parametri occidentali. Il massimo della banalità viene raggiunto nei consigli pratici che vengono distribuiti a università, uomini d’affari e governi al fine di boicottare/ricattare il successo cinese nello sviluppo.

 

A questo punto consiglierei ai relatori delle organizzazioni dei diritti umani (CHRD, NED, ONG varie), facenti capo alle Nazioni Unite, la frequenza di corsi di antropologia culturale, sociologia comparata, diritto internazionale, ma anche di storia della civiltà cinese a partire dal Primo Imperatore e magari un corso qualificato di scienza investigativa per l’accertamento di fonti e testimonianze da produrre a sostegno di accuse tanto gravi. 

Segnalo che il Congresso Mondiale Uiguro e l’Associazione Uigura Americana sono membri della NED, definendosi organizzazioni “non governative” e movimenti non separatisti al fine di ottenere tutela in Occidente come espressione della pacifica società civile e delle aspirazioni ai diritti umani dei popoli uiguri, benché sia nota, documentata e accertata la loro implicazione in atti di terrorismo e la loro collaborazione nel pilotare il trasferimento di molti militanti uiguri jihadisti nelle file dell’Isis in Siria ed in Iraq (i famosi “orfani” rinchiusi anch’essi in campi rieducazione, per i quali Roth si commuove, sarebbero i disgraziati figli di costoro).

 

Infine chiarisco che anche in Cina ci sono organizzazioni governative non legate al cosiddetto ‘imperialismo dei diritti umani’ ma che si occupano di tutele culturali, diritti e autonomie delle minoranze, come ad esempio China Association for Preservation and Development of Tibetan Culture, China Ethnic Minorities’ Association for External Exchanges e il China Tibetology Research Center che conta più di 5000 ricercatori scientifici in varie sedi estere. Tali associazioni non interferiscono al di fuori della RPC, non fanno saccenti lezioni di buon governo e democrazia ad altri paesi, ma si limitano ad andare, se invitate, a convegni scientifici su argomenti di ricerca. Ho potuto avere una fertile collaborazione con il China Tibetology Research Center, che per l’alto livello scientifico in materia di cultura e buddismo, mi risulta presente a vari convegni e iniziative presso l’Università degli Studi di Napoli L'Orientale e l’Università La Sapienza di Roma nel 2018 e 2019.

 

Una relazione quindi, questa di Kenneth Roth, caratterizzata dalla certezza monolitica di stare dalla parte giusta della Storia (l’Occidente fulcro della civiltà liberale e democratica). Parole le sue che, anziché promuovere la comprensione reciproca e la collaborazione tra culture lontane tra loro, provoca diffidenza, genera sospetto, costruisce pregiudizi e sparge i semi dell’odio inter-etnico e razziale con tutte le conseguenze negative che possono derivare nei rapporti internazionali e umani.

 

Per approfondire

 

Testo integrale del rapporto 2020 di HRW dedicato al tema dei diritti umani in Cina: https://www.hrw.org/world-report/2020/china-global-threat-to-human-rights?fbclid=IwAR3lVMbKXNPZO_2vOaKKZSFSao6JxBncCXu7f0ma4sEXcEfNqvM-1IKAS4k

 

*Maria Morigi è anche membro del Comitato Scientifico del CIVG