Da Venosa a Torino: intervista a Saverio Perrotta

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Questa intervista fa parte di un ciclo dedicato alle tematiche lavorative. Il gruppo di approfondimento del CIVG intervisterà studiosi e lavoratori per tracciare un quadro dei mondi del lavoro.

 

Saverio, tu sei originario di Venosa, in Basilicata. Puoi descriverci le condizioni sociali del tuo paese d’origine quando eri ragazzo?

C’era molta miseria, sia le donne sia gli uomini facevano fatica a trovare lavoro, principalmente come contadini. I pochi ricchi che c’erano avevano un pò di operai a disposizione e li facevano lavorare per 150-200 lire al giorno. La mattina ci si alzava alle 4 e si andava a lavorare per i campi, a piedi.

Io sono stato fortunato, avevo una bicicletta e trovai un lavoro meglio remunerato. La maggior parte della gente era costretta a comprare a credito. Era molto comune il lavoro stagionale, ad esempio raccogliere fave… Settembre-ottobre erano i periodi peggiori perché non si trovava nulla! Così molti si arrangiavano raccogliendo legna o altri materiali e rivendendoli.

L’aspetto peggiore della vita quotidiana era la sporcizia: non c’erano le fogne. Ogni mattina bisognava andare a svuotare i vasi da notte in canali dedicati. Le madri la mattina si alzavano e spidocchiavano i figli… Se ne stavano in mezzo alla strada, perché tanto non avevano lavoro. Ricordo ancora quando andavo a prendere il pane con la tessera e toccava fare una fila di 20 o 30 persone... L’emigrazione verso il Nord Italia è nata a causa di questa situazione.

 

 

Contadine di Venosa. Al tempo, molte donne iscritte al PCI, oltre a lavorare nei campi e occuparsi del lavoro casalingo, erano anche responsabili delle cellule del Partito. Al centro il sindaco comunista Carlo Antolini, un medico originario di Andria.

Tuttavia di fronte a questa situazione non ci si rassegnava: tu stesso hai preso parte a delle lotte, anche molto dure, per migliorare le condizioni di vita…

Certo.Per esempio in seguito all’occupazione delle terre, negli ’50 iniziarono a fare una ridistribuzione. Ma c’è un episodio in particolare che ci tengo a raccontare…Era l’inverno del 1956 e avevo 17 anni. Facevo parte della FGCI [Federazione Giovanile Comunista Italiana, NdR] da quando ero un bambino. C’era troppa disoccupazione, troppa miseria, e non c’era nessun tipo di assistenza. In particolare, le strade erano in condizioni fatiscenti, e non essendo asfaltate erano piene di fango in seguito alle nevicate. In queste condizioni i bambini non potevano raggiungere le scuole… Allora una mattina organizzammo uno “sciopero alla rovescia”, un tipo di sciopero di cui ormai non si sa più nulla ma che all’epoca aveva un grandissimo riscontro[1].

Così i disoccupati e i lavoratori, organizzati dalla Camera del Lavoro di Venosa, presero i propri attrezzi da lavoro e andarono per le strade, sistemando i tratti dissestati senza fare male a nessuno.

Nel primo pomeriggio arrivarono gli “scelbiani” [i reparti celeri della polizia, dal nome del Ministro dell’Interno Scelba, NdR] da Melfi, e cominciarono a strappare le pale e i picconi ai manifestanti. Questi, rispondevano costruendo delle piccole barricate con le carriole e i carretti, per bloccare i poliziotti. Iniziarono a partire i primi colpi di arma da fuoco e le prime raffiche di mitra, e fra gli scioperanti ci scappò il morto. Era giovanissimo, si chiamava Rocco Girasole [al quale è stata in seguito dedicata una Casa del Popolo proprio a Venosa, NdR]. Questo fatto mi è rimasto molto impresso, e nelle lotte degli anni successivi abbiamo sempre cercato di portare avanti la sua memoria. La polizia lo prese e lo portò direttamente al cimitero, senza prima consegnarlo alla famiglia, che così fu costretta a organizzare una cerimonia funebre “simbolica”, con la bara vuota… mi pare che solo dopo la polizia restituì la salma alla famiglia, in modo che si potesse celebrare un vero funerale.

Di questo caso si è parlato molto anche a Roma. Poi sono arrivati gli arresti, circa 60, e alcuni degli organizzatori dello sciopero finirono in prigione.

Dopo la vita è ritornata più o meno normale. Dopo aver fatto il servizio militare nel 1959 sono andato a lavorare come manovale presso un ex-fascista che era anche il padrone di praticamente tutta Venosa, uno di quelli che si era tolto la camicia nera il giorno prima. Alle elezioni, erano gli anni ’60, il “maestro” ci prese da parte e ci disse: “Ragazzi, domani si vota, sapete cosa dovete fare: ognuno di voi deve fare il proprio dovere”, cioè votate Democrazia Cristiana, che al tempo aveva una decina di consiglieri comunali a Venosa, più o meno come il PCI. Il padrone mi chiese: “Ma tu vai a votare?”. Io dissi di sì, anche perché io passavo le notti ai seggi, che erano sorvegliati dal partito fuori e dentro, per evitare i brogli e le intimidazioni. Io dissi che avrei votato il PCI, e il padrone mi fece fare perfino un comizio davanti agli altri manovali, dicendo loro: “Sentite come parla bene Perrotta?”.

Poi le elezioni le vinse il PCI, e alle 8 di mattina del giorno dopo lui venne a parlarmi; stavo lavorando, ero a scavare delle fondamenta con piccone e pala a un metro e mezzo sotto terra. Lui mi disse: “Avete vinto, eh, Perrotta?” e io “Eh sì maestro, bisogna pur saper perdere”. “Questo è vero, hai ragione. Ma sai la differenza? Te hai vinto ma sei ancora là sotto, io ho perso e sono ancora qua sopra!”. Io risposi: “E’ vero, ma la differenza è che fino a venerdì mi potevi rompere le balle, da oggi le balle non me le puoi rompere più!”. Ricordo poi che tutte le volte che lo incontravo per strada in paese si toglieva il cappello per salutarmi: “Buongiorno Perrotta!” “Buongiorno maestro!”.

 

La facciata della Casa del Popolo di Venosa, dedicata alla memoria del bracciante Rocco Girasole.

In seguito sei emigrato come molti altri lucani a Torino, dove sei stato assunto alla Cromodora (gruppo FIAT) e hai continuato l’impegno politico e sindacale iniziato a Venosa. Le difficoltà nella vita quotidiana comunque non mancavano, persino per raggiungere il posto di lavoro. Come vi spostavate per andare in fabbrica?

Noi all’inizio usavamo un pullman dell’ATM, ma non passava mai, faceva un giro lunghissimo e bisognava sempre aspettarlo. Così abbiamo fatto sciopero e abbiamo ottenuto 9 linee private di pullman, ognuna con un percorso proprio. Il percorso l’abbiamo deciso noi: partivano da Mirafiori, da Settimo e così via… Coprivano tutta Torino, lasciavano gli operai e li ricaricavano alla Cromodora. Il costo lo coprivamo in parte noi. Fu un grande successo, ma ricordo che in seguito, negli anni ’80, l’azienda chiese ai lavoratori un aumento del tesserino del bus in cambio della cassa integrazione. La proposta fu accettata, anche se io andai a protestare con il sindacato per quella resa vergognosa.

Saverio Perrotta, sulla sinistra, durante un corteo.

Avete avuto casi di malattie professionali?

Sì, abbiamo avuto diversi casi di tumore alla vescica, con anche un morto. Addirittura io volevo portare del pulviscolo di metallo campionato in fabbrica per farlo analizzare e capire meglio questo problema delle malattie professionali, ma ci è stato detto che era un segreto industriale e che non sarebbe stato possibile pubblicare il risultato delle analisi. Volevamo andare avanti con questa indagine, ma pare che la direzione della Cromodora avesse poi contattato la famiglia della vittima offrendosi di assumere alcuni parenti, e così non fu mai sporta denuncia…

C’era anche un buon numero di infortuni. Ad esempio, con l’andare degli anni 70 persone persero l’udito. Una volta vennero a fare dei controlli sul livello di rumore, ma la bobina con la registrazione dei dati fu fatta sparire. Noi facemmo la denuncia all’INAIL, ma l’azienda non era assicurata e nessun ottenne il risarcimento.

Ci parli del tuo primo sciopero in Cromodora?

La prima volta che ho scioperato alla Cromodora è successo quando hanno iniziato ad introdurre i robot. Quando sono entrato in azienda tutte le lavorazioni erano manuali… Si dovevano sollevare pesi notevoli a forza di braccia. Poi hanno introdotto una macchina, che si chiamava Telemetallo, e noi della fonderia abbiamo scioperato perché sapevamo che avrebbe fatto saltare posti di lavoro.

All’epoca il sindacato non era ancora forte in fabbrica. Così il direttore generale, un ingegnere, è direttamente venuto da noi all’assemblea e ci ha chiesto: “Perché scioperate? Noi abbiamo preso questa macchina anche per aiutarvi, per farvi fare meno fatica, quella fa tutta da sola” e noi abbiamo detto: “La produzione è rimasta uguale o è aumentata?” “E’ aumentata di una ruota all’ora” “E allora se la produzione è aumentata è aumentato anche il vostro profitto, l’avete messa per i vostri interessi e non per i nostri”. Ci siamo subito fatti i conti e su tre turni una ruota in più all’ora voleva dire in pratica un operaio in meno... Ma non si fermarono e così automatizzarono anche altre operazioni, con altri tipi di robot.  E mano a mano che arrivavano altri robot, mandavano via operai, addirittura mi pare che alla galvanica ne abbiano licenziati 50. Così nel corso del tempo la Cromodora è passata da 2800 operai a 2500, eccetera eccetera…

Poi nel corso del tempo il sindacato si è rafforzato, siamo diventati una delle realtà più forti del Piemonte. Nel 1974 nacque la famosa Flm [Federazione lavoratori metalmeccanici, NdR], il sindacato unitario che riuniva Fiom, Fim e Uilm, che però non ha mai inciso realmente perché aveva pochi iscritti. Alla Cromodora l’80% dei lavoratori era iscritta alla Fiom, anche se con la cessione di una parte degli iscritti alla Flm la quota si ridusse al 70-60%.

Con lo Statuto dei lavoratori terminarono i licenziamenti di ritorsione per chi scioperava, e alcuni divieti come quelli di portare giornali politici in fabbrica. Tra le conquiste c’è stata anche quelle dei tre giorni di mutua pagata. Questo fu un passo avanti, ma ha avuto anche degli effetti negativi, come il boom delle mutue. Una volta il medico che faceva le visite a lavoro mi prese sottobraccio e mi fece vedere che c’era il 20-30% di operai in mutua, e molti di loro in realtà non erano malati, ma facevano un secondo lavoro. Ora, è chiaro che una fabbrica non può funzionare così. In ogni caso davanti all’azienda io difendevo sempre gli operai che facevano così… Ma se venivano da me a offrirmi dei soldi perché li coprissi contro il rischio di licenziamento li prendevo a calci nel sedere…

Avevamo anche circa 150 operai che andavano a lavorare come secondo lavoro in “boite” dell’indotto, dove facevano 40 paraurti all’ora, quando da noi ne facevano uno all’ora… E l’azienda lo sapeva! Quando la bolla è scoppiata e la cosa è diventata pubblica, l’azienda è venuta da me e mi ha detto che avremmo avuto 150 licenziamenti. Gli risposi che a loro per primi aveva fatto comodo esternalizzare una parte della produzione, con questi che lavoravano in ditte esterne, e che quindi se li sarebbero dovuti tenere.

Quando il sindacato è diventato più forte ci siamo resi conto che in fabbrica c’erano 1200 categorie. Voleva dire 1200 buste paga diverse! Allora abbiamo deciso di tagliare la testa al toro e di imporne solo 2. Abbiamo preso la busta più alta e quella più bassa e abbiamo fatto una media, in modo che tutti guadagnassero lo stesso stipendio, tranne alla fonderia dove c’era un premio di produzione maggiore. Facemmo saltare anche la differenza di paga tra donne e uomini.

L’impegno sindacale e politico ti assorbivano sia dentro che fuori dalla fabbrica. Come lo gestivi?

Noi avevamo 54 delegati, ma di questi ben pochi partecipavano all’organizzazione, per cui in gran parte il sindacato della Cromodora girava attorno a me, che ero anche rappresentante del PCI in fabbrica.

Quando facevo il primo turno sapevo quando entravo ma non quando uscivo, a volte andavo a Collegno dove c’era la sede del sindacato, oppure alla federazione del Partito, dove ci raccontavamo come era andata la giornata e quali erano i problemi. In pratica uscivo dalla fabbrica, andavo a casa, mi davo una sciacquata e poi uscivo di nuovo…E il mattino dopo di nuovo, mi alzavo alle 4 o alle 5 e me ne andavo a lavorare. Ma non era solo un impegno mio, anche la mia famiglia partecipava. Quando c’erano le assemblee e le elezioni mia moglie e le mie figlie preparavano da mangiare per gli scrutatori, e lo portavano ai seggi: prima, alle 7, portavano il caffè, poi a mezzogiorno le pizze, e così via. E così anche alle feste dell’Unità, dove io e mia moglie Teresa avevamo la responsabilità degli stand…

Questa era la nostra vita! E non chiedevamo nulla in cambio… Quando andavo a trattare all’Unione industriale e dopo ore di trattativa si andava a prendere il caffè, se arrivava qualcuno mandato dall’azienda ad offrircelo, noi dicevamo “No grazie, ce lo paghiamo da soli!”.

Saverio Perrotta (classe 1939) è un ex operaio e militante del PCI e del PRC, ora in pensione. Si è trasferito a Torino negli anni ’70 per lavorare in Cromodora (gruppo FIAT). Abita nel quartiere San Donato, assieme alla moglie Teresa, la compagna di una vita. Ringraziamo entrambi per averci accolto, consentendoci di porre alcune domande a proposito di importanti vicende umane, lavorative e politiche.

 



[1] Un bellissimo documentario a proposito di questi tragici eventi è disponibile in rete. Si veda inoltre un documento che ricorda gli avvenimenti di cui sopra. Può essere interessante infine rileggere l’interrogazione parlamentare del deputato del PCI Pajetta in merito ai fatti di Venosa.