In Eurasia e oltre. La Nuova Via della Seta in Pakistan e America del Sud.

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China-Pakistan Economic Corridor. Una nuova prospettiva.

 A cura di Angelo Travaglini

 

 

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Il “China-Pakistan Economic Corridor” rappresenta per la Cina ed il Pakistan un investimento di strategica importanza nella misura in cui consentirebbe ai due Paesi inserimenti e vantaggi logistici tanto più preziosi quando si pensi all’attuale generale contesto geopolitico e del sub-continente asiatico in particolare. Il valore del progetto si aggirerebbe al momento intorno ai $50 miliardi ma secondo alcuni analisti sarebbe destinato a salire.

A tutt’oggi la rotta percorsa dal trasporto cinese via mare di beni energetici deve obbligatoriamente passare attraverso il problematico Stretto di Malacca, collocato tra il “coastline” occidentale della Malesia e la costa orientale dell’isola indonesiana di Sumatra, uno dei più congestionati, angusti e verosimilmente meno sicuri sentieri marittimi che esista al mondo. L’intensità del traffico navale è inversamente proporzionale alla ridotta dimensione del passaggio che nel punto più stretto scende al di sotto di tre chilometri, creando comprensibili problemi di agibilità logistica, esposto per di più alla minaccia di improvvisi e letali attacchi pirateschi, da sempre ricorrenti in quelle acque.

Lo Stretto di Malacca è un punto obbligato di passaggio per una larga parte delle correnti commerciali della Cina provenienti da o dirette verso tre spazi continentali, l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa. Per un Paese considerato il più grosso importatore di petrolio al mondo si può capire come le esigenze di sicurezza relative al suo approvvigionamento energetico si rivelino di cruciale importanza. Trattasi in effetti di aspetti di strategica rilevanza se si pensa che la rotta navale attualmente percorsa, quella per l’appunto transitante attraverso l’angusto passaggio degli Stretti, comporta una tratta di ben 12.000 chilometri, un percorso –è bene notare- frequentato da flotte militari di Paesi, quali gli Stati Uniti e l’India, non del tutto in rapporti idilliaci con la Cina.

Ebbene ove si tenga a mente ciò, emerge con una certa chiarezza l’importanza in termini logistici e finanziari del corridoio Pakistan-Cina e del suo sbocco nel mare rappresentato dal porto pakistano in acqua profonda di Gwadar. In primis quel che salta subito agli occhi è costituito dal dimezzamento delle distanze. In effetti la distanza che separa Gwadar e la regione orientale della Cina, il Sinkiang, si aggira intorno ai 3000 km mentre la distanza da quest’ultimo territorio e la costa orientale cinese, il cuore economico-commerciale del Paese, non supererebbe i 3500 km. Una bella differenza, non c’è che dire! E che vantaggiose incidenze sul piano anche dell’abbassamento dei costi inerenti al trasporto dei preziosi beni!

Altro vantaggio tutt’altro che secondario sarebbe dato dal particolare che una rotta del genere metterebbe al riparo da incontri poco desiderati soprattutto ove questi dovessero coincidere con l’aggravarsi di tensioni e contrasti a livello politico. Al momento questo è il caso della relazione cinese con gli Stati Uniti, rimanendo scontato il carattere cronicamente precario del rapporto di Pechino con l’ingombrante vicino indiano. Sebbene Cina ed India facciano parte del cosiddetto BRICS, così denominato dalle iniziali dei cinque Paesi di esso facenti parte (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), ciò non ha in effetti comportato un positivo irreversibile salto di qualità nella relazione tra i due giganti asiatici.

Come d’altronde passare sotto silenzio il fatto che, utilizzando il porto pakistano, si eviterebbe alla Cina di solcare le acque del Mar Cinese Meridionale, dove sussiste un mai spento contenzioso con un lotto di Paesi (Filippine, Taiwan, Vietnam) che verte sulle isole Spratley, dalla rilevante importanza strategica ed economica? Contenzioso sul quale soffiano gli Stati Uniti ed i loro alleati della regione? Come si può notare un ulteriore non secondario vantaggio, derivante da un progetto che coinvolge due partner, Cina e Pakistan, legati da una storica amicizia e profonda convergenza di interessi.

Il Corridoio costituisce dunque una scelta strategica suscettibile di accrescere il peso e l’influenza cinesi nell’Oceano Indiano, area fortemente contesa da Pechino con gli Stati Uniti e l’India. Esso inoltre consentirebbe alla Cina di creare le condizioni per uno sviluppo ed una crescita economico-sociale della turbolenta regione dell’ovest cinese, il Sinkiang, abitato in larga maggioranza da una comunità, gli uiguri, di fede mussulmana sunnita, nei cui confronti Pechino adotta sistemi di estrema vigilanza, non approvati dalle organizzazioni umanitarie internazionali. Altre aree finitime del Sinkiang ne trarrebbero anch’esse un sostanzioso vantaggio, sfruttando il conseguente allargarsi delle attività economiche.

Potremmo quindi definire il suddetto Corridoio una prospettiva “win-win” per Pechino? In buona misura indubbiamente lo è, anche se incognite e complicazioni potrebbero rendere la realizzazione dell’ambizioso disegno più tortuoso e difficile di quanto a prima vista potrebbe apparire.  Intendiamo principalmente riferirci alla non felice collocazione geografica del porto di Gwadar, situato in una regione, il Belucistan, dove l’irredentismo della locale comunità si accoppia, in un mix esplosivo, con il jihadismo estremista di matrice sunnita. Il Belucistan è una regione tagliata in due dall’Iran e dal Pakistan, i due Paesi chiamati a confrontarsi con la militanza dei locali gruppi irredentisti e dei movimenti dell’estremismo sunnita. In effetti essa è la regione più vasta e meno sviluppata delle quattro facenti parte del Pakistan (lo è anche dell’Iran), e questo alimenta la rivolta di una comunità che si considera emarginata ed impedita dal trarre vantaggio dallo sfruttamento delle ricchezze giacenti nel suo territorio (gas naturale, carbone e minerali). Questo è quello che i Beluci contestano al governo di Islamabad, al quale chiedono una maggiore autonomia ed una forma di governo più inclusiva di quella autoritaria e centralizzata attualmente in essere.

Il Baloch Liberation Army (BLA) è la formazione militante da cui emanano le due dirompenti spinte irredentista e jihadista la cui azione ha comportato a tutt’oggi un pesante tributo di sangue sia per l’Iran sia per il Pakistan. Il che fa dell’immensa area frontaliera interessante i due Paesi una delle regioni più pericolose al mondo dove l’insicurezza e l’esplosiva violenza costituiscono il tratto peculiare. Negli ultimi tempi l’attività del BLA ha registrato un significativo crescendo con micidiali sanguinosi attacchi contro l’esercito di Islamabad. Recentemente i militanti beluci sono arrivati ad assaltare perfino un albergo di lusso a Gwadar ospitante personale straniero, facendo vivere momenti di panico ed infliggendo perdite a danno del locale personale di sicurezza.

Secondo alcuni analisti è su questa realtà di disperazione e di violenza incontrollata che coloro interessati al fallimento del Corridoio economico hanno modo di incidere per il conseguimento dei loro destabilizzanti fini. Intendiamo riferirci essenzialmente all’India, dietro la quale si erge il suo alleato USA, notevolmente avvicinatisi con la venuta di Donald Trump, tenendo ben a mente tuttavia le inaffidabili mobili inclinazioni del Presidente americano.

Lo scopo è chiaro, dettato dalla convergenza degli obiettivi perseguiti da Washington e New Delhi. L’obiettivo preminente perseguito resta quello di impedire che la Cina acquisisca un ruolo dominante nel subcontinente asiatico che costituirebbe agli occhi dei due Paesi il temuto sbocco del successo della strategia economica cinese basata sul “Belt and Road Initiative” e sul “China-Pakistan Economic Corridor”.

Di questa realtà gli efficienti e potenti servizi di sicurezza pakistani (Inter Services Intelligence) sono pienamente coscienti ed attivamente impegnati nel tenere scacco alle macchinazioni ordite dalla CIA e dai suoi accoliti.

Resta il fatto che l’humus sul quale i nemici del progetto attingono è più che mai fertile alla luce del risentimento e dell’odio omicida che anima i militanti del BLA. Del resto questi ultimi vengono ad operare in un contesto regionale dove il jihadismo estremista ha allargato e potenziato l’efficacia della propria azione non solo in Afghanistan, dove i Talebani professano un Islam tanto severo quanto ascetico, ma anche nello stesso Pakistan, dilaniato dai Talebani di casa propria, distinti da quelli afghani, che rimproverano ad Islamabad il carattere corrotto ed anti-islamico della sua “governance”.

Ma anche l’opposizione dell’India non va sottovalutata se si pensa che l’agognato Corridoio verrebbe a percorrere un’area turbolenta come il Kashmir dove lo scontro tra India e Pakistan minaccia di riaccendersi in qualsiasi momento e dove l’estremismo islamico delle locali formazioni jihadiste, cavalcante la tigre dell’irredentismo anti-indiano, ha modo di dispiegarsi e rafforzarsi.

La possibilità che attraverso il CPEC Islamabad possa trovare la via per un più accresciuto ruolo geopolitico nel subcontinente viene vista a New Delhi come il fumo negli occhi, né potrebbe essere altrimenti alla luce del ruolo che l’India rivendica nell’area suindicata.

L’odiato vicino ha dunque tutto l’interesse a che il Pakistan rimanga nello stato di precarietà e strutturale debolezza nel quale continua a trovarsi. A tal proposito i risultati finora raccolti nel primo anno di governo presieduto da Imran Khan non si sono rivelati a tutt’oggi particolarmente esaltanti, sotto diversi profili. Il Paese. come abbiamo visto, continua a subire gli attacchi, da nord a sud, della variopinta galassia delle formazioni jihadiste in un quadro di sicurezza poco rassicurante. Ma anche sul piano economico le cose non hanno registrato miglioramenti apprezzabili. La valuta nazionale si è svalutata nell’ultimo anno addirittura del 35%, alimentando un’inflazione devastante a danno del già misero potere d’acquisto della maggioranza della popolazione. L’esposizione del Pakistan al capitale finanziario internazionale è andata crescendo in modo impressionante ove si pensi che nel giro di un anno ben $16 miliardi di dollari sono stati presi a prestito, a tassi di mercato beninteso, registrando un primato in questo campo dal 1947, anno della nascita dell’entità pakistana, senza che ciò abbia giovato al tasso di crescita dell’economia nazionale, calato vistosamente nello stesso periodo.

Come si può notare un quadro poco esaltante, fonte di malcontento e di proteste nella società civile pakistana. In tale contesto la recente visita di Imre Khan negli Stati Uniti acquista un suo significato nella misura in cui essa potrebbe prefigurare il rinnovo del sostanzioso aiuto di $2 miliardi di dollari, sospeso l’anno scorso da Trump, poco soddisfatto della performance di Islamabad nella “lotta al terrorismo dei Talebani” nel finitimo Afghanistan. Da quanto appreso la visita, cui hanno significativamente preso parte anche gli influenti responsabili degli apparati militari e di sicurezza pakistani, avrebbe registrato un andamento positivo con l’impegno assunto da Imre Khan di un più incisivo contributo del suo Paese alla soluzione politica del dramma afghano in cambio di un riconoscimento da parte USA dell’interesse di Islamabad a che a Kabul si formi un governo dove i Talebani siano in grado di svolgere un ruolo importante (“major role”). Si vedrà quel che seguirà da tale visita che comunque non è passata inosservata a New Delhi per le possibili incidenze che potrebbero derivarne sugli interessi indiani nella regione, nonché sullo stato, al momento appagante, della relazione indo-americana. A tal proposito quel che è paventato dall’India è che le pressioni USA sul Pakistan a che Islamabad svolga un ruolo incisivo nella soluzione della crisi afghana riorienti per così dire l’asse della politica americana nuovamente in direzione del Paese rivale a detrimento del riavvicinamento intervenuto nella relazione tra Washington e New Delhi.  

Ciò segnalato il Corridoio economico rimane una prospettiva irrinunciabile per un Paese disastrato come il Pakistan attraverso il quale Islamabad potrebbe non solo trarre benefici sul piano di una più rassicurante sostenibilità del proprio sistema economico ma altresì trovare la via per un profittevole accesso e per produttive interrelazioni con le realtà economiche delle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale, quali in primis il Kazakhstan ma anche, secondo quanto appreso, il Kirghizistan ed il Tagikistan. Vi è da segnalare inoltre che l’economia pakistana è quella di un Paese semi-industrializzato e le sue produzioni, basate soprattutto sui comparti del tessile, del settore chimico e delle apparecchiature mediche, sono apprezzate nel mercato asiatico ed anche mondiale. Il “ritorno” che la leadership politica pakistana, per quanto contestata e controversa, potrebbe trarre da questa nuova prospettiva sarebbe enorme in termini di sviluppo e di più sostenibile stabilità, conferendo ad un Paese come il Pakistan il ruolo che gli spetta nel subsistema cui appartiene.

Le difficoltà inerenti al sentiero da percorrere sono, come si è visto, sicuramente rilevanti ma il fatto che dal successo di tale mega-progetto possa conseguire un progresso significativo in chiave politica ed economica di una regione di strategico rilievo del continente asiatico costituisce un elemento di forza in grado di sormontare, a nostro avviso, le incognite che si annidano nel futuro dispiegamento delle iniziative da assumere.

 

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La Belt and Road Initiative in America Latina

A cura di Sebastiano Coenda

 

 

1.      L’influenza cinese in America latina

Dall’inizio degli anni Novanta, spinta dalla rapida crescita economica, dall’incremento demografico e dall’aumento dei consumi interni, la Cina ha iniziato a interessarsi alla regione latino-americana, riconoscendo nei paesi di quell’area dei preziosi partner commerciali in grado di fornirgli le materie prime di cui tanto necessitava. D’allora, la Cina ha di anno in anno aumentato le importazioni dal subcontinente americano comprando non solo generi alimentari (come la carne e la soia dall’Argentina e dal Brasile) ma anche minerali (come il rame da Cile e Perù) e fonti energetiche (come il petrolio dal Venezuela). Col passare del tempo gli stati latini non furono più utili soltanto per l’acquisto di materie prime, ma divennero anche degli importanti mercati di sbocco per la crescente industria manifatturiera cinese. Questo incremento dei traffici tra Sud America e Cina ha reso la regione latina molto importante per Pechino, che nel corso degli anni si è impegnata in misura crescente nel finanziamento in loco di infrastrutture, estrattive e logistiche, funzionali all’incremento dei traffici commerciali. Inoltre, con l’inizio del nuovo millennio la Cina è diventata uno dei principali creditori della regione. Basti pensare che, dal 2005 a oggi, Pechino ha prestato ai paesi latini oltre 150 miliardi di dollari. Tutti questi sviluppi hanno portato la Cina a diventare il secondo partner commerciale dell’America Latina (dopo gli Usa) e il primo di Brasile, Cile, Perù e Cuba.

Dal punto di vista dei paesi latini, l’attenzione di Pechino ha fornito un’importante opportunità di diversificazione commerciale e finanziaria in un’area che per decenni non ha avuto alternative agli USA (con la sola eccezione di Cuba). Tuttavia, questi sviluppi non hanno comunque permesso il superamento dei due maggiori ostacoli allo sviluppo dell’economia sudamericana: la dipendenza dall’esportazione di materie prime e la difficoltà di creare un tessuto industriale competitivo a causa dell’insuperabile concorrenza dei prodotti manifatturieri provenienti dall’estero.

 

 

2.      Il progetto del treno interoceanico

La storia del progetto di costruzione di una linea ferroviaria che attraversando l’intero Sud America collegasse l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico è iniziata nel 2013 quando il presidente della Bolivia, Evo Morales, con l’appoggio di Brasile e Perù, ha ottenuto il sostegno del presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, per la realizzazione di tale opera. Tuttavia, in seguito a una prima stima dei costi, effettuata dalla Cina nel 2016, il governo peruviano ha scelto di ritirarsi dal progetto.

Dopo più di due anni di stallo, causati dalla riluttanza di Lima a prendere parte all’iniziativa del treno interoceanico per via degli elevati costi che il paese avrebbe dovuto affrontare secondo le prime stime cinesi, a dicembre del 2018, in seguito a nuove stime che hanno nettamente abbassato i costi dell’opera, Lima ha cambiato posizione, causando un’improvvisa accelerazione nelle trattative per la realizzazione del progetto.

A giugno di quest’anno il presidente della Bolivia, Evo Morales, e il presidente del Perù, Martin Vizcarra hanno annunciato che i lavori per la realizzazione del treno interoceanico inizieranno entro la fine dell’anno. Il progetto definitivo è molto ambizioso e prevede la realizzazione di una ferrovia che partirà da Santos, in Brasile, e passando per la Bolivia giungerà fino ad Ilo, in Perù, percorrendo un totale di 3.755 chilometri. Inoltre, non è escluso che si realizzino anche tratte ferroviarie ausiliarie, allo scopo di collegare alla nuova infrastruttura anche Paraguay, Uruguay e Argentina. Se così fosse, il treno interoceanico potrebbe rappresentare un’ottima occasione di sviluppo economico per tutti i paesi dell’America Latina, favorendone l’espansione commerciale, soprattutto verso i mercati asiatici.

Circa un mese prima Martín Vizcarra aveva già confessato che la Cina avrebbe potuto collaborare con la Bolivia e con il suo paese per la realizzazione della linea ferroviaria intercontinentale. Secondo Vizcarra Pechino potrebbe essere il principale finanziatore del progetto, anche se non l’unico, giacchè anche i governi europei di Germania, Svizzera, Regno Unito e Spagna hanno forti interessi alla realizzazione dell’opera.

Lo scopo principale del progetto è, ovviamente, quello di ridurre il costo degli scambi commerciali tra il Sud America e la Cina, facilitando l'uscita delle materie prime dal subcontinente Americano e allo stesso tempo favorendo l’entrata dei manufatti cinesi nella regione, evitando così che i traffici commerciali tra la costa atlantica del Sud America e la Cina debbano necessariamente passare dal Canale di Panama o da Capo Horn, come avviene oggi. Le stime indicano che grazie alla nuova infrastruttura i tempi e i costi di trasporto delle merci tra la Cina e la costa atlantica del Sud America potrebbero essere ridotti fino al 35%. Secondo Morales e Vizcarra la costruzione della ferrovia interoceanica dovrebbe iniziare nell’autunno del 2019 e concludersi nel 2030.

 

 

3.      La Belt and Road Initiative in America latina

Durante la seconda riunione ministeriale del forum Cina-CELAC (Comunità degli Stati dell'America latina e dei Caraibi), tenutasi a Santiago del Cile il 21 e 22 gennaio del 2018, la Cina aveva ribadito il suo interesse strategico per la realizzazione del treno interoceanico, alla luce del suo ambizioso progetto della Belt and Road Initiative. Durante questo vertice sono stati approvati tre documenti: la Dichiarazione di Santiago, il rinnovato Piano di cooperazione 2019-2021 e la Dichiarazione speciale Belt and Road Initiative.

Nonostante un anno prima fosse stato previsto che in sede del forum Cina-CELAC sarebbe stata ufficializzata l’incorporazione formale della regione sudamericana all'iniziativa, ovvero la sua inclusione nella mappa ufficiale del progetto, alla fine dell'incontro non è stato firmato alcun documento ufficiale: la Dichiarazione di Santiago comprendeva solamente la presentazione del progetto cinese della nuova via della seta, mentre all’interno della Dichiarazione speciale veniva semplicemente espresso l’interesse dei membri del CELAC a prendere parte all’iniziativa cinese.

Ad ogni modo, negli ultimi tre anni Uruguay, Cile, Trinidad e Tobago, Bolivia, Antigua e Barbuda, Guyana, Costa Rica, Venezuela, Barbados e Panamá hanno appoggiato ufficialmente l’iniziativa cinese attraverso la firma di protocolli di intesa. Ad aprile di quest’anno il Perù è stato l’ultimo paese sudamericano ad aver aderito all'ambizioso progetto cinese, nonostante i ripetuti avvertimenti degli Stati Uniti contro le nazioni latinoamericane che rafforzano i loro legami con Pechino.

In questo contesto la costruzione della ferrovia interoceanica, sebbene non incorporata ufficialmente alla Belt and Road Initiative, rappresenterebbe sicuramente un tassello fondamentale per la strategia geopolitica cinese volta a proiettare la sua potenza economica all’esterno attraverso l’incremento dei traffici commerciali su vie di comunicazione non controllate, direttamente o indirettamente, dai suoi principali competitor: gli Stati Uniti d’America.

 

Agosto 2019,     a  cura dell’Osservatorio italiano del Silk Road Connectivity Centre/CIVG