Anno 2013: la “partita” strategica per la ricolonizzazione del Vicino Oriente ha inizio

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  1. La crisi politica libanese come parte del processo di destabilizzazione politica dei Paesi vicino orientali non allineati al Washington consensus.

  

 Il 22 marzo 2013 il premier libanese Naijb Mikati, un tecnocrate sunnita che ricopriva tale incarico dal gennaio 2011, alla guida formale di una coalizione politica che includeva anche le principali formazioni politiche espressione della resistenza nazionale[1] (la Corrente cristiano-patriottica “aounista” e lo sciita Hezbollah), rassegnò le dimissioni a seguito di una crisi politica contraddistinta da rilevanti fattori, dei quali i principali erano:

i perduranti dissidi tra i sostenitori della riforma della legge elettorale su base proporzionale e nazionale, e le forze filo-occidentali e filo-saudite che, sostenute ed incoraggiate dagli Usa[2], si opponevano a tale iniziativa; una simile modifica della normativa per il voto infatti, attribuirebbe la vittoria parlamentare alla coalizione della resistenza («8 Marzo»), maggioritaria nel Paese ma territorialmente radicata in determinate aree del Libano, quali il Sud sciita, la Valle della Bekaa e i quartieri cristiani e sciiti di Beirut fedeli al partito del generale Aoun, ad Amal e ad Hezbollah; la legge elettorale in vigore nel marzo 2013, maggioritaria e strutturata sul principio della salvaguardia del confessionalismo, non garantiva la piena attuazione del principio del suffragio universale (una testa/un voto), in quanto favoriva l'accesso ad un numero di seggi sproporzionatamente elevato ai candidati sunniti della coalizione filo-Usa e filo-saudita «14 Marzo», egemonizzata dal clan Hariri e supportata dai falangisti cristiano-maroniti, minoritaria nel Paese ma dominante nei collegi elettorali del Nord e dei quartieri benestanti di Beirut e Sidone; nell'ottica dello scenario sopra descritto, le elezioni, previste per il giugno 2013, avrebbero potuto essere rinviate addirittura al 2015;

il rifiuto, da parte della Camera dei deputati (il Parlamento monocamerale del Libano) di prorogare per altri tre anni il mandato del generale Ashraf Rifi, capo delle Forze di sicurezza interne, accusato da Hezbollah di fornire informazioni agli Usa ed ai gruppi armati operanti in Siria in funzione di massa di manovra del “fronte degli aggressori” imperialisti; Rifi avrebbe altresì svolto un'azione di sostegno alle bande armate di ispirazione takfirista e legate al brand di Al Qaeda, nell'ambito della strategia imperialista di guerra segreta contro la Siria, di cui le fazioni sunnite libanesi vicine al clan Hariri ed alla Fratellanza musulmana erano parte integrante e determinante;

il contraccolpo sociale, politico e militare, provocato in Libano dal conflitto in corso in Siria, in particolar modo manifestatosi attraverso la perpetuazione di sanguinosi scontri nella città costiera di Tripoli, tra «alawiti sostenitori del “regime di Assad” e sunniti appartenenti al campo dell'opposizione».

 

La crisi politica libanese si inseriva pertanto all'interno della partita strategica, “giocata” dalla seconda amministrazione Obama a partire dal suo insediamento alla Casa Bianca nel gennaio 2013, avente come obiettivo la ricolonizzazione degli Stati vicino orientali ostili ai piani statunitensi, israeliani e sauditi relativi Great Middle East Poject, e la conseguente neutralizzazione, da realizzarsi per via politica o militare, delle forze, statuali o partitiche, impegnate sul “fronte della resistenza”. Secondo un autorevole commentatore, le dimissioni di Mikati «aprono la porta a una nuova tappa del confronto politico-securitario che si inscrive nel quadro  della guerra mondiale condotta contro lo Stato nazionale siriano. Gli aggressori vogliono trasformare il Libano in una piattaforma per attaccare questo Paese vicino e condurre un attentato contro la Resistenza, che costituisce una forza di dissuasione contro Israele e i suoi sostenitori»[3]. L'escalation statunitense nei confronti dei Paesi vicino orientali non allineati a al Great Middle East Project, tra cui, ovviamente, Libano e Siria, fu preceduta da tappe significative, miranti, nel «Paese dei Cedri», ad innescare una vera e propria operazione di government change, da attuarsi mediante la radicalizzazione del conflitto per procura in corso in Siria nonché delle pressioni politiche e diplomatiche sull'esecutivo in carica a Beirut, come spiega Ghaleb Kandil:

 

I primi indizi di questa escalation sono apparsi con le dichiarazioni, da circa un paio di settimane, dell'ambasciatore degli Stati Uniti a Beirut, che ha richiesto l'organizzazione delle elezioni in Libano ai sensi della legge del 1960. Maura Connelly ha inoltre silurato tutti i tentativi interlibanesi di approvare una legge elettorale consensuale, così che Washington ed i suoi alleati del Golfo sono giunti alla conclusione che una qualsivoglia legge capace di ridefinire la rappresentanza [parlamentare] cristiana, permetterebbe la formazione di una maggioranza chiara, che avrebbe provocato il fallimento della missione affidata dagli Usa al blocco centrista, che consiste nel neutralizzare le iniziative nazionali, un compito che l'alleanza «14 Marzo», ed il Movimento al Futuro in particolare, non sono riusciti in passato a portare a termine. Il moto d'ordine della Connelly ha dato inizio ad un periodo di tensione politica e di disordini. I propositi aggressivi e provocatori nei riguardi di Hezbollah, pronunciati da Obama, costituiscono un altro indizio, questo promanato dalla più alta autorità americana. Il presidente degli Usa è la fonte di istruzioni da Washington alle petromonarchie, alla Turchia, ai suoi ausiliari libanesi ed ai Paesi europei. E' lui che ordina, e tutti gli altri corrono. Alcune personalità e forze politiche libanesi si piegano ai suoi ordini, e pensano che l'Occidente vinca sempre, mentre le esperienze passate provano che in Libano ha subito gravi sconfitte. L'ordine degli Usa è chiaro: è giunto il momento di porre termine alla partecipazione di Hezbollah con il governo nazionale[4].

 

Ciò significava dunque, in Libano, la necessità, per gli Usa, di marginalizzare dalla vita politica collettiva Hezbollah, la meglio organizzata, anche militarmente, delle formazioni politiche della resistenza antimperialista. In questo preciso contesto andavano lette le dichiarazioni, inequivocabili, pronunciate dal presidente nordamericano Barack Obama ad Amman, in Giordania, a margine del suo “tour” tra le capitali dei Paesi mediorientali alleati degli Stati Uniti, il 21 marzo 2013. Ecco che cosa scriveva, a riguardo, un quotidiano italiano tra i più impegnati nel sostegno alle linee strategiche della politica estera Usa:

 

Barack Obama discute con il re giordano Abdallah l'emergenza in Siria e preme sull'Unione Europea affinché inserisca nella lista delle organizzazioni terroristiche gli Hezbollah libanesi, implicati in recenti attentati anti-israeliani e sostenitori del regime di Bashar Assad. L'offensiva diplomatica di Washington su Bruxelles, guidata dal segretario di Stato John Kerry, che accompagna Obama nel viaggio, prende spunto dalla condanna a Nicolsia di Hossam Taleb Yaacub, miliziano di Hezbollah riconosciuto colpevole di aver tentato di pianificare attentati contro turisti israeliani a Cipro. Per Victoria Nuland, portavoce del Dipartimento di Stato, gli sviluppi a Cipro si legano con l'esito delle indagini in Bulgaria sull'attentato anti-israeliano di Burgas nello scorso anno, attribuito anch'esso a Hezbollah, portando alla “necessità da parte degli alleati europei di mandare a questa organizzazione un messaggio inequivocabile”. Daniel Benjamin, ex-coordinatore del controterrorismo al Dipartimento di Stato ed oggi docente alla Darmouth University spiega: “Hezbollah è attivo ora fuori dal Libano come non avveniva dagli anni Ottanta e l'amministrazione Obama cerca il sostegno degli alleati europei, Italia inclusa, per farlo includere nella lista nera dei gruppi armati terroristi per limitarne il più possibile le attività”. L'Ue ha finora esitato nel timore di conseguenze negative per la stabilità del Libano “ma si tratta di preoccupazioni superate dai fatti – osserva Benjamin – perché nel frattempo Hezbollah ha ucciso il premier libanese Hariri, il capo dell'intelligence libanese e controlla il governo di Beirut”. Come dire: è ora di far scattare le sanzioni contro il partito filo-iraniano di Hassan Nasrallah, al comando di un apparato militare più potente dell'Esercito libanese[5].

 

Diversamente da quanto asserito dagli strateghi del Dipartimento di Stato e raccolto da Obama, Hezbollah non era «attivo al di fuori del Libano come negli anni Ottanta» né si era macchiato o reso responsabile dei crimini imputatigli a scopo meramente strumentale e politico; la volontà degli Usa di accelerare l'inclusione da parte della Ue del Partito di Dio nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali nonché di favorirne l'estromissione, insieme alle altre forze della resistenza, dalla coalizione di governo in Libano, andava ricercata al di là della retorica ufficiale «obamiana», improntata agli stilemi della war on terrorism, e ravvisata in valutazioni di natura geopolitica e geostrategica; Hezbollah era infatti un alleato del legittimo governo siriano e disponeva di un apparato militare di prim'ordine, capace di reagire colpo su colpo a qualsivoglia provocazione straniera, israeliana in primis. Era lo stesso quotidiano sopra citato a riportare quanto testé affermato:

 

Se le pressioni di Washington si intensificano sulle capitali dell’Ue è anche in ragione della “sovrapposizione con la guerra in Siria - aggiunge Benjamin - perché Hezbollah è uno dei maggiori alleati del regime di Assad”. A dimostrarlo è il fatto che oramai la maggioranza dei rifornimenti di armi che arrivano a Damasco transitano dall’aeroporto di Beirut, raggiungendo la destinazione su convogli protetti da Hezbollah. Le molteplici minacce alla stabilità del Medio Oriente portate dall’Iran e dei suoi alleati sono state discusse da Obama nell’incontro con Abdallah, al cui termine il presidente Usa si è rivolto al Leader Supremo di Teheran, Ali Khamenei, per invitarlo a “negoziare sullo stop al nucleare anziché lanciare minacce contro Israele”. Fonti del ministero degli Esteri giordano affermano che “il sostegno dell’Iran ad Assad è massiccio in armi e milizie”, esprimendo preoccupazione per un conflitto che “ha già portato alla moltiplicazione dei gruppi islamici estremisti” fino al punto da prevedere che “se Assad cadesse oggi per stabilizzare la Siria servirebbero anni”. Uno degli scenari esaminati da funzionari giordani riguarda la possibilità che “Assad si rifugi nelle aree alawite lungo la costa, dando vita ad una continuità territoriale con il Libano” a conferma del patto con Hezbollah[6].

 

Secondo un quotidiano italiano non schierato sulla linea del sostegno alla strategia di «destabilizzazione umanitaria» della Siria, il “tour” di Barak Obama per le capitali dei Paesi vicino orientali alleati di Washington del marzo 2013 celava le reali intenzioni dell'amministrazione statunitense nei confronti della «questione siriana» ed in merito alle pressioni economiche e diplomatiche esercitate dagli Usa nei confronti del governo libanese. 

 

Barack Obama non è andato in Israele per la questione Palestinese (la posizione USA è che debbano sbrigarsela tra loro). Il Presidente USA è andato per promuovere il riavvicinamento tra Israele e Turchia in funzione antisiriana. Egli non può infatti attaccare la Siria se i suoi due alleati in loco litigano tra loro al punto di non avere nemmeno rapporti diplomatici. L’allungo in Giordania? Anche qui c’è un segnale preciso oltre a cercare di rassicurare re Abdallah che non vuole ai suoi confini una repubblica fondamentalista islamica e che ha dato pochi giorni fa a un giornalista israeliano una intervista che ha il sapore di un testamento. In aggiunta al miliardo di dollari erogato nel 2012, “zio Obama” ha staccato un assegno di 200 milioni di dollari di aiuto immediato per i profughi affluiti dalla Siria. Il segnale è per il Libano ed il suo premier Mikati che hanno sul proprio territorio un milione di profughi e che non ha ricevuto un dollaro nemmeno dagli sceiccati arabi che pure si erano impegnati: se il Libano non aderisce al cartello anti-Assad, non avrà un soldo e il paese potrebbe imploderebbe per un subitaneo aumento di popolazione del 25 per cento e tutti bisognosi di aiuto[7].

 

Il Consiglio esecutivo di Hezbollah, per dichiarazione del proprio vicepresidente, Nabil Kaouk, si affrettò a definire «una provocazione nei confronti della coalizione “8 Marzo”»[8] l'iniziativa politico-diplomatica promossa dall'ambasciatore statunitense in Libano e dal presidente Obama, con lo scopo di agevolare le dimissioni del governo cosiddetto «filo-siriano», presieduto da Naijb Mikati e la successiva ridefinizione degli equilibri parlamentari nel «Paese dei Cedri» in chiave confessionale ed in funzione pro-occidentale e pro-saudita, mediante la celebrazione delle elezioni legislative di giugno ripristinando la legge elettorale del 1960. Nabil Kaouk affermò che, paradossalmente, le provocazioni statunitensi «avevano un aspetto positivo, ovvero quello di permettere di osservare chi erano, all'interno della maggioranza e dell'opposizione, coloro i quali continuavano a prestare orecchio agli americani e ad obbedire alle loro ingiunzioni»[9]. Il dirigente di Hezbollah rimarcava, infine, le velleità israeliane tese a suscitare la discordia settaria in Libano, al fine di trarre vantaggio, dal punto di vista geopolitico, dalla frammentazione su linee confessionali, sull'esempio dei bantustan sudafricani e namibiani, del «Paese dei Cedri» e, di concerto, ribadiva la determinazione delle forze della Resistenza a portare avanti un discorso politico ed una prassi governativa volta al superamento delle divisioni comunitarie in Libano. «Allo stesso tempo, c'è un aggravamento della situazione confessionale, che esaspera le tensioni all'interno delle comunità. La Resistenza è al di sopra delle considerazioni confessionali e comunitarie. Essa è fautrice di un progetto nazionale nella regione»[10]. Critiche alle ingerenze e pressioni diplomatiche statunitensi nei confronti del governo e, soprattutto, della Resistenza nazionale libanese, nonché alla decisione assunta dal premier Mikati di rinunciare al proprio incarico, giunsero anche dal generale Aoun, sostenitore di una riforma della legge elettorale in senso proporzionale, leader della Corrente cristiano-patriottica (che raccoglieva il 50 per cento del voto cristiano nel Paese) e principale alleato politico di Hezbollah.

Il deputato libanese Assem Kanso, del partito Baath, espresse dal canto suo fondate preoccupazioni riguardo ai tentativi statunitensi di fomentare il conflitto settario nel «Pese dei Cedri», anche mediante l'infiltrazione dei gruppi armati qaedisti, come il Fronte al-Nusra, dalla Siria, in funzione prettamente anti-Hezbollah e tesa a suscitare un quadro di radicalizzazione delle tensioni confessionali, nel quadro della strategia neo-conservatrice del «caos costruttivo».

 

Il Fronte al-Nusra è ormai saldamente insediato in Libano, così come affermato dallo stesso Esercito siriano libero. I miliziani di al-Nusra hanno recentemente superato [il villaggio di, nda] Ersal, e il metodo con cui sono stati uccisi due soldati libanesi testimonia il fatto che Al Qaeda è tra noi. Le ripercussioni del complotto per lo smembramento della Siria hanno chiaramente cominciato a manifestarsi in Libano. C'è un piano americano-sionista che consiste nell'orientare verso il Libano gli estremisti attivi in Siria, dopo il fallimento della realizzazione di loro obiettivi in questo Paese. L'idea di questo piano è quella di creare una sorta di equilibrio con Hezbollah. Sono preoccupato per quel che ci attende. La situazione non è affatto sicura in Libano[11].

 

Alla fine di marzo 2013, mentre il presidente libanese, Michel Sleiman, annunciava la blindatura delle frontiere del «Paese dei Cedri» con la Siria, per evitare il più possibile l'infiltrazione verso questo Stato di gruppi armati sunniti addestrati in Libano, gli scontri settari in Libano, effetto dell'estensione al «Paese dei Cedri» del conflitto in corso in Siria, avevano già provocato, segnatamente nelle città di Tripoli, Beirut, Sidone  e nei villaggi di confine, come Ersal, 130 vittime tra i militanti delle opposte fazioni, ed il bilancio era inevitabilmente destinato a salire. L'escalation politico-militare nei Paesi vicino orientali non allineati ai progetti di ridefinizione degli equilibri geopolitici e geostrategici compatibili con il Great Middle East Project fu dunque determinata dalla tournée di Obama e del suo segretario di Stato, John Kerry, nelle capitali degli Stati regionali a vario titolo alleati o vassalli, più o meno recalcitranti, di Washington, ossia Tel Aviv, Amman e Baghdad.

 

Il presidente statunitense ha dunque dato il colpo d'avvio di questa escalation a margine della sua tournée regionale il cui scopo è stato quello di rinserrare i ranghi dei suoi alleati, di appianare le divergenze che esistono tra certuni di essi, al fine di tentare di modificare i rapporti di forza in Siria e nella regione. Obama ha in primo luogo dato il segnale di guerra aperta contro Hezbollah, ha convinto la Giordania a giocare pienamente il ruolo che le è stato impartito nell'ambito della campagna d'aggressione contro la Siria (afflusso di terroristi, addestramento sul territorio del reame, ecc.) e, infine, ha relegato le pseudo-divergenze tra la Turchia e Israele. Il suo segretario di Stato, John Kerry, è stato incaricato di fare il seguito, nel tentativo di isolare la Siria dai suoi alleati. John Kerry ha messo in guardia, domenica a Baghdad, il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki, che gli aerei carichi d'armi che collegano l'Iran e la Siria attraverso lo spazio aereo iracheno, contribuiscono a mantenere Bashar al Assad al potere. «Ho chiaramente detto al Primo ministro che i sorvoli di apparecchi partiti dall'Iran contribuiscono a sostenere il presidente Assad e il suo regime», ha dichiarato Kerry a dei giornalisti dopo l'incontro con Maliki nella capitale irachena. «Tutto quello che aiuta il presidente Assad pone un problema», ha aggiunto Kerry, che si è espresso durante una conferenza stampa organizzata a margine della sua visita a sorpresa nella capitale irachena. Il dado è tratto, la battaglia decisiva è dunque in procinto di cominciare[12].

 

 

                                                               Paolo Borgognone, CIVG, 3 aprile 2013.



[1]   Scrive a proposito il giornalista tedesco Jurgen Elsasser: «In Libano gli islamisti, i nazionalisti e la sinistra combattono fianco a fianco contro gli aggressori. Naturalmente si tratta solo di un legame finalizzato ad uno scopo preciso tra raggruppamenti che spesso sono stati nemici accaniti. E' come nella seconda guerra mondiale quando anche gli antipodi Stalin e Churchill con tutti i loro sostenitori dovettero allearsi anche se in origine questa non era affatto la loro intenzione. Furono costretti a farlo se volevano sopravvivere. In guerra è così». J. Elsasser, Cavallette. Capitale finanziario, balcanizzazione e fallimento della sinistra, Zambon, Frankfurt, 2008, p. 120.

[2]   Scrive infatti a proposito Ghaleb Kandil: «Maura Connelly [ambasciatrice statunitense in Libano, nda] ha trasmesso al presidente della Repubblica [libanese] Michel Sleiman, al primo ministro Naijb Mikati e al ministro dell'Interno Marwan Charbel, dei messaggi richiedenti loro di cominciare i preparativi per lo svolgimento delle elezioni legislative del prossimo giugno sulla base della legge del 1960. La sostituzione di questa legge [attraverso una riforma in senso proporzionale, caldeggiata da Hezbollah e dai cristiani “aounisti”, nda] condurrebbe ad un declino supplementare dell'influenza di Washington e dei suoi ausiliari libanesi e regionali, ivi compresi i centristi, i cui legami con l'Occidente non sono più un segreto per nessuno. La domanda trasmessa dalla signora Connelly ha creato un clima di tensione all'interno del governo libanese, dopo che M. Sleiman, N. Mikati e M. Charbel avevano ceduto ai “desiderata” statunitensi, che riflettevano un cambiamento della tattica degli Stati Uniti, che avevano deciso di “voltare la pagina” della stabilità e di optare per l'escalation nella regione, dall'Iraq passando per la Siria e la Giordania». G. Kandil, Plan états-unien de déstabilisation de la région, de l’Irak au Liban en passant par la Syrie et la Jordanie, in http://www.voltairenet.org/article177827.html, 11 marzo 2013.

[3]   G. Kandil, La démission du Premier ministre libanais et le plan d’escalade états-unien, in «Réseau Voltaire»,  http://www.voltairenet.org/article177951.html, 25 marzo 2013.

[4]   Ivi.

[5]   M. Molinari, Obama in pressing sulla Ue. “Mettete fuorilegge Hezbollah”. Tappa dal re giordano per discutere di Siria. Assad pensa alla fuga in Libano, in «La Stampa», 22 marzo 2013. 

[6]   Ivi.

[7]   A. de Martini, Cipro, Aleppo e Beirut sotto assedio. Il cappio atlantico attorno al più grande giacimento di gas del mondo. Questa l'origine vera delle tensioni nel Mediterraneo orientale, in «Rinascita», 26 marzo 2013.

[8]   Cit. in G. Kandil, Le plan US du dernier quart d’heure, in «Réseau Voltaire», http://www.voltairenet.org/article177908.html, 18 marzo 2013.

[9]   Cit. in Ivi.

[10] Cit. in Ivi.

[11] Cit. in Ivi.

[12] G. Kandil, La démission du Premier ministre libanais et le plan d’escalade états-unien, cit.