La fine dell'impero

Una società basata sul predominio, di conseguenza e inevitabilmente, è una società competitiva e conflittuale.

La competizione è innescata dalla disuguaglianza: in una società di dominatori e dominati è naturale aspirare a dominare qualcuno, ad essere superiori a qualcuno, per quanto in basso si stia; è naturale sentirsi un po’ più in alto se c’è qualcuno sotto di noi.

La competizione è, per sua stessa natura, destinata a crescere sempre: raggiunto un obiettivo se ne presenta un altro.

La competizione sarebbe dunque infinita, se non fosse che la competizione interspecifica finisce, inevitabilmente, con l’estinzione della specie; così come la competizione sociale finisce con la disgregazione della società.

La società di guerra e progresso è giunta a tale punto finale: sta crollando sotto il suo stesso peso, si sta disintegrando in forza della pressione stessa alla quale le sue proprie leggi la sottopongono.

L’Impero, attraverso i millenni, è andato progredendo. Il suo obiettivo, se obiettivo si può chiamarlo, è sempre stato di ampliare le proprie conquiste.

Gli stati guerrieri, dagli assiri ai romani, dai mongoli agli spagnoli, dagli inglesi agli statunitensi, andavano sempre avanti, tesi a sottomettere più popoli e a conquistare più terre possibile. Tesi alla conquista del mondo. Infine, l’imperialismo capitalista ce l’ha fatta: unendo guerre, capitali, scienza, cultura e tecnologia, l’impero sovranazionale ha conquistato l’intero globo. A parte qualche “stato canaglia”.

 

Tale conquista è stata chiamata “globalizzazione”: la sottomissione di popoli e stati di tutto il pianeta agli interessi di poche decine di imprese multinazionali, quasi totalmente dell’area euronordamericana, collegate tra loro in un consorzio di interessi manovranti governi, eserciti e media.

E’ stata la colonizzazione globale senza coloni, l’internazionale capitalista, e ha sancito il dominio mondiale e la sua fine. Perché nella società della guerra e del progresso la competizione non può che progredire.

Abbiamo conquistato i paesi una volta non allineati o socialisti, e questo ci ha permesso di spostare la nostra produzione nelle nazioni asservite, ci ha permesso di utilizzare una manodopera che non costava più di uno schiavo, qualche volta meno.

Non pagare il costo del lavoro era uno dei principali scopi di queste neocolonizzazioni. Non pagare il costo del lavoro, per produrre così merci a prezzi concorrenziali e con un alto tasso di profitto per le industrie occidentali, che avevano abbattuto, ed è la parola appropriata, (non senza una guerra più o meno nascosta e sanguinosa) il prezzo della manodopera.

Ma “costo del lavoro” e manodopera sono due definizioni che significano uomini, donne, bambini, famiglie, comunità, villaggi e città. Mandati alla malora.

Dunque, abbiamo reso schiavi i due terzi dell’umanità senza bisogno di trasportarli nelle nostre città e nelle nostre campagne come facevamo un tempo, e salvando così la faccia. Sono lontani da noi, i nostri schiavi; non li vediamo, possiamo ignorare la loro sofferenza e il loro abbrutimento.

Possiamo così ignorare anche il nostro abbrutimento.

Spostando però in India, in Africa, in Romania, in Argentina o in Malesia, prima produzioni come quella tessile e pellettiera, poi man mano le altre, dalle cartiere alle industrie metalmeccaniche, dalle miniere alla produzione agricola, abbiamo cominciato ad avere qualche problema.

All’inizio è stato il bengodi.

Gli industriali, grandi e più tardi anche piccoli, si arricchivano pagando sempre meno le materie prime e i lavoratori. Ma anche tutti i popoli dei paesi dominatori si arricchivano assieme alle loro classi dominanti.

Perché le merci che giungevano dai paesi schiavi costavano poco, molto meno di quando venivano prodotte in occidente, e questo faceva sì che i lavoratori occidentali si trovassero ad avere un più alto potere d’acquisto.

L’aumento del potere d’acquisto, e cioè della ricchezza, dei ceti popolari faceva fiorire il consumismo.

 Il consumismo aumentava ulteriormente i profitti dei padroni occidentali, aumentava lo sviluppo dell’industria, del trasporto, dei commerci, e il potere delle multinazionali.

Per decenni abbiamo potuto comperare abiti, scarpe, mobili, giocattoli, cibi sottocosto. Sottocosto perché il loro prezzo spesso non comprendeva nemmeno la mera sopravvivenza degli esseri umani che li avevano fatti; né, tantomeno, la riproduzione delle risorse naturali da cui prendevano origine.

Per decenni, sfruttando le quindici ore al giorno di lavoro di bambini legati per un piede alla catena, di uomini e donne scacciati dalle loro terre; sfruttando le terre da cui li avevamo scacciati per produrre cotone per i nostri abiti alla moda da buttare ogni anno, per produrre olio di palma per le nostre merendine tossiche e i nostri cosmetici, per produrre rose e orchidee che costano meno di quanto non costasse quarant’anni fa un mazzo di margherite, noi siamo diventati più ricchi.

Abbiamo mangiato cibi industriali e indossato abitucci nuovi ad ogni stagione, spendendo meno di quanto spendessero i nostri genitori che si facevano durare vent’anni un cappotto, che comperavano la gallina intera e la facevano in brodo. Ci sono avanzati i soldi per acquistare tante altre cose, mentre i nostri genitori facevano i salti mortali per arrivare alla fine del mese.

Tutto il nostro comprare arricchiva noi stessi: il negoziante, l’artigiano, il grossista, l’industriale, che s’ingrandivano assumendo dipendenti per guadagnare di più, che acquistavano la seconda e la terza casa facendo lavorare l’industria edilizia, che per competere socialmente tra di loro comperavano panfili o facevano viaggi esotici arricchendo agenzie di viaggio, compagnie aeree, cantieri navali, compagnie alberghiere occidentali.

Il denaro circolava e circolando si accresceva e in parte anche si ridistribuiva, come se sgorgasse da un pozzo senza fondo. Ma quel pozzo senza fondo era lo sfruttamento dei paesi dominati. Quella fonte che sgorgava e annaffiava le tasche di tutto l’occidente era, tanto per essere un po’ melodrammatici e retorici, le viscere e le vene dei popoli e delle terre di Africa, Asia, America Latina e, infine, anche dell’Europa dell’est.

Il consumismo ha consumato, oltre a quelle genti, foreste, fiumi, terre e falde acquifere; ha consumato migliaia di specie viventi animali e vegetali, fino alle popolazioni degli oceani: un mondo grandioso che stiamo conducendo all’estinzione con una velocità e una pervicacia forsennate.

Il consumismo ha consumato la stessa atmosfera terrestre, riducendo la fascia di ozono che ci protegge dagli ultravioletti e che è il nostro solo schermo e impedimento dal divenire dei tizzoni carbonizzati; aumentando l’anidride carbonica a livelli tali che il clima è catastroficamente cambiato e il pianeta è ridotto a una sorta di pentola a vapore.

Ma il bengodi consumistico sta finendo, forse prima che finisca il pianeta.

Perché poi, una volta portata a compimento la conquista del globo, il capitalismo, un po’ alla volta ma sempre più velocemente, ha spostato nei paesi dominati tutto il lavoro.

I capitalisti occidentali hanno ovviamente continuato la loro corsa al maggior profitto. Era inevitabile.

Chi non ha corso, chi non è riuscito a progredire, ad aumentare lo sfruttamento di uomini e risorse naturali, a diminuire i propri costi di produzione, è stato travolto.

E’ rimasto indietro, ha dovuto soccombere.

Non era abbastanza competitivo!

Così la competizione seleziona i peggiori. Così e in tanti altri modi.

Questa cosa inevitabile in una società gpr, la competizione (in fondo si tratta sempre di guerra e di progresso), la ricerca di aumentare continuamente il proprio dominio, cioè le proprie ricchezze e il proprio potere, ha condotto i padroni a spostare progressivamente tutti i tipi di produzione e persino buona parte del lavoro di servizio o terziario dove la manodopera e le risorse costavano meno: nei paesi assoggettati.

Così facendo, altrettanto inevitabilmente, il capitalismo ha distrutto il proprio mercato.

La “concorrenza”, del tutto involontaria, della forza lavoro dei paesi del terzo mondo, a lungo termine ha avuto come conseguenza la diminuzione dei salari e il peggioramento delle condizioni di lavoro anche in occidente. Si è cominciato con gli agricoltori, che non riuscivano a competere con gli ortaggi, l’olio, la frutta che venivano prodotte dai nostri schiavi: gli agricoltori hanno dovuto abbassare i propri prezzi per restare sul mercato; erano l’anello più debole perché il più in contraddizione con la società gpr ma, nello stesso tempo, del tutto subordinati, e dunque i primi a pagare. Si è andati avanti con le leggi sul precariato, con la chiusura di miniere, aziende manifatturiere di ogni tipo, laboratori artigianali, tutti rimpiazzati da merci e prodotti che venivano fatti per gli stessi padroni ma da altri lavoratori: lavoratori a costo poco più che zero.

Così facendo i capitalisti hanno falcidiato e impoverito i consumatori occidentali. E non hanno, ovviamente, creato una massa di consumatori nei paesi dominati e sfruttati.

I disoccupati, i lavoratori al nero, i lavoratori precari sottopagati non sono dei buoni consumatori, e aumentano di giorno in giorno.

Nello stesso tempo, le donne keniote che lavorano nelle serre delle multinazionali olandesi a sessanta centesimi il giorno, i bambini pakistani che producono gli abiti e le scarpe firmate con il compenso di vitto e alloggio e una cifra miserevole data una tantum alle loro famiglie, non possono diventare consumatori, se non di sé stessi.

Così, involontariamente e inevitabilmente, quei lavoratori schiavi della cui schiavitù, del cui basso costo ci siamo tutti giovati, hanno finito per diventare i nostri avversari e competitori nel mercato del lavoro.

E la globalizzazione e le “delocalizzazioni”, che tanto hanno contribuito ad accelerare la corsa del progresso, la conquista del mondo da parte dell’Impero, l’arricchirsi iperbolico dei ceti dominanti (ma per un po’, per un effimero attimo della nostra storia, che però è bastato a corromperci, noi occidentali siamo stati tutti dominanti) hanno anche esaurito ogni sua possibilità di sopravvivenza, consumando i suoi mercati mentre consumavano il pianeta.

Tra le tante specie che l’industrializzazione, il consumismo, il progresso stanno estinguendo c’è ora il consumatore. Si comincia, come sempre, dai più deboli e cioè dai più poveri, ma poiché anche nella società di guerra e progresso, come in tutte le società, dipendiamo ognuno dall’altro, i ricchi non possono prescindere dai poveri. La catena è lunga ma il progresso non si ferma e arriverà anche a loro: meno operai in vacanza vuol dire rovina del piccolo albergatore, il piccolo albergatore andava in vacanza nell’albergo di lusso, l’albergatore di lusso andava ai tropici, il resort dei tropici era di una multinazionale…

Pesce grosso mangia pesce piccolo, si dice nella società gpr. Ma, se i pesci piccoli sono finiti, anche il pesce grosso crepa.

Inevitabilmente, così finisce la competizione: con l’esaurimento delle forze, con la sconfitta di tutti i partecipanti. Tranne uno.

Ma l’Impero ha bisogno dei molti, per dominare il mondo.

Il capitalismo si è incaprettato con le sue stesse mani. Ora, qualsiasi movimento faccia per liberarsi, contribuirà ad accelerare la sua fine.

Perché non si può tornare indietro. Non può tornare indietro, la società gpr, anzi, non può nemmeno rallentare. Chi rallenta è perduto, è lo sconfitto.

Nessun padrone può decidere di pagare i propri lavoratori più di quanto li paghino gli altri: i suoi prodotti non sarebbero competitivi e la sua azienda sarebbe costretta a chiudere.

Un piccolo produttore italiano di scarpe che ha voluto riportare la propria produzione dalla Romania all’Italia, cioè ha voluto “ritornare indietro”, ritornare a una produzione locale e a paghe che consentissero una vita dignitosa ai lavoratori, ha dovuto rivolgersi ai gruppi di acquisto solidale per tirare avanti.

Cioè, ha dovuto rivolgersi a un tipo di organizzazione che contraddice l’organizzazione capitalista della società. Che rinnega la civiltà gpr. Ha dovuto rivolgersi ai suoi oggettivi nemici.

La fine del socialismo ha accelerato la fine del capitalismo.

E’ stato chiamato “il crollo dei regimi comunisti”.

“Comunismo” è diventata una parola tabù. Eppure il comunismo è stato il tipo di organizzazione sociale naturale per gli esseri umani, da quando sono apparsi sulla terra fino allo strutturarsi in maniera rigida e gerarchica della società di guerra e progresso. Dunque, è stato il modo di vivere degli esseri umani per decine di migliaia di anni, e non è mai scomparso del tutto.

Comunisti erano molti abitanti delle Alpi europee fino all’era industriale; comunisti erano gli indigeni dell’America del sud fino alla colonizzazione spagnola e, quelli che sopravvissero in teorica libertà, fino alla colonizzazione nordamericana; comunisti erano polinesiani ed eschimesi, maori e boscimani, guineiani e lapponi. Tutte queste popolazioni non concepivano la proprietà privata della natura e dei mezzi di produzione, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la divisione in classi e il dominio dei pochi sui molti.

Il tardivo comunismo rinato in Europa, cioè nel cuore della civiltà gpr, con la rivoluzione russa, si proponeva di ripristinare, mutatis mutandis, tali condizioni di proprietà collettiva, potere collettivo, uguaglianza sociale.

Aveva un solo problema, quel comunismo che cominciava gradualmente, e cioè col socialismo; un solo vero, esiziale problema: l’essere circondato da società gpr, e quindi l’essere circondato da nemici. I regimi socialisti nati dalle conseguenze di quella rivoluzione hanno resistito settant’anni ad ogni tipo di attacchi: attacchi militari evidenti ed occulti, attacchi economici, politici e culturali.

Le società gpr e le loro classi dominanti consideravano, a ragione, l’esistenza di paesi socialisti come una minaccia mortale. A ragione, perché i regimi socialisti erano più naturali di quelli capitalisti, cioè più consoni alla nostra vera natura di esseri viventi e di animali sociali. Quindi il socialismo, che era maggiore uguaglianza e maggiore solidarietà e collaborazione, minor competizione e aggressività, in sintesi una vita più pacifica, poteva diventare un esempio disgregante per le società capitaliste.

Che corsero ai ripari fin dal primo momento. La guerra senza esclusione di colpi fatta dal capitalismo alle nazioni socialiste di ogni tipo, da quelle grandi e potenti fino al più minuscolo paese di pastori o contadini fuori dalle rotte, impediva a tali nazioni di dispiegare tutte le loro potenzialità di pace, benessere, uguaglianza e felicità. E’ difficile mangiare in abbondanza, stare al caldo, studiare e andare in vacanza e, nello stesso tempo, far crescere la discussione, la partecipazione e la collaborazione, cioè la vera democrazia, mentre gli altri ti fanno guerra senza tregua e senza remissione. Inoltre, quegli altri che ti fanno guerra hanno come vantaggio la loro propria natura: possono spendere cifre iperboliche nella guerra, sottraendole impunemente al benessere collettivo, dato che la loro organizzazione sociale si basa sullo sfruttamento degli uomini e del patrimonio naturale: il maggior sfruttamento possibile.

Mentre per il paese socialista la guerra, calda o fredda che sia, vuol dire minore socialismo, e quindi minor forza e consenso, per il paese capitalista la guerra vuol dire maggior capitalismo, maggior dominio e maggior subordinazione, e quindi maggior forza.

La nascita di stati socialisti nel cuore della civiltà gpr, e proprio nel ventesimo secolo, cioè nel trionfo di un capitalismo che modellava a propria immagine e somiglianza e secondo i propri fini e interessi politica, scienza e cultura, aveva molteplici ed evidenti significati.

Il primo è che la società gpr, più si espande quantitativamente e qualitativamente (più progredisce) e meno diventa sopportabile per la maggior parte degli uomini.

Il secondo è che in noi l’aspirazione all’uguaglianza, alla pace e alla solidarietà è insopprimibile come la fame e la sete.

Il terzo, dato che tutti gli stati in cui si verificarono e andarono a buon fine rivoluzioni socialiste erano quelli di nazioni agricole e poco sviluppate industrialmente, è che i popoli più “indietro” nel cammino del progresso sono quelli più vicini al comunismo.

I popoli più legati alla terra sono quelli più legati alla comunità, quelli meno individualisti, quelli in cui il senso dell’appartenenza all’universo è ancora presente e con esso il senso del sacro e una, magari anche solo latente, capacità di comprensione.

Sono stati i campagnoli, e non i cittadini, a fare le rivoluzioni socialiste, a decidere che il comunismo era l’organizzazione sociale migliore per loro.

Peccato che poi i governi e i partiti comunisti abbiano fatto di tutto per trasformare i loro popoli in popoli cittadini.

Un peccato forse inevitabile, in paesi in guerra e accerchiati e dopo seimila anni di cultura del progresso e della competizione.

Anche gli abitanti di Creta dovettero sviluppare una sorta di industria bellica, e forse non ebbero più tempo di giocare con i polpi e i delfini.

 

IL TRIONFO DELLA LIBERTÀ

Il comunismo del ventesimo secolo aveva una cultura umanista e progressista. Cioè una cultura subordinata, una cultura da capitalismo mitigato. E questo benché l’economia e la struttura sociale che propugnava, e che attuava nei paesi socialisti, non avessero più niente a che fare col capitalismo.

Questa contraddizione è stata un tallone d’Achille, una crepa sicuramente molto pericolosa per le difese di paesi sempre sotto attacco.

La cultura comunista del ventesimo secolo era quella di Atomino, della onnipotenza umana, della natura da preservare come risorsa durevole da lasciare anche agli uomini futuri, del benessere consistente in più comodità e in più tecnica, in macchine sempre più potenti e sempre più grandi che facessero sempre più lavoro e lavori sempre più grandiosi.

Molto in questa cultura era per fortuna mitigato dalla cultura contadina e arretrata sulla quale si innestava. Tanto che le masse che, nei paesi socialisti dell’est europeo, parteciparono ai movimenti filocapitalisti degli anni novanta erano composte tutte di abitanti delle grandi città. Ma fu comunque nella crepa di quella cultura che, benché ugualitaria, voleva sempre di più e non poneva limiti, sempre più dominio dell’uomo sulla natura, sempre più ricchezza materiale anche se condivisa, che l’Impero infilò le sue leve.

E, dopo settant’anni di spingi spingi, riuscì a far crollare pressoché tutti gli stati socialisti europei.

L’Impero celebrò il suo trionfo finale: Asia, Africa, America latina erano già colonizzate, o meglio globalizzate; il polo socialista si disgregava. Aveva tutto il mondo a sua disposizione per sfruttare uomini, rapinare risorse, occupare terre senza più freni.

Solo allora cominciò davvero la fine.

Il blocco socialista era stato il cattivo esempio e la spina nel fianco; il pericoloso modello a cui avrebbero potuto ispirarsi, a cui si ispirarono per decenni, le classi subordinate dei paesi dominatori; il modello a cui si ispiravano, ancor più pericolosamente, i movimenti di liberazione dei paesi del terzo mondo; e infine la sponda economica e politica a cui si appoggiavano i paesi non allineati.

Ma le nazioni socialiste erano anche qualcos’altro: erano il deterrente allo sfruttamento sfrenato dei lavoratori dei paesi capitalisti dominanti. Il paragone con le condizioni di lavoro dei paesi socialisti era possibile in qualsiasi momento: erano dietro l’angolo e, fino agli anni settanta, portati ad esempio da tutti i movimenti operai e i partiti comunisti dell’Europa occidentale.

Il capitalismo era costretto a competere anche in quello: non poteva permettersi condizioni di lavoro dei salariati evidentemente e massicciamente troppo peggiori di quelle dei paesi socialisti, a rischio di rafforzare in casa propria il movimento comunista e anticapitalista.

I media, le campagne di “informazione” contro il “socialismo reale” non bastavano. Non bastavano a mettere al sicuro dal paragone i capitalisti occidentali nemmeno dopo gli anni settanta, quando le cose cambiarono e, di fronte alla ricchezza che si diffondeva grazie alla globalizzazione, il movimento operaio occidentale e i suoi partiti mollarono gli ormeggi che li tenevano legati alle esperienze reali del socialismo: nell’era degli aereoplani l’Europa dell’est era appena oltre la porta ed era importante che chi ci andava a dare un’occhiata vedesse gente che, almeno apparentemente, non stava meglio di lui. Sarebbe stato un rischio davvero grande, se le condizioni di vita e di lavoro dei popoli dei paesi socialisti fossero risultate in maniera evidente e lampante molto migliori di quelle dei popoli occidentali. Già risultavano in modo evidente e lampante molto migliori di quelle di tutti i paesi sotto il nostro dominio.

Ma oggi, con il crollo del blocco comunista, quel deterrente non c’è più. E non è più necessaria la competizione del capitalismo con il socialismo per migliori condizioni di vita delle masse.

Inoltre, con tale agognato e tenacemente perseguito crollo, milioni di uomini già addestrati al lavoro industriale, e poi fabbriche, macchinari, scienziati e tecnici, strade asfaltate, porti e aeroporti, mezzi di trasporto, centrali energetiche sono caduti in braccio al capitalismo occidentale.

E hanno rappresentato il naufragio di ciò che era rimasto della produzione industriale in occidente.

Hanno rappresentato la chiusura e lo spostamento di produzione di una miriade di aziende di tutte le dimensioni: quelle che non avevano ancora potuto essere spostate in Asia, Africa o America latina.

Hanno rappresentato un’altra frana nei diritti conquistati dai lavoratori occidentali, dato che il basso costo di questi nuovi schiavi fa altra concorrenza al nostro mercato del lavoro.

E dato che non c’è più alcun motivo di ridistribuire una parte delle ricchezze, poiché non c’è più alcun modello sociale alternativo a far concorrenza a quello capitalista.

 

Non ci sono più lavoratori che scelgono a che ritmi produrre, non più operai pagati meglio di insegnanti o di architetti perché il loro lavoro è più duro di quello di insegnanti e architetti, non più fabbriche autogestite, ferie gratuite, scuole totalmente gratuite a tutti i livelli, trasporti pubblici dai prezzi simbolici. E’ caduto il muro che impediva ai nostri padroni di sfruttare anche quei popoli e quei paesi.

Qui, “oltre cortina”, abbiamo salutato l’avvenimento come il trionfo della libertà.

Può darsi che, tutto sommato e a caro prezzo, sia stato davvero il primo atto del trionfo della “libertà”.

Sonia Savioli