Che cosa accade veramente sulla “linea della resistenza” nel Vicino Oriente?

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A quasi due anni dall'inizio della cosiddetta «rivolta siriana» ed a meno di quattro mesi dalle elezioni parlamentari in Libano e presidenziali in Iran, il quadro politico (e la dimensione militare, per qual che concerne il caso siriano) interno ai Paesi facenti riferimento al menzionato «Asse della Resistenza» nel Vicino Oriente, può considerarsi più che mai in evoluzione. Il 21 febbraio 2013 l'edizione serale del telegiornale del secondo canale della tv pubblica italiana (Tg2), attribuiva sostanzialmente alla reazione popolare, spontanea ed autonomamente organizzata, della «società civile» siriana, al pestaggio, da parte della polizia, di alcuni adolescenti rei di aver apposto murales «anti-regime» per le vie della città di Deraa (situata nella Siria meridionale, al confine con la Giordania), l'origine del «conflitto civile» che dal marzo 2011 insanguina il Paese. Una disamina dei fatti, se così la si poteva definire, scadente finanche nel grottesco, se non fosse che a proporla quale «verità rivelata» era stato un autorevole notiziario pagato con i denari del contribuente e non un qualsivoglia ciarlatano del chiacchiericcio giornalistico in vena di grette banalizzazioni e distorsioni palesi dei fatti storici a scopo politico-propagandistico. A meno che, nell'ambito della precedente definizione, non si voglia includere l'intera «offerta informativa» e di «approfondimento politico» del servizio pubblico radio-televisivo italiano[1].

 

Lontano dalle esternazioni riguardanti la «rivoluzione democratica siriana» affondata in un «bagno di sangue» dalle armate del “diabolico” «regime alawita di Assad», malefico agli occhi dell'Occidente capitalista e dei suoi alleati arabi regionali in quanto fiero avversario del sionismo e della destrutturazione dello Stato-Nazione siriano in un mosaico di protettorati etnico-religiosi subordinati agli interessi economici e geopolitici delle potenze imperialiste di cui sopra, si pone d'obbligo analizzare più nel dettaglio l'origine e l'evoluzione sul terreno, militare, politico e diplomatico, della situazione in Siria, a due anni dalla messa in atto dei piani imperialisti di destabilizzazione dell'ultimo (insieme all'Algeria e, per certi aspetti, di quel che resta del Sudan dopo la secessione della parte meridionale dei Paese, fermamente voluta e sostenuta dagli Usa e dai loro lacchè della sedicente «comunità internazionale») bastione del secolarismo e del nazionalismo  progressista (panarabismo) all'interno del «Mondo Arabo».

La guerra segreta ai danni della Siria fu infatti decisa al Pentagono il 15 settembre 2001, nell'ambito di una più vasta operazione militare, politica ed economica, tesa alla ridefinizione degli equilibri geopolitici mediorientali (e non solo, vedasi, più sotto, le cartine 1 e 2), in funzione della tutela e dell'implementazione degli interessi delle multinazionali petrolifere anglo-americane e del complesso militare-industriale statunitense (Great Middle East Project)[2].

 

 

 

Cartina 1, Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/il-mondo-da-redimere/11978

 

Cartina 2, Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/il-mondo-visto-dalla-casa-bianca/1150

 

 

Cartina, 3 Fonte: http://desiderio-limes.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/05/22/la-nato-contro-russia-e-iran/

 

I piani di cui sopra necessitavano il regime change, attuato mediante l'uso della forza bellica (Iraq, 2003; Libia, 2011) o della sovversione politica interna (Cedar Revolution, Libano 2005; Velvet Revolution, Iran 2009) allo scopo di assoggettare al citato progetto del Grande Medioriente, gli attori geopolitici riottosi a sottomettersi alla volontà di Washington, Londra, Parigi, Tel Aviv, Riyad, Doha. I preparativi per la guerra conobbero un'escalation dapprima alla fine del 2003 (approvazione da parte del Congresso Usa del Syrian Accountability Act, che di fatto includeva la Siria nel cosiddetto «Asse del Male» sanzionato dal presidente George W. Bush l'anno precedente), poi durante tutto il corso dell'anno successivo e del 2005, allorquando i servizi di intelligence siriani furono indebitamente accusati di aver attentato alla vita dell'ex-premier libanese Rafiq Hariri (businessman con cittadinanza saudita, detto anche il «Berlusconi del Medioriente»); infine, sullo scorcio del 2010, allorquando la Siria strinse un patto di mutuo soccorso, anche militare, con l'Iran e la resistenza nazionale libanese, finalizzato a consolidare il fronte del rifiuto, antisionista e per certi aspetti squisitamente antimperialista, nel Vicino Oriente. L'alleanza tra questi tre soggetti statuali e politici, ideologicamente contraddistinti da profonde differenze e finanche divergenze tra essi, fu certamente facilitata dall'applicazione sul campo delle strategie di warfare geopolitico e geostrategico (Enduring Freedom) elaborate da esponenti e dirigenti di think thank neoconservatori nordamericani sin dall'epoca dell'amministrazione «democratica» di Bill Clinton (la stesura del Project for a New American Century risale infatti alla fine degli anni Novanta) e dunque prima dell'insediamento della junta petrolifera e militare formalmente guidata da George Bush II. Il governo siriano venne infatti inserito nella balck list della Cia e del Pentagono nel momento in cui, nel 2003, rifiutò di fornire avallo ed appoggio diplomatico e logistico all'aggressione anglo-americana condotta ai danni dell'Iraq. La vulgata mediatica mainstream fonda invece la natura del cosiddetto «Fronte della Resistenza» mediorientale sulla volontà di dominio del settarismo sciita nei confronti dell'Islam sunnita, trasformando una contesa geopolitica basata sulla resistenza ai piani statunitensi di frantumazione di qualsivoglia entità, statuale o partitica, indipendente e sovrana, in una «guerra di religione»; la tanto pubblicizzata «mezzaluna sciita» non è mai esistita, se non dagli schermi dei «programmi di approfondimento» di cui s'è già detto, dalle colonne di quotidiani e «prestigiose» riviste specialistiche, nonché nel novero delle dichiarazioni di ministri e funzionari governativi occidentali ripresi acriticamente dai citati media. Basterebbe infatti ricordare, per sfatare questo teorema mediatico realizzato con precise finalità politiche, la presenza della principale componente cristiana del panorama politico libanese nell'ambito della coalizione di resistenza nazionale (la corrente cristiano-patriottica, Tayyar al Watani al Hurr, del generale Michel Aoun, ottenne infatti, alle elezioni parlamentari libanesi del giugno 2009, il 50 per cento dei consensi della comunità cristiana del «Paese dei cedri»), di soggettività politiche sunnite, laiche e religiose, nel novero della resistenza palestinese (Jihad Islamico, Fplp) e, soprattutto, menzionare il sostegno delle minoranze cristiane, curde e druse, nonché di larga parte della comunità sunnita, alle legittime istituzioni siriane, di cui queste componenti sono parte integrante. Eppure, sostenere a livello internazionale, diplomatico e mediatico, l'incombere di velleità espansionistiche da parte degli attori geopolitici della cosiddetta «mezzaluna sciita», si pone come centrale nel novero della strategia di infowar tendente a presentare un blocco di Stati arabi mediorientali, (le petromonarchie feudali del Golfo Persico), «moderati» ed alleati di Israele e degli Usa, assediati da una monolitica coalizione di potenze anti-democratiche, «fondamentaliste» e «terroriste» (Iran, Hezbollah), nonché «fasciste» (la Siria). Pertanto, se la mission, aziendale prima che politica, dell'Occidente «democratico» è quella di promuovere ed esportare la «democrazia di libero mercato» all'estero, si pone come un implicito dato di fatto la necessità, da parte degli Stati Uniti e dell'«Europa», di difendere, anche per via militare se necessario, la «sicurezza di Israele» (come se fosse un falso storico la disponibilità, da parte del regime sionista, di 400 ordigni nucleari, mai dichiarati presso le Nazioni Unite, utilizzati come deterrente a scapito di qualsivoglia minaccia, reale o presunta, rappresentata da attori geopolitici non allineati al progetto del Great Middle East) e la «libertà» dei popoli arabi che hanno «scelto da che parte stare», ossia, tradotto, l'impunità delle autocrazie monarchiche di Riyad, Doha e Manama, nel reprimere indiscriminatamente ogni anelito di protesta da parte dei propri sudditi. Non aveva, a questo proposito, dichiarato l'allora segretario di Stato Usa Condoleeza Rice, nell'estate 2006, dinnanzi all'ennesima aggressione militare israeliana ai danni della resistenza libanese, che tale «guerra preventiva» rappresentava nient'altro che «le doglie del parto di un Nuovo Medioriente»?

Pertanto, considerando la veridicità e l'inconfutabilità degli assunti di cui sopra, appare davvero poco plausibile, con buona pace di quotidiani «indipendenti» e telegiornali «obiettivi», confondere e mistificare l'attuale strategia di guerra segreta mossa dall'Occidente e dai suoi alleati regionali, compresi Turchia ed Israele, nei confronti della Siria, dietro lo stereotipo pubblicitario della «primavera araba». L'aggressione condotta per procura, a partire dal marzo 2011, ai danni del governo, dello Stato e della popolazione siriana, è parte di una complessa ma non inintelligibile strategia imperialista elaborata all'interno dei centri di potere, politico, economico-finanziario e militare di Usa, Israele e Stati vassalli del Golfo, a partire almeno dal 2001, meglio nota, appunto, come Great Middle East Project. Tutto ciò ha nulla a che vedere, ovviamente, con la «promozione della democrazia» e la «tutela dei diritti umani» in Siria; i postulati ideologici e giuridici di cui sopra (contratto sociale costituzionale, principio dell'habeas corpus) sono del tutto rigettati dai governi dei Paesi arabi «moderati», lacchè e soci in affari degli Usa e della Ue, senza che tale consolidata pratica riguardante il rapporto tra governanti e governati sia in grado di sollevare il benché minimo moto di disapprovazione da parte dei commedianti al soldo dei grandi gruppi editoriali (a loro volta strettamente connessi agli interessi economici e speculativi sopra citati), più noti come opinion makers della carta stampata, politici “da avanspettacolo” e «telegiornalisti del potere».

A partire dal 6 febbraio 2013 i media di cui sopra riferirono circa l'inizio di una nuova, e peraltro annunciata, «offensiva dei ribelli siriani» su Damasco, la quinta dal luglio dell'anno precedente (giornalisticamente, Rif Dimashq Offensive); tale operazione militare, detta enfaticamente “Grande Epopea”, avrebbe dovuto condurre alla «conquista» della capitale della Siria da parte delle brigate mercenarie e contras facenti riferimento al frastagliato universo della cosiddetta «opposizione democratica» siriana (vedasi cartina 4, di seguito).

 

Cartina 4, Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Damascus_districts_and_suburbs.svg

 

L'operazione «Grande Epopea», che vide coinvolti «20.000 combattenti, tra cui molti jihadisti stranieri inviati alla periferia di Damasco»[3] (raggruppati principalmente nelle milizie terroristiche sunnite Jabhat al Nusra e Ahrar al Sham), sin dall'inizio «si trasformò in un disastro per i gruppi armati»[4] in quanto i piani da essi messi a punto furono scoperti dai servizi di intelligence di Damasco e neutralizzati dall'intervento dell'Esercito, che stanziò a presidio dei quartieri centrali della capitale 80.000 uomini. 

 

Il piano degli estremisti consisteva nell'avanzata a partire da due assi: Jobar-Zamalka, per prendere il controllo della Piazza degli Abbasidi, il che avrebbe spinto l'Esercito a sguarnire il fronte di Daraya per inviare rinforzi sul nuovo fronte. In questo momento, un'altra fase dell'offensiva sarebbe cominciata da Daraya verso l'aeroporto militare di Mezzeh ed il centro della capitale. Informata dei dettagli di questo piano, l'Armata araba siriana ha ritirato sue unità dalle prime linee, prima di procedere ad un bombardamento senza precedenti delle linee ribelli. Centinaia di miliziani, tra cui i capi maggiormente addestrati e più importanti, sono stati uccisi durante l'assalto. I gruppi armati si sono ritirati, lasciando sul terreno numerose perdite, senza essere riusciti ad avanzare di un solo metro[5].

L'Esercito siriano annunciò di aver neutralizzato, cioè ucciso, 400 miliziani soltanto nei primi due giorni di combattimenti. «Sempre più in difficoltà dal punto di vista militare, [a Damasco] i ribelli siriani ricor[sero] al terrorismo»[6].

Le cinque autobombe contro obiettivi istituzionali e civili, compresa l’ambasciata russa, danneggiata, che hanno provocato un centinaio di morti e centinaia di feriti e mutilati, hanno coronato, per ora, una successione di orrori terroristici che, partita dalle prime manifestazioni dell’opposizione, nelle quali subito si erano infiltrati cecchini che sparavano su folla e polizia, si è poi snodata in un’agghiacciante serie di atrocità contro civili, di distruzioni o furti di infrastrutture vitali, di attrezzature industriali e di raccolti e depositi di viveri, di taglio dei rifornimenti idrici, di devastazioni urbane. Sistematicamente battuti sul fronte militare da un esercito patriottico rimasto saldo e unito al popolo durante i ben due anni di aggressione con mezzi, armi e fondi forniti dall’imperialismo per abbattere l’ultima nazione araba libera, ai mercenari rastrellati da altri scenari di destabilizzazione alimentati da Occidente e despoti arabi alleati, è stato assegnato il compito di esercitare terrorismo puro[7].

Allontanatasi l'ipotesi di una ripetizione dello «scenario libico», con l'intervento della Nato scongiurato dal triplice veto sino-russo nell'ambito del Consiglio di sicurezza dell'Onu a partire dall'ottobre 2011, e sconfitta sul terreno militare, «l’aggressione ha dovuto ricorrere ad altre carte»[8].

 

Un'autobomba, forse due, sono state piazzate [il 21 febbraio 2013] di fronte alla sede del partito Baath – quello del presidente Bashar Assad - nel quartiere centrale di Mazraa, nel cuore di Damasco, e le esplosioni hanno causato […] un alto numero di morti e feriti. Il bilancio ufficiale parla di più di 50 morti e quasi 250 feriti, le esplosioni sono state udite in gran parte della città e avrebbero danneggiato edifici ed automobili a trecento metri di distanza[9].

 

La sede del Partito Socialista Arabo di Rinascita (Hizb al Ba'ath al Arabi al Ishtiraki - Qutr Suriya) non fu l'unico obiettivo raggiunto dalla furia terroristica dei gruppi armati operanti sotto il brand mediatico-pubblicitario dell'«opposizione democratica siriana».

 

[…] quelli contro la sede del Baath non sono stati gli unici attacchi sferrati dai gruppi terroristici dei ribelli contro la capitale siriana. [Il 21 febbraio 2013] Damasco è stata scossa da una serie di esplosioni a breve distanza l'una dall'altra in diversi quartieri, sia del centro sia della periferia: Baramkeh, al-Adawi e Barzeh. Stando al sito di Sky News Arabic, un'altra esplosione avrebbe colpito la sede dei servizi segreti nel quartiere di al-Qabun provocando un numero ancora imprecisato di vittime. Inoltre due colpi di mortaio sono stati sparati contro il quartier generale dell'esercito siriano a Damasco[10].

 

Le 53 vittime causate dall'attentato terroristico contro il quartier generale del partito Baath a Damasco, a prescindere dal fatto che l'episodio fu definito dall'inviato speciale dell'Onu per la Siria, Lakhdar Brahimi, «un crimine di guerra»[11], non suscitarono particolare commozione o indignazione da parte dei media mainstream italiani; i quali, infatti, continuarono a ribadire il martellante leitmotiv secondo cui il dilagare del terrorismo in Siria sarebbe da imputare non al sostegno, finanziario, economico, logistico e militare, di determinati attori geopolitici e fondazioni private, occidentali e regionali, ai gruppi armati contras che infestano la Siria, bensì al «mancato intervento umanitario internazionale», sul modello libico, contro il «regime di Damasco», a causa del «persistente atteggiamento non costruttivo» da parte di Russia e Cina in sede di Consiglio di sicurezza dell'Onu. Una versione, quella proposta dai principali “organi di informazione” italiani, cartacei e televisivi, contraddetta dalla realtà dei fatti ma funzionale alla prosecuzione della campagna di demonizzazione delle legittime istituzioni siriane nonché all'autorappresentazione da parte dei suddetti media, quali sostenitori della causa della «democratizzazione» e dei «diritti umani» nei Paesi non allineati agli «standard occidentali di democrazia e rispetto dei fondamentali diritti individuali». 

Se a Damasco la situazione sul terreno strettamente militare era quella più sopra riportata, nel nord del Paese, segnatamente nelle «aree liberate», all'interno delle quali la Coalizione dell'opposizione (creata a Doha sotto l'egida degli Usa ed egemonizzata dai Fratelli musulmani e dai esponenti del fuoriuscitismo liberale e filo-occidentale dopo la rivoluzione nazionale del 1963) ha più volte manifestato l'intenzione di insediare un «governo ad interim» (sulla scorta di quanto realizzato dal Cnt a Bengasi nel febbraio 2011), il quadro generale di riferimento rimaneva sostanzialmente fluido. Nemmeno in questa parte della Siria infatti, i gruppi armati erano riusciti ad occupare importanti centri urbani, eccezion fatta per alcuni quartieri di Aleppo e svariate località al confine con il Libano settentrionale e la Turchia. Ad Aleppo, seconda città del Paese ed un tempo principale polo economico nazionale, i «ribelli», per dichiarazione del sedicente Osservatorio siriano sui diritti umani, con sede a Londra, annunciarono, a metà febbraio 2013, la «conquista» dello strategico quartiere Sheikh Saeed (vedasi Cartina 5, più sotto), la cui occupazione era giudicata propedeutica al completamento dell'assedio alla zona dell'aeroporto internazionale, dove alla fine di febbraio 2013 gli scontri erano ancora in corso. Allo stesso modo i contras dichiararono di aver espugnato alcuni checkpoint governativi e due presidi militari posti a protezione del menzionato aeroporto; lo stesso Osservatorio siriano sui diritti umani annunciava, contemporaneamente, i preparativi per una vasta controffensiva dell'Esercito volta al ripristino del controllo governativo sulle posizioni che i miliziani sostenevano di aver conquistato.

 

 

Cartina 5, la situazione militare ad Aleppo nel febbraio 2013. Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Battle_of_Aleppo_map.svg.

 

In color rosa: i quartieri sotto controllo governativo.

In color verde smeraldo: i quartieri sotto controllo delle milizie sunnite.

In color giallo: i quartieri sotto controllo delle milizie curde ostili al governo.

In color verde scuro: i quartieri contesi e teatro di scontri.

 

Nelle aree orientali della Siria, al confine iracheno, i gruppi armati mantenevano il predominio sulla città di Mayadin (54 mila abitanti), dove l'Esercito si era ritirato nel novembre 2012; in questa località, dominata dalle forze «ribelli», la Sharia è stata da alcuni mesi proclamata legge ufficiale, in luogo della legislazione laica, vigente sino all'occupazione di Mayadin da parte delle milizie. Le principali località della Siria nordorientale, Deir ez Zor, Al Hasakah, Qamishli e Ar Raqqah, rimanevano, nel febbraio 2013, sotto il controllo dell'Esercito, nonostante alcune di esse fossero oggetto di scontri tra Esercito e contras. Un'epidemia di tifo fu infine segnalata, in una zona dell'Est del Paese sotto occupazione «ribelle». Tutte le città della Siria centrale, occidentale e costiera, comprese Idlib, Homs ed Hama, erano interamente presidiate ed amministrate dalle autorità legittime; in quest'area, soltanto la cittadina di Maarat al Numaan e le campagne attorno ad Homs erano egemonizzate dalla presenza di fazioni «ribelli», o interessate da combattimenti e scontri. Al sud invece, vi erano certamente tensioni a Deraa al confine giordano, e nella zona di Zabadani, a nord di Damasco (per tutto, vedasi la Cartina 6, di seguito).

 

 

Cartina 6, la situazione militare in Siria nel febbraio 2013. Fonte: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/3f/Syrian_Civil_War.svg.

 

In color verde: le città e le aree controllate dall'Esercito

In color marrone: le località controllate dalle milizie «ribelli».

In color blu: le aree teatro di scontri.

 

Le zone settentrionali della Siria, in particolar modo quelle situate al confine turco, formalmente caratterizzate dalla presenza egemonica dei gruppi armati, furono ben presto al centro di episodi di scontri a fuoco tra le milizie «ribelli».

 

[…] tra le stesse bande jihadiste si sono aperti conflitti armati, un po’ sulla strategia, un po’ sulla ripartizione dei rifornimenti dei padrini esterni: nei giorni scorsi quelli di Al Nusrah hanno fatto fuori il comandante militare della zona Nord, Taher al Waqqas, capo della milizia rivale Al Faruk e, contemporaneamente, hanno spinto verso la regionalizzazione dello scontro confessionale tra sunniti e sciiti attaccando villaggi libanesi sotto il controllo di Hezbollah[12].

 

Il tentativo da parte dei gruppi armati di orientamento ideologico takfirista di internazionalizzare il conflitto in corso in Siria, mediante il coinvolgimento della resistenza libanese, poteva dirsi senza timore d'esser smentiti, un fatto.

 

L'opposizione siriana accusa il movimento Hezbollah, vicino al regime e all'Iran, di appoggiare militarmente le forze di Damasco contro i ribelli. Da tempo si parla dell'arrivo in Siria di un certo numero di combattenti sciiti, libanesi ma anche iracheni. Così come è ben nota la presenza di diverse migliaia di jihadisti sunniti, pagati da «finanziatori» residenti nelle petromonarchie del Golfo. Questi jihadisti non sono andati in Siria a combattere in nome di «democrazia e diritti» ma per abbattere il regime ateo di Bashar Assad sostenuto dai «rawafidh» (in arabo «coloro che hanno deviato dalla verità»), il termine dispregiativo con il quale i sunniti radicali (ma non solo loro) descrivono i musulmani sciiti[13].

 

L'azione politica e militare dei mercenari takfiristi, sunniti e politicamente di orientamento conservatore, impegnati nel conflitto per lo smantellamento dello Stato-Nazione siriano, è stato paragonato, in verità del tutto indebitamente, da parte di una nota rivista politica italiana legata alla destra[14], all'operato di Hezbollah, principale attore politico e militare della resistenza libanese; Hezbollah è un'organizzazione partitica sciita ma islamo-nazionalista[15], ideologicamente ostile al rigorismo religioso, apatride, padronale e capitalista, del cosiddetto «Islam politico», o «Islam moderato» (per conferire ad esso un'accezione di “presentabilità democratica” agli occhi dell'opinione pubblica occidentale), nonché strategicamente alleata degli attori geopolitici della resistenza  al progetto imperialista USraeliano del Great Middle East. Assimilare la resistenza nazionale libanese, largamente partecipata da Hezbollah ma includente al suo interno anche rilevanti soggettività politiche e sociali di fede cristiana, alle milizie jihadiste legate ai Fratelli musulmani, ai partiti salafiti di Egitto e Giordania, ai veterani del jihad afghano anti-sovietico del 1979-1989, ed ai contras provenienti da vari Paesi, non solo musulmani, operanti in Siria sotto il brand di Al Qaeda (le brigate Al Nusra su tutte), altro non è che l'ennesima operazione di disinformazione mirante all'equiparazione dei movimenti di resistenza antimperialista alle cellule terroristiche di matrice islamista, nonostante l'ideologia di riferimento, gli obiettivi strategici, le alleanze e le connivenze internazionali, nonché i programmi politici e sociali di tali formazioni, andassero caratterizzandosi come diametralmente opposti e finanche apertamente conflittuali[16]. Hezbollah, alla fine dell'inverno 2013, si trovava peraltro a dover affrontare una difficile congiuntura politica interna, stretto tra l'eventualità, remota ma non improbabile se subordinata ad interventi esterni di tipo non solo direttamente militare[17], di una crisi terminale del governo siriano[18], suo alleato strategico, e l'approccio ad una delicata tornata elettorale, in un contesto arabo caratterizzato dall'emersione e dal processo di legittimazione internazionale di soggettività politiche sunnite, legate all'esperienza della cosiddetta «primavera araba» (Fratelli musulmani, salafiti); soggettività, queste, critiche quando non ostili al milieu politico ed ideologico del Partito di Dio, assurto agli onori degli altari, presso le masse arabe e islamiche, in occasione dell'eroica resistenza opposta all'invasione israeliana dell'estate 2006, ma posto in difficoltà dalla rappresentazione delle istanze rivendicative e dalle modalità d'azione dei soggetti sociali e politici animatori, a partire dal dicembre 2010, del fenomeno politico-pubblicitario denominato Arab Spring.

 

Quanto sia ampio il coinvolgimento di Hezbollah in Siria è difficile valutarlo. Il movimento sciita preferisce dare più appoggio politico che militare al regime siriano. Il segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah, peraltro dubita delle possibilità di una resistenza ad oltranza di Damasco, lo scrivono da tempo i giornali libanesi, e sta preparando il suo movimento al dopo-Assad. Già da tempo Hezbollah ha scelto un profilo più basso nelle vicende interne libanesi ed è tornato a concentrare la sua attenzione sul nemico di sempre, Israele. D'altronde il movimento è sotto pressione. Ha perduto parte del prestigio enorme di cui godeva nel mondo arabo prima della guerra civile siriana[19].

 

Nonostante le premesse di cui sopra, «dopo oltre due anni di guerra alla Siria, con l’impiego di circa 150mila miliziani infiltrati[20], delle solite sanzioni che costituiscono, qui come in Iran, un crimine di guerra e contro l’umanità, dei fondi che i despoti del Golfo, gli Usa, l’UE continuano a versare ai famelici mercenari jihadisti, turchi, arabi, bosniaci, delle teste di cuoio francesi e di vari paesi Nato impegnati nei sabotaggi, a dispetto di inenarrabili sofferenze, decine di migliaia di sradicati, comunità cristiane e scite decimate ed espulse, il popolo siriano resta unito nella resistenza, accanto al presidente che ha eletto. E’ l’impasse»[21]. Dinnanzi ad una situazione così articolata, la soluzione politica al conflitto in corso in Siria non poteva che essere l'unica strada percorribile, così come affermò il presidente siriano Bashar al Assad in occasione del suo discordo pubblico del 6 gennaio 2013. Non solo i dignitari della sedicente Coalizione nazionale dell'opposizione siriana (le cui «aperture» al dialogo con esponenti del governo di Damasco «non compromessi con la repressione», sono state immediatamente bocciate dai leader delle milizie sunnite impegnate sul campo), ma la stessa diplomazia internazionale, anche statunitense, in un certo qual modo obtorto collo, è stata costretta a rimodulare in funzione di un approccio marcatamente improntato al realismo nell'ambito delle relazioni estere, la propria linea di direzione strategica relativa alla questione siriana[22]. Il ruolo esercitato in tal senso dal nuovo segretario di Stato, John Kerry, è stato da alcuni osservatori interpretato come funzionale all'apertura di un negoziato politico tra le parti coinvolte nella guerra. La spiegazione relativa alla presunta[23] ricollocazione della diplomazia Usa su un asse strategico maggiormente caratterizzato da un approccio realista, va ricercata nelle difficoltà occidentali, nordamericane in primis, a gestire, militarmente ma in qualche modo anche politicamente e mediaticamente, gruppi segnatamente jihadisti e, come si suol dire correntemente, «fondamentalisti», quali quelli operanti sul terreno in Siria in funzione «anti-regime», ed al contempo perseverare nel presentare presso l'opinione pubblica la «democrazia americana» quale attore geopolitico impegnato sul fronte della war on terrorism...

 

Il terrorismo, alimentato in particolare dall’Arabia Saudita nelle sue formazioni più estreme, come il Fronte Al Nusrah, dichiaratamente stragista, pare però gradualmente sfuggire al controllo dei cospiratori occidentali e indirizzarsi su una linea di totale autonomia, in contrasto con le strategie e le mire di Usa e Nato. A costoro, il sempre più evidente utilizzo di jihadisti Al Qaida contro la Siria, in parallelo con quello del Mali finalizzato all’intervento francese e Usa nella regione e dopo che le stesse bande hanno ridotto la Libia in un mattatoio di tutti contro tutti, non poteva, nel quadro di una proclamata guerra mondiale contro Al Qaida e terrorismo islamico, non causare forti imbarazzi. Si è così arrivati al tentativo di attivare un tavolo diplomatico […]. Il disorientamento degli aggressori è rivelato dal profondi dissidio apertosi tra miliziani all’interno e la coalizione politica dei fuorusciti maggiormente appesa ai fili e ai soldi dei burattinai occidentali. C’è poi una Lega araba che incomincia a dividersi e ad esitare, frastornata dall’evidenza delle atrocità terroristiche, e un presidente egiziano che, al pari dei Fratelli Musulmani egemoni nella Coalizione di Doha, si apre a colloqui, in questo caso con l’arcinemico Iran, indefesso alleato della Siria […]. Grande è la confusione tra gli assalitori, la situazione non sarà ottima, ma grosse crepe si stanno apprendo nello schieramento di chi si proponeva l’affossamento della Siria, come ulteriore passo per l’accerchiamento dell’Iran e che ora, al di là di ogni strumentalmente diffuso sospetto di un cedimento russo, si deve confrontare anche con la fermezza di Mosca, ribadita con l’invio di quattro grandi navi da sbarco ai porti siriani. Hai voglia che il Qatar pompi altri 100 milioni di dollari nei forzieri delle bande jihadiste, che Londra, su pressione dei suoi fornitori di petrolio, allestisca ulteriori forniture di armi, che lo sguattero italiano Terzi, prometta altrettanto, che dalla Libia si spediscano ancora combattenti in Siria. In assenza di un intervento armato Nato come in Libia e Iraq, non se ne esce. Ma Obama non sembra potersi permettere, con le sue varie guerre in atto, di fronte a un’opinione pubblica sempre più consapevole che la propria crisi economica e sociale ha a che fare con la guerra infinita al terrorismo lanciata da Bush e accentuata dal successore, quell’impegno militare aperto senza il quale la Siria non può essere né domata, né liquidata[24].

 

Secondo un autorevole commentatore, «l'impero americano ha perso la sua guerra contro Assad e contro la Siria e si prepara ad accettare il meccanismo per la fine delle violenze proposto dal presidente siriano. Vale a dire che Washington, in un prossimo futuro, sarà costretta ad attuare gli impegni riguardanti l'interruzione dell'armamento e del finanziamento dei gruppi terroristici da parte degli Stati suoi clienti nella regione»[25]. Tale presa di posizione da parte della nuova amministrazione Usa non era tuttavia conseguente ad «un risveglio di coscienza statunitense»[26], bensì alla presa d'atto, da parte di Washington, «del fallimento del piano occidentale contro la Siria davanti alla tenace e feroce resistenza incarnata dal popolo e dall'Armata siriani, e dei loro alleati regionali e nel mondo»[27]; l'esito fallimentare della strategia occidentale di guerra segreta contro la Siria è già stato salutato come «una nuova vittoria storica» della resistenza, «dopo il successo in Iraq, la guerra in Libano del luglio 2006 e, in due riprese, a Gaza nel 2008 e 2012»[28].

Nel novero degli scenari geostrategici e geopolitici sopra descritti si collocano anche, naturalmente, le elezioni presidenziali iraniane in programma il 17 giugno 2013 (primo turno). L'Iran è il principale alleato regionale della Siria sul fronte della resistenza, non tanto per la comunanza confessionale, sciita, tra la maggioranza della popolazione persiana e la leadership politica di Damasco (in realtà in Siria le cariche pubbliche sono equamente spartite tra esponenti di confessioni religiose differenti, ed i musulmani sunniti, così come i cristiani e i drusi, ricoprono ruoli ruoli di direzione determinanti all'interno delle dinamiche nazionali), quanto per la condivisa ostilità alle politiche espansioniste  israeliane ed al modello di sviluppo, se così lo si può definire, occidentale, fondato sull'«esportazione», per via politica o militare, dell'american way of life[29]. Sono dunque motivazioni di interesse strategico (la gestione indipendente delle risorse energetiche e la cooperazione nella costruzione di strutture quali oleodotti che trasportino il petrolio bypassando il territorio di Stati sotto controllo statunitense[30]), senza trascurare il conseguente e necessario respiro politico-ideologico, a determinare la convergenza di obiettivi geostrategici tra Siria ed Iran ed a far sì che entrambi i «regimi» siano stati da lungo tempo iscritti sulla black list dei «Paesi sponsor del terrorismo internazionale» della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e del Pentagono.

A Teheran, dopo aver esercitato due mandati consecutivi a cominciare dal giugno 2005, l'«inaffondabile»[31], vulcanico ed in Occidente “satanizzato” da mezzi di informazione di ogni orientamento politico, presidente Mahmoud Ahmadinejad non potrà più, a Costituzione vigente, candidarsi per ottenere una nuova investitura popolare. Attualmente la contesa politica nella Repubblica islamica, dopo che «il presidente Obama ha […] ammesso pubblicamente che Mahmud Ahmadinejad era stato […] eletto a suo tempo [nel 2009, nda] dalla maggioranza dei suoi connazionali»[32], è, schematizzando al massimo, concentrata sulla contrapposizione tra una destra religiosa (principalista), fedele alla linea dell'ayatollah Khamenei, ed una destra nazionalista e rivoluzionaria, contigua al presidente uscente, con il centro tecnocratico facente riferimento ai patronati vicini allo screditato ex-presidente Rafsanjani (sostenitore, per l'Iran, di un modello di sviluppo «cinese»), in cerca di un autonomo spazio di manovra politica; la cosiddetta «sinistra riformista», è invece del tutto marginalizzata, a seguito del discredito caduto sui suoi principali dirigenti, esponenti e militanti, per essersi prestati ad agire, o nella migliore delle ipotesi ad essere avvertiti come tali dalla maggioranza della popolazione persiana, quale massa di manovra per la soddisfazione di interessi esterni al dibattito politico nazionale, in occasione dei fatti della (fallita) Velvet Revolution del giugno 2009. Molto acuta, come al solito, l'analisi elaborata a proposito dal giornalista d'inchiesta ed intellettuale francese Thierry Meyssan:

 

Il movimento verde che aveva saldato la borghesia urbana e una parte della gioventù non è durato a lungo. Ormai, Washington non fa più conto sul rovesciamento del regime, ma sulla sua divisione. Gli Usa vorrebbero approfittare della crisi tra la corrente religiosa del clan Larijani e la corrente nazionalista della famiglia Ahmadinejad […]. Nel 2009, delle manifestazioni avevano agitato Teheran e Isfahan: i sostenitori del candidato liberale accusavano il potere di aver truccato i risultati delle elezioni. Questo movimento era presto rimasto senza fiato, ma aveva lasciato traumi profondi fra i giovani. Era stato spento da una manifestazione gigantesca a sostegno delle istituzioni della Rivoluzione islamica […]. I giovani non avevano letto il programma di Moussavi e ignoravano la sua apologia del capitalismo globalizzato. Lo immaginavano, a torto, liberale in materia di costumi. Malgrado ciò, erano stati convinti che dovevano scegliere tra le loro libertà individuali e «il regime». Avevano improvvisamente disertato le commemorazioni nazionali[33].

 

Nel 2013 il presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad poteva vantare, per le ragioni che più sotto riportiamo, il consenso della maggior parte degli iraniani, soprattutto di quei settori giovanili che oggi, lontani dal cedere alla retorica dell'american dream diffusa in Iran da emittenti quali Voice of America, ritengono che il candidato proposto dalla fazione nazionalista (presumibilmente il consigliere di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashaei) possa coniugare, nella propria proposta politica, i principi di indipendenza e sovranità nazionale scaturiti dalla Rivoluzione del 1979, con la soddisfazione delle istanze relative all'estensione delle libertà individuali, in materia di costumi, abbigliamento e stili di vita, fino al 2009 “esclusiva” del discorso politico dei cosiddetti «riformisti».

 

[…] il sostegno popolare goduto da Ahmadinejad è massiccio in tutto il paese, tranne paradossalmente a Teheran, la città di cui fu sindaco. La rapida industrializzazione del paese, i recenti programmi di redistribuzione dei profitti petroliferi sotto forma di indennità mensili per ogni adulto, e la costruzione diffusa di alloggi a prezzi agevolati hanno legato a lui gli operai e i contadini. Ahmadinejad, il quale percepisce che il suo candidato sarà largamente eletto, non esita più a sfidare i religiosi e a mostrare che, se fosse dipeso da lui, le esigenze dei giovani sarebbero soddisfatte. Si è perfino permesso di celebrare la bellezza del hijab per meglio criticare la legge che rende obbligatorio indossarlo […]. I media occidentali sono presi da schizofrenia [e] Continuano a far credere ai loro telespettatori che l'Iran sia una dittatura monolitica governata dai mullah. I giovani che sono scesi in piazza contro il «regime» sono spesso diventati i più ferventi sostenitori di Ahmadinejad e dovrebbero sostenere il suo candidato a giugno. Pensano che, con lui, la Rivoluzione islamica possa conciliare liberazione nazionale e libertà individuali[34].

 

Per contro, le élites principaliste favoriscono la candidatura di «Ali Akbar Velayati, consigliere conservatore della Guida suprema per la politica estera»[35] e ministro degli Esteri dal 1981 al 1997, o quella di Ali Larijani, speaker del Parlamento dal 2008. Al di là dei limitati poteri di cui effettivamente, in Iran, la figura presidenziale concretamente dispone, è utile sottolineare, come si è tentato di fare nella breve disamina in questa sede effettuata, la pluralità di orientamenti e la complessità del dibattito pubblico interno alla società politica iraniana, specchio di una «società civile» estremamente vivace[36], consapevole e tutt'altro che analfabeta in materia di approccio conoscitivo critico alle dinamiche politiche, internazionali ed interne, ed in maggioranza ostinatamente e meritoriamente ancorata agli ideali di emancipazione nazionale, collettiva e finanche individuale, liberati ed in parte attuati, a seguito del processo rivoluzionario innescato, nel 1978, dalla stragrande maggioranza del popolo persiano ai danni della brutale e “gossippara” dittatura filo-americana dello Shah.

L'eterogeneo e plurale fronte della resistenza nel Vicino Oriente è stato significativamente messo alla prova dagli eventi succedutisi a partire dal dicembre 2010; la reale portata geostrategica dell'evoluzione degli scenari in corso, e l'approdo politico degli attori regionali costretti a confrontarsi o direttamente coinvolti con i detti eventi, innegabilmente supportati ed in qualche caso addirittura costruiti dalla potenza di fuoco multimediale e propagandistica dell'«Occidente liberale», non è ancora perfettamente percepibile; al contempo, non v'è dubbio che per gli attori geopolitici del nominato fronte della resistenza, o del rifiuto, si celino all'orizzonte minacciose “nuvole” portatrici di nefasti presagi[37]. L'auspicio è che i popoli di questi Paesi sappiano contrastare, con ogni mezzo, la volontà di chi ne vorrebbe fare, nella migliore delle ipotesi, una massa di schiavi alienati sull'altare della «democrazia american style» e del «libero mercato».

 

Paolo Borgognone, CIVG, 28 febbraio 2013.



[1]   Cfr. G. Carotenuto, Beppe Grillo, i media e le «reti di fiducia», in «Megachip», http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/9848-beppe-grillo-i-media-e-le-lreti-di-fiduciar.html, 23 febbraio 2013.

[2]   Cfr. The National Security Strategy of the United States of America, in http://www.state.gov/documents/organization/63562.pdf, settembre 2002 (si ringrazia Cesare Allara per aver fornito all'autore del presente saggio una copia del citato documento).

[3]   P. Khalaf, Visite historique du Patriarche maronite à Damas, in «Réseau Voltaire», http://www.voltairenet.org/article177462.html, 11 febbraio 2013.

[4]   Ivi.

[5]   Ivi.

[6]   Redazione Contropiano, Ondata di attentati a Damasco, decine di morti, in «Contropiano»,  http://www.contropiano.org/it/esteri/item/14676-ondata-di-attentati-a-damasco-decine-di-morti, 21 febbraio 2013.

[7]   F. Grimaldi, Ratti sull'orlo di una crisi di nervi (anche in Italia), in «Mondocane. Controblog di Fulvio Grimaldi», http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2013/02/ratti-sullorlo-di-una-crisi-di-nervi.html#more, 24 febbraio 2013.

[8]   Ivi.

[9]   Redazione Contropiano, Ondata di attentati a Damasco, decine di morti, cit.

[10] Ivi.

[11] MP/HGL, Damascus bombing was a crime, Brahimi says, in «Press Tv», http://www.presstv.ir/detail/290348.html, 23 febbraio 2013.

[12] F. Grimaldi, Ratti sull'orlo di una crisi di nervi (anche in Italia), cit.

[13] M. Giorgio, Ribelli siriani e Hezbollah alla guerra parallela, in «Contropiano»,  http://www.contropiano.org/it/esteri/item/14731-ribelli-siriani-e-hezbollah-alla-guerra-parallela, 24 febbraio 2013.

[14] C. Era, Chi sono gli jihadisti che stanno incendiando la Siria. I salafiti di Jahbat-Al-Nusra conquistano sempre più consensi fra la popolazione, utilizzando metodi che già furono di Hezbollah, in «Panorama», http://news.panorama.it/oltrefrontiera/Chi-sono-gli-jihadisti-che-stanno-incendiando-la-Siria, 22 febbraio 2013.

[15] Il 27 febbraio 2013, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, «si è […] pronunciato per l'adozione di una legge elettorale proporzionale [in Libano], perché musulmani e cristiani libanesi possano votare liberamente chi vogliono e non dover scegliere necessariamente un candidato della propria setta religiosa». Non firmato, Hassan Nasrallah: villaggi sciiti libanesi attaccati dai gruppi armati siriani lungo la frontiera, in «Arabmonitor», http://www.arabmonitor.info/news/dettaglio.php?idnews=37913&lang=it, 27 febbraio 2013; lo stesso auspico in materia di riforma del sistema elettorale libanese in senso proporzionale è stato espresso dal generale Michel Aoun, leader del principale partito cristiano del Paese, politicamente alleato di Hezbollah. Cfr. P. Khalaf, Michel Aoun, un authentique réformateur, in «Réseau Voltaire», http://www.voltairenet.org/article177605.html, 25 febbraio 2013.

[16] Cfr. N. Charara, Coming Soon: Al Nusra Front in Lebanon, in «Al Akhbar English», 25 febbraio 2013.

[17] Cfr. D. Raineri, I ribelli siriani ricevono armi straniere contro Assad e i ribelli islamisti. Uno sponsor cede alla guerriglia “laica” armi controcarro (ma non antiaeree) per contenere lo strapotere dei jihadisti, in «Il Foglio», 15 febbraio 2013; M. Correggia, Ecco come Terzi fomenta la guerra in Siria, in http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o37735:e1, 22 febbraio 2013; D. Minin, Syrian Rebels Get Arms from Kosovo and Bosnia, in «Strategic-Culture Foundation», http://www.strategic-culture.org/pview/2013/02/23/syrian-rebels-get-arms-from-kosovo-and-bosnia.html, 23 febbraio 2013; ASH/HMV/MA, Foreign powers send influx of arms to militants in Syria: Report, in «Press Tv», http://www.presstv.ir/detail/290540.html, 24 febbraio 2013.

[18] La possibilità di un'eventuale collasso del «regime» siriano a fronte di una vittoria militare dei «ribelli» è stata definita come portatrice di «una guerra civile in Libano, Giordania e Iraq» dal premier iracheno Nouri al-Maliki, il quale ha tuttavia sottolineato come, alla fine di febbraio 2013, in Siria, «né le opposizioni né il regime possono neutralizzare l'altro». Non firmato, Premier Iraq: la guerra in Siria minaccia per tutti, in «Nena News Globalist», http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=53322&typeb=0&Premier-Iraq-la-guerra-in-Siria-minaccia-per-tutti, 28 febbraio 2013.

[19] M. Giorgio, Ribelli siriani e Hezbollah alla guerra parallela, cit.

[20] Cfr. la video-intervista, Thierry Meyssan analyse les dernières évolutions géopolitiques, intervista a Thierry Meyssan, in «Egalité et Réconciliation», http://www.egaliteetreconciliation.fr/Thierry-Meyssan-analyse-les-dernieres-evolutions-geopolitiques-16526.html, 19 febbraio 2013.

[21] F. Grimaldi, Ratti sull'orlo di una crisi di nervi (anche in Italia), cit.

[22] Cfr. T. Meyssan, Obama et Poutine vont-ils se partager le Proche-Orient?, in «Réseau Voltaire», http://www.voltairenet.org/article177546.html, 22 febbraio 2013.

[23] Cfr. G. Kandil, La tournée de Kerry et les atermoiements états-uniens, in «Réseau Voltaire», http://www.voltairenet.org/article177605.html, 25 febbraio 2013; F. Paci, Siria, Kerry a Roma. “Subito aiuti ai ribelli”. Oggi vertice con gli alleati: accelerare l'uscita di Assad, in «La Stampa», 28 febbraio 2013; SF/HMV, Kerry's remarks against Syria, media hype: Iran MP, in «Press Tv», http://www.presstv.ir/detail/291235.html, 28 febbraio 2013.

[24] F. Grimaldi, Ratti sull'orlo di una crisi di nervi (anche in Italia), cit.

[25] G. Kandil, La défaite états-unienne face à Bachar e-Assad, in «Réseau Voltaire», http://www.voltairenet.org/article177562.html, 23 febbraio 2013.

[26] Ivi. A dimostrazione di ciò, basti ricordare che gli Stati Uniti, sedicenti paladini mondiali della war on terrorism e della «promozione dei diritti umani» all'estero, si sono opposti a che il Consiglio di sicurezza dell'Onu approvasse una dichiarazione ufficiale di condanna dell'attentato terroristico ai danni del quartier generale del partito Baath a Damasco, il 21 febbraio 2013, costato la vita a quasi un centinaio di persone. Russia, Cina ed Iran hanno invece risolutamente condannato il barbaro gesto.

[27] Ivi.

[28] Ivi.

[29] Secondo Thierry Meyssan, «la resistenza comune porta a stringere questo blocco [formato da Iran, Siria e dalle varie componenti patriottiche libanesi, nda] nonostante le differenze religiose e politiche». T. Meyssan, Une force populaire de contre-guérrilla, in «Réseau Voltaire», http://www.voltairenet.org/article177573.html, 24 febbraio 2013.

[30] Cfr. G. Andriolo, Iran, Iraq, Siria e il “Gasdotto dell'Amicizia”, in «Osservatorio Iraq», http://www.osservatorioiraq.it/iran-iraq-siria-e-il-%E2%80%9Cgasdotto-dell%E2%80%99amicizia%E2%80%9D, 29 gennaio 2013.

[31] T. Meyssan, Ahmadinejad, el insumergible, in «Réseau Voltaire», http://www.voltairenet.org/article177543.html, 21 febbraio 2013.

[32] Ivi.

[33] Ivi.

[34] Ivi.

[35] G. Acconcia, Iran. Conservatori e ultra conservatori si dividono sugli arresti domiciliari di Karroubi e Mousavi

     Non c'è spazio per il dissenso, in «il manifesto», 23 febbraio 2013.

[36] Cfr. F. Grimaldi, IRAN - La rosa di Hafez, in «Mondocane. Controblog di Fulvio Grimaldi», http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2013/02/iran-la-rosa-di-hafez.html, 10 febbraio 2013.

[37] Il pretesto adottato dalla sedicente «comunità internazionale», ossia dagli Stati Uniti, da Israele e dai loro clienti europei, per dar vita ad un'invasione militare dell'Iran è la presunta volontà del cosiddetto «regime dei mullah» di dotarsi di un arsenale nucleare volto alla «distruzione di Israele». Tale assunto propagandistico è stato smentito dalla stessa Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEIA), la cui ultima relazione, stilata il 22 febbraio 2013, «testimonia il carattere pacifico del programma nucleare iraniano». Non firmato, L'AIEA ha definito pacifico il programma nucleare dell'Iran, in «La Voce della Russia», http://italian.ruvr.ru/2013_02_23/LAIEA-ha-definito-pacifico-il-programma-nucleare-dellIran/, 23 febbraio 2013.