Fedeli ai paradossi

4 marzo 2017

Cara ministra Fedeli,
avevo già letto delle sue dichiarazioni riguardanti noi docenti, pronunciate in occasione della presentazione del volume di Giorgio VittadiniFar crescere la persona – La scuola di fronte al mondo che cambia”.
Ho cercato, visto ed ascoltato l’intero filmato, compreso il suo intervento in cui si è dichiarata “colpita dal linguaggio utilizzato per contrastare legittimamente opinioni differenti dentro il mondo della scuola su alcune innovazioni.” Lei dice: “Non si può dire che sono state deportate le persone. Non si può usare la parola sceriffo  e ha giudicato questo “un linguaggio non degno di chi educa, di chi rappresenta la scuola.

 

Cara ministra, io credo che nel salire su un “pulpito” chi rappresenta la scuola (noi, ma anche Lei) dovrebbe essere coerente nella sua “predica” per essere davvero credibile.
Pur non essendo autore delle espressioni che critica, io credo che chi le ha usate e le usa sia molto più credibile di Lei quando parla di scuola per il semplice fatto che la conosce meglio perché ci vive quotidianamente.
Il governo che ha imposto la cosiddetta “buona scuola” non ha certamente ascoltato o tenuto conto di ciò che la “scuola reale” chiedeva a grandissima maggioranza. Anche per questo noi docenti che abbiamo un’idea di scuola molto diversa da quella prescritta nella legge 107 del 2015, sentiamo un grande bisogno di comunicare, di spiegare, di farci ascoltare e di farci capire.
A voi basta qualche telegiornale per influenzare il linguaggio comune; noi, che con le persone ci vogliamo parlare, abbiamo bisogno di attenzione e di ascolto.
Voi che detenete il potere, potete imporre le parole che volete attraverso il controllo degli organi di informazione; chi, come noi, questa possibilità non ce l’ha è costretto a usare anche parole forti per richiamare l’attenzione spiegando i problemi e suggerendo proposte.
Per voi è semplice scegliere l’aggettivo “Buona” e decidere di associarlo alla scuola che avete imposto, a prescindere dal fatto che essa sia davvero “buona o cattiva”.

 


Per noi, nel contesto scolastico, il termine “Deportare” vuol dire costringere insegnanti (dopo aver affidato i loro movimenti ad un meccanismo perverso e paradossale) a spostarsi dal sud al nord del nostro paese quando invece nelle loro province di residenza c’era mancanza di posti di lavoro.
Per noi, nello stesso contesto, la definizione “Preside sceriffo” vuol sottolineare la pericolosità dell’attribuzione di poteri discrezionali al Dirigente Scolastico, togliendoli agli organi collegiali e trasformando paradossalmente sempre più la scuola in un’azienda governata da un amministratore unico.
Per voi che governate è facile parlare di “organico potenziato” assegnato alle scuole per fare bella figura con gli elettori; per noi che siamo a scuola è impegnativo spiegare alle famiglie il motivo per cui dividiamo i bambini di una classe nelle altre classi, tutte le volte che manca un collega o una collega, perché paradossalmente l’organico è depotenziato e mancano gli insegnanti supplenti.
Per voi che governate è comodo parlare di “inclusione scolastica” ma tocca a noi che siamo a scuola dover spiegare alle famiglie degli studenti con disabilità il paradosso di una scuola che riduce il numero di ore su posto di sostegno, che nomina gli insegnanti in ritardo, che li cambia dopo un paio di mesi circa e che concede eventuali ore in deroghe a scuola abbondantemente iniziata.

 

Per voi che governate è vantaggioso dichiarare che si premiano i docenti più meritevoli investendo sull’istruzione; siamo noi che siamo a scuola che, con la nostra faccia, siamo costretti a spiegare il paradosso dei tagli enormi fatti ai Fondo d’Istituto, a dover precisare che il cosiddetto premio al merito genera una conflittualità preoccupante, a rimarcare che il nostro contratto di lavoro non si rinnova da quasi dieci anni e che tutto ciò fa parte di una pseudonormalità paradossale.
Cara ministra Fedeli, io insegno ai bambini nella scuola elementare che non sono le parole ad essere belle o brutte, buone o cattive ma che la bellezza, la bruttezza, la bontà o la cattiveria stanno nei modi, nei toni, nelle intenzioni di chi le pronuncia.
Io insegno e, secondo Lei, uso un linguaggio indegno per chi educa.
“InSegno” e “inDegno” sono due parole dal significato completamente diverso che differiscono solo per una lettera: la differenza che c’è fra la nostra S di Scuola e la sua D di Delegittimazione è la stessa differenza che c’è fra chi conosce la scuola senza governarla e chi la governa senza conoscerla.
Comunque Lei la pensi, salute e saluti


Mauro Presini, maestro elementare   - da mauropresini.wordpress.com