Verso un nuovo Medioevo? Governance e privatizzazione del potere

 

Il paradigma neo-liberale, analizzato nel secondo appuntamento di questo ciclo di seminari, ha trovato in ambito politico e giuridico un’applicazione particolarmente significativa attraverso la teoria e la pratica dell’idea di governance. Che cosa s‘intende con questo termine? Una delle definizioni più efficaci l’ha fornita Guy Hermet, per il quale la governance è una «ideologia globale di sostituzione dello Stato». Si tratta dunque di un processo di privatizzazione del potere politico e del diritto, che trae le sue origini – per lo meno sul piano teorico – dalle riflessioni, svolte a partire dalla fine degli Anni Sessanta, da autori come Robert Dahl, Karl Deutsch e David Easton, in merito ai limiti della governabilità delle società democratiche. La tesi di fondo è che il pluralismo politico sarebbe sostenibile solo nella misura in cui fa coesistere gruppi sociali i cui interessi siano in qualche modo componibili tramite il raggiungimento di un compromesso. All’inizio degli Anni Settanta i teorici della Commissione Trilaterale (tra i quali figura Samuel Huntington) si spingono oltre, arrivando a sostenere che le democrazie diventano “ingovernabili” quando vengono – per così dire – “sovraccaricate” dalle istanze popolari. In altre parole la crisi della democrazia si spiega col fatto che essa sarebbe presa troppo “sul serio” dai cittadini.

A partire dagli Anni Novanta l’affermazione di tali pratiche è favorita in maniera determinante da due  fattori. Il fallimento delle politiche liberiste di tipo thatcheriano (ancora permeate delle concezioni più legate al liberismo classico, quelle cioè che postulavano una ritirata pura e semplice dello Stato dalla sfera economica) favorisce l’emersione di un nuovo paradigma neo-istituzionalista, in linea con le teorie neo-liberali, che attribuiscono allo Stato il compito di creare “l’ambiente” più idoneo per il libero dispiegamento delle attività del mercato. Dall’altro lato, il processo di estensione del dominio politico, economico e culturale degli USA su scala mondiale in seguito alla fine della Guerra Fredda (la cosiddetta “globalizzazione”) induce le élites euro-atlantiche a ritenere necessario un cambiamento delle regole del gioco, escludendo gli eletti tramite processo democratico dalla sfera decisionale, in favore di organizzazioni di diversa natura. Tra queste figurano in primo luogo le grandi istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’Organizzazione Mondiale del Commercio ecc. In secondo luogo vi sono le potenti Organizzazioni Non Governative (ONG), in maggioranza anglosassoni, ed infine le grandi imprese transnazionali. L’elemento comune a queste tre tipologie di soggetti sta nel non essere dotati di alcuna legittimità democratica, a dispetto del potere sempre più esteso che esercitano.

Sono essenzialmente due i presupposti culturali su cui si regge la teoria della governance. Il primo è l’idea, mutuata dal liberalismo classico, in virtù della quale l’uomo sarebbe orientato esclusivamente alla massimizzazione egoistica del propri interessi materiali. È interessante a tale proposito notare come le azioni non interessate (fondate cioè su principi quali la generosità e la solidarietà) siano “scomposte” in azioni interessate grazie a modelli ispirati a concetti e teorie matematiche, ad esempio la teoria dei giochi. Il secondo pilastro culturale della governance è la l’assunzione fideistica secondo cui le imprese private rispondono ai bisogni della società sempre e comunque meglio rispetto a quanto farebbe lo Stato. L’idea che il mondo globale sia sempre più complesso spinge dunque a teorizzare l’inadeguatezza dello Stato nazionale nel far fronte alle nuove sfide e a sostenere la necessità che gli attori politici non abbiano più il monopolio della responsabilità decisionale. Questa dovrebbe invece competere anche alla “società civile” e al mercato, attualizzando così la vecchia idea liberale secondo cui qualsiasi forma di sovranità politica impedisce ai meccanismi di regolazione spontanea di produrre pienamente i loro effetti. Si tratta quindi di correggere l’azione di Stati e governi e di operare un vero e proprio trasferimento – per quanto possibile – della sfera politica nelle mani di attori privati. In questo modo al dibattito democratico si sostituiscono sempre di più le ricette degli “esperti”, presentate come “non ideologiche”, in perfetta continuità con i dettami del pensiero liberale. Non idee “di destra” o “di sinistra”, ma “idee che funzionano”, all’insegna quindi di parole d’ordine come efficacia o flessibilità. Tuttavia, per dirla con Zizek, «ciò che è proprio dell’atto (dell’intervento) politico non è semplicemente il funzionare bene all’interno della trama delle relazioni esistenti, ma il modificare la trama stessa che determina il modo in cui funzionano le cose».

La privatizzazione della sfera politica fa in modo che all’azione legislativa vengano preferiti principi, norme, regole, procedure, contratti, con la conseguenza che i provvedimenti risultino transitori e revocabili. Emerge dunque un ulteriore elemento caratteristico del sistema della governance, il quale è strettamente intrecciato con la privatizzazione della sfera politica: la privatizzazione del diritto, che diventa così un prodotto soggetto come tutti gli altri alle leggi della domanda e dell’offerta. È bene peraltro sottolineare un punto cruciale: attualmente l’offerta e le manovre di promozione/lobbying/marketing in quest’ambito sono monopolizzate dagli statunitensi e in seconda battuta dai britannici, il che ci deve far riflettere sul significato geo-politico di queste pratiche. È vero infatti che il processo di progressivo svuotamento della sovranità politica statuale riguarda principalmente i Paesi soggetti a vario titolo al sistema di dominio atlantico, ma non la potenza egemone statunitense, la quale mantiene inalterata la propria capacità decisionale, anche nella sfera economica. Né, per altro verso, questi fenomeni sembrano attecchire in quegli Stati che – pur con percorsi e sistemi politici, economici e sociali assai differenti tra loro – hanno intrapreso in questo inizio di XXI Secolo un percorso autonomo, provando così a sganciarsi dalla logica della globalizzazione imperiale a stelle e strisce.

Ai fini di una maggiore comprensione della questione, può essere interessante prendere in considerazione due esempi concreti di privatizzazione del potere e del diritto: il MES (o ESM, Meccanismo Europeo di Stabilità, presentato in ambito mediatico come Fondo Salva-Stati) e il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), ancora in fase di negoziazione. Il primo è un istituto finanziario di diritto privato con scopo di lucro, ma con funzione pubblica di governo economico vincolante e sanzionante. La sua natura privatistica si somma a una serie di immunità e privilegi tali da portare il MES al di sopra di ogni istituzione politica e giudiziaria esistente (artt. 32, 34 e 35). I suoi governatori, come del resto tutte le alte cariche (Consiglio d’Amministrazione, Presidente, dipendenti) godono di immunità giudiziaria finché agiscono nell’esercizio delle loro funzioni. Luoghi e documenti non sono violabili da alcun organo giudiziario. I verbali, i documenti prodotti, gli archivi non sono pubblici. Per quanto concerne invece il TTIP, al di là delle finalità economiche e geo-politiche, giova in questa sede ricordare che il partenariato prevederebbe un meccanismo di risoluzione dei contenziosi tra investitori e Stati, il quale permetterebbe alle imprese di denunciare gli Stati di fronte ad un “tribunale internazionale” qualora ritengano di aver subito un danno nei propri investimenti e profitti a causa di norme e politiche statali. È evidente l’influenza, sia deterrente sia sanzionatoria, che tali meccanismi esercitano nei confronti degli Stati, ovvero a limitare la propria sovranità, pena ingenti ripercussioni finanziarie.

In conclusione si può affermare che questo doppio processo di privatizzazione, della politica e del diritto, rompe con alcuni pilastri fondamentali della cultura moderna occidentale, quali lo Stato e il monopolio del potere da esso esercitato, la democrazia, il diritto pubblico, e apre scenari non del tutto inediti, che potrebbero evocare l’idea di un nuovo Medioevo. Nell’ambito dell’Unione Europea la similitudine sembra particolarmente azzeccata, se pensiamo che lo svuotamento di potere operato nei confronti degli Stati nazionali, in favore di organismi non elettivi e in alcuni casi di natura privatistica, appare qui più spinto che altrove. Sul piano più squisitamente culturale non sfugge poi come il riferimento storico al Sacro Romano Impero sia spesso evocato al fine di giustificare storicamente l’esistenza di una supposta identità europea. Infine non bisogna dimenticare come il processo di frammentazione politica, che nel Medioevo risultava complementare all’idea di unità imperiale (signorie territoriali, autonomie comunali, ecc.), trovi oggi un corrispettivo nella reviviscenza di localismi e movimenti secessionisti che ha caratterizzato l’Europa negli ultimi decenni, nonché nell’istituzione da parte di Bruxelles delle cosiddette regioni trans-frontaliere. A queste tematiche sarebbe auspicabile dedicare in maniera specifica un seminario apposito, che, vista la complessità e la delicatezza della questione, affronti nel merito i casi concreti. Non si può infatti fare a meno di registrare la tendenza, tanto diffusa quanto perniciosa, a confondere superficialmente localismi disgreganti e condivisibili aspirazioni a una maggiore autonomia territoriale, ma soprattutto rivendicazioni basate su identità “gonfiate” strumentalmente e questioni nazionali irrisolte.

 

Scheda lessicale

 

TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership): accordo commerciale teso a stabilire un’area di libero scambio tra USA e UE (la cosiddetta TAFTA,Transatlantic Free Trade Area). Oltre all’abbattimento dei già bassi dazi doganali tra le due sponde dell’Atlantico, il TTIP prevede l’armonizzazione delle rispettive normative in una ampia gamma di settori produttivi (farmaceutico, alimentare, finanziario ecc). La firma del TTIP non è ancora avvenuta, in parte per le perplessità verso quello che per molti è una annessione delle economie europee a quella americana.

 

La rivoluzione neoliberale: economia della politica o politica dell’economia? I tratti generali della prassi neoliberale e l’esempio tedesco.

 

1. Tra le tante verità con cui la crisi ci costringe a fare i conti, una delle principali riguarda la forza delle idee, o meglio dell'ideologia.

La capacità di resistenza dell'ideologia dominante, la tenuta del “pensiero unico” si sono dimostrate tali che, persino entro la peggiore crisi del capitalismo dagli anni Trenta a oggi, tutti i luoghi comuni caratteristici di quella ideologia hanno continuato a operare, fuori tempo massimo. La “razionalità dei mercati”, lo Stato “che deve dimagrire”, la “necessità” delle privatizzazioni, le liberalizzazioni come “toccasana per la crescita”, la “deregolamentazione del mercato del lavoro” come ingrediente essenziale contro la disoccupazione: praticamente nessuno di quei luoghi comuni, che proprio la crisi scoppiata nel 2007 si è incaricata di smentire clamorosamente, ci viene risparmiato.

Di slogan in slogan, di frase fatta in frase fatta, il distacco dalla realtà è aumentato sino a diventare patologico. Sino a far suggerire, come terapia per i nostri problemi economici, un potenziamento delle stesse misure che li avevano creati.

Il medico che ha peggiorato le condizioni del paziente incolpa il paziente dell'inefficacia della cura, e gli prescrive una dose maggiore. Mentre è evidente che il problema consiste in quelle misure, e non in una loro maggiore o minore implementazione. Ovviamente, la soluzione sarebbe cambiare terapia. Ma per far questo ci si dovrebbe affrancare dal ricettario liberista.

 

2. L’attenzione rivolta alla sola ideologia del laissez faire ha distolto l’ordinaria critica antisistema dall'esame delle pratiche e dei dispositivi incoraggiati, o esercitati direttamente, dai governi. È stata la dimensione strategica delle politiche neoliberiste a essere paradossalmente trascurata nella critica antiliberista standard, nella misura in cui tale dimensione strategica è inclusa in una “razionalità globale” che è passata inosservata.

Se infatti il liberismo classico faceva riferimento alla necessità per la politica di praticare nient’altro che un’astensione volta a favorire la spontaneità intrinseca ai processi economici, il neoliberalismo chiede alla politica (all’intera società) non tanto di «star ferma», quanto di costruire artificialmente e attivamentele condizioni di possibilitàaffinché la dinamica economica possa fare il suo «corso naturale».

Non ci troviamo di fronte a una semplice ritirata dello Stato, ma a un rinnovato impegno politico dello Stato, fondato su nuove basi, nuovi metodi e nuovi obiettivi. Il politico pertanto, lungi dallo sparire sopraffatto dall’economico, diventa la posta in palio, il terreno di gioco della razionalità neoliberale.

 

3. Il segreto dell'arte del potere – diceva Bentham – è fare in modo che l'individuo persegua il proprio interesse come se fosse il suo dovere e viceversa. La strategia neoliberista – fede a tale principio – consiste nel creare il numero maggiore possibile di situazioni di mercato, nell'organizzare tramite privatizzazioni, messa in concorrenza dei servizi pubblici, “mercatizzazione” di scuole, ospedali, ecc. l’“obbligo di scegliere”, affinché gli individui accettino la situazione di mercato come “realtà”, come unica “regola del gioco”.

La “libertà di scelta” si identifica con l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, relazionale, che è costruito in modo tale che l'individuo scelga “in piena libertà” ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse.

Ogni soggetto è portato a considerarsi e a comportarsi in tutte le dimensioni della sua esistenza come un portatore di capitale da valorizzare: studi universitari a pagamento, costituzione di un fondo pensione individuale, acquisto dell'abitazione, investimenti a lungo termine in titoli di Borsa, sono tutti aspetti che hanno lentamente eroso le logiche della solidarietà.

Ciò che è stata chiamata “deregolamentazione”, un termine equivoco che potrebbe far pensare che il capitalismo non abbia più alcuna regolamentazione, non è in realtà altro che un nuovo ordinamento delle attività economiche, dei rapporti sociali e dei comportamenti. L’idea centrale di questo orientamento è che la libertà concessa agli attori privati che beneficiano di una maggiore conoscenza dello stato degli affari e del proprio interesse, sia sempre più efficace dell'intervento diretto e della regolazione pubblica.

 

4. Gli Stati hanno abbondantemente contribuito alla creazione di un ordine che li ha sottomessi a nuovi vincoli, che li ha portati a comprimere salari e spesa pubblica, a ridurre i “diritti acquisiti” giudicati troppo costosi, a indebolire i meccanismi di solidarietà ecc.

Il calo delle imposte sui redditi più elevati e sulle imprese è presentato come un modo di incentivare l'arricchimento e l'investimento. Riuscendo a far dimenticare che il calo dei prelievi obbligatori per gli uni aveva necessariamente una contropartita per gli altri, i governi neoliberisti hanno strumentalizzato i “buchi” scavati nei budget per denunciare il costo “esorbitante” e “insostenibile” della previdenza sociale e dei servizi pubblici. Il bilancio statale diviene così uno strumento di disciplina dei comportamenti.  

Questo vincolo è stato impiegato come disciplina sociale e politica per scoraggiare, a causa dell'inflessibilità delle regole stabilite, qualsiasi politica che cercasse di dare la priorità all'occupazione, che volesse soddisfare le rivendicazioni salariali o rilanciare l'economia e la spesa pubblica.

Il meccanismo è semplice: i governi abbassano la tassazione e poi prendono in prestito da coloro che decidono di non tassare. Gli interessi sul debito rendono così possibile un trasferimento di ricchezza a vantaggio dei detentori dei titoli di debito.

 

5. Un gran numero di ricerche, rapporti, saggi ecc. – finanziati da think tank di stampo liberal-conservatore – cercarono nel corso degli anni di effettuare un bilancio dei costi e dei vantaggi dello Stato, per concludere con un verdetto inappellabile: le indennità di disoccupazione e i redditi minimi sono responsabili della disoccupazione, il welfare sanitario approfondisce il deficit e provoca l'inflazione dei costi, la gratuità degli studi ne intacca la serietà e porta al nomadismo degli studenti, le politiche di redistribuzione del reddito non riducono le diseguaglianze ma scoraggiano gli sforzi, le politiche urbane non hanno messo fine alla segregazione ma hanno appesantito la fiscalità locale.

Si tratta di porre in tutti i campi il quesito dell'utilità dell'interferenza statale nell'ordine del mercato, e di dimostrare che, nella gran parte dei casi, le soluzioni apportate dallo Stato creano più problemi di quanti non ne risolvono.

Ma la questione del costo dello stato sociale non si limita affatto alla sola dimensione contabile. Secondo molti polemisti, è sul terreno morale che l'azione pubblica può avere gli effetti peggiori. Lo Stato previdenziale ha deresponsabilizzato gli individui e li ha dissuasi dal cercare lavoro, dal terminare gli studi, dal prendersi cura dei propri figli, dal premunirsi contro le malattie dovute a pratiche nocive. Il rimedio consiste dunque nel mettere in moto meccanismi del calcolo economico individuale in tutti i campi e a tutti i livelli, ed il bilancio statale diviene uno strumento di disciplina dei comportamenti. 

Il fatto è che l’intervento dello Stato previdenziale si basa su una concezione dell'individuo come “creazione dell'ambiente [ed esso non deve di conseguenza] essere ritenut[o] responsabile per il [suo] comportamento”. Si deve rovesciare questa rappresentazione e considerare l'individuo come pienamente responsabile.

Se l'individuo è il solo responsabile della propria sorte, la società non gli deve nulla. La vita è una costante “gestione dei rischi” che richiede una rigorosa astensione dalle pratiche pericolose, il controllo permanente di sé, una regolazione dei propri comportamenti che combini ascetismo e flessibilità.

La parola d'ordine della società del rischio è “autoregolazione”. Si devono sensibilizzare i malati, gli scolari e le loro famiglie, gli studenti, gli individui in cerca di occupazione, sobbarcandoli di una parte sempre crescente del “costo” che rappresentano.

 

6. La vita si presenta unicamente come risultato di scelte individuali. L'obeso, il delinquente o il cattivo scolaro sono responsabili della propria sorte. La malattia, la disoccupazione, il fallimento scolastico e l'esclusione sono considerati conseguenze di “calcoli sbagliati”.

Tali problematiche confluiscono in una visione contabile dei capitali che ognuno accumulerebbe e gestirebbe per tutto il corso della vita. Le difficoltà dell'esistenza, l'infelicità, la malattia e la miseria sono fallimenti di questa gestione, per difetto di lungimiranza, prudenza, risolutezza di fronte ai rischi.

Da qui il lavoro di “pedagogia” che va intrapreso perché ciascuno si consideri in possesso di un “capitale umano” da far fruttificare; da qui la messa in atto di dispositivi destinati ad “attivare” gli individui obbligandoli a prendersi cura di sé, a educarsi, a trovare un lavoro.

La caratteristica del neoliberismo è proprio quella di pensare il modello della razionalità economica come solo parametro possibile con cui interpretare tutte le dimensioni dell’esistenza umana. Gary Becker – Chicago boy divenuto Nobel per l'economia nel 1992 – fu premiato precisamente per aver esteso l'analisi della microeconomia anche a quegli ambiti di comportamento che non rientrano nella logica di mercato (al non-economico potremmo dire).

Costui scrive: “Ogni condotta che accetta la realtà, è soggetta alla razionalità economica”[1]. Ogni condotta che accetta la realtà vuol dire ogni condotta che non sia follia: in altri termini, se non siete matti, la logica dei vostri atti rientra – e deve rientrare – nella razionalità economica.

 

7. La strategia neoliberista è consistita e consiste tuttora nell’orientare sistematicamente la condotta degli individui come se fossero sempre e dappertutto impegnati in relazioni di transazione e concorrenza su un mercato. Le misure di “responsabilizzazione” dei soggetti non sono tuttavia state esclusivo appannaggio dei governi conservatori o dei partigiani della “libertà dei mercati” a la Friedman-Becker. Hanno trovato alcuni dei migliori difensori nella sinistra europea, come prova la famigerata Agenda 2010 del cancelliere tedesco Gerhard Schroeder.

Per fare un esempio, la politica occupazionale portata avanti dall’allora ministro socialista Peter Hartz stabilì che l’aiuto dello Stato ai richiedenti impiego è strettamente condizionato alla loro docilità nell'accettare i lavori proposti. Secondo tale prospettiva la disoccupazione non sarebbe altro che un'inclinazione dell'agente economico all'ozio quando quest'ultimo è sovvenzionato dalla collettività, e sarebbe dunque “volontaria”.

L'indennizzo dei disoccupati non farebbe altro che creare “trappole del welfare”. La soluzione proposta non fu tuttavia sopprimere qualsiasi assistenza ai disoccupati, ma di fare in modo che l'aiuto conducesse a una maggiore docilità dei lavoratori privi d'impiego.

Tali politiche mirano ad “attivare” il mercato del lavoro (penalizzando il lavoratore disoccupato) affinché costui sia incitato a ritrovare un lavoro il più presto possibile, senza potersi accontentare troppo a lungo degli aiuti ricevuti.

 

8. L'individuo “in cerca di impiego” deve diventare soggetto-attore della propria impiegabilità, un self-entreprising, che si prende carico di se stesso ed i diritti alla previdenza divengono sempre più subordinati a dispositivi d'incentivazione e di penalizzazione[2].

Non si tratta più, come nel welfarismo, di ridistribuire i beni secondo un certo regime di diritti universali alla vita, ovvero sanità, istruzione, integrazione sociale e partecipazione politica. La lotta alle disuguaglianze, che era centrale nel vecchio progetto socialdemocratico, è stata rimpiazzata dalla “lotta alla povertà”, secondo un'ideologia dell’“equità” e della “responsabilità individuale” teorizzata ad esempio da alcuni intellettuali della “nuova sinistra” europea capeggiati dal blairiano Anthony Giddens.

Il programma politico neoliberista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, si presentò dapprima come un insieme di risposte a una situazione giudicata “ingestibile”. Questa dimensione è perfettamente evidente nel rapporto della Commissione Trilaterale intitolato The Crisis of Democracy[3], un documento chiave che testimonia la coscienza dell'“ingovernabilità” delle democrazie.

La caratteristica prima del blairismo fu la ripresa dell'eredità thatcheriana, considerata non come una politica da invertire, ma come un fatto acquisito.

La missione che si attribuì il New labour fu portare risposte di centro-sinistra nel nuovo quadro imposto dal neoliberismo, considerato come un dato irreversibile. La parola chiave di tale linea politica era l'adattamento degli individui alla nuova realtà, piuttosto che la loro protezione contro gli azzardi di un capitalismo mondializzato e finanziarizzato. La politica della sinistra moderna dovrebbe aiutare gli individui ad aiutarsi da sé, ovvero a “cavarsela” in una competizione generale che non è mai messa in discussione in quanto tale.

 

9. Il neoliberismo, dal momento che ispira politiche concrete, nega di essere ideologia perché è la ragione stessa.

È così che politiche molto simili fra loro possono adattarsi al modello delle retoriche più disparate, manifestando in questo modo la loro estrema elasticità. Vediamo così una delle cause del completo crollo dottrinale della sinistra nel corso degli ultimi anni. Se si ammette che i dispositivi pratici della gestione neoliberista siano i soli efficaci, se non i soli praticabili (e in ogni caso gli unici che si possono immaginare), si capisce come risulti impossibile opporsi ai principi che ne costituiscono il fondamento, o mettere effettivamente in discussione i risultati a cui conducono.

Non resta che la logica della persuasione retorica, ovvero denunciare a voce alta quello che a bassa voce si accetta.

 

10. Se le cose stanno così, come si spiega l'assenza di movimenti di protesta significativi? Il motivo dell'assenza di reazione, come recitava un articolo del Financial Times di qualche anno fa, va ricercata nel fatto che “il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha cominciato a essere almeno in parte sganciato dall'andamento del reddito da lavoro”[4]. Il risultato era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario, ma che nonostante questo consuma come e più di prima.

Per decenni, la risposta al pericolo della stagnazione economica è stata rappresentata dalla crescita del debito e della finanza. L'esplosione della finanza e del credito ha infatti svolto una triplice funzione:

 

1) mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi da lavoro sui consumi;

 2) puntellare i settori industriali afflitti da un eccesso di capacità produttiva;

3) fornire alternative più redditizie rispetto agli investimenti nel settore manifatturiero[5].

 

Da questo punto di vista, la finanza non è la malattia, ma il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla (e che quindi l’ha cronicizzata).

 

Tutte le politiche economiche e sociali hanno integrato come dimensione principale quest'adattamento alla globalizzazione, cercando di aumentare la reattività delle imprese, di diminuire la pressione fiscale sui redditi da capitale e sui gruppi privilegiati, di disciplinare la manodopera, di abbassare il costo del lavoro e aumentare la produttività.

I dirigenti dei governi e degli organismi internazionali potranno così sostenere che la globalizzazione è “fatale” pur aprendosi continuamente alla creazione di questa presunta fatalità.

Si assiste così a un ribaltamento completo della critica sociale: se fino agli anni settanta la disoccupazione, le diseguaglianze sociali, l'inflazione, l'alienazione, tutte le “patologie sociali” erano messe in relazione con il capitalismo, dagli anni ’80 sono ormai attribuite sistematicamente allo Stato.

Al contempo attori e oggetti della concorrenza mondiale, gli Stati sono sempre più soggetti alla ferrea legge di una dinamica della globalizzazione che in larga parte sfugge al loro controllo. La lotta contro l'inflazione diviene così la priorità delle politiche, mentre il tasso di disoccupazione si trasforma in semplice “variabile di aggiustamento”. Qualunque lotta per la piena occupazione viene perfino sospettata d'essere un fattore passeggero di inflazione.

La teoria friedmaniana del “tasso di disoccupazione naturale” viene largamente accettata dai responsabili politici di ogni colore.

 

11. Per chiarire la natura originale e rivoluzionaria del neoliberismo è utile analizzare un concreto caso, particolarmente significativo sia per la sua “purezza” paradigmatica che per la sua attualità: l’economia sociale di mercato. Questa espressione ricorre frequentemente nel dibattito politico odierno, di solito senza nessuna contestualizzazione storica e ideologica.

       Spesso infatti la si utilizza in senso generico, per designare un ipotetico modello sociale a metà strada tra laissez-faire liberista e interventismo statalistico. Insomma, una “buona via di mezzo” che salvaguarda sia i meccanismi virtuosi del mercato sia le garanzie sociali del tradizionale Welfare State. Da questo punto di vista schierarsi a favore dell’economia sociale di mercato sembrerebbe quasi una questione di buon senso, cui sarebbero estranei solo i fondamentalisti del liberismo più anarchico e quelli della pianificazione spinta.

     Ecco allora che una formula apparentemente vaga e “neutra” finisce addirittura nel Trattato di Lisbona, secondo il quale “lo sviluppo sostenibile dell'Europa” deve essere “basato (…) su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva”[6]. Dal canto loro numerosi politici di tutti gli schieramenti hanno espresso la loro preferenza per questo modello; ad esempio Mario Monti è noto per esserne un convinto sostenitore, come ha avuto modo di ribadire in più occasioni[7].

 

12. In realtà le cose non sono così semplici. “Economia sociale di mercato” è una espressione tecnica molto precisa, che designa le politiche neoliberiste varate in Germania a partire dall’immediato dopoguerra. A renderla celebre è infatti Ludwig Erhart, ministro dell’economia tedesco dal 1949 al 1963 nonché cancelliere dal 1960 al 1963 e artefice, vero o presunto, del “miracolo economico tedesco” nella Repubblica federale di questi anni. Tuttavia, come vedremo, essa non è comparsa magicamente dal nulla, ma nasce nel contesto di una specifica corrente di pensiero, il cosiddetto ordoliberalismo.

Sorto intorno alla rivista Ordo nella Germania degli anni Trenta, l’ordoliberalismo è spesso usato come sinonimo di “Scuola di Friburgo”, la fucina del pensiero neoliberale tedesco. Sono inclusi in questa tendenza culturale economisti e filosofi quali Walter Eucken, Franz Böhm, Leonhard Miksch, Hans Großmann-Doerth e Wilhelm Röpke. Röpke e Eucken furono anche consiglieri personali di Ludwig Erhart, il quale rimase profondamente influenzato dal loro pensiero, tanto da essere a volte annoverato lui stesso tra gli ordoliberali.

Dunque è possibile parlare di una dottrina neoliberista tedesca, sebbene il neoliberismo sia tradizionalmente associato alla Scuola di Chicago e a quella di Vienna. Anzi, secondo il Michel Foucault delle splendide lezioni poi confluite nel volume Nascita della biopolitica (vedi bibliografia), l’ordoliberalismo esprime le caratteristiche peculiari del neoliberalismo ancor meglio del suo corrispettivo anglosassone, che per ragioni storiche conserva molti tratti del liberalismo classico. In ogni caso le due correnti si sono influenzate a vicenda, e si attribuisce a Friedrich von Hayek e a Ludwig von Mises il merito di avere agito da “ponte”. La teoria ordoliberale ha avuto in impatto decisivo sulle politiche economiche del dopoguerra, cedendo però il passo di fronte al fascino dello Stato “keynesiano” negli anni Sessanta. E’ solo con la svolta degli anni Ottanta che il neoliberalismo tedesco ha recuperato il suo antico prestigio, tanto da far parlare alcuni commentatori di “ombra lunga” dell’ordoliberalismo sulla gestione della crisi dell’eurozona da parte della Germania.

Nonostante la varietà di posizioni espresse dagli ordoliberali, possiamo individuare un nocciolo duro ricorrente, che per comodità sintetizziamo in tre punti.

1) Riduzione di tutti i possibili modelli socio-economici a due paradigmi fondamentali, quello basato sulla libera concorrenza e quello basato sulla pianificazione.

2) Necessità di preservare il regime di libera concorrenza attraverso opportune “politiche di cornice” da parte dello Stato.

3) Centralità della responsabilità individuale e dell’azienda nello sviluppo armonico della società.

Di seguito analizzeremo ognuno di questi tre punti.

 

      13. La riflessione degli ordoliberali prende le mosse dalla storia recente del loro Paese e dell’Occidente in generale. Pur essendo inflessibili sostenitori del libero mercato quale unico ordinamento economico razionale, i neoliberali tedeschi degli anni Trenta devono prendere atto che la linea liberale non ha riscosso molto successo, soprattutto in Germania. A partire dalla seconda metà del XIX si sono susseguiti una serie di modelli economici fondati sull’ingerenza sistematica dell’apparato statale nella sfera economica: il “socialismo” di Stato bismarkiano, l’economia centralizzata di guerra nel periodo 1914-1918, la social-democrazia e infine la dittatura nazional-socialista. Come se non bastasse con il passare del tempo nei Paesi limitrofi alla Germania hanno preso volto due nuovi nemici: il comunismo sovietico e lo Stato assistenziale “keynesiano”.

Secondo gli ordoliberali esiste una costante che accomuna tutte le forme politico-sociali elencate: la pianificazione, ovvero l’intervento dello Stato nell’economia. Gli esiti nefasti di una simile “invasione di campo” sono la fissazione arbitraria dei prezzi, l’inflazione, la sottomissione della libera attività economica ai capricci di un apparato burocratico soffocante, la trasformazione del cittadino in suddito e così via; in una parola, la pianificazione uccide la vita materiale e spirituale della società, e per questo si configura come una vera e propria forma di totalitarismo. Si badi bene, questa diagnosi si applica a tutte le forme di pianificazione, tanto allo Stato democratico assistenziale quanto allo Stato-partito nazista o comunista. Le rispettive differenze sono secondarie. La radicalità di questa lettura arriva al paradosso di identificare i provvedimenti di Welfare del piano Beveridge con l’anticamera dell’autoritarismo e perfino del nazismo[8], dal momento che secondo gli ordoliberali il totalitarismo hitleriano è stato un effetto delle precedenti politiche “socialiste” della guerra 1914-1918 e della Repubblica di Weimar[9].

Fin qui, la “statofobia” ordoliberale non sembra scostarsi molto da quella comune a tutta la tradizione liberale. In realtà i dottrinari tedeschi giungono a conclusioni originali.

Innanzitutto sganciano la categoria di libero mercato da quella di capitalismo. Il libero mercato di per sé coincide con i meccanismi della concorrenza e non con un particolare tipo di società. Ispirandosi al pensiero di Max Weber gli ordoliberali sottolineano l’influenza determinante dell’“ambiente” culturale, politico, sociale sui meccanismi economici. Se l’“ambiente” non è adeguato, i meccanismi del libero mercato finiscono per essere distorti o neutralizzati. Questo non vale solo per per il “totalitarismo” della pianificazione, ma perfino per il “capitalismo”, che nella particolare accezione ordoliberale non è il marxiano “modo di produzione capitalistico”, ma solo una società di mercato degenerata. Il “capitalismo non è altro che quella forma guasta e arrugginita che l’economia di mercato ha assunto nella storia economica degli ultimi cent’anni”[10]. I suoi tratti fondamentali sono la formazione di monopoli privati in stretta alleanza con la burocrazia statale, la standardizzazione del consumo e della produzione, la “massificazione”, l’assorbimento del libero individuo in gigantesche compagini anonime, tutte caratteristiche che non a caso richiamano le società pianificate. Per inciso un simile “anti-capitalismo” neoliberista non è privo di importanti conseguenze ideologiche.

La degenerazione della società di mercato non va però attribuita ai meccanismi economici della libera concorrenza, che di per sé sono oggettivi, neutrali e quindi privi di contraddizioni di qualsiasi tipo. La colpa va attribuita piuttosto alla mancanza di adeguate politiche che intervengano sul contesto sociale in cui il libero mercato è incastonato.

Ecco allora in cosa risiede la peculiarità dell’ordoliberalismo, ed in generale del neoliberalismo, rispetto al liberalismo classico: la presa di coscienza che senza un intervento attivo dello Stato la logica della concorrenza e del mercato non può plasmare la società a propria immagine e somiglianza. L’efficacia del semplice laissez-faire è stata smentita dalla storia recente dell’Europa, e riproporlo sarebbe una ingenuità. Questo perché le leggi della concorrenza non sono un “dato di fatto” che basterebbe assecondare, bensì un principio formale “ideale” che bisogna sforzarsi di raggiungere, sebbene non sia possibile realizzarlo nella sua purezza. In che modo?

 

14. La nozione di “politica di cornice” è una diretta conseguenza del rapporto che si instaura tra economia e “cornice” sociale.  Infatti è proprio attraverso questo concetto che esso intende superare la contraddizione tra sua “statofobia” e la consapevolezza che senza l’apporto attivo dello Stato ogni progetto liberale è destinato a fallire. Ecco allora che lo Stato liberale non dovrà adottare politiche qualsiasi, ma solo quelle che intervengono sul “quadro” della società senza alterare i meccanismi della concorrenza, che sono il vero fulcro del libero mercato, molto più dello scambio mercantile

Quale è la differenza tra un intervento “buono” (di cornice) e uno “cattivo” (di pianificazione economica)? Come spiega Hayek[11] (ancora una volta in completa sintonia con i neoliberali tedeschi), un piano economico ha una finalità, ad esempio la potenza nazionale, il soddisfacimento di determinati bisogni ritenuti essenziali, eccetera; al contrario una politica liberale si limiterà a definire un quadro puramente formale, all’interno del quale gli attori della competizione economica possono muoversi liberamente, decidendo in autonomia quale priorità vogliono porsi o quali bisogni vogliono soddisfare.

Quando auspicano un simile ordinamento sociale gli ordoliberali si situano nella tradizione tedesca del Rechtsstaat, che potremmo tradurre con “Stato di diritto”, in contrapposizione al Polizeistaat, lo “Stato di polizia”. In senso stretto lo Stato di diritto è quell’ordinamento istituzionale che prevede la separazione tra intervento legislativo e intervento amministrativo, dove cioè esiste una differenza tra le leggi, che sono universalmente valide, e le decisioni particolari della potenza pubblica, che invece sono legittime solo se si inscrivono nel quadro formale delle leggi. Gli ordoliberali si propongono di applicare il concetto di Rechtsstaat all’economia, stabilendo che gli interventi statali nell’economia potranno consistere solo nell’introduzione di principi formali. In una simile visione la dimensione giuridica assume un ruolo fondamentale, e infatti Röpke scrive che “è opportuno fare dei tribunali (…) gli organi dell’economia”[12].

Gli interventi statali quindi dovranno necessariamente prendere la forma di leggi, e non dovranno porsi altri fini se non l’adeguamento del quadro sociale al principio della concorrenza, che a sua volta è un principio formale e non un contenuto. Concretamente questi inteventi di cornice alternano obiettivi cari alla tradizione liberale classica (ad esempio la stabilità monetaria) e misure che da allora sono diventate il “cavallo di battaglia” del neoliberalismo tedesco, in particolare la lotta ai monopoli e ai cartelli, ed in generale la regolazione della concorrenza. Un altro esempio molto importante, la previdenza sociale, sarà trattato nel prossimo punto.

Il taglio giuridico adottato dall’ordoliberalismo rischia di creare due malintesi. Il primo porterebbe a pensare che il “Rechtsstaat economico” sia sostanzialmente uno Stato che “interviene poco” in contrapposizione ad uno Stato che “interviene troppo”. In realtà la differenza tra ordinamento neoliberale e pianificazione è di carattere qualitativo e non quantitativo. Anzi, a conti fatti lo Stato liberale potrebbe rivelarsi perfino più interventista di quello “totalitario”. Questo perché “più la legge lascerà gli individui liberi di comportarsi come vogliono (…) più nello stesso tempo, le superfici di frizione tra queste diverse unità si moltiplicheranno (…) e più aumenteranno le occasioni di conflitto. (...) di conseguenza, quanto più i soggetti economici saranno liberi, (…) tanto più si moltiplicheranno inevitabilmente i giudici.”[13] Man mano che la logica concorrenziale si estende a tutti gli ambiti della società, lo Stato dovrà aumentare il suo intervento regolativo.

In secondo luogo non bisogna pensare che il progetto ordoliberale sia “neutro”, puramente formale. Al contrario esso punta a stabilire un preciso tipo di società, che trova nella centralità dell’individuo e nell’impresa la sua ragione d’essere.

 

14. In accordo con la tradizione liberale classica, l’ordoliberalismo individua nell’autonomia dell’individuo la sorgente e la meta di ogni politica responsabile, e avversa ogni forma di assistenzialismo proprio in quanto sostituirebbe la sua responsabilità con la mano di uno Stato-provvidenza. L’argomento è già stato affrontato esaustivamente nei paragrafi 7 e 8, e qui vorrei solo sottolineare in che modo si inserisce nel progetto complessivo del neoliberalismo tedesco.

In Germania la previdenza sociale è un tema caldo già negli anni Cinquanta, quando il notevole livello di benessere raggiunto fa domandare a molti se non sia possibile costruire un sistema di protezioni esteso a tutti i cittadini. Gli ordoliberali, con in testa Ludwig Erhard[14] (allora ministro dell’economia) si opposero fermamente a questa ipotesi, ammettendo però contemporaneamente che un certo livello di protezione era necessario. La loro posizione è sintetizzata nella formula di “politica sociale individuale”.

Se si parte dal presupposto che ogni cittadino è chiamato ad essere un imprenditore, anzi una vera e propria azienda, allora è chiaro che lo Stato non può sostituirsi al cittadino-impresa nella gestione della sua vita e dei relativi rischi (infortuni, malattia, vecchiaia…). Tuttavia non si può ignorare che l’attività economica comporta una serie di incognite (prime tra tutte il licenziamento o il fallimento) verso le quali anche l’individuo più lungimirante potrebbe non essere tutelato. Il timore verso queste incognite minaccia di scoraggiare i cittadini comuni, non dotati di capitali o risorse eccezionali, a partecipare al gioco economico, a essere loro stessi “aziende” sul mercato; al limite il sistema della libera concorrenza potrebbe perfino incepparsi per mancanza di partecipanti. Quindi lo Stato è chiamato a soccorrere l’individuo-azienda, non per garantire il suo benessere, compito questo che non gli spetta, ma unicamente per spingerlo a rientrare nell’arena della concorrenza il prima possibile. In altre parole il fattore “sociale” è rigorosamente subordinato a obiettivi economici: siamo sempre nell’ambito della “politica di cornice”.

Al contrario delle forme più unilaterali di liberalismo, i pensatori della Scuola di Friburgo si sono sforzati di valorizzare la dimensione comunitaria della natura umana, chiaramente integrandola compatibile alla loro visione generale della società. Gli ordoliberali attaccano l’atomizzazione egoistica come sintomo del “capitalismo” (ovvero della società di mercato degenerata) e auspicano una società organica, dove lo spazio tra l’individuo e il mercato e lo Stato sia occupato da una serie di corpi intermedi: la famiglia, il quartiere, la regione e, soprattutto, l’azienda. Infatti l’individuo trova la sua realizzazione proprio nell’azienda, l’istituzione che meglio di ogni altra condivide i suoi valori e le sue finalità: autonomia, intraprendenza, libera iniziativa.

La società ideale degli ordoliberali è caratterizzata da una imprenditorialità diffusa a tutti i livelli, senza che l’onnipresente principio della concorrenza ne vada ad intaccare l’armonia. Le loro simpatie vanno all’azienda di dimensioni medio-piccole piuttosto che ai “colossi” del capitalismo degenerato, ai centri urbani decentrati piuttosto che alle megalopoli terreno di coltura del socialismo e delle “classi pericolose”, alle autonomie locali invece che alle amministrazioni centralizzate.

 Questo progetto è perfettamente compatibile con un umanismo dai lineamenti incerti (Röpke definisce il proprio pensiero “umanesimo economico”), spesso di matrice cattolica (quasi tutti gli ordoliberali erano vicini al cosiddetto cristianesimo democratico del Zentrum e della CDU). La retorica della “dignità della persona”, della società “a misura d’uomo”, dei diritti umani ricorre continuamente, senza che la sua compatibilità con i principi economici liberisti venga messa mai in discussione. Viceversa si osserva una curiosa e spesso virulenta ostilità nei confronti del razionalismo, in particolare quello della Rivoluzione francese. L’idea di modificare la realtà in base ai principi astratti della ragione (giustizia, uguaglianza, trasparenza dei rapporti sociali) ripugna agli ordoliberali. Anche questa parte del pensiero neoliberale, che è probabilmente la meno interessante, non è però priva di importanti conseguenze ideologiche.

 

15. Ritornando alla formula “economia sociale di mercato” abbiamo imparato che essa è meno generica di quanto non apparisse a prima vista. L’attributo “sociale” non va inteso nella sua accezione comune, che indica politiche tese a favorire il benessere della popolazione, di solito “risarcendola” dei danni che una economia capitalistica inevitabilmente provoca (insicurezza del posto di lavoro) o prevenendoli (erogazione dei servizi fondamentali da parte dello Stato). Invece le politiche “sociali” dei neoliberali tedeschi sono semplicemente interventi sull’ambiente sociale per renderlo compatibile con la massima diffusione del principio di concorrenza.

In secondo luogo il peculiare “anti-capitalismo”[15] ordoliberale ci insegna che la critica di aspetti superficiali (e non sempre attuali) del capitalismo spesso, come la massificazione, il consumismo, i monopoli (oggi diremmo “multinazionali”), la standardizzazione della produzione, di per sè non esclude l’adesione entusiasta al capitalismo stesso. Non a caso la demonizzazione della burocrazia statale, percepita come un leviatano ingombrante e corrotto tout court, lo slogan “piccolo è bello”, il “decentramento” amministrativo, sono tutti cavalli di battaglia delle sinistre ex-socialdemocratiche ed ex-comuniste riciclate in apparati neoliberisti, e a volte perfino delle loro stampelle elettorali “radicali”.

 

16. In conclusione possiamo affermare che il neoliberismo, lungi dall’essere un semplice proseguimento del liberalismo del XIX secolo, presenta tratti originali, che spesso sfuggono anche a chi si pone in una autentica ottica anti-capitalistica. Per questo è assolutamente necessaria una revisione di tutte le analisi datate e fuorvianti, poichè senza una adeguata “bussola” teorica anche la prassi politica più benintenzionata rischia di porsi falsi problemi, o di scagliarsi contro muri già da tempo abbattuti dallo stesso capitalismo.

Il neoliberalismo ambisce a rappresentare la nuova ragione del mondo, di fronte alla quale qualsiasi critica è, ancor prima che inutile, impensabile, irrazionale. Il progetto neoliberale consiste in una serie di strategie che hanno come scopo la riconfigurazione della società, la sua trasformazione radicale. Se le cose stanno così, è inutile contrapporre a un astratto laisser-faire liberista un altrettanto astratto interventismo statale, come se il problema fosse di natura prettamente quantitativa (intervenire tanto o intervenire poco?).

Al contrario chi ritiene che il capitalismo non sia l’ultima parola nella storia umana ha il compito di mettere al centro proprio la dimensione strategica, decisionale e, in una parola, politica. Anche una (auspicabile) rivalutazione della pianificazione e delle alternative al sistema della merce non può eludere questo nodo cruciale.

Scheda lessicale

Ordoliberalismo: scuola neoliberale tedesca, nata negli anni Trenta attorno alla rivista “Ordo” e alla cosiddetta Scuola di Friburgo in opposizione al nazismo, ma anche al comunismo e alla socialdemocrazia. La teoria economica ordoliberale (l’economia sociale di mercato) ha ispirato le politiche tedesche del dopoguerra, e a partire dagli anni Ottanta ha riacquistato una influenza determinante. Il Trattato di Lisbona dichiara che l’Unione Europea deve basarsi “su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva”.

 

Bibliografia essenziale.

Becker, Gary. The Economic Approach to Human Behavior. University of Chicago Press, 1976

Boltanski, Luc; Chiapello, Eve. Le nouvel esprit du capitalisme. Gallimard, 1999 (tr. it. di prossima pubblicazione per le edizioni Mimesis).

Crozier, Michel; Huntington, Samuel; Watanuki, Joji. The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission. New York University Press, 1975.

Dardot, Pierre; Laval, Christian. La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista. DeriveApprodi, 2013.

Donaggio, Enrico (a cura di). C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi. Mimesis ed, 2014.

Erhard, Ludwig. La politica economica della Germania. Garzanti, 1962.

Foucault, Michel. Nascita della biopolitica. Feltrinelli, 2005.

Giacché, Vladimiro. Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato. Roma 2012.

Giddens, Anthony. La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia. il Saggiatore, 1999.

Leghissa, Giovanni. Neoliberalismo. Un'introduzione critica. Mimesis ed., 2012.

Michéa, Jean-Claude. Il vicolo cieco dell'economia. Sull'impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo. Elèuthera, 2004

Röpke, Wilhem. Democrazia ed economia. Il Mulino, 2004.

 



[1] G. Becker, The Economic Approach to Human Behavior, p. 167.

[2] Nel 2005 in Francia è stato istituito un sistema di penalizzazione che abbassa l'indennità di disoccupazione del 20% al primo rifiuto di una proposta di impiego, del 50% al secondo e del 100% al terzo.

[3] I tre relatori della Commissione Trilaterale, Michael Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, lamentano l'“eccesso di democrazia” comparso negli anni 60, ovvero a partire dalla crescita delle rivendicazioni egualitarie e del desiderio di partecipazione politica attiva delle classi più povere e marginalizzate. Ai loro occhi la democrazia politica può funzionare normalmente solo con un certo grado “di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi”. Abbracciando i temi classici dei primi teorici neoliberisti, arrivavano a reclamare che si riconoscesse che “ci sono pure i limiti potenzialmente auspicabili all'ampliamento indefinito della democrazia politica” [cfr. M. Crozier, S. Huntington, J.Watanuki, The Crisis of Democracy].

[4] J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy, Financial Times, 8 aprile 2008.

[5] “La finanza ha offerto un'ultima via di fuga alle imprese con problemi di redditività: consentendo loro di fare profitti non più con le attività tradizionali, ma attraverso operazioni finanziarie, ossia attraverso attività speculative. […] Se si esamina l'andamento dei profitti negli Stati Uniti si osserva che negli ultimi decenni la proporzione dei profitti derivanti da attività finanziarie è progressivamente cresciuta, sino a raggiungere il 40% del totale nel 2007, alla vigilia della crisi” [V. Giacché, Titanic Europa,pp. 34-35].

[6] Trattato di Lisbona, Articolo 2, Paragrafo 3, Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea.

[7] Particolarmente significativa è l’intervista per il Sole 24 Ore del 22 Agosto 2008. L’ex-premier osserva lucidamente che “Oggi, il richiamo all'economia sociale di mercato, in particolare in Italia, dà a volte l'impressione di essere pronunciato con un'ispirazione opposta. Si è un po' insofferenti verso la disciplina imposta dalle regole del bilancio pubblico o da quelle del mercato, e allora si "rivendica", in contrapposizione alla prova non buona data di recente dal modello americano (…) la legittimità, anzi la necessità, di maggiori dosi di socialità e di discrezionalità politica.” In queste poche frasi è racchiuso il senso profondo dell’economia sociale di mercato e della sua contrapposizione a qualsiasi assistenzialismo, per quanto moderato. Altro che “terza via” tra liberismo e socialismo!

[8] Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, pp. 157-158. Scrive Hayek, in sintonia con la diagnosi ordoliberale: “Stiamo correndo il rischio di fare la stessa fine della Germania [nazista, nota mia]” (cit. da Foucault). Beveridge come alter ego di Goering!

[9] In realtà oggi l’equazione tra “statolatria” e nazismo appare un pregiudizio. Al proposito possiamo trovare interessanti riflessioni in H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Notevole è la formulazione dello storico Kershaw, che ha parlato di “anarchia feudale” in riferimento all’hitlerismo.

[10] W. Röpke, Democrazia ed economia, p. 82.

[11] Cfr. Nascita della biopolitica, pp. 145-146.

[12] Cit. in Nascita della biopolitica, p. 149.

[13] Ivi, pp. 148-149.

[14] Cfr. L. Erhard, Previdenza individuale per i rischi sociali, in La politica economica della Germania.

[15] E’ interessante notare come molti neoliberisti possano vantare un discreto curriculum “anti-capitalista”. Ad esempio Hayek fu per un breve periodo membro del movimento fabiano (che nonostante le posizioni moderate era pur sempre di ispirazione marxista).

 

Imperialismo culturale: il dominio delle mode consumistiche come strumento/effetto del processo di omologazione planetario all’american way of life

 

L'ultima decade ha visto un progressivo incedere sullo scenario internazionale di nuove potenze emergenti in grado di mettere in discussione il dominio unipolare statunitense.
Ciò si è reso possibile non solo grazie allo sviluppo economico, produttivo e militare dei paesi in questione, ma anche grazie alla loro capacità di resistere culturamente e ideologicamente a quel sistema di omologazione mondiale basato sull'esportazione dello stile di vita della classe media americana, proposto come sistema di valori e comportamenti dal valore superiore quanto universale.
Nella sfera politica, l’imperialismo culturale svolge un ruolo importantissimo nel processo di dissociazione della popolazione dalle sue radici culturali e dalle sue tradizioni di solidarietà. Costituisce quindi un potentissimo strumento di manipolazione, attrazione e persuasione con cui gli Stati Uniti hanno riesco ad alterare la vita politico/sociale di intere aree geografiche.

Il “cambio di fase” del capitalismo ha visto mutare anche gli strumenti con i quali s’impone e si afferma una mentalità capitalistica, soggetta ai dogmi culturali ed agli stereotipi comportamentali funzionali alla perpetuazione di un ordine mondiale fondato sul dominio speculativo di mercati e mode.

Nell’ambito del “cambio di fase” di cui sopra, le menti ed i cuori del pubblico occidentale, pubblico televisivo e consumatore di format ultrapoliticizzati tesi alla sua definitiva e non del tutto inconsapevole alienazione, non si conquistano più attraverso la propagazione mediatica di un’ossessiva isteria anticomunista bensì tramite il tentativo di persuasione dell’illimitata bontà del sistema occidentale, superiore in quanto liberale, “tollerante” e “senza frontiere” rispetto a modelli di sviluppo definiti “chiusi” in quanto portatori di un modus pensandi maggiormente improntato alla strutturazione su basi tradizionali gerarchiche e su scale di valori non del tutto allineati al dogma di fede della primazia dell’economia finanziarizzata sulla politica e sui vincoli nazionali e sulla primazia della società virtualizzata ed aperta su qualsivoglia retaggio tradizionale, patriottico e socialista, definito sempre e comunque “fuori dal tempo” e dalla “storia”.

Sulla scorta di quanto propugnato dalle tesi di F. Fukuyama e T. Negri, un’indistinta massa di consumatori desideranti si sarebbe sostituita ai popoli, agli Stati, alle nazioni, alle culture tradizionali, ai movimenti di liberazione patriottici e socialisti, percepiti come ostacoli all’affermazione senza tempo, senza limiti e senza futuro, di un governo mondiale delle banche, delle mode e delle industrie del divertimento giovanilistico senza frontiere.

Oggi i telefilm americani per adolescenti e la pop music  di Mtv hanno sostituito, dagli schermi televisivi e dalla galassia virtuale dell’internet, camicie nere e manganelli, “libri & moschetti”, nell’opera di persuasione delle nuove generazioni tesa a veicolare l’idea che solo ed esclusivamente all’interno delle strutture mentali e negli atteggiamenti consumistici tipici della (invero declinante) classe media americana della East e della West Coast, possa risiedere la virtù ed il privilegio della “libertà”.

Le libertà consumistiche individuali hanno sostituito, con l’avvento della tv commerciale e della cultura della sinistra liberal e postmoderna, la rivendicazione di diritti sociali, nazionali e collettivi quali effettivi fattori di emancipazione culturale, politica e nazionale.

La libertà, nell’auspicato, dalle classi dirigenti speculatrici e dal “circo mediatico” occidentale, “secolo americano”, è la “libertà di consumare e di desiderare illimitatamente”. La tv non fa altro che rinfocolare questo stereotipo che trova humus e terreno fertile in una sterminata suburra completamente pervasa da una sotto-cultura televisiva individualistica e degradata.

 


 

 

TESTI CONSIGLIATI PER L’APPROFONDIMENTO:

- http://polemos-war.blogspot.it/2013/12/imperialismo-culturale-statunitense.html

 

- La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media Vol. III. La strategia mediatica di formazione e manipolazione del consenso attraverso i nuovi media. L’analisi critica del caso italiano, prefazione di Aldo Bernardini, Zambon, Frankfurt, 2014;

 

- E. Perucchietti, G. Marletta, La fabbrica della manipolazione. Come i poteri forti plasmano le nostre menti per renderci sudditi del Nuovo Ordine Mondiale, Arianna Editrice, Casalecchio di Reno (Bo), 2014;

 

- A. Sepinwall, Telerivoluzione. Da Twin Peaks a Breaking Bad, come le serie americane hanno cambiato per sempre la tv e le forme della narrazione, prefazione di Carlo Freccero, Bur, Milano, 2014.