Medio Oriente: tensioni in aumento

18 maggio 2015

 

 

 

Inquietanti sviluppi

Eventi di rilevantissima portata caratterizzano tuttora la sconvolta realtà medio-orientale. Le guerre in Siria e in Iraq continuano a produrre il loro lascito di sangue e di violenza e non si vede al momento quale possa essere lo sbocco di un processo di distruzione che, oltre a modificare brutalmente la mappa della regione, quale era stata arbitrariamente definita dalla Francia e dalla Gran Bretagna all’indomani del crollo dell’Impero ottomano, ha permesso alle formazioni jihadiste più estreme di occupare vasti spazi territoriali nei due suddetti Paesi. In queste aree lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante (ISIL) impone la versione più severa e intollerante della legge coranica nella sua matrice wahabita, quale essa ebbe modo di nascere e svilupparsi, con la complicità della tribù Saud, nel 18° secolo nel deserto del Nejd, all’epoca la regione più povera e arretrata della penisola arabica.

Un’altra zona di conflitto ad alto rischio si è aperta nella regione situata a sud-ovest del Regno wahabita. Intendiamo riferirci alla dilaniata realtà yemenita dove l’azione di forza del gruppo etnico degli Houthi, tribù araba professante una fede appartenente a una branca del credo sciita, è stata in grado di espandere la propria presenza nell’intero Paese, provocando alla fine dello scorso marzo la reazione di Riyadh che, unitamente al supporto militare delle monarchie del Marocco, della Giordania, degli altri Governi del “Gulf Cooperation Council”, con l’esclusione dell’Oman, ed a quello navale dell’Egitto, ha portato a una campagna d’indiscriminati bombardamenti aerei sul più povero Paese del mondo arabo. La serie di bombardamenti, interrotti da una tregua di pochi giorni, dichiarata ma poco rispettata, definiti dal Coordinatore delle Nazioni Unite per lo Yemen una “violazione della legge umanitaria internazionale”,  sembra, almeno fino a ora, essere lontana dal conseguimento degli obiettivi prefissati. Dal loro canto le formazioni ribelli, sostenute dalle forze vicine al deposto dittatore Abdullah Saleh, rovesciato nel 2011 sull’onda della Primavera araba, fino a allora alleato dei sauditi, non appaiono inclini a sottostare agli effetti di un’azione punitiva, in merito alla quale molti osservatori esprimono perplessità sia per le distruzioni che essa comporta sia per i colpi che infligge alla già devastata stabilità della regione sia per la sua efficacia sotto il profilo strettamente militare.

La decisione saudita ha costituito un fatto del tutto anomalo se si pensa che la diplomazia perseguita da Riyadh si era ispirata in passato a tre criteri generali di condotta. Quali? 1) Il coerente appoggio ai regimi amici e alleati, ritenuti dalla monarchia wahabita in linea coi propri fondamentali interessi. 2) In armonia con gli imprescindibili desiderata dell’influente establishment religioso, il finanziamento della costruzione di moschee e scuole coraniche non solo in Asia ed in Africa ma anche in Europa dove i severi precetti dell’Islam saudita trovassero modo di essere insegnati e diffusi. 3) l’attivismo della diplomazia del Regno che, seppur in maniera non ostentata, non ha lesinato negli sforzi di mediazione nelle aree di crisi della regione. Significativi al riguardo sono apparsi gli interventi a favore della guerra civile libanese negli anni ottanta nonché l’iniziativa diplomatica promossa agli inizi dello scorso decennio, nota come “Peace Initiative”, volta a reperire una soluzione al dramma palestinese, che, seppur abortita, continua a essere un punto di riferimento prezioso nella ricerca di una via d’uscita da un tunnel sempre più tenebroso.

Questi per decenni sono stati i tratti fondamentali della proiezione esterna della “powerhouse” saudita, forte del legame strategico con gli Stati Uniti e dell’emarginazione politica e diplomatica dell’acerrimo nemico nell’area, l’Iran sciita degli aborriti ayatollah, non trascurando i vantaggi derivanti da un mercato energetico caratterizzato dagli alti prezzi del petrolio e della conseguente rilevanza di questa rendita sul piano politico e diplomatico.

 

Mutamenti nella regione

L’insorgere della Primavera araba ha innescato degli effetti destabilizzanti in uno scenario che fino a allora appariva alquanto consolidato. Gli sconvolgimenti sul piano regionale hanno inciso sulla relazione del Regno con i principali attori internazionali, anche se il rapporto con gli Stati Uniti continua a sussistere nei suoi tratti fondanti. Basti pensare che lo stesso attacco contro le forze ribelli Houthi nello Yemen, su cui ci soffermeremo più avanti, fruisce del sostegno logistico ed anche di intelligence americano e questo costituisce un fatto da non trascurare.

Se questo è vero, è anche vero che qualcosa di profondo è tuttavia cambiato nella complessiva rete della regione, dal momento in cui la Primavera araba si è prodotta nel 2011. Partendo da quanto sopra esposto l’atteggiamento USA verso il Medio Oriente ha subito un mutamento indiscutibile sia privilegiando in una prima fase movimenti invisi all’Arabia saudita, alludiamo in primis ai Fratelli mussulmani egiziani,  sia ostentando un apparente maggiore distacco verso i problemi della regione sia conferendo contenuti di concretezza al desiderio di creare canali di dialogo e comprensione con la Repubblica islamica d’Iran, inesistenti da più di trent’anni. Il fatto poi che gli Stati Uniti, grazie alla controversa tecnologia del “fracking”, facciano ora parte del novero dei principali Paesi produttori ed esportatori di gas e di petrolio, ha contribuito a un allentamento di quella dipendenza energetica dal mercato medio-orientale, in essere fino a un tempo recente, che è stata la base principale di scelte nefaste per la stabilità dell’intera area.

In questo contesto la possibile imminente conclusione di un accordo con l’Iran sul programma nucleare da parte del P5+1, prevista entro la fine del prossimo giugno, non ha mancato di accrescere la preoccupazione di Riyadh sulle conseguenze di un’intesa dalla quale i sauditi e, seppur in misura tra di loro differenziata, le altre monarchie appartenenti al GCC paventano un’espansione dell’influenza di Teheran nella regione, suscettibile a loro parere di creare nell’area una situazione peggiore di quella esistente fino al 1979, anno in cui il regime filoamericano dello Scià fu rovesciato per effetto del successo della rivoluzione islamica.

In effetti, certe improvvide affermazioni di alte personalità iraniane sulla prospettiva di una rinascita dell’impero persiano nelle terre bagnate dal Tigri e dall’Eufrate ed il persistente bellicoso tono delle esternazioni pronunciate dagli “hardliners” di Teheran, in evidente contrasto con l’approccio degli elementi moderati vicini alle posizioni del Presidente Rouhani, non hanno certamente contribuito ad attenuare i timori delle nomenclature arabe del Golfo.

In effetti, i timori nutriti dalla monarchia Saud non appaiono del tutto privi di fondamento. E’ sufficiente gettare lo sguardo nell’area prospiciente il Regno per rendersi conto della scarsa infondatezza di tali inquietudini. Prendiamo l’Iraq, dove si è consumato per quasi un decennio il fallimento della “policy” USA conseguente all’aggressione del 2003, e la Siria, dove una guerra a sfondo settario ha provocato coinvolgimenti poco graditi a Riyadh, nonché lo stravolgimento dell’assetto territoriale dei due Paesi. In entrambe queste realtà, infatti, sono presenti le due minacce mortali per il Paese fondato da Abdul Aziz nel 1932. Esse sono rappresentate da una ben visibile presenza iraniana, chiamata a svolgere un ruolo di supporto decisivo per la tenuta del governo sciita di Haydar al-Abadi a Baghdad e del dittatore alauita Bashar al-Assad a Damasco, e dall’esistenza, in uno spazio che travalica la frontiera dei due Paesi, del Califfato creato dallo Stato islamico in Iraq e nel Levante (ISIL), da quasi un anno al potere nella vasta area che va dal nord-est della Siria, dove è situata la storica città di Raqqa, al nord-ovest dell’Iraq, con capoluogo la seconda città del Paese, la suggestiva Mosul, in passato luogo di incontro di razze e religioni diverse. A questi poco rassicuranti scenari si è aggiunto recentemente l’esplodere della guerra civile nel finitimo Yemen dove, a parere dei sauditi, le interferenze iraniane non sono da dimostrare, tanto esse, agli occhi dei sauditi, sono evidenti.

Il menzionare mutamenti di questo genere è sufficiente per comprendere come il quadro complessivo sia, ora, ben diverso da quello esistente prima della Primavera araba.

Questo fa più agevolmente capire come il Gulf Cooperation Council   (GCC)  nel suo insieme abbia ritenuto di trarre le conseguenze da tale situazione, attivando lo strumento della forza militare, per decenni messo da parte in nome di una “policy” incentrata sulla diplomazia e sulle iniziative di “soft power”, poggianti su una macroscopica rendita finanziaria. Tale politica ha per lungo tempo giovato all’immagine e agli interessi del Regno e dei suoi cinque alleati, ma ora si rivela, a giudizio delle autocrazie del Golfo, insufficiente a far fronte al profilarsi di minacce tanto più temibili ove si tenga conto sia della loro contiguità territoriale sia del mutato approccio USA verso i problemi della regione e le temute evoluzioni che potrebbero prodursi.

L’insorto militarismo delle oligarchie autocratiche ha comunque registrato un’eccezione. Essa è costituita dal Sultanato dell’Oman che, seppur caratterizzato da profonde affinità strutturali, politiche e religiose con gli altri cinque partner, ha tenuto a differenziarsi nelle scelte assunte, consapevole dell’importanza della sua relazione con l’Iran, con il quale l’Oman interagisce nella gestione dell’intenso traffico navale attraverso il nevralgico stretto di Hormuz, porta di transito tra il Golfo Persico e il Mar Arabico.

Qual è stato il momento in cui l’interventismo delle case regnanti arabe ha iniziato le prime mosse? Esso si è prodotto nel bel mezzo della Primavera araba quando i sommovimenti in Tunisia e in Egitto avevano dato adito a molte speranze in termini di conquiste laiche e democratiche. In quello stesso frangente le forze militari saudite, degli Emirati arabi uniti e del Koweit, con l’esclusione dell’Oman ed in questo caso anche del Qatar, decisero d’intervenire nel finitimo Regno di Bahrein, unito allo spazio saudita da una superstrada di appena 40 chilometri. Quale fu lo scopo di tale intervento? Era di proteggere la screditata monarchia sunnita dei Khalifa, imparentata alla dinastia dei Saud, esposta alla rivolta della maggioranza sciita del minuscolo Paese ed anche, secondo quanto paventato dai sauditi, alle nefaste influenze iraniane. L’intervento non si caratterizzava soltanto per il fatto di essere in controtendenza rispetto a quel che avveniva sulla sponda sud del Mediterraneo ma rappresentava altresì una forzatura di quanto contemplato dall’Accordo di reciproca assistenza esistente in ambito GCC in caso di aggressione esterna contro uno dei sei membri del Consiglio. In effetti, non di un’aggressione esterna si trattava ma di una questione interna attinente agli equilibri politici del minuscolo Regno del Bahrein. Ma, si sa, la logica di Potenza molto spesso prevale sul dettato delle norme contenute in un Accordo internazionale. Molteplici esempi confermano questa cruda costatazione.

In ogni caso l’intervento produsse e continua a produrre un duplice risultato: arginare ma non neutralizzare il movimento di contestazione della maggioranza della popolazione e allo stesso tempo fare di Bahrein un’entità in preda ad una cronica instabilità, la realtà meno invitante del GCC, il partner dove più visibilmente allignano i germi di un malessere talvolta a uno stadio esplosivo.

Gli eventi a Bahrein hanno dunque rappresentato l’inizio di una svolta politica che ha visto l’Arabia saudita progressivamente determinata a dar vita ad uno schieramento combinato dei cinque dei sei membri del GCC, pronto a far fronte manu militari alle minacce incombenti sulle dinastie regnanti. Tutto questo si è concretizzato e consolidato parallelamente all’andamento positivo e non avaro di risultati del negoziato dei P5+1 con Teheran sul programma nucleare iraniano.

L’appoggio militare ai ribelli sunniti in lotta in Siria contro il regime di Bashar al Assad è stato e continua a essere il seguito più impattante, sicuramente più visibile di quello in realtà più defilato contro i jihadisti dell’ISIL in Iraq. Il sostegno dato alla galassia delle milizie islamiste in Siria, con l’appoggio anche della Turchia di Erdogan, riveste un ruolo strategico dato che esso soddisfa l’esigenza prioritaria della monarchia wahabita: contenere il temuto espansionismo iraniano abbattendo un suo alleato strategico, quale è il regime al potere a Damasco, sostenuto dalle temibili formazioni sciite libanesi degli Hezbollah.

In Iraq l’apporto di Riyadh e dei suoi partner del Golfo traspare in minor misura e appare meno impattante dato che in quel Paese vi è un governo a matrice sciita, sostenuto dagli USA, che condivide con le monarchie conservatrici sunnite l’obiettivo di arginare e sconfiggere l’altro nemico mortale della dinastia Saud: il Daesh, il cui obiettivo è di ledere la legittimità nel campo religioso della casa Saud e il suo ruolo di leadership della comunità sunnita nel mondo arabo.

In Iraq si tratta, in effetti, di contrastare l’influenza e il peso della presenza iraniana, alimentando il livore delle masse sunnite e la loro diffidenza verso i successori del regime settario del deposto uomo forte Nouri al-Maliki. La nuova compagine governativa è pur sempre a prevalenza sciita e agli occhi dei sunniti fisiologicamente esposta alle sirene emananti da Teheran; da qui i problemi sulla strada verso una ritrovata unità nazionale in grado di sconfiggere la minaccia terrorista del Daesh, che sfrutta a proprio vantaggio le divisioni settarie del Paese, in grado ora di colpire a pochi chilometri dalla capitale Bagdad; un quadro che sembra destinato a peggiorare se serie iniziative di riconciliazione nazionale non si concretizzeranno.

Per converso in Siria l’obiettivo è più chiaro e trasparente: ovverossia sostenere lo sforzo bellico contro un regime, sostenuto dalla Russia e dall’Iran, il cui rovesciamento indebolirebbe in maniera decisiva quell’asse sciita che dal Libano attraversa la Siria e l’Iraq per giungere fino alle sponde del Golfo Persico.

 

Nuovi scenari

La morte lo scorso gennaio del re Abdullah, la cui volontà di difendere strenuamente gli interessi della dinastia non è mai andata disgiunta da una propensione a non scoraggiare una certa onda modernizzante esistente in alcuni settori della società civile (giovani, donne), esponendosi in tal modo al malcontento dell’establishment religioso, pervicacemente conservatore, e l’ascesa al trono del fratello Salman bin Abdulaziz ha conferito una spinta inopinatamente e inusualmente rapida ai mutamenti in seno alla Potenza regionale saudita e alla sua proiezione esterna.

Aver rimosso brutalmente dalla funzione di principe ereditario (“Crown Prince”) Muqrin bin Abdelaziz, il figlio più giovane del fondatore dell’Arabia saudita, Abdelaziz al Saud, ritenuto molto vicino al defunto re Abdullah, anche per ragioni – sembrerebbe – legate a un disaccordo sull’intervento militare in Yemen, sostituendolo con il più giovane Ministro degli Interni Mohammed bin Nayef appartenente allo stesso ceppo familiare di Salman, sì da rendere possibile l’ascesa alla funzione di “Deputy Crown Prince” del figlio preferito del nuovo re, Mohammed bin Salman, Ministro della Difesa, appena trentenne,  ha impressionato tutti coloro, attenti alle vicende saudite, per i quali la repentinità delle mosse ha costituito un fatto assolutamente inedito, considerando la consolidata prassi della gerontocrazia saudita, molto rispettosa dei valori della tradizione, incentrati sulla “seniority” della leadership politica.

Ulteriore impattante cambiamento ha riguardato la sostituzione del veterano della politica estera del Paese, Saud al Faisal, il Ministro degli Esteri di più lunga durata al mondo, essendo stato eletto nella sua funzione nel lontano 1975. Il suo sostituto, Adel al Jubeir, ambasciatore del Regno a Washington, è anch’egli un’altra figura di relativa giovane età, cinquantenne, molto apprezzato dagli americani, che verrà a svolgere compiti fino ad ora riservati esclusivamente a membri della famiglia reale.

A parere di molti una delle ragioni di tale ardito modus operandi, che inevitabilmente provocherà un’onda di risentimento in seno all’aristocrazia della casa regnante dove una moltitudine di principi aventi diritto si vedono esclusi dalla possibilità di ascendere al trono,  risiede principalmente, a parere di alcuni commentatori, nella complessità e pericolosità dei problemi che attualmente incombono sul Regno wahabita. Problemi e incognite che, in un momento in cui Riyadh si vede obbligata a intraprendere un nuovo corso nella propria proiezione esterna sul piano regionale, non potrebbero più tollerare che la direzione politica di un Paese dell’importanza dell’Arabia saudita, sia assicurata da leader deboli, molto anziani e dalla salute cagionevole.

In ogni caso qual è il senso politico di uno tsunami tanto inatteso quanto lacerante? Esso rappresenta il successo di una linea improntata a una maggiore durezza e intransigenza, rispetto alla precedente gestione,  nella “confrontation” col nemico mortale di Riyadh, l’Iran sciita, la cui influenza si è visibilmente accresciuta nella regione, paradossalmente come effetto dell’aggressione USA all’Iraq del 2003, fino ad allora governata dal sunnita Saddam Hussein, e di quel che si è prodotto in quel Paese durante il decennio di occupazione americana, che ha visto un’esplosione degli odi settari.

La nomenclatura al potere a Riyadh non ha mai approvato l’invasione yankee del 2003, che aveva cercato invano di scoraggiare, consapevole delle conseguenze che l’aggressione avrebbe comportato per la stabilità della regione. Essa, a giusto titolo, è stata vista in Arabia saudita come fonte dei due mali peggiori per gli interessi della casa Saud: l’espandersi dell’influenza iraniana con la nascita di un governo sciita a Bagdad e lo svilupparsi di formazioni jihadiste in Iraq, sorte nel solco della sanguinosa rivolta contro gli invasori, dalle quali è poi nato, è bene non dimenticarlo, il mostro dell’ISIL.

A tal proposito occorre ricordare come la disastrosa politica perseguita dagli USA in Iraq all’indomani del rovesciamento del regime di Saddam non ha egualmente mai tenuto conto dei suggerimenti e dei consigli profferiti della gerontocrazia saudita; in particolare per quel che atteneva alla necessità di preservare quell’apparato statale e di sicurezza che a parere dei sauditi costituiva il tramite istituzionale imprescindibile per evitare il disfacimento del Paese, successivamente prodottosi.

Tutto ciò ha sedimentato i primi germi di un incipiente distacco tra il Regno e l’alleato strategico d’oltre-Atlantico, aggravatosi con la decisione dell’Amministrazione Obama di procedere al ritiro del corpo di spedizione americano dall’Iraq, lasciando un Paese in rovina, dove si cumulano, come già detto, le minacce più gravi per la dinastia al potere a Riyadh.

Il succedersi della rivolta siriana ha tratto alimento dal dramma iracheno, gettando nel processo di rivolta contro il dittatore Bashar al Assad i semi dello scontro settario su una base storica ricettiva di tali mali. Basti pensare al massacro perpetrato nella città di Hama nel lontano 1982 da Hafez al Assad, il padre dell’attuale uomo forte,  contro migliaia di sunniti per rendersi conto come la contestazione in Siria offrisse ai sauditi un terreno propizio per riparare al disastro iracheno e colpire nel cuore gli odiati interessi iraniani.

In un processo dai tratti moltiplicativi la decisione di Obama di astenersi da un intervento militare USA contro Assad in Siria, che sembrava imminente, nonché il coinvolgimento delle milizie sciite libanesi degli Hezbollah a sostegno del regime alauita ha avvelenato la relazione tra Washington e Riyadh mentre la rivolta, in un Paese dove il cosmopolitismo religioso faceva parte della realtà quotidiana, si esasperava nelle forme e nei contenuti. Il risultato è stato che, attualmente, sono le forze jihadiste che sostengono principalmente lo sforzo bellico contro Assad. Recenti sviluppi fanno stato di una centralizzazione delle iniziative di guerra che vede sulla stessa linea Jabhad al-Nusra, formazione affiliata ad Al-Qaeda, Al Ahram al Sham ed altre milizie, unite sotto l’ombrello dell’ “Esercito dell’Islam” in uno sforzo militare in perfetta armonia con gli obiettivi sauditi: colpire l’Iran e la sua penetrazione ed influenza nel Paese.

Cos’è rimasto delle parole d’ordine udite agli inizi della rivolta siriana, facenti stato di più democrazia, più libertà, più pluralismo politico? Nulla o poco più di nulla, dato che ora la lotta contro il dittatore viene portata avanti dalla galassia delle milizie islamiste e jihadiste,  appoggiate in maniera sostanziosa dalla ritrovata unità d’intenti tra Turchia, Qatar ed Arabia saudita, mentre larghi spazi nel nord-est della Siria continuano nondimeno a patire il bieco oscurantismo del Daesh, nonostante l’ininterrotta serie di bombardamenti aerei americani, il cui risultato è stato finora di riuscire ad indebolire e non certo a sconfiggere la più feroce ed intollerante forza dell’estremismo islamico.

Unica forza dello schieramento anti-Assad, avulsa dal maelstrom jihadista, è rappresentata dalle forze curde del PYD, politicamente vicine al PKK presente in Turchia, in grado di mantenere il controllo di rilevanti spazi nel nord del Paese e in continuo conflitto armato con i terroristi dell’ISIL. Se un obiettivo è stato conseguito dalla campagna aerea USA, esso è sicuramente stato quello di evitare che lo schieramento curdo siriano finisse per essere schiacciato dall’orda jihadista. Aver impedito la caduta in mano alle milizie dell’ISIL della città simbolo di Kobane, alla frontiera turca,  ha costituito uno dei rari successi ottenuti nella guerra senza quartiere contro le gli estremisti.

Sull’onda di rigurgiti settari che sembrano pervadere l’intero scacchiere, il positivo andamento del negoziato sul programma nucleare iraniano, che lascerebbe prevedere, nonostante le persistenti divergenze, la formalizzazione entro giugno dell’accordo di principio raggiunto lo scorso 2 aprile a Losanna, e il precipitare della situazione in Yemen hanno fornito l’occasione al nuovo re ed ai suoi energici collaboratori di cavalcare la tigre bellicista, facendo dell’Arabia saudita il Paese leader nella prova di forza ingaggiata contro l’Iran, in un’operazione di “muscle-flexing”, che vede come teatro d’azione un Paese confinante, mal vista, a ragione, in Occidente e che rappresenta un mutamento di rotta, nei modi e nelle forme, della proiezione esterna della potenza sunnita, di assoluta importanza. Di questo parleremo nel prossimo paragrafo.

 

Un interventismo dagli incerti sbocchi

Abbiamo parlato in una precedente recente occasione del quadro politico generale esistente in Yemen e della complessità inerente al conseguimento di accordi tra le varie componenti della realtà nazionale dopo decenni di soprusi commessi da un regime autocratico, nel silenzio non solo della monarchia saudita e dei suoi partner regionali ma beninteso anche dell’Occidente liberale.

 

 

Qui ci preme rilevare come la campagna di bombardamenti aerei contro il più povero Paese del mondo arabo sia stata decisa in completa autonomia, informando l’alleato americano appena un’ora prima dell’inizio delle operazioni. Ciò costituisce un fattodi indubbia rilevanza e a nostro modo di vedere uno dei principali effetti dei rivolgimenti che hanno interessato il mondo arabo nel 2011. Parliamo in tal senso della riappropriazione del proprio divenire da parte di entità della regione inclini, sotto la spinta dei mutamenti intervenuti, ad affrancarsi da tutele fino ad un recente passato rassicuranti e da qualche tempo percepiti dalle nomenclature dominanti, in Egitto, in Arabia saudita e in altri regni del Golfo, come alquanto inaffidabili.

Abbiamo sopra parlato delle ragioni a base di decisioni interventiste assunte a Riyadh che hanno colpito sia per la loro brutalità sia per una scarsa considerazione delle conseguenze derivanti da scelte che potrebbero rivelarsi improvvide; se non altro sulla base di recenti fallimentari esperienze non solo di superpotenze lontane, in tutti i sensi, dalla regione ma anche di esperienze vissute e subite in ambito strettamente regionale. Emblematico in proposito appare il triste ricordo dell’intervento militare, per l’appunto in Yemen, dell’Egitto di Gamal Abdel Nasser negli anni sessanta a favore delle forze antimonarchiche conclusosi con perdite spaventose da parte dell’esercito egiziano.

La campagna di bombardamenti aerei, coniata, seguendo l’esempio americano, con l’altisonante definizione di “Decisive Storm”, oggetto di forti critiche da parte delle Nazioni Unite,  da più di un mese insanguina un Paese confinante, in preda ad una guerra civile che, a giudizio di molti osservatori, non è affatto una guerra dai tratti settari ma riveste caratteri prettamente politici.

Il dramma della guerra ora in corso in Yemen risiede a nostro giudizio proprio su questa sorta di a-simmetria: ovverossia il fatto che a una crisi derivante da contrasti radicati nella storia passata e recente di una finitima realtà, privi di ramificazioni esterne, si risponda da parte di una Potenza esterna, agitando per converso la scimitarra dello scontro settario e di Potenza, nella convinzione che dietro forze, gli Houthi, colpevoli di professare un credo religioso vicino, ma non identico, allo sciismo iraniano si celino in misura preponderante gli interessi espansionistici della aborrita Repubblica Islamica.

Un dato deve essere tenuto ben presente: gli Houthi sono arabi e yemeniti né più né meno come gli altri gruppi costellanti la composita galassia delle numerose tribù, sunnite e non, abitanti i vasti spazi di quel povero desolato Paese. Tale comunità, appartenente alla branca Zaydi dello sciismo, vanta una storia millenaria, avendo sempre vissuto in un’area del Paese prospiciente la frontiera saudita. Non possono dunque essere assimilati semplicisticamente a una sorta di quinta colonna operante in nome degli interessi iraniani; anzi quel che emerge da una ricerca, seppur non approfondita, condotta sulla loro storia recente conferma come gli Houthi abbiano sempre tenuto a preservare una loro gelosa indipendenza, sul piano politico, culturale e religioso, nei  confronti di condizionamenti esterni, da qualunque parte essi provengano. Il fatto che siano sostenuti dall’Iran e avvertano affinità e convergenze con movimenti come gli Hezbollah, con i quali del resto hanno ben poco in comune, figli di una storia profondamente diversa, non vuol dire che essi perseguano disegni in linea ed in ossequio con le ambizioni di Potenza di un Paese, come l’Iran, a sua volta in gravi difficoltà per la ghettizzazione che subisce da più di un trentennio.

In definitiva le ragioni reali a base del dramma yemenita risiedono in misura prevalente negli stessi mali che nel 2011 hanno innescato le rivolte in Tunisia e in Egitto. La mancanza di servizi sociali, la corruzione endemica diffusa a tutti i livelli, più che mai nella sfera politica, l’assenza di infrastrutture dignitosamente funzionanti ed infine lo stato di gravissima indigenza in cui versa la grande maggioranza della popolazione del più povero Paese del mondo arabo sono le vere cause del dramma yemenita e tutto il resto ha un rilievo non più che ancillare.

L’intervento saudita non pare soddisfare le aspirazioni yemenite di uscire da uno stato di arretratezza insostenibile che, ove perdurante, finirà per giovare alle temibili formazioni di Al-Qaeda presenti in quelle lande. Per qual motivo le milizie jihadiste di “Al-Qaeda in the Arabian Peninsula” (AQAP) sono da sempre considerate le più pericolose rispetto alle analoghe formazioni, in grado di esportare il terrore anche in Occidente? Lo sono non certo per la presenza in quel Paese di una minoranza Houthi professante un credo religioso non sunnita ma al contrario per le condizioni disperanti di vita di quella povera popolazione.

Occorre in proposito tenere a mente il fatto che lo Yemen è stato fin dall’inizio una delle realtà maggiormente partecipi del moto di protesta della Primavera araba al punto che, proprio grazie a tali processi, l’autocrate Abdullah Saleh, di fede Zaydi, rimasto al potere per ben 33 anni col noncurante beneplacito dell’Arabia saudita, finì per essere rimosso dal suo scanno sotto la spinta della rivolta popolare. Abdullah Saleh ora è divenuto il nemico da abbattere per i sauditi, “il vero ostacolo ad una soluzione del conflitto”, avendo egli ritenuto, senza il minimo scrupolo, di far causa comune, con atteggiamenti di sfida verso i suoi ex-protettori, cogli Houthi, peraltro vittime nei decenni di suo dominio di guerre spietate ingaggiate contro di loro, ben sei, conclusesi peraltro con risultati fallimentari per l’ex-dittatore.

Questa è la realtà, rattristante, di un Medio Oriente dove regimi fondati sugli apparati di sicurezza, finalizzati ad una spietata repressione, sono una delle reali cause a base degli sconvolgimenti che affliggono l’intera regione, accompagnati da processi degenerativi che traggono origine dalla sua storia passata, sui quali soffiano regimi corrotti e determinati a preservare sistemi di governo autocratici.

Il rischio dunque che si profila all’orizzonte è che, perdurando il ciclo di devastazioni provocate dai bombardamenti, in assenza del raggiungimento di quegli obiettivi alla base della campagna scatenata dai “Giovani Lupi” a Riyadh, il vero vincitore del catastrofico scontro in atto finisca per essere proprio Al-Qaeda verso il cui approdo non è azzardato veder confluire elementi appartenenti alle formazioni tribali dell’interno. Perché questo? Per la semplice ragione che, a lungo andare, l’iniziativa militare saudita, con le sue devastanti conseguenze, apparirebbe in misura sempre più evidente per quello che in realtà essa è: un’aggressione volta a restituire legittimità ad un leader, Mansur Hadi, alquanto impopolare nel Paese, l’ “enfant chéri” dei governi del Golfo, oggetto di critiche anche per il fatto di essere fuggito dallo Yemen per trovare un “esilio dorato” nelle sfarzose residenze della capitale saudita; nel mentre il suo popolo subisce morte e distruzione.

Si può agevolmente comprendere come tale stato di cose non possa alla lunga non giovare alle formazioni estremiste islamiche che finirebbero per essere viste come le uniche forze in grado di opporsi sia alle infiltrazioni iraniane sia alle azioni di guerra perpetrate da un Paese che “non deve avere voce in capitolo nei problemi interni di casa nostra”, riprendendo alla lettera quanto dichiarato recentemente da uno dei leader di AQAP, Khaled al Batarfi, all’indomani della sua liberazione, unitamente a qualche centinaio di altri jihadisti, dal penitenziario di Mukallah, capoluogo della provincia sud-orientale dell’Hadramout, patria ancestrale del defunto Osama bin Laden. Vi è rilevare a titolo d’informazione che la suddetta importante località è da qualche settimana sotto il diretto controllo degli estremisti sunniti.

 

 

 

Come fatto rilevare dall’autorevole organo di informazione britannico BCC, il pericolo cui l’intervento militare saudita sembra paradossalmente andare incontro sarebbe quello di allertare e rinvigorire la temuta militanza jihadista alle frontiere del Regno nel mentre Riyadh opera militarmente per arginare la penetrazione iraniana.

Questa è la ragione per cui a parere di molti osservatori il protrarsi dell’operazione “Decisive Storm” finirà in ultima analisi per giovare sia agli Houthi, ai quali non restano precluse le adesioni di elementi non professanti la loro fede, sia, elemento maggiormente gravido di pericoli, ad “al-Qaeda nella Penisola araba” (AQAP), la più temibile delle formazioni “takfiri” operanti in Asia ed in Africa. Entrambe queste forze, è bene ricordare, appartengono interamente al contesto yemenita e ciò costituisce un aspetto che alla lunga non potrà non incidere sullo sbocco finale di un’aggressione che suscita in Occidente, con l’eccezione della Francia, molto interessata alle vendite di hardware militare alle autocrazie del Golfo con le conseguenze sul piano diplomatico che questo comporta, giustificate perplessità ed un senso di mal celata inquietudine.

 

Interrogativi gravidi di incognite

I negoziati che hanno preceduto lo scoppio delle ostilità sono falliti per errori di strategia da parte dello schieramento degli Houthi e delle forze fedeli all’ex-dittatore Saleh di fronte ai mutamenti intervenuti in seno all’apparato di potere saudita. Più che di errori di strategia, preferirei parlare dell’influenza negativa esercitata da Saleh, figura priva di scrupoli e rotta a ogni malsano compromesso, sui ribelli sciiti; il che ha portato a sottovalutare la portata di quel che è repentinamente mutato nell’approccio saudita verso un quadro regionale dagli andamenti estremamente fluidi.

Aver precipitato gli eventi espandendo brutalmente la propria penetrazione militare nel cuore sunnita del Paese è stato un errore pagato a caro prezzo dalle formazioni filo-iraniane, che non poteva mancare di suscitare la militaristica reazione della nuova leadership a Riyadh diretta da un re vecchio e malato, affiancato da un numero due, Mohammed bin Nayef, noto per le sue posizioni intransigenti, in armonia del resto con quelle del suo defunto genitore, anch’egli Ministro dell’Interno, e dall’ambizioso e controverso figlio Mohammed bin Salman, Ministro della Difesa, la cui vocazione sembra essere quella di modificare significativamente l’immagine di un Paese, non più disposto ad assistere passivamente a un’evoluzione del quadro regionale ritenuta lesiva degli interessi del Regno.

A parziale giustificazione e comprensione delle irriflessive reazioni degli Houthi appare doveroso ricordare come nel 2009, anno in cui era riesplosa la ribellione del gruppo sciita contro il governo del dittatore Saleh e dei suoi sponsor sauditi, i tentativi di mediazione del conflitto portati avanti su base regionale dall’Oman e dal Qatar, erano stati sdegnosamente respinti dall’Arabia saudita, timorosa che ciò potesse significare una “diminutio” del proprio dominante ruolo nella regione. Il ricordo di ciò può aver indotto i capi Houthi a precipitare gli eventi con le tragiche conseguenze sotto i nostri occhi.

In ogni caso la campagna di bombardamenti aerei non porterà in alcun modo a una soluzione del conflitto. La speranza saudita è che essa possa costringere i ribelli ad accettare un negoziato cui a nostro parere difficilmente potranno accedere, consapevoli che sedersi attorno a un tavolo in quelle condizioni equivarrebbe né più né meno che a sottostare in larga misura al diktat di Riyadh. A questo punto una pausa “umanitaria” potrebbe essere l’unico tramite per un riannodato spiraglio negoziale e le speranze, seppur flebili, perché ciò si produca non sono del tutto compromesse.

Del resto molto rischiosa appare per i sauditi l’opzione di un’invasione di terra che comporterebbe inevitabilmente gravissime perdite, conoscendo la tradizione guerriera degli Houthi, adusi da tempo immemorabile a combattere per sopravvivere, e la natura impervia del territorio yemenita. Ciò indurrebbe altresì delle conseguenze sul piano politico interno a Riyadh, dove esse si aggiungerebbero alle tensioni già ivi esistenti, provocate da decisioni assunte dal nuovo sovrano che hanno rappresentato una sorta di “vulnus” di tradizioni e prassi da sempre rispettate in seno alla dinastia Saud; tutto ciò beninteso in assenza di aperture sul piano politico e sociale, come vedremo qui appresso.

In definitiva l’impasse yemenita, in ordine alla quale la diplomazia saudita sembra non avere una strategia molto chiara che lasci intravvedere quel che gli analisti anglosassoni chiamano “endgame”, potrebbe rivelarsi alla lunga un tunnel oscuro dal quale, perdurando esso nel tempo, diverrebbe sempre più arduo poter uscire. Le campagne aeree hanno dimostrato i loro limiti in precedenti esperienze in altre epoche e in altre latitudini. A titolo d’esempio basti pensare alla guerra in Vietnam, dove gli americani riversarono più bombe che in tutto il Secondo conflitto mondiale, conclusasi con una loro inesorabile disfatta.

Concludendo la riflessione sul tema, appare utile menzionare quanto fatto rilevare da alcuni studiosi di strategia militare secondo i quali creare un “casus belli” alle proprie frontiere non è mai stata un’idea militarmente produttiva tanto più quando si pensi che chi vive “next door” sono dei combattenti abituati alle guerre e ad ogni cimento. In questo a parere di chi scrive gli Houthi presentano delle affinità con gli afghani sia per il valore che dimostrano nei campi di battaglia sia per la natura impervia ed inospitale del territorio dove vivono e combattono. Il che potrebbe spingere qualcuno a definire lo Yemen come l’Afghanistan del mondo arabo, “il cimitero degli imperi”.

In tale non rassicurante contesto acquista un preoccupante valore la recentissima testimonianza resa dal Ministro degli esteri di Gibuti, Mahmoud Ali Youssuf. In quel minuscolo Paese, situato sull’altra sponda dello stretto di Bab el Mandeb, porta d’ingresso nel Mar Rosso, sono infatti accolti migliaia di poveri profughi yemeniti, in fuga dalla guerra in corso nello loro terra. Secondo l’autorevole interlocutore lo scenario che si preparerebbe in Yemen presenterebbe delle rimarchevoli affinità con quanto da quattro anni insanguina la Siria, dato il marchio fortemente settario impresso alle due tragiche realtà.

Queste affermazioni testimoniano il pessimismo sull’evoluzione della crisi e i pericoli, cui l’intera regione è attualmente esposta, di una conflagrazione generale dalle incidenze inimmaginabili.

 

Senso di inquietudine

Quanto sopra descritto aiuta a comprendere come l’Occidente nutra serie preoccupazioni per un conflitto del quale al momento non si vede una via d’uscita. Ciò è tanto più giustificato quando si pensi a un quadro interno al GCC non del tutto rassicurante.

Il persistente calo del prezzo del petrolio ha colpito fortemente le economie di Paesi, abituati a vivere in una sorta di eldorado, lontani dagli affanni e dalle incognite che sembrano caratterizzare il divenire di altre realtà economiche del mondo. Basti pensare al deficit complessivo registrato, a causa della flessione del valore del greggio, dall’intera area del Golfo che, secondo le previsioni degli organismi finanziari internazionali, ammonterà per il 2015 a $113 miliardi.  L’Arabia saudita dovrà inoltre fare i conti con un deficit di bilancio, impensabile fino a un tempo recente, e l’unica difesa contro le ultime tendenze del mercato energetico è data dalla mega-consistenza delle sue riserve valutarie, ben al di sopra dei 700 miliardi di dollari. Ciò ha consentito al re Salman di inaugurare il proprio mandato sia concedendo lauti bonus alla folta coorte dei dipendenti pubblici e ai membri della branca militare sia mantenendo i sussidi sul prezzo del carburante, che continuano ad attestarsi su una soglia invidiabilmente bassa, sia avviando mega iniziative nel settore delle infrastrutture (trasporti, servizi sociali ecc.) per diversi miliardi di dollari.

Il tratto inedito relativo a questa operazione è che la maggior parte dei fondi necessari saranno prelevati dalle riserve di valuta in misura molto maggiore che non dai proventi delle vendite di energia. Il che non è sfuggito all’attento sguardo dei tutori dell’ordine finanziario, in primis il Fondo monetario internazionale, i quali sono stati solerti nell’attirare l’attenzione della nomenclatura saudita sui potenziali pericoli di una tale linea di condotta. Ai ripetuti ammonimenti dell’organismo di Washington ha fatto a poca distanza di tempo eco lo stesso Ministro delle  Finanze del Regno che ha voluto, anch’egli, mettere in guardia contro i rischi di un aumento incontrollato della spesa pubblica in presenza di andamenti di mercato poco favorevoli e, quel che più colpisce, verosimilmente duraturi.

Il risultato delle decisioni assunte da Salman è stato comunque un visibile calo delle riserve di valuta che restano peraltro attestate, al pari di quelle degli altri Paesi partner, fatta eccezione per l’Oman, a una soglia rassicurante per il prossimo futuro.

Quel che in ogni caso pesa sulla “performance” dell’economia saudita non è solo la prospettiva di una ricchezza destinata a diminuire in modo irreversibile. I punti interrogativi sono altresì da ricercare nella scarsa diversificazione del sistema economico, tuttora poggiante in misura prevalente sulla funzione pubblica e poco performante nei settori trainanti dell’economia, con un comparto privato ancora poco meno che asfittico, a differenza, ad esempio, degli Emirati arabi uniti, divenuti una sorta di gigante della finanza internazionale, rendita assai promettente per il futuro dei sette emirati.

Per l’Arabia saudita molti analisti sono inclini a prevedere che, ove il quadro presente non dovesse mutare, il Paese non sarebbe più in grado, “tra vent’anni”, di esportare greggio, con le conseguenze che ciò comporterebbe sugli equilibri socio-economici e, vedremo più appresso, anche politici del Regno.

A tal proposito occorre segnalare l’esistenza all’interno di problemi sociali tutt’altro che irrilevanti. Il livello della disoccupazione giovanile, secondo le ultime statistiche disponibili, si aggirerebbe intorno al 30% e questo è un dato che fa molto pensare, per quel che potrà comportare negli anni a venire.

In effetti, è proprio dai giovani e dalle donne che partono segnali d’insofferenza verso un ordine arcaico, giudicato troppo conservatore per essere in linea con le sfide di un mondo globalizzato. Il continuare a vietare alle donne di guidare una vettura e altri aspetti castranti della quotidianità sociale saudita sono fonte di tensioni e covante malessere; tutto questo in un Paese pieno di contrasti e contraddizioni, dove sussistono ferite tuttora aperte, ove si pensi alla storia recente di una realtà unificata meno di un secolo fa “con la forza della spada” e profondamente differenziata, sul piano culturale e religioso, tra le comunità che vivono nel suo vasto spazio territoriale.

Quel che colpisce è una sorta di latente polarizzazione tra settori ultraconservatori, civili e religiosi, ispirati ai precetti di un Islam estremamente severo ed intollerante, quale scaturisce dal messaggio wahabita, dai quali partono segnali e canali di sostegno al jihadismo militante in tutto l’universo arabo, e frange modernizzanti, composte da giovani e donne ma non esclusivamente, desiderosi di aprirsi al mondo esterno e di operare un “login” con la realtà dei “social networks” e delle interazioni con gli attori del “web” globale. Tale discrasia esiste e di essa non si può non tenere conto nell’esame della realtà saudita per le conseguenze che essa in prospettiva potrebbe generare.

Ma essa non è l’unica.  Si accennava più sopra al carattere differenziato della composizione etnica e religiosa dell’Arabia saudita. L’esistenza, nelle Province orientali del Paese (“Eastern Provinces”), l’area più ricca in termini di risorse energetiche, di una cospicua minoranza sciita, circa il 10% della popolazione, costituisce da sempre una vera spina nel fianco del Regno. In quella regione, di rilevante importanza geopolitica, si sono prodotti fino a un recente passato moti di rivolta senza che le tensioni in essa covanti siano mai venute meno.

Le rivendicazioni portate avanti dal movimento di contestazione sono le solite e ricordano nei loro tratti salienti, anche se meno tragicamente impattanti, quelle sostenute dagli Houthi in Yemen: emarginazione, scarsi benefici derivanti dalla manna energetica che, a detta dei locali, va a tutto vantaggio di altri settori del Paese e non di coloro, gli abitanti, arabi e sciiti della Provincia, che avrebbero tutti i diritti di avvalersene.

L’aspetto scontato di tale “confrontation” domestica è la diversità delle tesi sostenute da chi si ribella e da chi è tenuto a reprimere. Mentre gli arabi sciiti delle “Eastern Provinces” auspicano l’emancipazione della loro regione dalle vessazioni e dalle ingiustizie di cui si ritengono vittime, la nomenclatura dominante sunnita a Riyadh vede nel sommovimento sciita interno la “longa manus” dell’eterno nemico, l’Iran, vero incubo di una casa regnante che non ha mai accettato di riconoscere un ruolo d’importanza nell’area al detestato vicino, neanche quando al potere a Teheran vigeva la dittatura dello Scià, anch’egli alleato strategico, al pari dell’Arabia saudita, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.

In definitiva quel che emerge è una realtà meno coesa di quel che un osservatore poco attento potrebbe immaginare; una realtà dove oltretutto la ricchezza dei decenni passati non è più un dato scontato, venendo essa ad aggiungersi alla serie di problemi e incognite che si stagliano all’orizzonte prossimo e lontano di un’entità di fondamentale importanza per la stabilità dell’intero scacchiere medio-orientale ed anche del mondo. Problemi e incognite che a prima vista non sembrano attirare fino ad ora l’attenzione della nuova equipe al potere. Le donne continuano a essere ghettizzate mentre la presenza della minoranza sciita nelle sfere del potere appare virtualmente inesistente.

La serie di sfide cui la monarchia wahabita si trova e si troverà confrontata nel presente e nell’immediato futuro si manifesta in un momento in cui eventi significativi si annunciano nella tormentata regione. Intendiamo riferirci alla probabilità che entro la prima metà di quest’anno un accordo tra l’Iran e i cinque membri del Consiglio di Sicurezza + la Germania (P5+1), vertente sui limiti al programma nucleare iraniano, veda la luce, suscettibile di consentire alla Repubblica islamica di uscire dal ghetto politico e diplomatico in cui si trova da più di trent’anni, dal momento del trionfo della rivoluzione khomeinista.

Tale sbocco fa vivere momenti di ansietà alle monarchie del Golfo, in misura più marcata all’Arabia saudita, agli Emirati arabi uniti e a Bahrein, dove ciascuno dei rispettivi governi è alle prese con problemi interni e spinte destabilizzanti tutt’altro che trascurabili.

Ciò costituisce un punto di profonda divergenza tra gli Stati Uniti e le controparti arabe. Mentre l’Amministrazione Obama ritiene che un accordo con l’Iran, mirato al contenimento e controllo del programma nucleare, contribuirà alla pace e alla stabilità della regione, responsabilizzando Teheran attraverso un suo positivo inserimento nelle dinamiche degli equilibri regionali e favorendo nel contempo le politiche sostenute dagli elementi moderati contro le rigidità degli ambienti oltranzisti, Riyadh, Abu Dhabi e Bahrein in particolare ritengono al contrario che il conseguente venir meno delle sanzioni, imposte dalle Nazioni Unite e dall’Occidente su un programma nucleare poco rassicurante per la comunità internazionale, consentirebbe agli iraniani di disporre di una manna finanziaria impressionante, si parla addirittura di $100 miliardi, suscettibile di alimentare i disegni destabilizzanti di Teheran finalizzati ad obiettivi egemonici, con un accrescimento delle loro interferenze negli spazi arabi.

In realtà, a nostro modo di vedere, i timori dell’Arabia saudita e dei suoi cinque alleati non sarebbero tanto legati al pericolo che l’Iran possa effettivamente disporre di un’arma atomica, come Israele tende, in malafede, ad accreditare, quanto alle conseguenze che un accordo dei P5+1 con Teheran potrà comportare nei rapporti di forza nella regione, con l’inevitabile alterazione degli equilibri geopolitici. A nostro parere questo è il vero incubo provato dalle autocrazie e in questo, strana coincidenza, le loro paure si pongono sullo stesso piano di quelle provate da Israele ovverossia il timore che situazioni di egemonia, fino ad oggi vantate, vengano ad essere minate con quel che ciò potrebbe significare anche per il quadro interno di Paesi con un basso grado di rappresentatività e tensioni latenti.

 

Nella suggestiva cornice di Camp David, dove nel lontano 1979 Egitto ed Israele stipularono il loro Trattato di Pace, il Presidente Obama ha ospitato un’importante riunione, cui peraltro solo i monarchi di Qatar e Koweit hanno preso parte parte, mentre gli altri quattro Paesi erano rappresentati dai rispettivi “deputies”. L’Arabia saudita era peraltro presente con i due “Giovani Lupi” Mohammed bin Nayef (“Crown prince”) ed il figlio del sovrano Mohammed bin Salman (“Deputy Crown prince”), figure tutt’altro che secondarie nel firmamento politico della potenza sunnita, dai quali sono partite le decisioni che hanno portato alla campagna di bombardamenti aerei contro lo Yemen, in essere da più di un mese.

Molto si è letto in riguardo dell’assenza del re Salman. A nostro parere la sua assenza conferma indubbiamente il raffreddamento intervenuto nella relazione con gli USA a causa di divergenze passate, presenti e future ma non deve essere sopravalutata in considerazione sia del momento nevralgico del Regno alle prese con un’impresa di guerra gravida d’incognite sia dello stato effettivamente cagionevole della sua salute, che non gli ha consentito a tutt’oggi di effettuare alcuna missione all’estero, sia anche perché l’occasione ha fornito agli americani di misurare la taglia di un potente interlocutore saudita fino ad ora sconosciuto: il giovane figlio del sovrano, destinato in prospettiva ad ascendere al supremo seggio del Paese, attualmente Ministro della Difesa e forse colui che più ha inciso nella decisione di attaccare lo Yemen.  Con Mohammed bin Salman ed il suo superiore, Mohammed bin Nayef che, oltre ad essere il viceré, è anche Ministro dell’Interno, Il Presidente Obama ha avuto nell’occasione possibilità d’intrattenersi a lungo sui temi caldi della rovente realtà araba: Siria, fonte di acrimoniose divergenze a causa di una riluttanza USA a colpire Baschar al Assad come i sauditi desidererebbero, Yemen, Iraq ed Iran. L’andamento dei contatti informali ha comunque permesso un franco scambio di idee nell’ambito di una relazione bilaterale, fondata essenzialmente su condivisi interessi ma valori fortemente in contrasto. Condivisi interessi anche in uno scenario così alterato? Ebbene sì, dato che l’Arabia saudita è il Paese che, avendo mantenuto gli stessi livelli di produzione di petrolio che nel passato, ha permesso al prezzo del greggio di restare a valori bassi, creando in tal modo gravi difficoltà economiche alla Russia ed all’Iran. Ecco un esempio di come sussistano ancora convergenze tra Riyadh e Washington su questioni di strategica rilevanza.

Lo scopo dichiarato del meeting della scorsa settimana è stato di rassicurare i convitati sull’irrinunciabile (“ironclad”) impegno USA a non venire meno, nonostante il probabile, ma non scontato, accordo con Teheran, alle garanzie di sicurezza a favore delle autocrazie in questione. A tal fine si sono previsti nuovi strumenti perché tali garanzie poggino su un assetto concreto e rassicurante, in grado di attivare un sistema articolato di difesa (“region-wide defence system”) nell’eventualità di sviluppi che attentino alla sicurezza dei sei Stati interessati. La ragione di ciò è legata al fatto che gli Stati Uniti non potrebbero in ogni caso permettersi di assistere a un allontanamento dei sei Stati dalla loro orbita. Questo è evidente e tenuto ben presente a Washington, dove si è consapevoli dei pericoli che una tale involuzione potrebbe comportare.

Ma se questo è vero è anche vero che gli USA non hanno ritenuto di accedere alle richieste arabe di una formalizzazione vincolante di tali garanzie attraverso trattati o intese sottoscritte, sull’esempio di quel che gli Stati Uniti vantano in ambito NATO  con i Paesi occidentali e con il Giappone e la Corea del Sud in Asia. La ragione addotta dagli americani è che tale processo richiederebbe “tempi molto lunghi”, argomentazione verosimile, ma che non tiene conto di altri aspetti, quali in primis la riluttanza americana a legarsi le mani e vedersi coinvolti in una guerra, meno che mai terrestre, probabilmente settaria, nella regione.

Secondo quanto contenuto nel comunicato finale redatto al termine dei lavori, è emersa la possibilità di accordi che rafforzino le capacità di difesa del GCC attraverso una accresciuta cooperazione nei  campi della “cybersecurity”, della sicurezza marittima e delle iniziative di lotta al terrorismo, oltre che nei sistemi di difesa antimissile. Sarebbero state inoltre previste esercitazioni militari congiunte nonché  l’approntamento di  condivisi sistemi di intelligence.

A tal riguardo il successo dell’operazione delle forze speciali USA che ha portato pochi giorni fa all’eliminazione fisica del famigerato “emiro del petrolio”, Abu Sayyaf, figura non appartenente tuttavia alla leadership dell’ISIL, nel nord-est della Siria, oltre che costituire un positivo risultato sotto il profilo dell’intelligence nella lotta contro i terroristi, sarà verosimilmente apparso in buona luce agli occhi delle nomenclature arabe, uscite alquanto deluse dai colloqui con la controparte americana. L’intervento, questa volta di terra, pur essendo un’operazione puntuale e mirata, rappresenta nondimeno la prova dell’intendimento statunitense di colpire i jihadisti, ovunque essi si trovino, in maniere suscettibili di accrescere la loro vulnerabilità, in un momento in cui la loro forza espansiva non accenna a diminuire.

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Tornando alla riunione di Camp David, non si può comunque non convenire che il terreno d’intesa concordato appare alquanto distante dalle richieste arabe di disporre di armamenti equivalenti a quelli forniti ad Israele. Il rifiuto americano in tale settore è stato inequivocabile. Washington non ha ritenuto di vendere ulteriore sofisticato materiale militare a Paesi, come l’Arabia saudita, dove le spese per armamenti sono, secondo quanto riferito dall’autorevole “Stockholm International Peace Research Institute” (SIPRI), tra le più alte nel pianeta, le quarte al mondo per esattezza. Vi è da notare in proposito che il bilancio militare saudita ha infatti registrato lo scorso anno una spesa di $80 miliardi, sei volte superiore a quella iraniana: il che spiega la riluttanza USA ad accedere a richieste che alimenterebbero la corsa agli armamenti nella regione e lederebbero la superiorità della deterrenza militare israeliana nell’area, sulla quale peraltro il Congresso degli Stati Uniti sorveglia con indefesso scrupolo.

Il linguaggio rilevabile nel testo del documento finale appare piuttosto eloquente. Ivi si parla di “potenziale uso della forza” e di una “promessa di approntare una serie concreta di misure” per far fronte alle minacce incombenti sulle autocratiche monarchie. Perfino il concretizzarsi delle suddette minacce non comporterebbe un automatico intervento militare statunitense a difesa del GCC ma solamente una valutazione dell’azione “appropriata” da porre in essere a favore dei sei Paesi del Golfo.

A nostro parere la finalità del meeting di Camp David è stata soprattutto di garantire il mantenimento di una relazione tra le due parti in confronto, scossa da qualche tempo da diffidenze e incomprensioni; una relazione peraltro diversamente vissuta all’interno del GCC dove sussistono divergenti vedute sul modo migliore di far fronte alle incognite che si presentano in un’area sconvolta da eventi inimmaginabili fino ad un tempo recente.

A tal proposito la stessa composizione delle delegazioni partecipanti all’evento, con la sola presenza dei due monarchi di Qatar e Koweit, ha fornito lumi interessanti sul rilievo, apparentemente discostante, annesso dai sei Governi alle sfide del momento e alle conseguenze da esse derivanti sui rapporti con gli Stati Uniti.

In ogni caso l’evoluzione del quadro descritto risentirà in maniera rilevante dell’esito definitivo del negoziato tra i P5+1 e l’Iran previsto per la fine di giugno, una scadenza che interviene in un momento di altissima tensione in tutta l’area medio-orientale, dove l’aggravarsi della minaccia jihadista dell’ISIL in Siria e, più pericolosamente, in Iraq potrebbe compromettere il successo finale della delicatissima trattativa.

 

Conclusioni

Giungendo al termine della nostra riflessione, alcune considerazioni di ordine generale attinenti alle forze profonde che scuotono l’area s’impongono.

A tal riguardo ho trovato interessanti alcune costatazioni formulate da un autorevole ricercatore israeliano Shmuel Bar, che presta la sua apprezzata attività di analisi presso l’Institute of Technology di Tel Aviv, in merito agli effetti che a suo parere scaturiranno dagli sconvolgimenti che hanno luogo nella regione. Secondo Bar le forze che attualmente agitano il Medio Oriente non sono fenomeni contingenti e transeunti. Al contrario esse sono linee di tendenza chiaramente irreversibili, poiché sono legate alla crisi o, per meglio dire, all’implosione dello Stato-nazione nell’universo arabo-islamico.

Questa tesi sembra attendibile, poiché a mio modo di vedere contiene elementi che occorre tener ben presenti nella valutazione del presente caos. In effetti, l’apprezzato ricercatore ha perfettamente ragione, reiterando quanto sostenuto da un altro attento analista della scena medio-orientale, il libanese Rami Khouri, nel ricordare che lo Stato-nazione è una creazione imposta dai colonizzatori europei, piombati sulla regione come falchi predatori nel momento in cui l’Impero ottomano era in una fase di agonia avanzata.

Che tipo di Stato gli europei hanno imposto nella regione? Hanno tenuto conto delle particolarità e della cultura delle comunità ivi abitanti o al contrario hanno arbitrariamente creato apparati, istituzioni, sistemi legislativi, demarcazioni, approntando in tal modo il terreno per uno scenario contraddistinto dalle sofferenze dei popoli e dal maturare di tensioni e di violenza che, al presente, rileva Bar, sembrano irrefrenabili?

Questo appare essere, anche a nostro modo di vedere, il fondo della questione. L’apparato statale, così com’è stato imposto dai colonizzatori nella loro logica di dominio, non regge più alle sfide dei tempi. Perché? Essenzialmente perché esso ha sempre funzionato prevalentemente come apparato di sicurezza e di repressione, asservito agli interessi di élite, perlopiù militari, compiacenti con interferenze esterne ed estranei al substrato delle realtà nazionali. Le strutture così poste in essere  non  sono mai apparse in grado di fornire tutele e protezioni ai propri sudditi, delle cui aspirazioni si è tenuto minimamente conto. L’uso del termine “sudditi” non è casuale perché nella fattispecie di sudditi si tratta e non di cittadini nella pienezza dei loro diritti.

E’ su questo contesto artificiale e non rispondente alle realtà ed agli autentici interessi delle collettività dominate  che è esplosa la Primavera araba, emanazione del senso di sofferenza e di insopprimibile rivolta delle comunità arabe contro un ordine fondato sull’oppressione e sul disconoscimento di esigenze basate sul rispetto dei diritti e sul desiderio di partecipare e di contribuire, come “cittadini”, allo sviluppo delle entità di appartenenza.

Tornando a Bar, egli, a nostro modo di vedere, ha egualmente ragione quando sostiene che nel vuoto creatosi per l’implosione di assetti asfittici e soffocanti si è  reinserito come forza calamitante tutto ciò che per troppo tempo era rimasto tenuto fuori perché ignorato e colpevolmente sottovalutato: si tratta di quello che lo studioso israeliano chiama un “primordial frame of reference” (quadro di riferimento ancestrale), ovverossia il senso di appartenenza a gruppi etnici o a collettività fondate su condivisi assetti culturali e religiosi, tutto quel sistema insomma che si può collegare all’insieme dei valori identitari.

Un aspetto merita di essere sottolineato. Tale riedizione di sistemi radicati nell’humus della società avviene sulla base di pulsioni emananti dal profondo delle comunità protese alla ricerca di punti di riferimento e di appoggio reali, autentici, condivisi, i soli in grado di assicurare quella protezione e quelle tutele non reperibili al livello dello Stato-nazione, struttura artificiale, portatrice di barriere, impedimenti e condizionamenti non riconosciuti dalle società arabe.

Ergo è il senso d’identità che riemerge e s’impone nei confronti di nomenclature accusate a giusto titolo di aver dato vita ad una “governance” non rappresentativa degli interessi esistenti al livello della base sociale.

Questo è un aspetto di primordiale importanza, analizzato spesso da commentatori arabi e meno considerato e valutato nel suo giusto rilievo dai loro omologhi occidentali.

 

L’analista israeliano non manca ovviamente di attirare l’attenzione su altri aspetti imprescindibili per una comprensione del dramma che vive la regione. Egli attira l’attenzione sulla persistente implacabile contrapposizione esistente tra gli arabi sunniti e l’Iran sciita, contrapposizione la cui causa egli giustamente individua nel carattere “supremacist” (egemonico) della dottrina wahabita, nata e diffusasi con la pretesa di essere l’unico messaggio autenticamente islamico e monoteista, restauratore di quel sistema di vita e di quei valori che, secondo gli adepti salafiti ma non secondo quanto sostenuto dalla composita maggioranza dei mussulmani, sarebbero esistiti al tempo del Profeta.

L’intolleranza e il “riduzionismo” conservatore del credo sposato dalla dinastia Saud, al potere da poco meno di un secolo in Arabia saudita, che vedono nella democrazia e nel pluralismo politico un’evoluzione da combattere, sono parte fondante del salafismo nella sua versione estrema. Il che si traduce, a proposito del rapporto con l’Iran e con tutti coloro professanti la fede dominante in quel grande Paese, in una contrapposizione implacabile, ogni volta che l’Iran e i suoi alleati, politici o religiosi, paiono risorgere dalle ceneri  dell’emarginazione e della subordinazione per assurgere ad un ruolo di rilevanza nella regione di cui, anch’essi, fanno parte.

L’espandersi della presenza iraniana in Iraq, a causa del fallimentare intervento americano del 2003, in Siria, a causa dei contorni settari assunti dalla rivolta anti-Assad, in Libano, a causa dell’inevitabile “spillover” nel Paese dei cedri della tragedia siriana, in Yemen, a causa di una guerra civile portata avanti da una minoranza di fede vicina allo sciismo iraniano, e infine, last but not least, la prospettiva di un accordo con Teheran sostenuto da un’Amministrazione Obama ostentante un più distaccato interesse verso l’area medio-orientale e determinata a favorire nuovi equilibri nella regione, ritenuti ben auspicanti in termini di pace e stabilità,, sono le cause di quel che è avvenuto nello scacchiere a partire dal giugno dello scorso anno. L’esplosione della retorica settaria ora imperversa nella patria del Profeta, dove l’establishment religioso incita una nomenclatura politica, verso la quale peraltro talvolta manifesta un disaccordo carico di astio, a ingaggiare una prova di forza contro gli apostati e gli infedeli, che si tratti di sciiti o alauiti, definiti come dei “topi di fogna” (“rats”), mentre il “soggiogamento” dovrà essere riservato a quelle comunità estranee all’islam, come i cristiani, gli ebrei e gli adepti di credenze tradizionali.

In effetti, è come se l’universo sunnita, sotto l’impulso emanante dal Paese sede delle due città sante di Mecca e Medina, avesse improvvisamente realizzato in tutta la sua impattante dimensione i pericoli annidati in una evoluzione, vista sulle sponde arabe del Golfo Persico come “una minaccia esistenziale”.

Da qui la nascita, nei territori bagnati dal Tigri e dall’Eufrate, del Califfato che viene a costituire la figura politica paradigmatica di come nella “Dimora dell’Islam” non vi è posto né spazio per gli apostati o i miscredenti. Il Califfato rappresenta la Ummah, la comunità dei fedeli, ovunque essi vivano, ed esso deve essere l’unico punto di riferimento religioso e politico per i mussulmani, al di là e al di sopra di confini o barriere territoriali.

Lo Stato islamico in Iraq e nel Levante (ISIL) ha fatto registrare un salto di qualità impressionante nella lotta senza quartiere che la jihad islamica, nelle sue espressioni più estremiste e liberticide, porta avanti da anni in Medio Oriente in maniera devastante, sicuramente più letale dal momento dell’occupazione USA dell’Iraq, contro coloro indegni di far parte della “Dimora dell’Islam”.

Come già segnalato l’ISIL beneficia e continuerà a beneficiare del sostegno delle numerose e ricche cellule salafite presenti soprattutto nella penisola arabica, poiché esso rappresenta per cospicui settori delle società del Golfo il vero volto e la vera interpretazione del messaggio puritano ed intollerante che il fanatico monaco Abd al-Wahab aveva tentato d’imporre più di due secoli fa nella penisola arabica.

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Concludendo ed alla luce di quanto sopra esposto sugli aspetti essenziali a base del presente irrefrenabile disordine imperversante nella regione, una domanda ci si deve porre: esiste la possibilità, come si chiede Shmuel Bar, che “il disordine rientri nell’ordine?”

La risposta dello studioso è poco rassicurante: a suo parere, ed anche a quello di chi scrive queste note, l’andamento “cataclismatico” ha assunto ormai i tratti dell’irreversibilità. Ragione per cui Israele e l’Occidente dovranno prepararsi e rassegnarsi a sottostare alle conseguenze di un’ “age of chaos”, quella nella quale siamo ora entrati,  “almeno per una diecina di anni”,  dato che, per il momento, non si scorge alcuna forza, militare o politica, in grado di sovrastare le spinte dirompenti in essere nello spazio arabo-islamico.

La compressione di cui la regione ha patito da circa un secolo è esplosa. Prepariamoci ad assistere a sviluppi che fino a un tempo recente non avremmo mai immaginato potessero alterare equilibri che, noi occidentali, erroneamente, consideravamo radicati e consolidati in realtà verso le quali abbiamo troppo spesso ostentato un assurdo senso di superiorità, mai disgiunto da una scarsa e superficiale conoscenza di quel mondo.