Marwan Barghouti, la storia, il processo

Marwan Barghouti è una figura di spicco nel panorama della dirigenza palestinese. Parlamentare del Consiglio legislativo, segretario generale di Al Fatah in Cisgiordania, numero due per popolarità subito dopo il carismatico Yasser Arafat. E’ una delle voci più autorevoli, amate e ascoltate dalla popolazione, compresa quella sua parte più vicina ad Hamas, nonostante abbia condannato e combattuto gli attacchi contro civili entro i confini di Israele e nonostante sia l’unico leader ad aver espresso dolore di fronte alla morte di civili israeliani.

Nato in un villaggio vicino Ramallah il 6 giugno 1959, appartiene ad una famiglia fra le più influenti e conosciute dell’area. A otto anni, dopo la guerra del 1967, conosce la durezza dell’occupazione israeliana. A soli 15 anni si iscrive ad al Fatah, in uno dei momenti più difficili per questa organizzazione, dopo il Settembre Nero del re giordano Hussein che fa oltre diecimila vittime fra i rifugiati palestinesi. Viene arrestato una prima volta per aver partecipato ad una manifestazione contro l’occupazione e allontanato dalla scuola secondaria che frequentava. Pochi anni dopo, a causa del suo attivismo, viene nuovamente arrestato e detenuto per quasi 5 anni nelle prigioni di Israele.

E’ più volte arrestato e rilasciato. Ciò nonostante si laurea in Storia e Scienze politiche, consegue un master in Relazioni internazionali, impara l’ebraico in prigione, l’inglese ed il francese. Dopo la cacciata dell’Olp da Beirut fa da ufficiale di collegamento fra la dirigenza palestinese esiliata a Tunisi e quella che vive ad Amman. Diventa stretto collaboratore di Abu Jihad, fondatore con Arafat di al Fatah e secondo molti la mente della prima intifada, cioè della decisione dell’Olp di chiudere con la stagione degli attentati spettacolari e dei dirottamenti per radicare sul territorio una lotta popolare contro l’occupazione. E’ esiliato in Giordania dal 1987 al 1994. Durante il V Congresso di Fatah del 1989 è il più giovane eletto nel Consiglio rivoluzionario.

Nella sua storia di combattente per la libertà e l’autodeterminazione del popolo palestinese ha dimostrato disponibilità al dialogo e grandi capacità di mediazione, partecipando ai negoziati e, pur riconoscendone i limiti, difendendo gli accordi di Oslo dalla critica e dall’ostilità delle fazioni più radicali, ma anche grande fermezza nel denunciare le gravi inadempienze israeliane all’origine del fallimento di quel processo di pace. Barghouti ha sempre creduto ostinatamente nella possibilità di convivenza fra i due popoli sulla base di una pace equa. Rientrato dall’esilio nel 1994, grazie al suo ruolo di punta nelle trattative, alla fine degli anni ’90 il parlamentare palestinese partecipa a numerose manifestazioni per la pace, nella vana speranza di rilanciare i negoziati con Israele, ma lo stato ebraico dopo l’assassinio di Rabin ha sempre più decisamente voltato le spalle al negoziato.

Nel 2000, preso atto dell’irrigidimento israeliano e della chiusura definitiva di ogni spazio di mediazione, sancita dalla provocatoria passeggiata di Sharon alla spianata delle Moschee, Barghouti interpreta il volere della maggioranza dei palestinesi radicalizzatosi dopo le ennesime promesse mancate e si fa promotore e leader della seconda intifada e della ripresa della lotta popolare e armata contro l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza (allora ancora sotto occupazione).

E’ il caso di ricordare a coloro che per convenienza o ignoranza giudicano la resistenza armata all’occupante straniero alla stregua del terrorismo che la Carta costitutiva delle Nazioni Unite e il diritto internazionale legittimano la lotta armata contro “la dominazione coloniale, i regimi razzisti e l’occupazione straniera” e la considerano equiparabile al conflitto armato internazionale, a prescindere dal fatto che il movimento di resistenza sia in grado di controllare parti del territorio e condurre operazioni militari prolungate.

“Infattii conflitti armati tra movimenti di liberazione nazionale e Stati coloniali, razzisti o che esercitano un’occupazione straniera, sono da considerare ipsoiure conflitti armati internazionali secondo il I Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1949, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, adottato a Ginevra l’8 giugno 1977. L’art. 1 par. 4 includerà i conflitti internazionali i conflitti nei quali i popoli esercitano il loro diritto di disporre di sé stessi, consacrato nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione relativa ai principi di diritto internazionale concernentile relazioni amichevoli e la cooperazione fra gli Stati in conformità alla Carta delle Nazioni”1

Intervistato dal Washington Post pochi mesi prima del suo arresto così Barghouti spiegava la propria posizione: “Mentre io, e il movimento di al Fatah di cui faccio parte, ci opponiamo fortemente agli attacchi contro civili all’interno di Israele, il nostro futuro vicino, mi riservo il diritto di proteggere me stesso e di resistere all’occupazione israeliana del mio Paese e di lottare per la mia libertà. Non sono un terrorista, ma nemmeno sono un pacifista. (...) Se si costringono i Palestinesi a negoziare sotto occupazione, Israele deve aspettarsi di negoziare mentre i Palestinesi resistono all’occupazione (...) Non voglio la distruzione di Israele ma solo mettere fine alla sua occupazione del mio Paese”2.Barghouti si oppone agli attacchi contro civili in Israele ma li legittima contro i coloni in quanto soggetti attivi e principali dell’occupazione armata.

La sua coerenza e le sue denunce contro la diffusa corruzione all’interno dei ranghi di Fatah e della neonata Autorità Palestinese, i suoi appelli all’unità contro chi lavora a indebolire i palestinesi attraverso la loro divisione, gli valgono il rispetto anche della dirigenza di Hamas e fanno di lui la figura capace di unire le tante anime della resistenza palestinese.

Per ben due volte, nell’agosto 2001 ed ai primi di aprile del 2002, i servizi israeliani cercano di eliminare questo scomodo leader che ha goduto di alcune simpatie nella stessa Israele e presso alcune cancellerie estere. Infine, il 15 aprile di quell’anno un commando israeliano travestito da personale sanitario riesce a catturarlo nei pressi di Ramallah, nella zona A che stando agli accordi di Oslo è a giurisdizione palestinese, e lo porta in Israele dove durante gli interrogatori dei primi 3 mesi di detenzione viene sottoposto alla privazione del sonno ed alla tortura dello shabeh, che consiste nel costringere il prigioniero per molte ore seduto in una posizione scomoda e dolorosa.

Dal 1999 a capo di Israele c’è il falco Ariel Sharon, l’uomo di Sabra e Chatila, che poco prima di essere eletto fa un’aperta dichiarazione di guerra ai palestinesi: “ E’ dovere dei dirigenti d’Israele spiegare all’opinione pubblica, chiaramentee coraggiosamente, un certo numero di fatti che col tempo sono stati dimenticati. Il primo di questi è che non c’è sionismo, colonizzazione, o Stato Ebraico senza lo sradicamento degli arabi e l’espropriazione delle loro terre”3.

Di lì a due anni Sharon riuscirà nell’intento di decapitare la leadership palestinese laica moderata ai suoi massimi livelli. Barghouti, accreditato in tutti i sondaggi come successore di Arafat, sarà sotterrato con una condanna a cinque ergastoli più 40 anni di prigione mentre ci penserà un misterioso avvelenamento da polonio a stroncare la vita a Yasser Arafat. Israele non se la sentiva di arrestare e processare un premio Nobel per la pace e neppure farlo oggetto di un omicidio mirato con firma israeliana, come aveva fatto per decine di dirigenti palestinesi, laici e religiosi.

Che la condanna di Barghouti fosse già scritta lo dimostrano senza bisogno di tante parole i due precedenti tentativi di assassinarlo e che lo svolgimento del processo avesse poco da spartire con i più elementari principi del giusto processo lo dimostra già soltanto la conferenza stampa tenuta nei locali del tribunale dal Primo ministro Sharon, che a margine della prima udienza, in barba ad ogni presunzione di innocenza e civiltà giuridica, prometteva alla popolazione di Israele una condanna esemplare del “terrorista” palestinese catturato.

Il reale obiettivo di criminalizzare l’intero popolo palestinese, negandogli il diritto di resistere all’occupazione, si rivela dalle parole dell’accusa che inscrive non solo le fazioni più estremiste ma anche tutta la moderata e fin acquiescente al Fatah insieme al suo leader Arafat, protagonista di Oslo, fra le organizzazioni terroristiche. «L’imputato è subordinato a Yasser Arafat che è il capo delle organizzazioni terroristiche» tuona in aula il Procuratore generale. Sulla base di queste affermazioni rincara il ministro della Giustizia Lapid che promette di «mettere Arafat sotto processo, uno di questi giorni».

Gisèle Halimi, principe del foro francese, la donna che ha mostrato ai francesi gli orrori della guerra d’Algeria, non ha dubbi: «Si è trattato di un processo farsa». Perché? «Su 128 testimoni, 96 erano israeliani. Le deposizioni palestinesi sono state estorte con la forza, e in aula i testimoni hanno ritrattato. Così il processo si è ritorto contro chi l'ha voluto. Ha offerto a Barghouti un podio per rivolgersi anche a Israele, dove ha molti sostenitori. E gli ha regalato i tratti di un Mandela mediorientale4.

E’ stato rilevato come la cattura di Barghouti da parte della sicurezza israeliana sia doppiamente illegale. Anzitutto alla luce del diritto internazionale, che con l'art. 49 della IV Convenzione di Ginevra proibisce i trasferimenti forzati collettivi o individuali dal territorio occupato in quello della Potenza occupante. Il testo francese di tale disposizione proibisce espressamente "les transferts forcés en masse ou individuels, ainsi que la déportation de personnes protégées hors du territoire occupé dans le territoire de la Puissance occupante ou dans celui de tout autre Etat, occupé ou non, quel qu'en soit le motif". E in secondo luogo alla luce degli accordi di Oslo che, come già detto, prevedono il riconoscimento da parte di Israele della giurisdizione dell'Autorità palestinese sui suoi territori, la zona A all’interno della quale Barghouti è stato catturato, anche nel caso di reati che si assumono commessi contro Israele, salva la necessaria collaborazione investigativa.

I reati che gli vengono contestati sono quelli di "murder, aiding and abetting murder, promoting murder,  attempted  murder,  criminal  conspiracy,  and  being  an  active  member of  a  terrorist organization", per atti commessi a partire dal settembre 2000, data di inizio della seconda intifada. L'accusa formulata dal Procuratore dello Stato il 14 agosto 2002, per meglio dire il teorema accusatorio, si reggeva sostanzialmente sulle testimonianze di altri “terroristi” precedentemente catturati, che ritratteranno in aula, sollevando il legittimo sospetto che le loro accuse fossero state estorte con la tortura, e su alcuni documenti contabili rinvenuti nell’ufficio pubblico del deputato palestinese dai quali risulterebbero movimenti di denaro con a lato una improbabile descrizione della loro destinazione all’acquisto di armi e esplosivi da usare per attentati.

Barghouti e la sua difesa non riconosceranno l’autorità e la legittimità del tribunale israeliano, un tribunale della potenza occupante che pretende di giudicare un leader politico della resistenza all’occupazione. Il 20 maggio 2004 arriva puntuale la condanna annunciata ma che nessuno si aspettava così iperbolica e surreale da suonare farsesca.

Sulla sentenza si pronuncia subito il Coordinamento nazionale Giuristi Democratici, che aveva seguito tutto l’iter processuale inviando anche suoi rappresentanti ad assistere alle sedute: “Il Coordinamento nazionale dei giuristi democratici esprime la propria disapprovazione e il proprio sdegno per la decisione del tribunale israeliano di condannare il leader palestinese Marwan Barghouti, sulla base di prove inesistenti, come corresponsabile di alcuni atti di terrorismo. Si è trattato in realtà di un giudizio politico fino in fondo che reca grave danno alla reputazione del sistema giudiziario israeliano. Chiediamo con forza l'immediata liberazione di Marwan Barghouti, leader che, per la sua capacità e il suo radicamento popolare può dare un decisivo contributo alla causa della pace in Medio Oriente”5.(Roma, 21 maggio 2004)

Ben pochi possono obiettare che non si sia trattato di un processo politico da manuale, di una messinscena ad uso mediatico allo scopo di levare di mezzo un avversario pericoloso dello statu quo, che Israele intendeva mantenere per incrementare gli insediamenti colonici, in Cisgiordania e Gerusalemme Est, senza suscitare contraccolpi internazionali. Oltre l’analisi tecnico giuridica degli atti e della procedura è il semplice buon senso ed una minima conoscenza della storia a suggerirci che Marwan Barghouti è tipicamente un prigioniero di guerra e non un criminale comune, come Israele ha voluto maldestramente far credere, e che la condanna è quindi politica.

Sergio Romano, giornalista, saggista ed ex ambasciatore, che si definisce politicamente un conservatore, si esprime così sulla questione dei palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane: “Finchési combatte, A considera i combattenti di B come criminali e li uccide o li condanna a lunghe pene detentive. Quando la guerra finisce, A libera quelli detenuti nelle sue carceri e riconosce così, a posteriori, che erano prigionieri di guerra. E’ accaduto in quasi tutte le guerre asimmetriche del Novecentoe accadrà, sperabilmente, anche in quella fra Israele e i palestinesi”6.

 


 

1 - Sergio Marchisio Corsodi diritto internazionale, Editore GIAPPICHELLI, Torino , 2014, p.245

2 - Washington Post , Want security? End the occupation, 15/01/2002

3 - AgenziaFrancePress, 15 novembre 1998

4 - Repubblica, Barghouticondannatocinque ergastoli,7 giugno 2002

5 - http://www.giuristidemocratici.it/post/20030308174609/post_html

6 - CorrieredellaSera, 9 novembre 2011