Una crisi poco conosciuta dai preoccupanti risvolti

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Premessa

Lo Yemen, realtà affascinante dalle evocazioni bibliche, si trova da tempo coinvolto in una gravissima crisi dove le drammatiche condizioni di vita della popolazione e i conseguenti devastanti effetti sul piano politico e sociale si intrecciano con conflitti di ordine settario dai risvolti molto inquietanti sui precari equilibri prevalenti sul piano regionale.

In effetti, stiamo parlando del Paese più povero del mondo arabo, privo di quelle risorse e infrastrutture di cui abbondantemente dispongono le entità della Penisola arabica. Non solo. Ma se aggiungiamo a ciò gli effetti deleteri di trenta tre anni di autocratica dittatura di Ali Abdullah Saleh, contrassegnata da un’endemica corruzione, nepotismo, contrapposizioni tribali con il loro seguito di sangue e violenza, la presenza della più forte branca di Al-Qaeda nell’universo islamico e, last but not least, daun movimento di secessione nel sud mai spentosi, si può avere un’idea del mix esplosivo che contraddistingue la storia recente dell’entità yemenita.

Lo Yemen, popolato da circa 24 milioni di abitanti, riveste un’indiscutibile rilevanza sul piano strategico; esso infatti è collocato sulla nevralgica rotta marittima che dal Canale di Suez conduce al Golfo Persico, porta di accesso al mar Rosso e luogo di passaggio dalla Penisola arabica in direzione del finitimo turbolento Corno d’Africa.

In definitiva siamo di fronte ad un disfacimento politico generale dagli sbocchi difficili da prevedere in un ambito nazionale dove più del 50% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, dove ogni uomo che si rispetti è armato e dove l’autorità delle istituzioni è pressoché inesistente, data l’estrema debolezza e latitanza del sistema di governance. Ciò spiega in larga misura la capacità dei “non-state actors” di incidere pesantemente e impunemente sul quadro politico interno.

Al momento due sono le forze dalle quali vi è da temere il massimo di timori per la disintegrazione dell’entità yemenita. In primis occorre menzionare il gruppo tribale degli Huthi, appartenente ad una branca dell’Islam sciita, ben armati e addestrati, da tempi immemorabili presenti nelle regioni settentrionali del Paese, pericolosamente contigue alla permeabile frontiera saudita. La consistenza di tale forza, supportata dall’Iran, che li definisce Ansarullah (“militanti di Dio”), è tutt’altro che trascurabile, più di 100.000 combattenti, mossi dalla ferma determinazione di scardinare un assetto istituzionale che non si è rivelato mai in grado di porre concretamente mano agli endemici mali del Paese. Gli Huthi sono al momento la componente più temibile del mosaico di forze contrapposte. Sono riusciti ad imporre la propria volontà al Presidente Mansour Hadi, assurto alla carica suprema nel febbraio 2012  grazie soprattutto al determinante interessato sostegno delle autocrazie del Golfo.

Mansour Hadi si è visto costretto, unitamente agli altri membri della formazione di governo, a rassegnare le dimissioni; ciò probabilmente nel tentativo, tutt’altro che maldestro, di mettere in difficoltà gli Huthi, esposti in misura crescente ad una protesta veemente da parte della maggioranza sunnita del Paese nei vari agglomerati del Paese.

Il nemico mortale degli Huthi è rappresentato dallo schieramento estremista sunnita dell’AQAP (“Al-Qaeda in the Arabian Peninsula”), il più forte e organizzato movimento nella galassia jihadista in Asia e in Africa, circa un migliaio di combattenti, che tengono attualmente sotto controllo gli spazi centrali del Paese, dove sono reperibili i non rilevanti campi di gas e petrolio dello Yemen; non rilevanti se si pensa che i giacimenti yemeniti di petrolio sono in grado di fornire non più di 162.000 barili al giorno (valore poco meno che trascurabile ove comparato alle grandezze in essere nei sei Paesi del GCC).

 

Azione di forza Huthi

L’incapacità del Presidente Hadi di assicurare, a parere dei militanti sciiti, un governo effettivo del Paese ha indotto queste forze, guidate dal carismatico Abdel Malik al-Huthi, a rompere ogni indugio, procedendo al sequestro del Capo di Stato Maggiore, successivamente liberato, alla messa in fuga del Primo Ministro ed all’occupazione di basi militari, mentre il Parlamento ed il Palazzo presidenziale venivano posti sotto la minacciosa sorveglianza di unità armate, pronte a tutto pur di impedire qualsiasi atto giudicato in discrasia con lo squilibrio nei rapporti di forza venutisi a creare.

A parere di alcuni analisti l’intento degli Huthi sarebbe di acquisire in maniera irreversibile un ruolo dominante nel Paese, senza necessariamente ambire a conquistare l’intero spazio nazionale, dove, a prescindere dalla maggioranza sunnita, coesistono, in un equilibrio cronicamente precario, schieramenti su base tribale perennemente contrapposti, che renderebbero un’occupazione, estesa a tutto il territorio, un compito troppo arduo per le milizie sciite.

A nostro modo di vedere il principale “trigger” che ha scatenato l’atto di forza è stato la debolezza del potere politico a Sanaa, incapace a fronteggiare nella maniera adeguata la minaccia degli jihadisti di Al-Qaeda, attualmente presenti nella regione più ricca di petrolio, in particolare la zona abitata in un passato risalente a migliaia di anni dal mitico regno di Saba.

A tal proposito il progetto di costituzione del Presidente Hadi di suddividere lo Yemen in sei province ha suscitato la ferma opposizione delle milizie sciite, per le quali una divisione tra Nord e Sud risponderebbe meglio al loro obiettivo di consolidare la loro posizione nell’area centro-settentrionale comprensiva della capitale Sanaa.

In effetti, gli Huthi sono i primi a rendersi conto dell’impossibilità per il loro movimento di un controllo dell’intero Paese dove, particolarmente nelle regioni meridionali, l’irredentismo sunnita è dominante, in grado di scatenare una guerra settaria contro gli apostati sciiti; senza trascurare i problemi posti dall’irredentismo secessionista del “Southern Movement” che si batte per l’indipendenza di Aden, persa nel 1990 dopo ventitre anni e che da qualche tempo ha rialzato decisamente la testa, galvanizzata dal vuoto di potere politico ed istituzionale, al punto di esternare apertamente il proprio rifiuto a sottostare alle parole d’ordine emananti dalla capitale Sanaa.

La situazione rimane estremamente tesa in un quadro caratterizzato da una grande fluidità dagli esiti imprevedibili, dove le dimissioni del Presidente Hadi ed un Parlamento incapace di esprimere una reale volontà politica in presenza del condizionamento armato imposto dagli Huthi hanno creato una situazione fonte di inquietudine per molti attori interessati, all’interno ed all’esterno del subsistema regionale.

Ulteriore complicazione è rappresentata dall’ambiguo atteggiamento dell’ex-uomo forte Ali Abdullah Saleh che, sulla base di voci ricorrenti, parrebbe inopinatamente appoggiare le milizie sciite; un modo per far pagare a molti dei suoi correligionari il mancato sostegno alla sua persona ed al suo movimento, il “General People’s Congress”, quando, sull’onda dei sommovimenti popolari generati dalla Primavera araba, il dittatore si è visto costretto a lasciare lo scanno presidenziale.

Tale pericoloso stallo costituisce, come vedremo appresso, motivo di preoccupazione sia per le Potenze regionali, in primis l’Arabia saudita, il cui governo considera gli Huthi “un’organizzazione terrorista”, e gli altri cinque partner del “Gulf Cooperation Council”, sia per la superpotenza americana la quale vede profilarsi ostacoli e difficoltà al proseguimento della “guerra dei droni”, ampiamente sostenuta dal Capo dello Stato dimissionario, implacabilmente ingaggiata da Washington contro le temibili formazioni di Al-Qaeda pullulanti nel sud del Paese.

Le preoccupazioni saudite ed americane sono legate anche al pericolo che il perdurare di tale situazione potrebbe favorire una convergenza d’interessi tra le tribù sunnite e gli estremisti di AQAP il cui amalgama getterebbe il Paese in una guerra settaria feroce con gli Huthi, ormai assurti al ruolo di forza d’occupazione nella capitale Sanaa dove la loro repressione suscita un crescendo di manifestazioni e di proteste popolari. La presenza di formazioni armate sunnite nel sud e nell’est dello Yemen pronte a muovere verso il nord per affrontare gli apostati sciiti rende l’eventualità di uno scontro letale tutt’altro che remota.

 

Il dilemma delle autocrazie del Golfo

I mutamenti intervenuti nello Yemen con l’acquisizione da parte degli “infedeli” sciiti di un ruolo dominante in una regione confinante con l’Arabia saudita, scossa per parte sua da minacce esterne di una certa gravità dove la scomparsa del carismatico re Abdullah non ha certo contribuito a un diradamento delle nubi che incombono sulla sicurezza e stabilità del Regno wahabita, pongono le monarchie del Golfo di fronte a scelte difficili da assumere.

La possibilità che il finitimo Paese discenda nel caos più totale, andando ad arricchire la lista dei “failed state”, e che tale disordine si propaghi all’interno del GCC dove minoranze sciite (è il caso dell’Arabia saudita) e maggioranze dello stesso credo, brutalmente represse, (è il caso di Bahrein) vedrebbero un’occasione propizia per riprendere la loro battaglia settaria contro l’aborrita oppressione sunnita, rappresenta uno scenario che non solo spaventa le case regnanti ma le pone in una situazione di apparente impotenza di fronte ad eventi al di là delle loro frontiere di arduo arginamento.

Non solo. Ma come trascurare il fatto che lo scatenarsi della guerra settaria alla frontiera saudita consentirebbe alle formazioni di Al-Qaeda di erigersi come “Defender” della causa sunnita, galvanizzando in tal modo le cellule estremiste ben presenti nella patria del Profeta e gli adepti dell’ISIL, ormai in rotta di collisione con l’organizzazione creata da Osama bin Laden, cui non sfuggirebbe l’occasione di un insediamento nel disastrato Yemen, allargando le aree sottoposte all’efferato regime imposto dalla centrale del terrore capeggiata dall’iracheno Abu Bakr Al-Baghdadi? Tutti punti interrogativi che si assommano alle difficoltà di reperire risposte efficaci alle temute conseguenze del dramma yemenita.

In effetti un intervento militare dei sei Paesi del GCC appare di problematica realizzazione. A tal proposito sarebbe azzardato stabilire un parallelismo con l’irruzione nel 2011 delle armate dei Paesi del GCC a favore della dinastia sunnita regnante a Bahrein volto a reprimere la rivolta della oppressa maggioranza sciita. A differenza di quel che avvenne in quell’occasione, nessuno nello Yemen ha mai pensato di richiedere il sostegno militare dei sei governi della regione, senza contare che, mentre Bahrein è pur sempre membro del GCC, lo Yemen è fuori dell’organizzazione  regionale. Altra differenza di rilievo: il nemico da combattere a Bahrein era rappresentato da inermi oppositori politici, mentre nel caso dello Yemen le forze delle monarchie del Golfo dovrebbero confrontarsi con formazioni, tribali e non, armate fino ai denti.

Come si può notare le opzioni a disposizione dei Governi della regione appaiono alquanto limitate e irte di rischi e ciò è dimostrato dalla sequela di prese di posizione e solenni dichiarazioni di condanna contro “i responsabili dei mali dello Yemen” rimaste fino ad ora senza alcun seguito concreto.

Uno dei più brillanti analisti di questioni arabe Sharif  Nashashibi definisce i Paesi del Golfo come “reluctant spectators” che continueranno verosimilmente a profferire espressioni di disappunto, concentrando soprattutto i propri sforzi a cercare di arginare i pericoli di “spillover” del dramma yemenita all’interno del proprio spazio ma nulla di più.

Né si vede concretamente cosa potrebbero fare di più alle prese con una crisi dagli imprevedibili sviluppi che, senza una soluzione politica, al momento ardua da prefigurare, minaccia di secernere germi destabilizzanti in uno spazio politico contiguo già esposto ai pericoli posti dall’azione di “non-state actors” capaci di modificare assetti ritenuti, fino a un tempo recente, immutabili e in grado di porsi al riparo dagli aborriti effetti della Primavera araba.

Così non è stato e ciò complica terribilmente la messa in atto di piani di contenimento e contrasto, in ogni caso imprescindibili quando si pensi all’entità di quel che da parte dei membri del GCC ed in particolare dell’Arabia saudita è stato investito per facilitare una stabilità nel finitimo disastrato Paese che fosse il più possibile in linea con gli interessi delle case regnanti.

 

Conseguenze sulla “drone war” americana

La caotica situazione in Yemen comporta altresì conseguenze non positive per la tanto decantata campagna antiterroristica condotta dagli USA contro le formazioni di AQAP, le più temute milizie jihadiste al mondo, che si sono sentite in dovere di assumersi la responsabilità del recente tragico attacco terroristico al settimanale parigino Charlie-Hebdo.

La “guerra dei droni”, così come è stata definita dai media internazionali, si trova al momento confrontata a serie difficoltà a causa del vuoto politico-istituzionale a Sanaa e dell’azione violenta ed intimidatoria portata avanti dagli Huthi che non hanno perso tempo nel prendere possesso di gran parte delle istallazioni indispensabili sul piano dell’intelligence ai “Predator” USA per colpire le postazioni jihadiste. Il che rende problematico per gli americani il proseguimento di una campagna che, per essere efficace e politicamente credibile, deve evitare il più possibile “danni collaterali”, ovverossia vittime civili. Ove questo accadesse ciò farebbe il gioco di Al-Qaeda, rafforzerebbe la sua presa sulle popolazioni in un momento in cui gli islamisti godono già del vantaggio derivante dalla minaccia degli Huthi. Questo sarebbe il contesto ideale per il successo della destabilizzazione jihadista all’interno ed all’esterno delle frontiere yemenite (“something occurring in the wrong place in the wrong time”).

Il governo del dimissionario Presidente, confinato da qualche giorno a residenza sorvegliata dalle milizie sciite, non ha mai fatto mancare un aiuto decisivo per il positivo andamento delle operazioni militari, noncurante degli inevitabili “danni collaterali” alla luce dei risultati ottenuti sotto il profilo dell’arginamento della minaccia jihadista. I servizi resi dal defunto governo yemenita sul piano dell’intelligence si sono rivelati di tremendo ausilio tanto più che non esistono basi di droni nello Yemen. Le incursioni dei letali velivoli partono in effetti dall’Arabia saudita e da Gibuti.

Tutto questo ora viene a mancare con la presa di possesso degli Huthi, nemici anch’essi di Al-Qaeda ma egualmente ostili agli USA. A tal proposito questi ultimi si trovano di fronte a un dilemma di non facile soluzione: avviare contatti con le milizie sciite o contare esclusivamente sulla propria tecnologia e sul proprio materiale umano (satelliti spia, sistemi di sorveglianza elettronici o altro) per proseguire una guerra cui la superpotenza non può rinunciare?

Le informazioni in nostro possesso non sono del tutto convergenti. Da parte araba si cerca di considerare l’eventualità di una tacita sinergia tra gli americani e gli Huthi come pressoché impossibile (come potrebbe essere altrimenti se si pensa che i sauditi considerano le milizie sciite dei “terroristi”?) mentre da parte di alcune qualificate fonti britanniche, comprensibilmente interessate a tali eventi, non si esclude affatto che forme di collaborazione tra le due parti possano concretizzarsi, in base al ricorrente assunto, peraltro non sempre verace, secondo cui “il nemico del mio nemico finisce per diventare mio amico”.

Per ora quel che si può affermare è che gli interventi americani proseguiranno, seppur in versione ridotta, utilizzando le infrastrutture esistenti nel sud del Paese, al di fuori delle zone controllate dagli Huthi, nelle aree di cui il dimissionario Mansour Hadi è originario e dove egli gode ancora di un visibile seguito e di una certa popolarità.

Quanto alla realizzabilità dell’intento statunitense di stabilire dei canali di contatto con le milizie sciite al potere a Sanaa, molto dipenderà a nostro avviso anche  da due variabili di non secondario rilievo. La prima concerne il successo dell’opera di persuasione che Washington dovrà portare avanti con Riyadh per convincere i sauditi dell’accettabilità di un processo di pacificazione in Yemen che non escluda gli Huthi; al momento tale prospettiva apparirebbe sulla base di una valutazione complessiva piuttosto remota. La seconda variabile attiene al miglioramento dei rapporti degli Stati Uniti con l’Iran, evoluzione che sembra acquisire crescenti livelli di concretezza. Perché menzioniamo quest’ultimo aspetto? Perché gli Huthi, nonostante il loro spirito di indipendenza di cui sono notoriamente molto gelosi, non potranno mai prescindere completamente dall’appoggio che Teheran continuerà a fornire loro, se non altro come forma di deterrenza nei confronti della viscerale ostentata avversione saudita.

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In conclusione il fatto che l’azione bellica americana nella più povera realtà del mondo arabo non appare destinataria della stessa pubblicità riservata alle analoghe azioni di contenimento contro i terroristi Daesh (ISIL) in Iraq e in Siria non significa affatto che la minaccia del terrorismo islamico in quella derelitta terra sia di livello inferiore e meno temibile.

Secondo quanto asserito da Mac Thomberry, Presidente di un importante Comitato del Congresso degli Stati Uniti (“House Armed Services Committee”), la crisi imperversante in Yemen “costituisce la minaccia più seria contro gli interessi occidentali” (!) ed il fatto che rilevanti volumi di hardware militare siano stati dirottati nelle azioni di guerra condotte contro i terroristi in Iraq e in Siria non toglie assolutamente nulla al rilievo strategico dell’opera di contenimento militare contro Al-Qaeda messa in atto dall’aviazione USA  a sud della frontiera saudita.

Sono valutazioni molto significative che lasciano capire che la partita che si gioca in Yemen riveste un’importanza primordiale dal cui esito dipenderà in larga misura il buon andamento della malsana guerra che gli Stati Uniti e l’Europa stanno conducendo e continueranno per molto tempo a condurre contro la minaccia jihadista; privilegiando lo strumento militare a discapito di altre forme di intervento che si rivelerebbero probabilmente più produttive di risultati. Per ora questa revisione di ordine strategico non sembra prefigurarsi nonostante la serie di fallimenti finora registrati dall’interventismo occidentale nella regione.

Parlando della guerra contro il radicalismo islamico abbiamo usato non casualmente il termine “malsana” per qualificarla. A nostro avviso tale valutazione trova una sua plausibilità ove si pensi agli errori e agli orrori dei quali principalmente la policy occidentale, anche se beninteso non esclusivamente, si è resa responsabile per troppi decenni nel perseguimento di disegni imperiali nelle martoriate terre medio-orientali, sottoposte ad una violenza senza fine a partire dal secondo decennio del secolo scorso.

Di tutto questo continueremo purtroppo a pagare lo scotto negli anni a venire, senza che rebus sic stantibus si manifestino segni di un miglioramento del quadro globale destinato per converso, a nostro modo di vedere, a subire un aggravamento delle tensioni, già collocate a livelli tutt’altro che rassicuranti.