Il Consiglio di Cooperazione del Golfo

Quadro Generale

Del “Gulf Cooperation Council” (GCC), istituito con l’accordo firmato l’11 novembre del 1981 ad Abu Dhabi, dopo che nel maggio dello stesso anno i Capi di Governo avevano manifestato la volontà di formalizzare i loro intenti in tal senso, fanno parte sei Paesi arabi, bagnati dalle acque del Golfo Persico e dell’oceano Indiano. Essi sono l’Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Emirati arabi uniti, Qatar e Oman, membri della Lega araba e uniti da sistemi politici affini, contraddistinti, seppur in misura differenziata, da autoritarismo e politiche repressive nonché da una matrice sunnita fortemente e severamente condivisa. Lo spazio territoriale del suddetto organismo è molto vasto (2.500.000 kmq) mentre la consistenza demografica si aggira su valori proporzionalmente piuttosto bassi (39 milioni).

Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, la cui sede centrale è a Riyadh, capitale dell’Arabia saudita, nasce all’indomani del successo della rivoluzione islamica in Iran nel 1979, con il rovesciamento del regime filo-occidentale dello Scià e con l’inizio, un anno dopo, della guerra, durata otto anni, tra la Repubblica islamica e l’Iraq di Saddam Hussein. In quell’occasione il dittatore iracheno beneficiò del sostegno dichiarato dell’Occidente, del blocco sovietico e di tutto il mondo arabo, fatta eccezione per il regime baathista siriano di Hafez al-Assad, il padre dell’attuale uomo forte a Damasco, e per lo schieramento irredentista curdo.

Il GCC è un’alleanza dettata dal desiderio di accrescere la collaborazione economica e “securitaria” tra i sei Paesi, nel solco delle anzidette affinità politiche e religiose, volta in ogni caso a creare più un assetto di cooperazione intergovernativa che un processo di reale integrazione. Le forme di governo rilevabili nello spazio del GCC sono ispirate alla monarchia assoluta nella pressoché totale assenza di istituzioni rappresentative e di una reale partecipazione popolare. L’unico Paese dove esiste un organo legislativo, espressione della società civile, è il Kuwait, scosso al suo interno da vibranti forme di confronto tra il clan vicino all’emiro regnante e l’apparato governativo da una parte e il Parlamento, dominato da una maggioranza composta di laici e islamisti, dall’altra.

Le affinità religiose sono riconducibili, come già segnalato, alla fede sunnita nella sua ideologia più rigida, ispirantesi al credo wahabita di matrice saudita e alla dottrina puritana del salafismo nella sua versione più rigorosa.

Un altro importante condiviso obiettivo dell’organizzazione regionale riguarda la sicurezza e l’esigenza di rafforzare le proprie difese contro quelle che sono ritenute dalle sei monarchie le due principali minacce: ovverossia l’assurgere dell’Iran, Paese guida dell’universo sciita, bagnato dallo stesso mare, allo status di Potenza nucleare  (tale sbocco viene visto dall’Arabia saudita, al pari di Israele, come una “minaccia esistenziale”), e i pericoli rappresentati dal terrorismo jihadista e dal militantismo politico dai Fratelli mussulmani. La maggioranza dei sei governi pone infatti le due espressioni del radicalismo islamico, in maniera arbitraria, sullo stesso piano di pericolosità.  

Tornando agli aspetti strutturali un elemento che indubbiamente non giova a un consolidamento della sostanza dell’alleanza è legato alla vistosa sproporzione in termini territoriali, politici ed economici esistente tra il gigante saudita da una parte e gli altri cinque membri del Consiglio dall’altra. Il che spiega in buona misura il fallimento di ogni tentativo volto ad approfondire un’integrazione vista con diffidenza dalla maggioranza degli appartenenti a tale prospero raggruppamento.

Il Consiglio di Cooperazione del Golfo possiede quasi il 30% delle disponibilità di petrolio nel mondo con una produzione dell’oro nero che ha registrato lo scorso anno il 24% del valore complessivo globale. Le relative riserve valutarie si aggirano sui $1000 miliardi con un prodotto interno lordo superiore a $1500 miliardi. Ciò ha consentito ai sei Paesi di avvalersi di strumenti più che ragguardevoli per essere fino ad ora al riparo degli andamenti imprevedibili del mercato mondiale.

Quali gli approdi raggiunti dal Consiglio dal momento della sua creazione nel lontano 1981? Un’unione doganale, annunciata nel 2003, il che ha permesso, dopo una lunga e tormentata gestazione, ai sei Paesi membri di applicare, non senza difficoltà, una tariffa uniforme su ogni prodotto importato dall’esterno, e una sorta di mercato comune, lanciato nel 2008, tuttora non completato, suscettibile di rimuovere barriere alla realizzazione d’investimenti all’interno dell’area attraverso un’integrazione, tuttora di là da venire, nei settori nevralgici dell’economia dei sei Paesi (trasporti, telecomunicazioni e comparto energetico). Nel 1992 ha visto inoltre la luce il “GCC Patent Office”, anch’esso basato a Riyadh, operativo dal 1998, in grado di rilasciare brevetti validi in tutti i sei Paesi membri del Consiglio.

Nel dicembre 2009 l’Arabia saudita, il Kuwait, Bahrein e Qatar annunciarono l’intendimento di creare un’unione monetaria che portasse, ottimisticamente entro il 2010, all’adozione di una condivisa valuta, il khaleeji. Tali ambiziosi intendimenti, volti a fare del GCC un assetto ricalcante la zona euro, non hanno avuto alcun rilevante seguito, soprattutto per l’opposizione degli Emirati arabi uniti e di Oman. Quali le ragioni dell’ostracismo? Esse, a riprova di malcelate gelosie e dell’esiguità di una reale volontà politica di consolidare l’integrazione in seno al Consiglio, vanno principalmente attribuite alla decisione assunta dal governo di Riyadh, osteggiata da Abu Dhabi, di ospitare in Arabia saudita la sede della futura Banca centrale del Golfo, e al desiderio di Oman, geloso di una sua propria peculiarità, di restare fuori da un assetto monetario integrato che avrebbe condizionato le proprie scelte in termini di politica economica.

I risultati tutt’altro che incoraggianti conseguiti sul piano dell’integrazione non hanno peraltro comportato negative conseguenze sotto il profilo della performance economica dei sei ricchi Paesi. La crisi economica globale del 2008/9 non ha risparmiato i membri del GCC ma non ha prodotto gli effetti devastanti riscontrabili in altre aree del mondo. Le ingenti disponibilità di petrolio e gas naturale, le altrettanto cospicue disponibilità finanziarie, l’alto livello della spesa pubblica, finalizzata al conseguimento di probanti soglie sotto il profilo sociale e dell’ammodernamento dell’assetto infrastrutturale, e i ragguardevoli attivi di bilancio hanno permesso alle sei monarchie di essere al riparo da negative incidenze sul piano della stabilità politica, economica e finanziaria dei rispettivi sistemi.

Quali i principali fattori destabilizzanti nell’area? Essenzialmente le contrapposizioni di ordine settario, particolarmente acute nel Bahrein e tutt’altro che irrilevanti in Arabia saudita, realtà dove le tensioni si collocano a tutti i livelli, la fronda dei Fratelli mussulmani negli Emirati arabi uniti, nonché le aspirazioni ad una emancipazione di costumi, maggiore libertà e democrazia, emananti dalle donne e dagli strati giovanili, più visibilmente riscontrabili in Arabia saudita e nel Kuwait.

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L’esigenza di accrescere il quadro di sicurezza in ambito regionale ha spinto le sei monarchie assolute a creare le condizioni per una proficua interazione in questo campo. All’inizio si accennava al retroterra politico in esito al quale è maturata l’idea nelle sei capitali del Golfo di creare il Consiglio di Cooperazione del Golfo. Indubbiamente il profondo mutamento intervenuto in Iran nel 1979 e il successivo inizio del terribile conflitto tra la Repubblica islamica e l’Iraq hanno accelerato la determinazione delle cancellerie della regione di erigere una sorta di scudo contro gli effetti derivanti da eventi dagli sviluppi ritenuti poco propizianti.

Sulla base di questi timori è nato nel 1984 un embrione di Forza collettiva di difesa, basata in Arabia saudita, significativamente denominata “Peninsula Shield”, dalle chiare finalità di contenimento nei confronti di quelle Potenze regionali considerate nemiche dalle dinastie regnanti nei sei Paesi. Il che non ha impedito che anche in questo campo si manifestassero divisioni e divergenze al punto che il “Peninsula Shield” non ritenne di contrapporsi nel 1990 all’aggressione del regime di Bagdad contro uno degli Stati membri, il Kuwait (!).

In effetti, l’unica volta in cui lo “Scudo della Penisola” è intervenuto è stato nel marzo 2011, in maniera alquanto controversa, con la partecipazione dei sauditi, di Kuwait e degli Emirati, ma non dell’Oman e di Qatar, per venire in aiuto alla discreditata monarchia sunnita del Bahrein confrontata alla ribellione della maggioranza sciita residente in quel minuscolo regno.

Per il resto a parte un successivo accordo stipulato nel 2004 vertente sull’ “intelligence-sharing”, null’altro è avvenuto suscettibile di dare lustro all’organizzazione regionale nel settore strategico della difesa comune. Le divisioni sui principali dossier regionali, segnatamente il delicato capitolo dei rapporti con l’Iran, hanno continuato e continuano a persistere, suscettibili di non allentare le reciproche diffidenze.

 Per converso nel 2003 una condivisa riluttanza dei sei Governi ad appoggiare la decisione USA di invadere l’Iraq ebbe modo di manifestarsi. L’attacco USA, fonte di un’onda destabilizzante nell’intera area di cui oggi osserviamo i dirompenti effetti, suscitò reazioni preoccupate nelle capitali del Golfo, unanimi nel considerarlo un indebolimento del fronte arabo sunnita contro l’Iran e il “crescente” sciita e un campo spianato a favore della penetrazione nella regione del terrorismo di Al-Qaeda e delle sue affiliazioni.

Qatar, Kuwait e Bahrein si trovarono, di fatto, a collaborare al rovesciamento del regime di Saddam Hussein, ma lo fecero molto a malincuore. L’Arabia saudita per parte sua non ha mai visto con favore la decisione USA di aggredire un Paese sovrano, definita, crudamente e non senza una buona dose di ragione, da un membro della famiglia reale un “esempio d’ignoranza e arroganza”; a tale manifestazione di malcontento fecero seguito recriminazioni a Riyadh sulle tensioni settarie, mai cessate ed ora più che mai esplose, alimentate dagli invasori americani negli anni successivi all’intervento.

 

Proiezione esterna nell’area

Come si sarà notato non tutti i Paesi arabi bagnati dalle acque del Golfo fanno parte del Consiglio. L’Iraq ne è fuori. Nel 2007 il GCC aveva stipulato con Bagdad il cosiddetto “Document of the International Compact” nel quale si auspicava “un’integrazione economica regionale” della quale, secondo i termini del documento, l’Iraq avrebbe dovuto far parte.

Ben poco è scaturito dalla firma di quell’accordo e nulla, meno che mai nelle presenti dirompenti circostanze, lascia presagire se e quando quel martoriato Paese, potrà divenire parte del GCC.

La leadership filo-iraniana di Nuri al-Maliki, di fede sciita, da poco rimossa a seguito dell’espansione terrorista e della nascita del “califfato” dello Stato islamico, è stata fonte di profonda ostilità, marcatamente in Arabia saudita e negli Emirati, e questo ha costituito il principale “stumbling block” per una realizzazione degli intendimenti contenuti nel Documento del 2007.

Più comprensibili appaiono le difficoltà insite nella relazione con Teheran. L’Iran costituisce il “nemico mortale” della monarchia wahabita, fonte, secondo i sauditi, delle tensioni che scuotono le province orientali del Regno, le più ricche di petrolio e sede della minoranza sciita (10% della popolazione), nonché delle contestazioni da parte della maggioranza sciita che hanno luogo nella minuscola entità di Bahrein, divenuto uno Stato vassallo dell’Arabia saudita, duramente represse dalla casa regnante sunnita, imparentata alla dinastia Saud, con l’appoggio militare di Riyadh e degli Emirati.

Ciò nonostante le mini-entità del GCC hanno sempre preferito, diversamente da quanto desiderato da Riyadh, astenersi da un atteggiamento “confrontational” nei confronti della Repubblica islamica, indotte a ciò sia dai recenti orientamenti della diplomazia americana, volti, in contrasto con gli intendimenti d’Israele, a una “appeasement policy” verso l’Iran sia dalla densità dei rapporti economici in essere con l’altra sponda del Golfo. In effetti, se si pensa che negli Emirati il 10% della popolazione è composto da iraniani che incrementano le proficue relazioni economiche con Teheran, risultando inoltre lo stesso Paese, nonostante il regime sanzionatorio in essere, il tramite privilegiato dei legami commerciali che, indirettamente e per contorte vie, hanno continuato a sussistere tra le principali economie del pianeta e il regime degli ayatollah, si può capire come controproducente apparirebbe un atteggiamento diverso da quello “pragmatico” adottato dal governo di Abu Dhabi.

Uno scenario analogo a quello descritto a proposito dell’Iraq appare per lo Yemen, realtà insanguinata da tensioni di devastante ampiezza il cui impatto non è affatto diminuito all’indomani dell’allontanamento di Ali Abdullah Saleh, vicino agli interessi sauditi, vittima degli effetti della Primavera araba dopo una gestione autocratica durata più di vent’anni.

La possibilità che la Repubblica dello Yemen riesca, come inizialmente previsto, ad aderire al GCC entro il 2016, sembra irrealistica alla luce delle sconvolgenti tensioni settarie che hanno ora luogo in quella affascinante realtà.

Il dislivello di sviluppo esistente tra lo Yemen, considerata il Paese più povero del mondo arabo, il luogo dove più radicato appare il condizionamento delle formazioni di Al-Qaeda, ed i sei Paesi del Golfo è impressionante. Non solo. Lo stesso contesto politico di quella derelitta Repubblica lascia prevedere sbocchi alquanto preoccupanti dove la destabilizzazione interna è frutto anche delle pressioni provenienti dall’esterno, in primis gli effetti dell’insanabile conflitto di potenza nella regione tra l’Arabia saudita e l’Iran. Le spinte secessioniste emananti dal sud del Paese sono riprese con vigore mentre la rivolta delle tribù Huthi, di fede sciita, nelle regioni del Nord è letteralmente esplosa, dilagando nel resto del Paese, innestando un sanguinoso scontro con le formazioni salafite collegate ad al-Qaeda. A proposito di quest’ultima vi è da rilevare che la branca dell’organizzazione terroristica operante in Yemen (“Al-Qaeda in the Arabian Peninsula”) risulta la più agguerrita tra tutte le analoghe affiliazioni esistenti in Asia ed in Africa.

Il quadro sopra descritto accresce le inquietudini delle sei monarchie, consapevoli delle nefaste conseguenze derivanti dall’implosione di un Paese di strategica rilevanza, situato alla porta d’ingresso del Mar Rosso, dove la presenza di Al-Qaeda costituisce una minaccia per l’Arabia saudita, alimentando nel contempo il terrorismo nichilista delle formazioni di Al-Shabaab nella contigua Somalia, ormai in grado di seminare morte e distruzione anche nelle finitime realtà del Kenya e dell’Uganda, considerate fino a un tempo recente in Occidente al riparo dalla piovra del radicalismo islamico.

In tema di proiezione esterna nei confronti dei Paesi arabi, sono parimenti da segnalare gli inviti, rivolti dal Consiglio, alla Giordania e al Marocco nel maggio 2011 all’indomani dello scoppio dei moti della Primavera araba, di entrare a far parte dell’organizzazione regionale. In effetti, i due Paesi sono le uniche monarchie arabe, tuttora al di fuori del GCC. Gli inviti erano la testimonianza di come la solidarietà tra case regnanti divenisse un imperativo da perseguire, di fronte a sommovimenti visti con preoccupazione dagli autocrati del Golfo.

Quali sono stati i seguiti di quello che appariva un processo senza ostacoli? Ben poco, a dispetto della valenza e dello spessore di affinità che, soprattutto nel caso della Giordania, si rivelano impattanti. Ben 800.000 giordani vivono e risiedono nei sei Paesi, circa un decimo della popolazione complessiva giordana. Le interazioni e le connivenze tra Amman e le sei monarchie sono profonde, siano esse di ordine politico, economico, sociale, culturale e religioso.

Ebbene a dispetto di ciò e del pressing dispiegato dal regno hascemita per una concretizzazione del processo di adesione, lo sbocco agognato non si è manifestato; provocando nei giordani un senso di frustrazione in un momento in cui la Giordania attraversa una fase difficile, confrontata com’è al dramma delle centinaia di migliaia di profughi siriani che deve ospitare, in fuga dalla tragedia in corso nel loro Paese. Ed anche in questo caso le ragioni dell’impasse vanno ricercate nelle divisioni e diffidenze covanti in seno ad un’organizzazione dove le ragioni aggreganti devono fare i conti con un innegabile contrasto di interessi.

Questo vale anche per la Giordania, molto vicina all’Arabia saudita al punto che taluni membri del GCC ritengono che un suo ingresso finirebbe col rafforzare il peso e l’influenza di Riyadh nei confronti degli altri partner.

Il discorso presenta aspetti difformi a proposito del Marocco. Rabat appartiene a un altro scacchiere e l’urgenza di entrare a far parte di un’aggregazione geograficamente e politicamente alquanto lontana si rivela più attenuata, ove raffrontata a quanto segnalato per la Giordania. L’interesse marocchino appare conseguentemente più diluito e di ciò si sono avute prove evidenti.

A nostro modo di vedere un’eccessiva vicinanza di Rabat alle monarchie del Golfo potrebbe non risultare produttiva di positivi effetti per un sovrano, come Maometto 6°, interessato alla stabilità del Paese, impegnato in un’esperienza politica in apparente discrasia con i tratti di assolutismo autoritario caratterizzanti il defunto genitore.

Il carattere rigido e assoluto dei sistemi politici vigenti, seppur in misura difforme, in ciascuna delle sei realtà viene a privare la diplomazia del GCC di quella flessibilità e duttilità operativa indispensabili in un universo ben diverso da quello esistente quando esse videro la luce nella prima (Arabia saudita) e seconda (le altre cinque entità) metà del secolo scorso.

Nel mondo globalizzato nel quale viviamo crisi e problemi richiedono un approccio flessibile che fa tuttora difetto in una regione politicamente retriva ma in grado tuttavia di fornire un rilevantissimo apporto alla crescita dell’economia globale.

 

Proiezione esterna al di fuori dell’area

Una certa attenzione merita il capitolo dei rapporti del GCC con l’Unione europea. Essi risalgono al 1988 quando si pervenne alla stipulazione di un Accordo di Cooperazione avente lo scopo di rafforzare attraverso il consolidamento delle relazioni politiche ed economiche la stabilità di una regione considerata a Bruxelles di “strategica” rilevanza. Quali i campi d’intervento prescelti? Essi furono il settore energetico, l’industria, l’agricoltura, la scienza e la tecnologia.

Riunioni ministeriali a cadenza annuale si sono succedute con esemplare regolarità tra le due Parti. L’ultima, la 23°, si è svolta alla fine di giugno dello scorso anno a Manama, capitale di Bahrein, Paese esercitante le funzioni di Presidente di turno dell’organismo regionale.

L’area coperta dal Consiglio di Cooperazione del Golfo è il quinto mercato di esportazione dell’Unione europea per un valore riferito al 2011 di €75 miliardi. Bruxelles resterebbe per converso, secondo gli ultimi dati disponibili, il primo partner commerciale del GCC con un flusso di beni e servizi di un valore di €145 miliardi ovverossia il 13,5% del suo interscambio complessivo. L’export dell’UE riguarda soprattutto manufatti e beni di alta tecnologia mentre l’import registra soprattutto prodotti energetici quali petrolio e gas naturale.

L’Unione europea è rappresentata nella zona da una Delegazione residente a Riyadh che copre cinque dei sei Paesi dell’area mentre una seconda è stata inaugurata ad Abu Dhabi nella seconda metà del 2013, con competenza esclusiva negli Emirati arabi uniti.

Tutto ciò dà un’idea dell’importanza di una relazione dalle innegabili complementarietà che peraltro stenta a liberarsi da condizionanti passività.

A distanza di più di vent’anni dalla firma dell’Accordo di Cooperazione il GCC e l’UE avevano deciso di accordarsi su un “Joint Action Programme” di durata quadriennale (2010-2013) finalizzato alla messa in opera di quanto previsto nell’Accordo del 1988.

Dalla lettura del testo del “Programma”, il cui scopo era di rilanciare una collaborazione, a dire il vero inferiore alle aspettative, si trae la conferma dello spessore delle potenzialità insite in un processo di cooperazione che a tutt’oggi non ha saputo mettere a profitto le innegabili complementarietà. L’obiettivo di stipulare un Accordo di libero scambio non è stato raggiunto né si prevede quando lo sarà.

L’Europa resta un partner di rilevanza strategica per le sei monarchie ma, nonostante una serie infinita d’incontri, conferenze e riunioni, il bilancio che si può trarre non è dei più esaltanti, rendendo quelle forme di dialogo un qualcosa di scarsamente produttivo da cui difficilmente enucleare lo stimolo necessario per superare le barriere tuttora esistenti e conferire allo sviluppo della relazione un andamento effettivamente irreversibile.

Per il resto sono da registrare sul piano bilaterale ingenti vendite di materiale bellico da parte dei principali Paesi dell’UE nei Paesi del Golfo e di cospicue forniture d’energia nei mercati del nostro Continente che, seppure attestate su valori inferiori rispetto alle importazioni di petrolio e gas naturale da parte dei mercati asiatici, Giappone e Cina in primis, rivestono pur tuttavia un’indubbia rilevanza.

Secondo taluni esperti una delle ragioni alla base di un trend inferiore alle aspettative, riscontrabile nella relazione UE-GCC, sarebbe dovuto alla persistente inclinazione dei principali Governi europei a trattare con i Paesi della regione su base bilaterale in luogo di un dialogo fondato sul pieno riconoscimento dell’ente regionale; ciò facilitato anche dallo scarso livello d’integrazione dei sei Paesi che compongono il Consiglio di Cooperazione del Golfo.

Come già detto l’intendimento di avviare un negoziato volto alla conclusione di un Accordo di libero scambio non ha portato a soddisfacenti concretizzazioni sino al punto in cui la parte araba ha ritenuto nel 2010 d’interrompere unilateralmente la trattativa, vista l’asserita “sterilità” dei contatti.

In definitiva manca tuttora nella complessa relazione UE-GCC un respiro strategico e una reale volontà di far registrare al rapporto un effettivo salto di qualità. Le differenze tra le due Parti in tema di valori e filosofia politica (libertà, democrazia e rispetto dei diritti umani) nonché le evidenti rivalità e gelosie esistenti tra le prime donne dell’Unione europea  pesano anch’esse sul difficoltoso dialogo avviato nel lontano 1988, in gran parte avaro, a distanza di venticinque anni, degli sbocchi desiderati.

Un’ulteriore conferma di questo stato di cose si è avuta in occasione dell’ultima riunione a livello ministeriale svoltasi a Manama in esito alla quale è scaturito un documento ricco di buoni e generici propositi, privo di un incisivo quadro di riferimento cui attenersi per un approfondimento della relazione.

In definitiva, sulla base di quel che al momento è dato osservare, poco parrebbe far pensare che si possa essere alla vigilia di un’inversione di tendenza. Le persistenti crisi di sostenibilità all’interno dell’UE e la tenace difesa di rendite di posizione da parte di alcuni grandi tenori europei, inclini a preservare il retaggio di un passato imperiale, non inducono a lasciar prevedere sussulti di rilievo.

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Lo scenario delle relazioni tra il GCC e l’Asia presenta per converso aspetti diversi da quelli riscontrati a proposito del rapporto con l’UE. L’assurgere di Cina e India al rango di Potenze globali ha comportato conseguenze importanti per i Paesi del Golfo. Tale sviluppo, unitamente all’acquisita dimensione del volume dell’export globale dei sei Paesi, al quarto posto del ranking mondiale dopo la Cina, gli Stati Uniti e la Germania, ma davanti al Giappone, registra il macroscopico spessore dei legami economico-commerciali tra l’Asia e il GCC.

Questi hanno gradualmente sostituito i tradizionali rapporti con l’Occidente, divenendo il vero volano della proiezione economica esterna delle ricche autocrazie arabe. Basti pensare che nello spazio di un quinquennio (2008/2012) il valore dell’interscambio è quasi raddoppiato, passando da $480 miliardi alla ragguardevole soglia di $814 miliardi. Secondo le agenzie di monitoraggio del comparto energetico mondiale, il GCC esporterebbe più petrolio in Asia che verso l’Europa e gli Stati Uniti messi insieme (“GCC oil producers export more oil to Asia than to Europe and North America combined”).

Questi sono fatti rivelatori di come il mondo stia cambiando e di come gli equilibri globali guardino ora sempre più in direzione dell’Oriente.

La Cina (impressionante il volume del suo import di petrolio dall’Arabia saudita), il Giappone, la Corea del Sud e l’India sono divenuti i principali beneficiari della manna energetica araba e questa evoluzione porta a un consolidamento della relazione anche attraverso gli investimenti che i Paesi del Golfo, particolarmente gli Emirati e Qatar, ad uno stadio più avanzato nel processo di diversificazione delle loro economie, stanno realizzando per parte loro nei mercati dell’Estremo Oriente incrementando il livello e la qualità del loro “non-oil export” (servizi, finanza, petrochimica). Né si può trascurare il transfert di tecnologia proveniente dall’Asia: a titolo di esempio basterebbe ricordare la commessa accordata nel 2009 alla Corea del Sud per la costruzione negli Emirati di quattro centrali nucleari. Il coinvolgimento di Seoul nei mercati del Golfo è impressionante con una presenza delle imprese coreane in diversi settori industriali.

 Tutto ciò mira a consolidare una relazione “strategica”, dalle rilevanti implicazioni non solo economiche ma anche politiche. In effetti, l’intento arabo non è soltanto di conquistare ed estendere quote di mercato ma altresì di contenere una estensione della cospicua penetrazione iraniana (di rilevante spessore soprattutto con la Cina).

In definitiva il Medio Oriente continuerà a essere, almeno per il prossimo futuro, il principale fornitore di energia delle “powerhouse” asiatiche; da questa relazione il GCC conta di trarre rilevanti “ritorni” sotto il profilo della diversificazione delle rispettive economie, rendendole meno dipendenti dal tradizionale export primario e maggiormente orientate verso comparti ad alto valore aggiunto, in primis il know-how finanziario, tecnologico e le energie rinnovabili. Le innovazioni prodottesi negli Stati Uniti nelle tecniche di perforazione per l’acquisizione di gas e petrolio, il tanto discusso “fracking”, suscettibili di attenuare la dipendenza energetica USA dal mercato medio-orientale, e i nuovi equilibri che si stanno profilando nel mondo in tema di forniture di energia sono destinate a facilitare per i prossimi anni la solidità della relazione tra le economie del Golfo e l’Asia “at large”.

Una conseguenza delle nuove scoperte tecnologiche in questo campo potrebbe per converso comportare un indebolimento del rapporto, anch’esso strategico, fino ad oggi esistente tra gli Stati Uniti e il principale attore politico in seno al GCC, l’Arabia saudita, di cui si cominciano a vedere i primi segni premonitori; anche se a nostro modo di vedere finché il regno wahabita rimarrà quello che è non vediamo come tale indebolimento possa produrre mutamenti strategicamente rilevanti.

Per il prossimo futuro il quadro della proficua interazione dei paesi del Golfo con i giganti asiatici appare ben delineato e definito. L’orientamento prevalente resta quello di approfondire la rete di accordi e intese commerciali in direzione dell’Asia attraverso anche la conclusione di Accordi di libero scambio (FTA), visti dalle oligarchie del Golfo come una sorta di “win-win solutions”. A tutt’oggi solo con Singapore, porta di accesso ai mercati dell’Estremo Oriente, è stato firmato e ratificato un Accordo del genere ma la tendenza è di conferire sempre più una cornice formale alla densità dei legami con le più sviluppate economie asiatiche, rendendo in tal modo ben visibili le differenze esistenti nei rapporti con l’Occidente.

 Illuminante a tal proposito è stata la visita effettuata a Pechino nel settembre del 2013 dal sovrano di Bahrein, Hamad al-Khalifa, nella sua qualità di Presidente di turno del Consiglio di Cooperazione del Golfo. In quell’occasione si è preso l’impegno di rilanciare il negoziato sull’Accordo di libero scambio, la cui formalizzazione, secondo il monarca arabo, “si rende imperativa vista l’ampiezza dell’interscambio tra il GCC e la Cina”. Importanti intese nei campi della finanza, della formazione e del commercio sono state altresì firmate in esito a una visita che ha riscosso rilevanza nei media cinesi.

Per il resto molto significative, anche da un punto di vista politico, sono apparse le espressioni di compiacimento formulate dal Presidente cinese Xi Jinping sullo stato della relazione tra la controparte araba e la Cina: “I nostri rapporti si fondano, oltre che sui criteri del reciproco vantaggio, anche su comuni valori e principi, dei quali un aspetto basilare è la non-interferenza nelle questioni interne di altri Paesi”. Espressioni che non potevano non risuonare dolcissima musica agli orecchi di un leader del Golfo, sottoposto alla logorante contestazione della maggioranza sciita della popolazione che reclama da un paio d’anni un’attenuazione del clima di discriminazione di cui continua a essere vittima nel minuscolo regno.

 

Il caso dell’Oman

Il sultanato dell’Oman, con una popolazione di circa quattro milioni di abitanti, presenta aspetti di una certa peculiarità. Questo è dovuto a un passato storico, plurimillenario, diverso da quello delle altre mini-entità del Golfo, non essendo esso mai stato né un possedimento coloniale della corona britannica né un suo protettorato. Il che gli permette di preservare al meglio una sua identità, elemento indispensabile nel perseguimento di una diplomazia che vede il Sultanato intrattenere rapporti di dialogo con Potenze, quali l’Iran, con cui profittevolmente interagisce, anche sul piano politico e diplomatico, ben al di là della comunanza d’interessi legati al traffico marittimo nello Stretto di Hormuz, in ordine al quale la responsabilità dei due Paesi è internazionalmente riconosciuta.

L’Oman non vanta le stesse ricchezze energetiche degli altri cinque Paesi partner.  Il volume prodotto di barili di petrolio al giorno si colloca al di sotto del milione. L’ultimo dato disponibile fa stato per l’esattezza di 918.000 bpd, registrato per la prima metà del corrente anno, il che in ogni caso ha rappresentato un notevole aumento dell’indice produttivo rispetto agli anni precedenti.

Ciò significa che le vendite di petrolio e in minore misura di gas naturale, orientate in larga misura verso i mercati asiatici, in primis la Cina, continuano a costituire il bacino dei proventi di ricchezza per il Sultanato, ragione per cui gli sforzi omaniti sono tuttora protesi verso un miglioramento delle tecnologie riferite al comparto energetico.

Ma se ciò è vero, questo non sottrae importanza al fatto che il governo di Mascate intenda con forte determinazione percorrere il sentiero della diversificazione, incentivando lo sviluppo di altri settori economici, quali la modernizzazione delle infrastrutture, i trasporti, l’industria leggera, il turismo, le energie rinnovabili e le telecomunicazioni, oltre che naturalmente la formazione  di quadri nei comparti tecnologici e l’agricoltura.

Tale nuova linea strategica trae linfa dal crollo dei prezzi del greggio intervenuto in questi ultimi mesi che, ove perdurante nel tempo, potrebbe costringere le autorità di Mascate a ridurre i sussidi energetici attualmente in vigore. La misura, dalle delicate implicazioni sotto il profilo della stabilità politica, si rivelerebbe necessaria al fine di evitare un deficit di bilancio.

Secondo gli orientamenti del monarca assoluto del Paese, il sultano Qabous bin Said Al Said, il leader più a lungo al potere che sia dato di riscontrare nell’universo arabo, l’obiettivo sarebbe nei prossimi vent’anni di ridurre l’incidenza del petrolio sul PIL nazionale sino alla soglia del 9%; traguardo  forse avveniristico ma che comunque testimonia della chiarezza d’intenti di una leadership che, seppure impregnata di radicato autoritarismo, è nondimeno sensibile alle sfide ed alle incognite di un mondo globalizzato. La regione del Golfo non può, in effetti, considerarsi al di fuori della tempesta che dal 2011 scuote il mondo arabo né potrà continuare a contare esclusivamente sul vorticoso innalzamento della spesa pubblica per neutralizzare le spinte al rinnovamento emananti dalla società civile e l’aspirazione ad una maggiore giustizia sociale, che si fanno sentire anche in questa parte del mondo.

  Il ricordo dei moti di protesta che, particolarmente nel Sultanato, ebbero luogo nel 2011 è ancora vivo e costituisce il retroterra politico delle scelte che Mascate intende perseguire per evitare un deteriorarsi del clima sociale, al momento peraltro ben sotto controllo.

Tornando all’Oman, il perseguimento delle politiche volte alla diversificazione del sistema economico, sostenuto ora da cospicue eccedenze di bilancio, trova dunque la sua ragion d’essere nella consapevolezza che le disponibilità di petrolio sono destinate ad esaurirsi in concomitanza con l’aumento della popolazione e con una richiesta crescente di lavoro da parte degli strati giovanili. Da qui deriva la campagna di “omanizzazione” portata avanti da qualche anno e dell’obbligo fatto alle imprese straniere operanti in Oman di riservare una quota fissa di propri dipendenti a cittadini del Sultanato. La finalità ultima è quella di inserire in misura crescente la forza lavoro locale nel comparto privato dell’economia.

Le importazioni dell’Oman riflettono gli orientamenti modernizzanti del sultano Qabous, cui va ascritto il principale merito di aver impresso allo sviluppo dell’economia nazionale e al progresso tecnologico elementi d’irreversibilità. Esse sono composte da voci inerenti a macchinari e materiale per il trasporto, manufatti, prodotti alimentari, bestiame e beni ad alto valore aggiunto.

L’Oman è al momento uno dei Paesi più politicamente stabili del mondo arabo, maggiormente al riparo dalle tensioni riscontrabili a livello politico e settario all’interno degli altri Paesi del GCC, con la sola eccezione forse di Qatar. Il livello di corruzione si colloca a una soglia inferiore rispetto a quanto riscontrabile in altre affini realtà, risultando l’atmosfera ivi prevalente piuttosto “business-friendly” in presenza di apprezzabili agevolazioni fiscali, senza un’eccessiva ingerenza dello Stato e della locale burocrazia.

Il made in Italy è apprezzabilmente presente in quest’isola di relativa pace in un universo segnato da profonde tensioni. L’Italferr, la società d’ingegneria delle nostre Ferrovie dello Stato, è riuscita ad ottenere un’importante commessa, del valore di oltre $35 milioni, inerente alla fattibilità di un progetto di creazione di una rete ferroviaria di collegamenti, la prima nel Paese, finalizzata alla valorizzazione dei due principali porti dell’Oman, Sohar, importante centro industriale, e Salalah. In particolare da quest’ultimo sbocco sul mare Arabico dovrebbe partire, secondo gli intendimenti delle autorità di Mascate, una corrente di scambi verso l’Africa sì da renderlo una sorta di “gateway” verso lo spazio subsahariano. Il successo di questa iniziativa, che comporterà un transfert di tecnologia a beneficio di personale locale, potrebbe prefigurare altri inserimenti d’imprese italiane, se si considera che alla fine dell’anno in corso l’Oman inizierà a emettere titoli per il finanziamento dei lavori di costruzione della linea ferroviaria il cui ammontare è previsto al momento intorno a $3 miliardi. Le opere in questione dovrebbero iniziare nel primo trimestre del 2015. In tale contesto è bene rilevare che il progetto di cui trattasi rientra in un’iniziativa, assunta al livello del Consiglio di Cooperazione del Golfo, mirata a dar vita ad un network regionale, che dovrebbe interessare tutti i sei Paesi del GCC, del valore di $20 miliardi, suscettibile di attenuare la dipendenza dallo Stretto di Hormuz e quindi dall’Iran in tema di export di energia dalla regione. Vi è da segnalare che il Sultanato è molto più avanti di altri partner del GCC nella preparazione di tale strategico progetto dove solo gli Emirati arabi uniti si collocano al momento ad una soglia di maggiore concretezza.

La pace e la stabilità politico-istituzionale, la solidità dell’assetto economico-finanziario nonché la propensione a facilitare l’opera degli operatori esteri ritenuti utili e funzionali nel disegno di modernizzazione dell’economia del Paese al fine di renderlo in futuro “self-reliant” e più competitivo sono aspetti suscettibili di fare dell’Oman, entità con delle peculiarità storiche e culturali molto marcate nei confronti degli altri cinque membri del GCC, una realtà invitante per tutti quegli operatori desiderosi di mettere a profitto la qualità e il know-how dei loro apporti.

Nell’attesa, che potrebbe rivelarsi prolungata, che il negoziato tra il Consiglio di Cooperazione del Golfo e l’Unione europea per la conclusione di un Accordo di libero scambio possa ripartire su basi di maggiore concretezza, è utile per converso ricordare che Mascate, membro dall’ottobre 2000 dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO), ha stipulato nel 2008 un’analoga intesa con gli Stati Uniti, entrata in vigore nel gennaio 2009.

 

Conclusioni

Si è accennato allo scarso grado d’integrazione tra i Paesi membri del GCC. Il fatto potrebbe apparire sorprendente ove si consideri l’alto livello di omogeneità riscontrabile in questo raggruppamento regionale. Forse in nessun’altra aggregazione di questo tipo si potrebbe rilevare una tale contiguità sotto il profilo delle affinità culturali e religiose, della lingua e dell’assetto politico, oltre che sul piano delle caratteristiche strutturali dei rispettivi sistemi economici.

Dal punto di vista degli obiettivi di politica economica gli elementi aggreganti prevalgono di gran lunga sulle differenze. Tutti i sei governi perseguono il disegno di diversificare il più possibile le loro economie, consapevoli del fatto che nei prossimi vent’anni le pur immense disponibilità energetiche si saranno in gran parte esaurite. Tutti i sei governi, forse con la sola eccezione di Qatar, mirano inoltre a creare posti di lavoro ai propri cittadini. Tutti cercano altresì di rendere il settore dell’energia il più profittevole possibile ai fini degli interessi nazionali.

Né si possono tralasciare altri comuni fattori strutturali di cospicuo rilievo: la sovra-abbondanza delle riserve di valuta, la stabilità del cambio delle rispettive monete agganciate al dollaro USA o a un “basket” di valute, come nello specifico caso del Kuwait, un’esposizione debitoria per loro fortuna molto bassa nonché le ingenti disponibilità di petrolio e gas naturale che, seppur di dimensione differenziata a seconda dei Paesi, si collocano pur sempre tutte ad una soglia di assoluta invidiabile rilevanza.

Ciò fa capire come il quadro descritto rivela una marcata discrepanza con quanto riscontrabile all’interno dell’Unione Europea, afflitta da differenze di impattante visibilità, siano esse di ordine economico, culturale e perfino politico.

Per quale motivo dunque l’integrazione in seno al GCC stenta a decollare, a dispetto dei tratti di affinità esistenti, a differenza dell’UE dove le profonde difformità non sono tuttavia di ostacolo a uno stretto coordinamento delle politiche economiche, finanziarie e commerciali?

La risposta va ricercata, come già segnalato, nella mancanza, nel caso del GCC, di una reale volontà politica di portare avanti un progetto, seppur graduale, di reale integrazione; dimostrato questo dal particolare che, diversamente dall’Unione europea, nello spazio del Golfo non è dato rilevare a tutt’oggi alcun organo sovranazionale sul modello della Commissione di Bruxelles o della Banca centrale europea, in grado di orientare e coordinare le scelte dei ventotto governi. Né si prevede quando un organismo del genere vedrà la luce, almeno per il futuro ravvicinato.

La costatazione da trarre è che le oligarchie del Golfo, particolarmente le quattro minuscole entità dalle dimensioni senza comune misura con la “powerhouse” saudita, con l’esclusione di Bahrein appendice della monarchia wahabita, appaiono riluttanti a cedere quote della loro sovranità, acquisita da pochi decenni, della quale continuano a essere custodi estremamente gelosi. Il passato storico ben diverso da quello del Paese governato dalla dinastia Saud nonché la difforme proiezione verso il mondo esterno sono in larga misura tributarie di un quadro generale composito ed articolato. Da qui si spiegano le chiusure e gli ostacoli frapposti nell’abbordare questioni inerenti a un forte integrato consolidamento del raggruppamento di cui fanno parte.

Materializzare un’unione monetaria e un funzionante mercato comune in presenza di rigidità poggianti sulla difesa di peculiarità che affondano le loro radici su un contesto differenziato, continua a rivelarsi impresa problematica.

Di questa realtà occorre prendere atto; ma da qui a pensare che tali condizionamenti riducano l’importanza strategica dell’area coperta dal GCC, questo si rivelerebbe un errore di valutazione da evitare.

Quel che occorre tenere presente è lo sforzo nel quale tutti i Paesi membri sono protesi in direzione di uno sviluppo suscettibile di rendere le loro economie sempre più diversificate e competitive, sempre meno tributarie dell’export di beni primari. La direzione resta la medesima anche se taluni Paesi (Emirati, Qatar ed anche, in misura apparentemente meno impattante, Oman) cavalcano la tigre più velocemente di altri.

A tal proposito è interessante rilevare quanto segnalato da Istituti di monitoraggio economico e dallo stesso Fondo monetario internazionale in merito alle tendenze di crescita dei sei sistemi economici considerati.

Secondo le stime fornite dal FMI le economie del Golfo registreranno nel loro complesso nel periodo 2014/2015 un tasso di crescita del 4.5%, in rialzo rispetto al 3.7% riferito al 2013. Nello stesso documento si sottolinea con evidenza come l’apporto dei medesimi Paesi costituisce un “vital contribution” all’economia mondiale, grazie ad una performance definita “elevatissima (highest)”.

L’aspetto da evidenziare attiene al particolare che questo positivo andamento viene a coincidere con due, a nostro modo di vedere, significative evoluzioni.

La prima concerne per l’area coperta dal GCC il calo nel 2014 dei proventi derivanti dalle vendite di petrolio e gas naturale (attestati tuttora al 90% degli introiti), determinato dall’accrescersi dell’offerta nel mercato mondiale di altri Paesi produttori, in primis gli Stati Uniti, in procinto di divenire, grazie alle nuove tecnologie, Paese esportatore netto di energia. Ciò determina una sovrapproduzione di beni primari che viene a collocarsi in un quadro economico mondiale contraddistinto da una domanda globale più debole, in primis quella cinese, e uno scenario complessivo, in termini di crescita e sviluppo, alquanto deprimente.

La seconda attiene alla costatazione che, contestualmente alla diminuzione dei proventi nel comparto energetico, si assiste a un evidente espandersi del “non-oil sector” che ha registrato nell’area in questione una crescita del 4.7%, interessando tra gli altri i settori del trasporto, chimica, macchinari, comparto elettrico e plastica. Sotto questo aspetto quel che interessa rilevare è che il volano di questo processo, definito  dagli analisti economici “broad-based”, è il business privato internazionale, dal quale scaturisce un impulso di forte rilevanza.

Il risultato di tutto ciò è che l’andamento delle economie del Golfo, nonostante il calo vistoso dei prezzi dei prodotti energetici (scesi dallo scorso giugno del 25%), registrerà solamente un certo rallentamento dei ritmi di crescita, che continueranno pur sempre ad essere elevati, alimentati dalle eccedenze di bilancio e da un alto livello della domanda interna, oltre che dalla sete di risorse delle “powerhouse” asiatiche.

Quanto rappresentato suona conferma di politiche di sviluppo volte a diminuire la dipendenza dall’export di energia attraverso la liberalizzazione del mercato interno, ottenuta con lo snellimento delle procedure burocratiche e un accresciuto dinamismo degli attori locali coinvolti nei processi, accompagnata dall’allargamento della base produttiva e dalla forte incentivazione tecnologica. In questo quadro il ricorso al capitale privato svolge un ruolo strategico.

I settori della finanza, formazione, tecnologia, scienza, industria manifatturiera, tutela ambientale, agricoltura e delle energie rinnovabili sono da tempo destinatari nell’area del Golfo delle attenzioni dei governi più sensibili alle sfide del progresso, consapevoli della necessità di conferire contenuti di concretezza alla strategia di diversificazione delle rispettive economie. E in questa prospettiva essi perseguono quanto raccomandato dal Fondo monetario internazionale che non desiste dal far rilevare che, se le economie del Golfo vogliono rimanere effettivamente al riparo dagli effetti prodotti dal rilevante calo dei prezzi dei beni primari, continuando a fornire l’apporto desiderato allo sviluppo dell’economia globale, lo sforzo in direzione di incisive riforme strutturali riveste rilevanza assolutamente strategica.

In effetti, le suddette raccomandazioni appaiono tutt’altro che accademiche se si pensa, sempre secondo le previsioni del FMI, che l’Arabia saudita, Oman e Bahrein rischierebbero di registrare nel 2015 addirittura un deficit di bilancio. Altro dato di non secondario rilievo concerne il previsto calo nel 2015 (nell’ordine di ben $175 miliardi) dell’eccedenza dei conti correnti, riferiti ai sei Paesi, che si determinerebbe nel caso in cui il prezzo del greggio dovesse restare ancorato ai presenti valori (intorno a $80 al barile).

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Lo sviluppo della “Islamic Banking Industry” con i suoi tratti distintivi (divieto del pagamento di interessi e di ogni speculazione monetaria) è impressionante in un volume di transazioni in evidente espansione, aggirantesi intorno a $1300 miliardi e un “network” di contatti che comprende profittevolmente anche la vasta area del Sud-est asiatico dove il credo dominante è la religione del Profeta.

Il ruolo dei “Sovereign Gulf Funds”, i Fondi sovrani, ha acquisito una valenza strategica come strumento attraverso cui realizzare progetti innovativi, basati sugli apporti della ricerca e della scienza, dando nel contempo vita a allettanti interazioni nel campo della finanza internazionale. L’approdo desiderato è quello di sostenere la crescita economica attraverso l’innovazione e le riforme economiche indispensabili per il conseguimento di risultati probanti. In fondo si tratta di un tentativo volto in prospettiva a conciliare Islam e modernità percorrendo i sentieri del progresso tecnologico e della ricerca; da qui l’importanza anche politica di una strategia mirata a emancipare le società islamiche dal buio dell’arretratezza materiale e culturale, inserendole nel maelstrom dell’economia globale, tagliando l’erba sotto i piedi delle centrali del radicalismo islamico, che traggono giovamento dalle politiche volte a preservare un sistema di dominazione a livello globale.

Gli Emirati arabi uniti sono determinati a percorrere il sentiero della modernità. Esempio di ciò è dato dal ruolo crescente svolto dalle donne chiamate a svolgere compiti impensabili fino a tempi recentissimi, avvalendosi di un humus nazionale ben diverso da quello rilevabile in Arabia saudita dove le resistenze in questo campo si rivelano di ben più ardua consistenza.

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In un ambito contraddistinto da un marcato dinamismo, vi è da rilevare l’importanza acquisita dal “Dubai International Financial Center”, “hub” finanziario di dimensione globale ed in grande espansione, zona franca dove vige una giurisdizione distinta da quella in essere all’interno dei sette emirati membri dell’UAE, polo di attrazione per la regione del Golfo e punta di irradiazione degli apporti della finanza islamica verso le aree di sviluppo dell’Asia e dell’Africa, focalizzati, oltre che sui servizi finanziari, anche sui prodotti alimentari, l’istruzione, le infrastrutture, la sanità e il turismo.

Il DIFC opera in sinergia con la piazza finanziaria di Londra, dove ha avuto luogo, prima volta in un Paese non islamico, la riunione del “World Islamic Economic Forum”, specchio di un volano economico-finanziario dal crescente rilievo. Ciò conferma la determinazione degli Emirati arabi uniti, seconda economia del mondo arabo e terzo esportatore nel pianeta di petrolio, di perseguire strategie globali, in ambito economico e finanziario, indipendenti da condizionamenti esterni, fondate sulla valorizzazione delle ingenti ricchezze di cui dispongono, alla quale i sette emirati contribuiscono in un assetto fortemente integrato. L’export del “non-oil sector” negli UAE continua a registrare rilevanti tassi di crescita (l’ultimo dato fa stato del 6.3%) mentre la crescita dell’economia del Paese rimane attestata sul 4.5%. Nulla lascia presagire che tali positivi andamenti segneranno nel prossimo futuro una qualsiasi inversione di tendenza.

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In conclusione i mercati del Golfo continueranno per diversi anni a essere un polo di attrazione del capitale e degli investitori internazionali, per la dimensione delle risorse disponibili e il carattere variegato dei tratti inerenti ai processi di sviluppo ivi in corso.

Una frontiera nel mondo che suscita attenzione anche da parte dei nostri operatori economici e finanziari, come dimostrato dagli ultimi dati disponibili, che, seppur riferiti particolarmente all’interscambio con gli Emirati arabi uniti, pur tuttavia sono rivelatori di una incoraggiante linea di tendenza, dalla quale si evince un incremento delle interazioni non solo nel campo degli scambi commerciali (industriale, aeronautico) ma anche in quello della finanza.

L’Italia, seconda potenza in Europa nel settore manifatturiero, trova nell’articolato e differenziato processo sopra descritto la possibilità di accrescere attraverso la valorizzazione dell’export di tecnologie innovative il proprio concreto contributo alla diversificazione delle economie del Golfo, protese in uno sforzo di modernizzazione dal quale contano di trarre preziosi “ritorni” sotto il profilo della pace e della stabilità di un’area che le oligarchie dominanti desiderano tenere al riparo dalle dirompenti turbolenze in corso in altre contrade del mondo arabo.

Si tratta di una sfida storica che si trova ora a fare i conti con un Medio Oriente in profonda ebollizione dagli sviluppi difficili da prefigurare ma che sicuramente scriveranno una pagina inedita nel tormentato iter storico di questa regione.