Una guerra coloniale

Premessa

I tragici eventi che dallo scorso 8 luglio hanno insanguinato la martoriata Striscia di Gaza acquistano una marcata rilevanza se si pensa alla circostanza che quest’anno si celebra il centesimo anniversario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, che registrò il maggiore tributo di sangue nella storia del nostro continente.

Agli inizi dello scorso secolo il mondo era segnato dallo sfruttamento selvaggio e dal dominio incontrastato delle grandi Potenze europee sulle aree “periferiche” del mondo, Africa, Medio Oriente, Asia, America latina.

Non vi erano limiti alla proiezione di violenza e di arbitrio dei Paesi depositari di una civiltà ritenuta “superiore”. Chi scrive queste note è stato per diversi anni testimone diretto dello spettacolo di rovina e di distruzione lasciato dalle Potenze coloniali, Francia, Belgio, Gran Bretagna ed anche Italia nelle regioni situate a sud delle rive meridionali del Mediterraneo.

Intere comunità portano ancora, anche nei tratti fisici e mentali, lo stigmate delle terribili sofferenze subite che, sotto mutate spoglie, in un quadro politico-istituzionale in sintonia con i tempi, continuano peraltro a caratterizzare la vita di quelli che lo scrittore di lingua francese Frantz Fanon era solito definire “i dannati della Terra”.

Questo era il quadro internazionale nel quale maturarono le condizioni che portarono allo scoppio del primo conflitto mondiale dove lo scontro degli imperialismi generò milioni di morti ed indicibili devastazioni. Una guerra dai tratti di mostruosa disumanità dalla quale scaturirono ulteriori sconvolgenti conseguenze portatrici a distanza di vent’anni di un’altra conflagrazione dagli effetti nefasti per l’immagine e gli stessi interessi dell’Europa.

Ho ritenuto opportuno partire da questa premessa per far comprendere come il tipo di guerre che con implacabile cadenza lo Stato di Israele ha scatenato dalla fine degli anni quaranta contro il popolo palestinese ricalca in larga misura il comportamento delle Potenze coloniali europee contro i “dannati della Terra” fino alla metà del secolo scorso.

Il colonialismo esiste ancora

La domanda che dunque siamo legittimati a porci è la seguente: il colonialismo nelle sue crude esternazioni è davvero finito o per converso esso è ancora esistente e manifesta in Medio Oriente i suoi nefasti effetti?

Ebbene se noi gettiamo uno sguardo sulla storia delle relazioni tra Israele ed il mondo arabo negli ultimi sessant’anni la nostra risposta non può che essere affermativa.

Lo scontro tra il sionismo, espressione militante dello sciovinismo ebraico, e il nazionalismo arabo prende le sue mosse dallo svolgimento a Basilea nell’agosto 1897 del primo Congresso sionista che, sotto l’impulso del suo principale propugnatore Theodore Herzl, getta le basi di quello che sarà l’obiettivo primario della comunità giudaica ovverossia la creazione in Palestina di una “Jewish home” da “sviluppare ed espandere”, una patria punto di riferimento imprescindibile per tutti gli ebrei del mondo, vittime a loro volta nel corso dei secoli di persecuzioni di ogni genere in Europa.

Da quel momento lo scontro tra sionismo e arabismo non è mai cessato (sei generazioni ne hanno patito e continuano a patirne le conseguenze) e i palestinesi si sono trovati a essere annoverati tra le ultime vittime di un colonialismo, ritenuto troppe volte estinto e che per converso trova ancora, in quella che era la loro terra,  una sua drammatica estrinsecazione.

 

Analogie

I tratti di analogia tra il passato efferato modus operandi delle Potenze coloniali europee e le guerre di conquista e distruzione dell’entità palestinese da parte dell’entità sionista sono ben tristemente evidenti. Il numero di palestinesi espropriati di una patria, la comunità di rifugiati più numerosa al mondo, è cresciuto nel corso di questi decenni in misura esponenziale. Se al termine della terribile guerra del 1947/1948, considerata la catastrofe nazionale palestinese (Nakba) essi erano 1.5 milioni, ora essi superano gli otto milioni, sparsi un po’ dappertutto nel pianeta, privati di un loro “foyer” ma più che mai insopprimibilmente consapevoli di una loro identità, più che mai mossi dal desiderio, egualmente insopprimibile, di battersi per il riconoscimento dei loro diritti. Ogni loro battaglia, ogni prova di sangue diventa una nuova più forte riaffermazione del loro essere e del loro rifiuto di sottomissione.

Questo è il carattere peculiare del conflitto arabo-israeliano. Qui non siamo di fronte ad una guerra tra Paesi spinti al conflitto per un contrasto di interessi nazionali. Qui siamo di fronte ad una guerra di liberazione da un giogo coloniale esportato dall’Europa che vede contrapposti due forze vittime entrambe dell’arbitrio e del sopruso inflitti dagli europei, gli ebrei in Europa e gli arabi nei loro territori. Tale conflitto non cesserà mai perché esso trae la sua matrice da aneliti e pulsioni irrefrenabili che, ovunque si manifestino, sono inesorabilmente destinati ad affermarsi, secondo una logica dettata dal divenire della Storia.

I diritti dei palestinesi sono misconosciuti e violentati dal 1948 quando gli israeliani imposero attraverso massacri ed esazioni di ogni genere la loro legge, espellendoli da una terra che per secoli era stata la loro. Il fatto che, ogniqualvolta essi si battano per restituire più libertà e giustizia ad una comunità araba calpestata e violentata, vengano definiti “terroristi”, conferma il carattere coloniale di tale scontro epocale, la “madre di tutti i problemi”, la fonte primaria della cronica instabilità caratterizzante il Medio Oriente; dove le tensioni tendono ad aggravarsi e gli estremismi ad espandersi in una spirale senza fine, portatrice di pericoli per la pace non solo della regione ma di altre aree del mondo.

Più di duemila palestinesi hanno perso la vita nel mese e mezzo di devastazioni che sconvolge la Striscia di Gaza, colpita e messa a fuoco come mai era avvenuto nei precedenti attacchi. Più del 70% dei caduti sono civili e di questi quasi cinquecento adolescenti. Scuole, ospedali, cimiteri. moschee e perfino centri delle Nazioni unite sono stati impunemente (almeno fino ad oggi) colpiti dalla macchina da guerra israeliana. Sono tutti tratti inconfondibili del carattere coloniale dell’aggressione, volta a terrorizzare un popolo allo scopo di mantenerlo in una condizione di servaggio, a immagine e somiglianza di quel che gli europei riservavano ai popoli “inferiori” al tempo della proiezione imperialistica del nostro continente.

Ebbene questo non ha scalfito la ferma volontà palestinese di resistere, di opporsi all’aggressione e a uno stato di sottomissione nella Striscia di Gaza, il luogo più densamente popolato del mondo, la più grande prigione a cielo aperto del pianeta. Vi è altresì da ricordare che l’enclave di Gaza è sottoposta, dal momento della vittoria elettorale di Hamas nel 2007, a un soffocante blocco navale e terrestre che impedisce ai palestinesi ivi residenti non solo di operare per lo sviluppo dell’economia della Striscia ma perfino di recarsi in Cisgiordania, amministrata come noto dal governo dell’Autorità palestinese (P.A.) diretto da Mahmoud Abbas. Ennesima violazione di Accordi internazionali conclusi in passato che riconoscevano il godimento di questo elementare diritto

A tal proposito non è inutile ricordare che il successo della formazione islamista a Gaza otto anni fa è stato l’unico momento in cui i palestinesi sono stati ammessi ad una consultazione elettorale. In Cisgiordania le elezioni, più volte annunciate, hanno sempre e immancabilmente finito per subire continui rinvii. Il timore di un responso favorevole agli islamisti  anche sulla riva occidentale del Giordano ha costituito verosimilmente la principale ragione del perché il voto non si sia a tutt’oggi mai materializzato in Cisgiordania, questo certamente per non dispiacere agli israeliani ed ai loro alleati americani.

 

Retroterra storico

Gaza è stato da sempre il luogo nevralgico della resistenza palestinese. Lo è stato dalla prima guerra del 1947 quando centinaia di migliaia di palestinesi sono stati cacciati dal loro “homeland”, andando a popolare gli sterminati campi di accoglienza esistenti in Libano, Giordania ed in altri Paesi arabi, oltre che naturalmente gli stretti spazi dell’enclave di Gaza.

Una consistente quota di questa popolazione espropriata dei più elementari diritti (più di 200.000 palestinesi) è approdata a Gaza, confrontata a umilianti e misere condizioni di vita. La resistenza di queste masse contro gli israeliani è quindi iniziata ben prima della nascita delle due principali formazioni politiche di Fatah e Hamas.

La guerra di attrito non è mai cessata, costellata di ricorrenti conflitti e di massacri. In occasione della crisi di Suez nel 1956 non solo gli egiziani ma anche i palestinesi si batterono con indomito coraggio, pagando a caro prezzo nell’occasione il fatto di non essersi piegati alla volontà israeliana. Al termine del conflitto più di 120 tra uomini e adolescenti furono selvaggiamente massacrati dagli israeliani nel campo di Rafah in prossimità della frontiera egiziana in quello che è passato alla storia come il massacro di al-Amiriyah.

Secondo la testimonianza resa in un recente articolo da uno dei sopravvissuti a quel tremendo eccidio, Ahmed Youssef, all’epoca inerme adolescente e ora consigliere del Primo Ministro di Hamas Ismael Haniyeh, i muri della scuola di Rafah dove il massacro avvenne “erano tutti macchiati di sangue” e tutti coloro che risultavano ancora in vita nonostante le percosse inflitte con i bastoni dei soldati israeliani “venivano finiti sotto una gragnuola di colpi”.

E’ in quest’ambiente segnato dal sangue dei martiri e dalla crudeltà dell’aggressore che è maturata la determinazione della gente di Gaza di continuare la resistenza, accreditando quelle forze, quali Hamas, nate nel 1987 in occasione della prima Intifada, determinate a non privarsi di una deterrenza armata che continua a essere l’unico tramite suscettibile di strappare concessioni al nemico sionista, garantendo la sopravvivenza di un movimento di contrapposizione a quel bieco sistema di oppressione; movimento che, oltre ad Hamas, comprende anche la Jihad islamica, sorta prima di Hamas, e le brigate di Al-Qassem, così denominate dal nome di un predicatore arabo trucidato dagli inglesi negli anni trenta.

La volontà palestinese di non cedere non è mai venuta meno nonostante le successive prove di martirio che la popolazione di Gaza ha dovuto subire nei decenni successivi. Ad Ariel Sharon, soprannominato a giusto titolo il “Bulldozer”, mentore dell’attuale primo Ministro Netanyahu, spetta un posto di tutto rispetto nelle tremende punizioni inflitte alla martoriata Striscia. Nel periodo tra il 1967 e il 1970, all’indomani della guerra dei Sei giorni, migliaia di dimore civili furono distrutte e più di 16.000 palestinesi ridotti, in conseguenza di ciò, alla disumana condizione di esseri erranti in cerca di rifugio e di protezione. Massacri su massacri ebbero luogo accompagnati da deportazioni di centinaia di palestinesi verso la Giordania e il Libano, per non parlare di coloro lasciati marcire nel deserto del Sinai, come carogne di animali.

Tutto era considerato e visto dagli elementi dell’establishment israeliano come “un’infrastruttura del terrorismo”. Battersi contro l’oppressione ha sempre significato e continua a significare sia per i vertici israeliani sia per le cancellerie occidentali essere “terroristi” quando per converso è la natura delle ripetute ricorrenti aggressioni di Tel Aviv a qualificare tale modus operandi come vere, autentiche azioni terroristiche; perché la finalità ultima è quella, attraverso ripetute flagranti violazioni della legalità internazionale attraverso il sistematico disattendere delle risoluzioni dell’ONU,. di umiliare una comunità sì da piegarla e asservirla al proprio dominio, a immagine e somiglianza, è opportuno ripeterlo, di quel che i colonizzatori europei han fatto per molti decenni a danno di comunità ritenute “selvagge” e quindi destinatarie di abusi e soprusi di ogni genere.

Tutto questo serve a far capire come un filo invisibile lega il genocidio prodottosi in questa estate di sangue a Gaza a quanto avvenuto, andando indietro nei decenni, nella guerra del 1947/1948 quando un intero popolo fu cacciato dalle proprie terre per divenire una comunità di rifugiati, in cerca di protezione ma mai domato, mai disposto ad abiurare la memoria dei martiri, sempre più determinato a proseguire la lotta contro il sopruso e la volontà di dominio di un oppressore.

Come sottolineato dall’emittente qatarina al-Jazeera, assurta ormai al ruolo di portavoce degli interessi di un mondo arabo in profonda mutazione, il passato ed il presente restano indissolubilmente legati nella memoria collettiva dei palestinesi ed ogni prova, ogni successiva, ulteriore esazione non può che rafforzare l’indomita volontà di opporsi al nemico sionista.

Trattandosi di una guerra di liberazione, tale processo non terminerà mai, rafforzandosi attraverso il dolore e le sofferenze. La legge della Storia è illuminante in proposito. Uno dei rari casi questo in cui si può parlare di una sorta di deterministica inevitabilità dettata dall’anelito insopprimibile a battersi e sconfiggere chi lede i principi irrinunciabili della dignità umana.

 

Come uscire dalla crisi

A parere dell’editorialista libanese Rami Khouri finché le questioni di fondo che sottostanno da decenni al conflitto arabo-israeliano non verranno affrontate e risolte attraverso quello che Khouri definisce un “balanced approach” (approccio equilibrato), la serie dei cessate il fuoco che ha interrotto la spirale di sangue nel corso dell’ultima aggressione contro i palestinesi a Gaza non porterà ad alcun risultato duraturo.

In effetti, non ci sentiamo di dissentire dalla voce dell’autorevole analista se pensiamo agli sforzi di mediazione condotti dagli occidentali. con il beneplacito dell’autorità palestinese in Cisgiordania, in questi ultimi decenni, tutti falliti per una ragione fondamentale: ovverossia il fatto che essi partivano dall’assunto irrinunciabile e prioritario della sicurezza di Israele, tralasciando o ponendo in secondo piano la richiesta araba di porre riparo agli effetti devastanti prodotti dalla guerra del 1947/1948 e da tutte le altre che sono seguite, attraverso una situazione di colpevole sottovalutazione dei fondamentali diritti di un popolo ancora sottoposto al giogo coloniale, privato di una sua patria.

Le conseguenze di tutto ciò pesano come un macigno sulle possibilità di pervenire a una soluzione diplomatica di un conflitto, che attende da decenni una reale effettiva ed equanime soluzione.

Questo spiega anche perché la pretesa di Tel Aviv di giungere a una smilitarizzazione di Hamas non potrà mai essere accolta dal governo di Gaza perché essa priverebbe l’entità palestinese di quella deterrenza necessaria per incidere su un negoziato da cui dipende la sua sopravvivenza.

In definitiva, come sottolineato da editorialisti arabi, l’esigenza di Israele di vedersi riconosciuta quale entità abilitata a godere di pace e sicurezza nella regione non può per nessuna ragione essere considerata più importante e più rilevante del desiderio palestinese che si ponga fine allo status di rifugiati di milioni di persone cui va legittimamente riconosciuto il diritto di avere un “homeland” che condivida uno stesso destino con l’entità israeliana.

Tale approccio purtroppo non si scorge né esso gode al momento di quel supporto internazionale indispensabile per un suo serio avvio. Questo è apparso evidente durante le settimane in cui si consumava l’eccidio ai danni della popolazione di Gaza (uomini, donne e bambini). Non si avverte nella misura appropriata da parte dei Paesi occidentali che non hanno ritenuto di andare oltre ad espressioni di rincrescimento per “l’eccessivo” uso della forza, giudicato “inaccettabile” (si sa quel che in gergo diplomatico tale espressione concretamente significhi). Quanto alla Russia e alla Cina, giova ricordare la corposità degli interessi che i due governi intrattengono con Israele e l’Arabia saudita. Il che spiega silenzi o generiche espressioni di critica dalle insignificanti incidenze.

Unica eccezione è stata fornita dall’America latina, dove si è assistito al richiamo di ambasciatori da parte di Stati importanti quali Brasile, Perù e Venezuela mentre la Bolivia di Evo Morales decideva di inserire Israele nella lista dei Paesi “terroristi”. Tutto questo si è prodotto mentre da parte del Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite si è ritenuto opportuno istituire una commissione d’inchiesta incaricata di indagare sulla veridicità delle accuse che dalle organizzazioni umanitarie si muovono contro Israele di aver perpetrato crimini di guerra se non addirittura atti di genocidio. Peraltro vi sarà poco da sperare dall’operato di tale commissione che dovrà confrontarsi col boicottaggio di Israele e del suo alleato strategico americano.

Troppo poco per sperare di porre finalmente mano agli effetti di una guerra coloniale che costituisce un marchio di vergogna nella coscienza collettiva di un Occidente che, mentre infligge sanzioni contro la Russia, colpevole di non criminalizzare i separatisti dell’est-ucraino, definiti “terroristi” dalla cricca illegale di Kiev, chiude gli occhi o quasi di fronte alle indiscriminate esazioni commesse dal governo sionista di Tel Aviv; con la complicità di una sinistra europea assente e ancora troppo malata di eurocentrismo, a differenza di quel che si vede in Israele dove lo schieramento di sinistra e gli ambienti pacifisti, seppur decisamente minoritari, percepiscono gli aspetti reali del dramma palestinese e non mancano di far sentire la propria voce contro la logica bellicista dei circoli dirigenti israeliani.

 

Conclusioni

La conclusione da trarre è dunque che, finché si continuerà a considerare prioritarie le esigenze di sicurezza di Israele, tralasciando del tutto quelle del popolo palestinese, colpevole soltanto di voler preservare una sua dignità e di rifiutare l’asservimento al dominio sionista, le speranze di una pace duratura e di equilibri affidabili si riveleranno vane. La spirale della violenza continuerà finché non si riterrà opportuno ricorreggere il tiro, conferendo al rapporto con la controparte araba un indirizzo più equanime ed equilibrato.

&

Vorrei concludere queste sintetiche note attirando l’attenzione su un aspetto che riterrei estremamente utile al fine di un appropriato inquadramento del ruolo di Israele in Medio Oriente e della inflessibile volontà della diplomazia sionista di perseguire senza cedimenti di sorta una politica fondata su una logica di dominio.

A tal proposito occorre ricordare come vani e sterili si siano rivelati gli sforzi prodigati dalle Nazioni unite e da tutti i governi arabi, in questa materia lodevolmente uniti, di organizzare una Conferenza vertente sulla creazione nella regione medio-orientale di un’area scevra di armi atomiche. I ricorrenti appelli in tal senso del Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon non hanno sortito effetti positivi e gli impegni assunti nel 2010 a Washington in occasione della programmata, su base quinquennale, “Review Conference”, prevista nell’ambito del Trattato di Non-proliferazione nucleare, non hanno avuto il seguito sperato.

Israele non demorde da quella che negli ambienti internazionali viene definita eufemisticamente “Nuclear ambiguity”. In che cosa consiste tale tipo di “ambiguità”? Semplicemente nel fatto che Tel Aviv non intende né confermare né smentire il possesso di armi nucleari (unico paese al mondo a tenere un simile atteggiamento). Da questo atteggiamento gli israeliani non intendono allontanarsi; il che non impedisce loro di continuare a sabotare qualsiasi iniziativa diplomatica mirante a creare pace e stabilità in Medio Oriente attraverso la rinuncia all’arma atomica.

Per quale ragione Israele è venuta meno all’impegno assunto quattro anni fa a Washington, sottoscritto anche dagli Stati Uniti, di partecipare ad una Conferenza sul tema alla fine del 2012 organizzata dalla attiva diplomazia finlandese a Helsinki? Per una semplice ragione: gli israeliani vogliono mantenere una deterrenza atomica nella regione e per nessuna ragione al mondo desiderano che tale deterrenza venga meno. Tanto più che la “ambiguity policy” in materia nasconde un segreto di pulcinella, dato che ben si sa che il numero delle testate atomiche in Israele si aggira tra le duecento e le quattrocento ogive.

Del resto come passare sotto silenzio gli attacchi proditori, in aperta violazione della legge internazionale, condotti dall’aviazione israeliana nel giugno del 1981 contro il reattore nucleare di Osirak in Iraq e nell’ottobre 2007 contro il reattore nucleare siriano nel nord-est del Paese mirati per l’appunto a preservare una situazione di superiorità nella regione che rende Israele l’unico Paese nell’area in possesso dell’arma atomica? Come altresì ignorare che la centrale atomica di Dimona nel deserto del Negev è scrupolosamente sottratta agli sguardi degli ispettori dell’Agenzia internazionale sull’energia atomica (AIEA), le cui attenzioni sono riservate prioritariamente all’Iran, in possesso di una forza deterrente infinitamente inferiore a quella israeliana?

Ciò lascia comprendere come gli ultimi patetici appelli di Ban Ki-moon per una conferenza per il disarmo nucleare in Medio Oriente rimarranno ancora inascoltati di fronte all’opposizione dello Stato ebraico supportato dal veto USA con il rischio che quando tra un anno, nel 2015, la “Review Conference” avrà luogo tale questione sarà ancora irrisolta con le negative conseguenze che questo comporterà per il successo di un evento dall’importanza fondamentale per la pace nel mondo.

L’auspicio espresso dal Segretario generale che il terribile conflitto tra Israele e Hamas “possa facilitare” gli sforzi per la convocazione di un evento che sancirebbe l’inizio della fine dello squilibrio in termini di deterrenza attualmente esistente nella tormentata regione medio-orientale appare, come definito da un diplomatico occidentale, “rather far-fetched” (alquanto remoto).

Pochi in verità si sentirebbero mossi da un anelito polemico nei confronti di una definizione che riflette la triste realtà di un quadro complessivo che non dà purtroppo adito a speranze di rapidi positivi mutamenti.

Rebus sic stantibus la lotta appare l’unico doloroso canale attraverso cui i palestinesi e tutti gli arabi desiderosi di affrancarsi dallo sfruttamento di cui sono tuttora vittime possono sperare di veder migliorata in futuro la propria triste condizione.

Le sconvolgenti esternazioni verbali nei loro confronti di cui sono ancora protagonisti, al giorno d’oggi, gli esponenti politici israeliani non lasciano speranze che ci siano altre vie per un effettivo, concreto miglioramento della condizione palestinese.

Ultimo esempio si è avuto con le “solenni” dichiarazioni rese pochi giorni fa dal Deputy Speaker del Parlamento di Tel Aviv Moshe Feiglin, appartenente allo stesso partito, Likud, del Primo Ministro Netanyahu, nelle quali si suggeriva come soluzione della crisi l’internamento della popolazione a Gaza in campi di concentramento unitamente allo sterminio di ogni forza combattente e di tutti coloro che le sostengono (!).

Simili allucinazioni a carattere visceralmente coloniale non sono un fatto isolato. Esse sono l’ultimo episodio di una serie numerosa di manifestazioni di insanabile odio e disprezzo per la controparte araba, di cui si sono resi protagonisti nel corso dei decenni passati le personalità più prestigiose della storia recente di Israele, figure esaltate dai grandi media occidentali come fulgido esempio di democrazia; sentimenti del resto prevalenti in seno all’attuale équipe governativa israeliana, dominata dai rappresentanti dell’estrema destra nazionalista, che vede nei palestinesi “belve feroci con sembianze umane” (Naftali Bennett, leader del partito ultranazionalista del “Jewish Home”).

Tale rattristante scenario lascia invero un ben tenue spazio alla più remota speranza di un seguito incruento della drammatica crisi che colpisce la martoriata entità palestinese.

&

I massacri a Gaza presentano però un risvolto positivo. Essi hanno permesso a Hamas di uscire dalla situazione di grave debolezza nella quale si trovava fino alla vigilia del conflitto, quando l’isolamento politico, per via dei mutamenti intervenuti nella regione, in particolare il colpo di stato militare del luglio 2013 in Egitto, e il conseguente degradato quadro economico e sociale nella Striscia avevano costretto la formazione islamista ad accettare l’idea di far parte di un governo di unità nazionale con lo schieramento rivale di Fatah, al potere in Cisgiordania.

Hamas è stata colpita nel momento della sua maggiore debolezza, in uno scenario regionale contraddistinto da sanguinosi rivolgimenti, in Egitto, Siria, Iraq, Libia. Ma l’ennesima aggressione israeliana, abbastanza paradossalmente, le ha consentito di riacquistare forza e peso politico al punto che, a partire da questa cruenta fase, nessuna trattativa diplomatica potrà più svolgersi prescindendo dalla formazione diretta da Khaled Meshal e dalle due altre succitate milizie armate.

L’intento di Tel Aviv di infliggere il colpo finale a Hamas, profittando di un quadro regionale sottoposto a spinte devastanti, è fallito e la resistenza palestinese appare ora più unita e determinata nelle sue componenti, ponendo termine a lunghi periodi di divisione e profondi contrasti.

Ultimo esempio di un migliorato clima di collaborazione tra le quattro istanze del movimento palestinese si è avuto in questi giorni con la decisione assunta dalle tre formazioni islamiste di appoggiare formalmente la “démarche” di Mahmoud Abbas volta a conseguire l’adesione dell’Autorità palestinese, come Stato “osservatore non-membro”  delle Nazioni unite, alla Corte penale internazionale con lo scopo di denunciare in quella sede i crimini di guerra commessi dall’aggressore israeliano. I muri di diffidenza che separano i vertici delle due principali forze politiche Fatah e Hamas non paiono di agevole superamento ma sarebbe errato disconoscere la rilevanza di progressi compiuti in questa direzione.

Questo è l’aspetto da evidenziare a ulteriore riprova che da questa guerra coloniale, verosimilmente l’ultima che sia dato riscontrare al giorno d’oggi nel mondo per le sue intrinseche caratteristiche e l’irriducibile distanza delle posizioni in confronto, un solo vincitore potrà scaturire, legittimato nella sua lotta dalla forza conferitagli da decenni di vessazioni, della cui insostenibilità un certo numero, seppur ancora non cospicuo ma qualificato, di attori internazionali comincia finalmente a prendere coscienza.