L’onda dei mutamenti nel Golfo Persico

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Premessa

La spirale dell’odio settario, aggravatasi all’indomani dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003, ha assunto una dimensione regionale e interessa ora una grande parte del Medio Oriente, coinvolgendo anche la ricca regione del Golfo, fatta un’eccezione per Qatar ed il sultanato di Oman, entità quest’ultima con una storia e tradizione culturale e religiosa difformi dagli altri cinque Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC).

Lo scontro all’interno dell’universo islamico non riguarda più soltanto il “divide” multi-secolare tra sunniti e sciiti e l’implacabile contrapposizione tra le due “powerhouse” del Golfo, l’Arabia saudita e l’Iran, fonte d’inaudita violenza in Siria, Iraq, Libano, Yemen, citando i casi più impattanti. Esso si è esteso alla stessa famiglia sunnita, dove l’islamismo militante dei Fratelli mussulmani è visceralmente osteggiato, con l’eccezione di Qatar, dal verbo religioso (e politico) prevalente nella regione del Golfo, ispirantesi al severo messaggio del wahabismo saudita professato e propagato dalla casa regnante della dinastia Saud, al potere nella penisola arabica da poco meno di un secolo.

Il rovesciamento nel luglio del 2013 in Egitto di Mohammed Morsi da parte dell’establishment militare, sull’onda di un sommovimento popolare che vede ora largamente compromesse le aspirazioni ad una reale democrazia nella più importante realtà del mondo arabo, ha sanzionato la fine di un’esperienza politica fortemente avversata dall’Arabia saudita e dalla maggior parte delle autocrazie del Golfo, spaventate dal militantismo religioso, politico ed antidinastico del movimento fondato in Egitto da Hassan al-Banna poco meno di un secolo fa. Sui Fratelli mussulmani si abbatte da tempo, in un’atmosfera contraddistinta da frequenti richiami all’esperienza nazionalista e autoritaria di Gamal Abdel Nasser, una spietata, sanguinaria repressione, che non tiene conto del rilievo e del ruolo svolti dalla formazione islamista nella storia moderna di quel grande Paese. Non aver tenuto di questo aspetto non potrà giovare al progresso ed alla stabilità dell’entità più importante nell’universo arabo-islamico.

Ma anche in seno al sunnismo di matrice saudita non ha mai cessato di esistere un altro profondo contrasto tra una componente “gradualista”, meno rigorista, più incline al dialogo ed al mantenimento dei rapporti con l’Occidente ed un’altra intransigente ed aliena da ogni apertura, richiamantesi al puritanesimo religioso esistente al tempo del Profeta, che continua a beneficiare di un sostegno occulto ma sostanzioso da parte delle numerose e ricche “cellule” fondamentaliste pullulanti nell’area del Golfo. Di questo scontro, al momento solo covante in Iraq, si hanno ricorrenti cruenti esempi soprattutto in Siria, con conseguenze che tornano a tutto vantaggio del regime autoritario contro cui è diretta da tre anni l’azione armata delle formazioni anti-Assad.

Lo scenario che offre l’universo islamico è tempestoso, contraddistinto dal tragico esacerbarsi del conflitto arabo-israeliano, “la sorgente di tutti i mali” nella regione, anch’esso collegato alle divisioni in seno alla famiglia sunnita, e l’idra della guerra settaria sembra non conoscere più limiti alla propria destabilizzante azione e ai negativi effetti sul futuro di equilibri di pace sempre più precari ed inquietanti.

 

L’eccezione di Qatar

A tal riguardo riteniamo utile attirare l’attenzione sulle peculiarità della politica estera di Qatar, fonte di profonda diffidenza da parte delle altre monarchie del Golfo, in particolare l’Arabia saudita, gli Emirati arabi uniti e Bahrein. Unico tra i Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, l’ex-Emiro bin Khalifa al-Thani ha fornito, fino al momento della sua abdicazione a favore del figlio Tamim, sviluppo su cui si tornerà più avanti, un sostegno pieno agli “Ikwan” (Fratellanza) egiziani nel dispiegamento di una diplomazia molto ambiziosa, poggiante sulle immense ricchezze del minuscolo Stato, abitato da appena 2.5 milioni di abitanti, dei quali più della metà sono stranieri; aspetto questo che rende il primo esportatore al mondo di gas naturale maggiormente al riparo dalle tensioni destabilizzanti di cui patiscono in maniera difforme altri membri del GCC.

I campi della politica estera hanno tradizionalmente rappresentato un’area di contrasto tra l’Arabia saudita e Qatar, per il resto uniti da indubbie affinità sotto il profilo economico, politico e religioso. L’autoritarismo esistente nell’emirato ha poco da invidiare all’assolutismo prevalente nel potente vicino, nel segno di una gestione autocratica che si intende inflessibilmente preservare.

L’insorgere della Primavera araba ha visto Riyadh e Doha assumere posizioni divergenti. Il rovesciamento dei regimi autoritari filooccidentali di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, registrato con trepidazione dalla casa regnante saudita, ha suscitato per converso reazioni positive nel minuscolo Emirato che vi ha scorto l’occasione per accrescere il proprio peso diplomatico e la propria influenza in una regione anch’essa coinvolta in processi insidiosi per un assetto arcaico e profondamente conservatore che si desidera preservare.

Nei tre Paesi dove i sommovimenti hanno provocato mutamenti irreversibili, Tunisia, Egitto e Libia, l’Emirato di Qatar ha svolto fin dall’inizio un ruolo di assoluto rilievo, portando avanti un’opera di penetrazione, apparsa peraltro mal accetta da parte degli ambienti laici e liberali locali, riluttanti ad avallare condizionamenti ritenuti in disarmonia con le aspirazioni di libertà, maggiore giustizia sociale e progresso alla base dei sommovimenti.

Tutto ciò ha altresì alimentato il livore del potente alleato saudita, preoccupato per i negativi contraccolpi che il successo degli islamisti nelle tre realtà nord-africane potesse arrecare agli interessi dinastici delle altre monarchie del Golfo: oltre all’Arabia saudita, anche gli Emirati arabi uniti e Bahrein, senza tralasciare il regno di Giordania, alleato fedele dell’Occidente, strettamente legato ai sauditi e potenzialmente esposto a tensioni di ordine politico e religioso dovute ad un quadro interno diviso e differenziato.

L’evoluzione del quadro politico in Tunisia, dove il potere della forza islamista Ennahda, appoggiata dal Governo di Doha, ha dovuto tener conto dell’onda contestataria della società civile, dell’azione destabilizzante dell’estremismo salafita e delle frange jihadiste tuttora pericolosamente in azione nonché  il cruento colpo di stato militare in Egitto hanno segnato dei punti a favore della monarchia wahabita in grado di ripristinare un rapporto di stretta alleanza con l’Egitto, ricalcante il legame esistente al tempo dell’ex-Presidente Mubarak, dopo la non gradita parentesi di Mohammed Morsi. Particolarmente inquietante era apparso agli occhi dei sauditi il cauto avvicinamento del potere islamista al Cairo in direzione dell’Iran, il nemico irriducibile della dinastia Saud. La contrapposizione tra le due sponde del golfo Persico trova riscontro nella Repubblica islamica che considera l’Arabia saudita “il nemico numero uno, più inviso e più pericoloso della stessa entità sionista e degli Stati Uniti”, usando le acerbe espressioni emananti dai vertici dell’establishment sciita.

E’ interessante notare come anche a proposito della guerra civile siriana le divergenze tra Riyadh e Doha hanno avuto modo di manifestarsi. L’alleanza strategica della Siria di Bachar al-Assad con l’Iran e il movimento libanese sciita degli Hezbollah, tutti e tre membri del cosiddetto “Asse della Resistenza”, garante della lotta del popolo palestinese contro l’occupazione israeliana, ha fornito alle autocrazie del Golfo l’occasione per colpire gli interessi iraniani nell’area, provocando una guerra settaria contro il regime alauita siriano, contiguo dal punto di vista religioso al credo sciita. Illuminanti sono apparse a tal riguardo le affermazioni dell’ex-responsabile dell’intelligence saudita Bandar bin Sultan, recentemente defenestrato, secondo cui “il Regno wahabita non può permettersi di subire un accerchiamento da parte di regimi ostili in Siria, Iraq e Iran mentre in Libano permane la mina vagante degli Hezbollah filo-iraniani”.

Le conseguenze di tali scelte sono sotto gli occhi di tutti. La tragedia siriana parla da sola con un bilancio spaventoso di lutti e distruzione, 170.000 morti nei tre anni dall’inizio della rivolta e una massa enorme di rifugiati, disseminata nei campi profughi allestiti in Libano, Giordania e Turchia. Tutto questo si accompagna con lo snaturamento di un movimento di rivolta in Siria che, a somiglianza di quanto avvenuto in Tunisia ed Egitto, si basava nelle sue prime fasi su rivendicazioni laiche, di maggiore democrazia, giustizia e libertà, per degenerare, in un secondo momento, in una spietata guerra di religione, condotta per calcoli di potenza e interessi economici contrastanti.

L’Arabia saudita e Qatar, uniti nell’intento di scardinare le posizioni di potere degli “infedeli” sciiti in Medio Oriente, hanno per parte loro rivaleggiato in un continuo scontro d’influenza, fornendo il loro cospicuo appoggio a fazioni diverse in seno alla composita galassia delle organizzazioni ribelli siriane, accrescendo in itinere le divisioni e la frammentazione di un fronte anti-Assad; dove si assiste al peso rilevante assunto da formazioni affiliate ad Al-Qaeda, composte da jihadisti provenienti da ogni regione dell’universo islamico. Gli obiettivi di questi schieramenti hanno poco a che fare con le aspirazioni di sviluppo e crescita politica della popolazione siriana. Essi puntano per converso all’applicazione rigorosa e inflessibilmente puritana della legge coranica, osteggiata da una società culturalmente aperta come quella siriana, nel disegno, irreale, di ricreare l’assetto sociale e culturale esistente al tempo del Profeta.

Come l’appoggio a simili bande di estremisti sunniti, in grado di dar vita a forme di governo arcaico (“califfati”) scomparse con l’eclissarsi dell’impero ottomano, potesse conciliarsi con i proficui rapporti di collaborazione intrattenuti da Qatar prima con il regime siriano e poi, tuttora, con il nemico acerrimo del jihadismo sunnita, l’Iran degli ayatollah, con il quale Doha condivide la proprietà di South Pars, il più grande giacimento di gas naturale al mondo, riesce arduo comprendere, soprattutto agli occhi dei sauditi, sconcertati dalle disinvolte movenze della “real politik” dell’emiro Al-Thani.

Occorre altresì notare che Qatar ospita il quartier generale del “Central Command” americano (US CENTCOM), la più importante struttura militare al servizio della lotta antiterroristica in Medio Oriente, Nord Africa e Asia centrale, particolare che rende vieppiù sconcertante il sostegno di Qatar a movimenti di militanza islamica il cui dichiarato obiettivo è la lotta contro la presenza ed i valori culturali dell’Occidente.

Una spiegazione risiede verosimilmente nella mal ponderata ambizione di un Emiro che, nello spregiudicato perseguimento di interessi contrapposti a quelli dei Paesi partner, si è visto poi costretto ad uscire di scena, abdicando in favore del figlio Tamim, salvando in tal modo la dinastia ma manifestando nel contempo le difficoltà di una diplomazia alquanto scomposta ed irriflessiva.

 

 

Apprensioni saudite

Comprensibili appaiono le apprensioni dell’Arabia saudita, “Custode dei due siti spirituali della Mecca e di Medina”, realtà dove la profonda affiliazione religiosa coesiste, diversamente da quanto in essere in Iran, col rispetto e l’obbedienza portati verso la dinastia reale dei Saud donde emana il potere politico e religioso. Questo spiega l’ostilità con la quale il regno wahabita vede l’azione dei Fratelli mussulmani, considerati da Riyadh “organizzazione terrorista”, la cui finalità è per converso di tradurre in azione politica i precetti del Corano, creando un assetto fondato in minor misura sulla tutela di privilegi e maggiormente su un ordine caratterizzato dalla solidarietà sociale. Quanto dispiegato in Egitto dai Fratelli mussulmani dal momento della loro nascita nel 1926 rappresenta la prova della coerenza dell’impegno prodigato in questo campo dal movimento fondato da Hassan al-Banna.

Le tensioni che scuotono il Medio Oriente, sotto ogni profilo, sono fonte di inquietudine per i governanti sauditi determinati a preservare un sistema feudale fondato sul potere assoluto della casa reale e sulla fedeltà, altrettanto assoluta, dei sudditi. Il wahabismo e il salafismo imperanti nell’islam praticato in Arabia saudita traggono la loro legittimazione dall’autorità della dinastia Saud. Il Grande Mufti, la suprema autorità religiosa del Paese, viene, in effetti, nominato dal re e ogni sua presa di posizione non prescinde mai dalle visioni professate e dagli interessi perseguiti dai reggitori politici sauditi.

Questa premessa è utile per comprendere il senso di irritazione provato a Riyadh di fronte alle “improvvide scelte” dell’ex-emiro del Qatar, prima con l’appoggio fornito in Egitto ai Fratelli mussulmani, nel quadro di un’azione diplomatica prefigurante un asse triangolare formato da Qatar, Egitto e Turchia, poi con il sostegno alle fazioni estremiste in Siria, collegate ad al-Qaeda, in rotta di collisione, anche militare, sia con le milizie curde siriane sia con le formazioni dell’opposizione islamica moderata del “Free Sirian Army”, sostenute dall’Occidente, aliene dal cavalcare i disegni di una Jihad in aperta discrasia con le aspirazioni della maggioranza della martoriata popolazione siriana.

Il regno wahabita deve altresì fare i conti al suo interno con movimenti di protesta e contestazione destinati ad accrescersi in futuro, viste le dinamiche sprigionate da un mondo in cambiamento, nel quale anche l’Arabia saudita si trova ad essere coinvolta. Né le ingenti risorse allocate per alleviare il malessere politico e sociale paiono sufficienti a neutralizzare in maniera rassicurante una contestazione che affonda le sue radici in una “governance” in totale distonia con la complessità e la pluralità del mondo attuale.

Due sono le forze suscettibili di costituire nel prossimo futuro motivo di preoccupazione per i monarchi sauditi. Gli strati giovanili e le donne rappresentano un’insidia per l’ordine costituito. L’attrazione esercitata dalle nuove tecnologie della comunicazione è un dato incontrovertibile per l’effetto che esse producono sotto il profilo di una filosofia di vita diversa da quella soffocante derivante da un regime autocratico che, dietro lo schermo della fedeltà al messaggio coranico, continua a rifiutare la “contaminazione democratica”, imponendo l’assoggettamento a uno stile di vita inconciliabile con le sfide della realtà globalizzata nella quale oggi si vive. Il senso di malessere e di “remise en cause” di valori ritenuti immutabili traspare dal corpus della società saudita. L’ultimo esempio è stato fornito dall’aperta sfida lanciata dalle donne che non accettano più di veder precluso il loro diritto di guidare una normale autovettura. Il processo di emancipazione femminile sembra ormai irreversibilmente avviato ed esso può trarre linfa dalle caute aperture in proposito di cui si è reso protagonista il sovrano del regno, Abdullah ibn Abdilazīz.

La seconda minaccia è rappresentata dalla contestazione, molto spesso violenta, portata avanti dalla minoranza sciita residente nelle regioni orientali del regno, la “Eastern Province”, sede dei più importanti giacimenti petroliferi del Paese. Le accuse di fonte saudita secondo cui tale contestazione sarebbe il frutto dell’azione eversiva iraniana non appaiono convincenti. Se è vero che tale movimento di rivolta va obiettivamente nella direzione degli interessi iraniani, ciò non vuol dire che esso si debba necessariamente identificare con gli interessi di Potenza dell’Iran. La ribellione nelle province orientali è portata avanti da comunità di lingua e cultura araba tant’è vero che l’aspirazione profonda degli sciiti sauditi non è quella di confluire nella Repubblica degli ayatollah ma di unirsi ai loro fratelli di religione e di razza in rivolta nell’enclave di Bahrein contro l’oppressiva monarchia sunnita al potere a Manama, strettamente legata alla dinastia Saud. E’ opportuno ricordare che solo l’intervento armato dell’Arabia saudita e degli Emirati arabi uniti nel marzo 2011 ha permesso la sopravvivenza della dinastia reale sunnita degli Al- Khalifa, invisa alla grande maggioranza di fede sciita della popolazione di Bahrein.

Ciò dà comunque un’idea dello spessore delle inquietudini che agitano i sonni dei principi sauditi e del mal sopito livore con cui hanno registrato le destabilizzanti scelte di Qatar di fronte agli sconvolgimenti provocati dalla Primavera araba. Per converso queste inquietudini si collocano a un livello minore nel minuscolo emirato, il Paese più ricco del mondo sotto il profilo del reddito pro-capite, proteso nei processi d’innovazione finanziaria, tecnologica e mediatica (“Al Jazeera”), popolato da due milioni e mezzo di abitanti, di cui, come già detto, più della metà è composto da tecnici e lavoratori stranieri, peraltro privati di elementari diritti. L’immagine di Qatar ha subito un duro colpo dalle condizioni di lavoro assai disagevoli inflitte alla cospicua forza lavoro straniera, costretta a subire umilianti trattamenti sui quali gli organismi delle Nazioni Unite non hanno lesinato in aspre e fondate critiche. Il che ha indubbiamente contribuito a inficiare il prestigio di un Paese, apparentemente al momento “en perte de vitesse” nei confronti dell’Arabia saudita ed anche della “powerhouse” finanziaria degli Emirati arabi uniti.

La tenue incidenza al suo interno di fattori destabilizzanti ha comunque consentito all’emirato governato dalla dinastia al-Thani di ricalibrare la propria diplomazia, tenendo conto di un quadro di riferimento profondamente mutato e delle conseguenze di scelte, funzione di un “overreach” mal meditato. Da questo, occorre pur riconoscere, l’emiro Khalifa al-Thani ha saputo venir fuori con eccellente tempismo, passando il testimone al figlio Tamim, incaricato di ritoccare, forse più nelle forme e nel linguaggio che nella sostanza, una rotta che avrebbe portato all’insostenibile isolamento della minuscola entità.

Tale sbocco ha avuto luogo, occorre ricordare, nel giugno dello scorso anno, pochi giorni prima del rovesciamento del regime islamista di Mohammed Morsi in Egitto, appoggiato senza riserve da Doha a suon di abbondanti iniezioni di petrodollari ($9 miliardi) e altre forme di sostegno.

Altro fattore che ha contribuito all’improvvisa abdicazione di un emiro ritenuto onnipotente è stato l’andamento della guerra civile siriana. Come già accennato, Qatar ha fornito un sostanzioso sostegno alle formazioni più estremiste del radicalismo islamico, come le milizie dello “Stato islamico in Iraq” (ISI), trasmigrate, contro lo stesso volere di Al-Qaeda, nella finitima Siria in nome della Jihad islamica, contestata perfino dagli stessi jihadisti siriani. L’ISI è ora divenuto l’I.S. (Islamic State), in grado di governare dallo scorso giugno un califfato che copre la vasta area dell’est siriano e dell’ovest iracheno al termine di una guerra-lampo che lo ha portato alla conquista di centri simbolo in Iraq come Mosul (la seconda città del Paese) e Tikrit (luogo di nascita del defunto dittatore Saddam Hussein).

Tutto ciò ha facilitato il ritorno in forza, in seno ai vertici della rappresentanza politica del fronte anti-Assad, di elementi vicini agli interessi sauditi. Il che ha prodotto un aggravarsi dello scollamento tra le numerose fazioni armate operanti sul campo, che pongono in discussione la legittimità politica di una nomenclatura residente fuori dai confini nazionali e “interessata esclusivamente al proprio potere e al confort dei grandi hotel”(!). Non è qui la sede per un approfondimento del tema ma una soluzione negoziata della tragedia siriana, in grado di preservare l’unità del Paese, appare una meta ormai pressoché irraggiungibile.

 Il giovane emiro Tamim al-Thani si è affrettato nei suoi primi passi a moderare le prese di posizione, ripudiando atteggiamenti ritenuti “arroganti” e auspicando l’adozione di un approccio “pragmatico”, nella consapevolezza che il successo delle formazioni jihadiste in Siria rappresenterebbe una minaccia per la stabilità delle monarchie arabe, in primis la Giordania, la più esposta tra le case regnanti ai contraccolpi del dramma siriano e dello sgretolamento dell’entità irachena, anche, come già detto, per le tensioni che ivi sono covanti.

 

Conclusioni

Ciò detto, si può dunque dedurre che la rivalità tra il gigante saudita e il ricchissimo minuscolo emirato appartenga definitivamente al passato? A nostro modo di vedere essa tenderà a ripresentarsi, come avvenuto lo scorso marzo con il ritiro degli ambasciatori saudita, degli Emirati arabi uniti e di Bahrein da Doha per ragioni legate al “persistente appoggio di Qatar ai Fratelli mussulmani” e alle asserite “interferenze negli affari interni” dei tre Paesi.

A nostro modo di vedere un aspetto dovrebbe essere tenuto presente. La correzione di rotta operata dalla dinastia al-Thani è stata esclusivamente imposta da un quadro di evoluzione reale chiaramente negativo per Doha. Nulla peraltro potrà impedire che la rivalità, per quel che attiene alle divergenze sopra delineate ed anche ai rapporti con le altre Potenze della regione, in particolare con l’Iran, possa tornare a manifestarsi, dato che essa poggia in buona misura su esigenze legate alla valorizzazione delle rispettive ricchezze energetiche, oltre che sul desiderio non dichiarato dell’Emirato di differenziarsi da suoi vicini, mantenendo una sua prediletta peculiarità. Tale atteggiamento ha contraddistinto l’azione di Qatar fin dalla sua ascesa all’indipendenza nel 1971 quando rifiutò di unirsi ai sette Emirati arabi uniti per preservare una sua gelosa indipendenza.

L’immenso giacimento di gas naturale di South Pars, il più vasto al mondo, di cui l’Iran e Qatar condividono la proprietà, non può non orientare le scelte dell’Emirato nella sua relazione con la Repubblica islamica, giunta a celebrare il trentacinquesimo anniversario della sua esistenza. Ciò costituisce motivo di divisione e contrasto con la monarchia saudita che, come abbiamo visto, considera l’Iran una “minaccia esistenziale”, oltre che un rivale di assoluta rilevanza nel mercato delle fonti d’energia.

L’uscita di scena in Iran del populista Ahmadi-Nejad e la venuta del moderato Hassan Rouhani, appartenente al clero sciita e appoggiato dal Supremo Leader Ali Khamenei, verso il quale la diplomazia USA mostra segni di dialogo, lasciando prefigurare inediti scenari nella regione, non ha prodotto mutamenti di rilievo nella profonda diffidenza dei sauditi verso il regime degli ayatollah, di cui si teme la destabilizzante influenza sul precario humus politico e religioso del Regno e dei suoi alleati nell’area medio-orientale.

Le prese di posizione del Ministro degli esteri di Qatar hanno, in effetti, costituito una conferma degli orientamenti della diplomazia di Doha incline a vedere nell’Iran “un Paese vicino con il quale intrattenere rapporti a tutti i livelli”. Linguaggio piuttosto chiaro che lascia trasparire la volontà di preservare una propria indipendente diplomazia, anche se in guise diverse da quelle avventuristiche dell’ex-Emiro.

Forse tali perentorie riaffermazioni sono anche da collegare a riallineamenti nella regione a proposito della crisi siriana dove ha avuto luogo un interessante riavvicinamento tra la Turchia, con la quale Qatar ha da tempo positive relazioni, e l’Iran. Tale sviluppo sarebbe stato in buona misura determinato dal ruolo dominante ora svolto dai sauditi in seno all’opposizione politica siriana che non ha colpito solamente gli interessi del Qatar ma anche quelli di Ankara. Né si può tralasciare lo spessore della relazione economica esistente tra Teheran e Ankara se si considera che l’Iran è uno dei principali esportatori di gas naturale nel Paese anatolico.

Il governo di Erdogan teme altresì il proliferare delle milizie affiliate ad Al-Qaeda nei pressi della frontiera comune, lunga più di 800 chilometri (v. mappa), tra Siria e Turchia sino al punto che, per ammissione delle stesse formazioni armate curde siriane operanti anch’esse in contiguità della zona di confine e in aperto conflitto con i jihadisti, la Turchia avrebbe deciso di sospendere qualsiasi sostegno alle milizie ribelli, diversamente da quanto fatto, con una certa irresponsabile leggerezza, fino a tempi recenti.

Tutto questo sarebbe la prova che la guerra civile in Siria si svolge su due fronti: uno riguardante la lotta per l’abbattimento del regime di Bachar al-Assad, a tutt’oggi rimasta senza risultati, l’altro lo scontro ormai aperto tra l’opposizione moderata, appoggiata dall’Occidente e dai sauditi, e le milizie curde da una parte e le bande di jihadisti, assurte a un ruolo pericolosamente rilevante in seno al frammentato schieramento anti-Assad.

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In definitiva quel che emerge è una realtà preda di convulsioni dove, nel mentre il peso e l’influenza degli Stati Uniti appaiono avere imboccato la via di un irreversibile declino, le contrapposizioni nella regione paiono esacerbarsi, aggravate anche dal precipitare dello scontro tra Israele e palestinesi con una nuova guerra di aggressione contro l’enclave di Gaza (la terza nello spazio di sette anni). Ciò è causa di divergenze tra Qatar e la Turchia, vicini ad Hamas, emanazione palestinese dei Fratelli mussulmani, da una parte e l’Arabia saudita e gli Emirati arabi uniti, che intrattengono con il movimento islamista rapporti tutt’altro che cordiali, dall’altra.  Il fatto che nessuno dei sei governi del Consiglio di Cooperazione del Golfo abbia relazioni diplomatiche con Tel Aviv non può celare l’esistenza di atteggiamenti difformi nei rapporti sia con lo Stato ebraico sia con le componenti della resistenza palestinese. Ciò si è manifestato con una certa evidenza nel corso dei drammatici eventi che dall’8 luglio scorso hanno tragicamente colpito la Striscia di Gaza, messa a ferro e fuoco dalla macchina di guerra israeliana con un altissimo tributo di sangue in seno alla popolazione civile palestinese.

Tutto questo tocca da vicino i Paesi del Golfo, coinvolti nella tormenta prodotta dalla Primavera araba e dall’esplodere del dramma palestinese, oltre che dall’evolvere della crisi iraniana giunta forse nei pressi di un punto di svolta. A fronte di evoluzioni dagli sbocchi difficilmente prevedibili le diplomazie dei sei Paesi membri, nel perseguimento di interessi non collimanti, sono all’opera per arginare gli effetti destabilizzanti di tali processi sui loro assetti di dominio.

 In tale agitato scenario i tradizionali condizionamenti esterni devono fare i conti anche con un desiderio di rinnovamento, all’interno delle autocrazie, certamente più forte e determinato rispetto a quanto poteva apparire fino all’insorgere della Primavera araba.

 

Angelo Travaglini, 31 luglio 2014