Le élite palestinesi hanno lanciato un enorme festa per l’apertura di un mega Centro commerciale a Ramallah, mentre le bombe stanno squarciando Gaza
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- Scritto da Abdaljawad Omar
18 aprile 2025
La foto promozionale ampiamente diffusa sui social media dell'inaugurazione di Icon Mall. Nella foto è il governatore di Ramallah, Laila Ghannam (al centro,), aprile 2025.
L’inaugurazione festosa del centro commerciale Icon di Ramallah mentre il genocidio di Gaza continua, dimostra che le élite palestinesi non sono semplicemente indifferenti, ma senza vergogna.
Il 12 aprile, a Ramallah è stato inaugurato un nuovo centro commerciale con il nome di “Icon” – una scelta deliberata che cerca non solo di nominare ma di consacrare, per inquadrare l’esemplare come sacro. L’apertura è stata segnata da uno spettacolo in piena regola: ballerini coreografati, musica celebrativa, una folla festosa e una cerimonia di taglio del nastro a cui hanno partecipato funzionari e élite palestinesi. Era un'estetica di pompa e di circostanze, una prestazione accuratamente messa in scena della normalità. Ma mentre le immagini e i video dell’evento circolavano online, si sono scontrati con la realtà del massacro in corso a Gaza. I social media sono scoppiati – specialmente da Gaza e palestinesi ovunque – in un’ondata di rabbia, dolore e incredulità. Come potrebbe esserci danza mentre i corpi vengono ancora estratti dalle macerie? Come potrebbe un tale display svolgersi in un momento in cui intere famiglie venivano cancellate ogni giorno?
Nessuna scusa o spiegazione ufficiale è stata offerta dalla direzione del centro commerciale. C’era, invece, un silenzio studiato – o peggio, il messaggio implicito che non era necessaria alcuna scusa. Nel rifiuto di riconoscere la dissonanza, una condizione affettiva più profonda comincia a mostrarsi: non semplicemente l’indifferenza, ma la spudoratezza – un disconoscimento del momento politico che è così completo che anche il genocidio non può interrompere il ritmo del desiderio di consumo. Questa non è solo l’apertura di uno spazio commerciale; è la messa in scena di un nuovo rituale e la santificazione della forma mercantile come oggetto centrale del culto contemporaneo per una classe media palestinese.
I parenti e le persone care dei palestinesi uccisi negli attacchi israeliani alle tende che ospitano palestinesi sfollati, piangono per i defunti all’ospedale Nasser di Khan Younis, a Gaza, il 17 aprile 2025. (Foto: Doaa el-Baz/APA Immagini)
Il centro commerciale si erge lungo la strada per l’Università di Birzeit, un tempo costituita da apparato esemplare di istruzione superiore, immaginato negli anni ’80 come spazio per la produzione di coscienza nazionalista e per pensare al mondo: le sue esclusioni, le sue violenze, i suoi limiti. Che il percorso verso un tale sito sia ora fiancheggiato da templi di consumo non è casuale, ma paradigmatico. La strada era una volta il luogo del vecchio mantra di sumud – resistendo al checkpoint e arrivando all’università come un gesto di resistenza contro l’apparato che cercava di ostacolarlo nell’altezza della Seconda Intifada. Ora, in un’inversione quasi completa, è il mondo dei giovani, soffuso dall’imperativo di accumulare, che ha ri-scritto l’università non come destinazione ma come interruzione. Una rottura tra i turni al lavoro o passeggia attraverso il centro commerciale, l'università non si lamenta non come un luogo di pensiero, ma come una pausa all'interno della nuova liturgia della circolazione.
Cosa c’è di sbagliato in questo tempio del consumo? - Niente, davvero. È come molte altre cose che il mondo ha già visto. Arriva in Palestina, come al solito, qualcosa di preso in prestito e ripetuto. La sua novità è solo a livello di superficie. Quello che sembra un progresso è davvero solo raggiungere un modello già logorato altrove. Quello che riceviamo non è il futuro, ma una copia ritardata del passato di qualcun altro.
Eppure, come molte cose che circolano qui – imitate, parodiate o consumate – arriva anche come un’intrusione. Porta con sé la sensazione di qualcosa, quasi fuori luogo. Appare non solo come un simbolo di uguaglianza globale, ma come una quieta resa a un presente segnato da catastrofe e perdita, o una sorta di riconciliazione con ciò che non avrebbe mai dovuto essere accettato.
Questa è forse l’ironia – o la tragedia tranquilla, quasi comica – di essere in un centro commerciale e di muoversi attraverso i suoi rituali: il flusso curato dei passi, la coreografia del consumo, i sorrisi finti alle vetrine, e anche quelli genuini che salutano un nuovo cliente. Tutto continua a svolgersi mentre, a Gaza, i genitori lottano per sfamare i loro figli, rannicchiandosi insieme nella speranza che se una bomba squarcia nelle tende e nelle ultime pietre rimaste, potrebbero almeno non essere lasciati soli.
Come si fa a sopravvivere a un genocidio se non intrappolato nel suo immediato incendio? La risposta è semplice, fredda e dolorosamente precisa: sopravvivi fingendo che non stia succedendo nulla, o sapendo cosa sta succedendo, ma continua a insistere che non lo sia.
Questa è anche la questione che ha saturato gli spazi sociali nel tempo del genocidio. È il mormorio sotto le conversazioni e il filo inespresso che collega i palestinesi fuori Gaza. In un momento in cui Israele ha trincerato la separazione palestinese, sia fisica che temporale, i palestinesi sono stati dispersi in condizioni così diverse che ora cantigono le stesse canzoni della Palestina mentre vivono in mondi radicalmente disgiunti. Ma quel ronzio, per quanto sincero, comincia a sentirsi vuoti quando le bombe cadono e i limiti dell'impegno politico vengono messi a nudo. Come si fa a sopravvivere a un genocidio se non intrappolato nel suo immediato incendio? La risposta è semplice, fredda e dolorosamente precisa: sopravvivi fingendo che non stia succedendo nulla, o sapendo cosa sta succedendo, ma continua a insistere che non lo sia.
Il vergognoso e lo spudorato
Dall’ottobre del 2023, i palestinesi in Cisgiordania sono stati impegnati in una pianificazione tranquilla e spesso inespressa dello scenario. Il mondo che li circonda si sta spostando: posti di blocco si moltiplicano, soldati che diventano più crudeli, più brutali, più sadici; coloni più numerosi, più incoraggiati, più allegri nella loro violenza. E Gaza – i suoi massacri quotidiani sono un persistente promemoria di ciò che è possibile qui, e attraverso le comunità geograficamente disperse della Cisgiordania.
Non sorprende, quindi, sentire due persone incontrarsi e scherzare su dove finiranno per vivere all’indomani di un’altra Nakba – o per sentire gli altri dichiarare, forte e provocatorio, che non se ne andranno. Anche Motaz Azaiza ora commercializza ai ricchi palestinesi l’opzione di ottenere un secondo passaporto attraverso schemi di investimento nelle nazioni delle isole dei Caraibi.
La paralisi della politica – e l’inoperabilità di una risposta politica – è diventata la caratteristica distintiva della vita, anche se la Cisgiordania subisce una rapida e violenta intensificazione del colonialismo. Decine di migliaia di sfollati, terre annesse, futures preclusionati e ancora il tentativo di sostenere gli affari come al solito continuano. Per tutto il tempo, le pubblicità dei coloni appaiono sugli schermi e sui cartelloni pubblicitari dicendo ai palestinesi: “Non c’è futuro in Palestina”.
Gli spudorati non si scusano più, e coloro che provano vergogna agiscono come se la vergogna stessa fosse l’unica forma di impegno politico rimasta.
All’interno di questo paesaggio, le persone vengono trasformate, non solo nel loro ritiro nel mondo a porte chiuse, ma sopraffatte dall’incertezza di ciò che verrà dopo. Inoltre, gli spudorati non si scusano più, e coloro che provano vergogna agiscono come se la vergogna stessa fosse l’unica forma di impegno politico. La guerra, quindi, si svolge non solo sul terreno, ma anche tra le disposizioni affettive – tra lo spudorato e il vergognoso.
Non sorprende che alcuni di coloro che tentano di abitare la vergogna inizino ad armarla – come se fosse una forma di redenzione, un rituale di auto-pulizia. Altri si ritirano nel silenzio, spezzati dall’intensità della transizione, dall’incapacità di abitare la resistenza e dal ritiro a porte chiuse. Nel frattempo, coloro che dimorano nella sfacciataggine adottano una posizione sempre più indurita: anti-resistenza, incolparsi di sé fino all’inversione morale, chiedendo la resa come se fosse chiarezza, sostenendo l’Autorità Palestinese come se fosse l’ultimo santuario dell’ordine e facendo crollare il sacro nel profano in una disperata ricerca di legittimità politica.
Sulla scia della Nakba, molti palestinesi che hanno provato la vergogna dello sfollamento forzato hanno trasformato quella vergogna verso l’interno. Si sono incolpati di non essere riusciti a difendere, a organizzarsi, a combattere – e hanno preso il silenzio come una forma di lutto e di auto-punizione. Oggi i ruoli sono cambiati. La vergogna diventa ora un modo di sentirsi in sintonia con il massacro, di rimanere colpiti, implicato – eppure rimane circolare. Nel frattempo, gli spudorati non sentono alcun bisogno di agire – perché, per loro, la sottomissione è l’unica risposta, e la colpa ricade su coloro che si rifiutano di sottomettersi.
E anche questa è plasmata dalle voci degli amici e dei cari a Gaza – o da Gaza – che parlano incredulità per il silenzio, la quiete, la paralisi dei loro concittadini palestinesi. Il prezzo della guerra per la liberazione viene pagato in una geografia, mentre in un’altra la gente balla ai ritmi dei nuovi marchi. O almeno è così che è fatto apparire.
Non è stata una sorpresa, quindi, vedere il governatore di Ramallah e al-Bireh invitati a tagliare il nastro – per fare quel taglio cerimoniale che inaugurò non solo un edificio, ma un desiderio di più: per il nuovo, l’elegante, il di moda. Non solo come sintomo di indifferenza burocratica, né solo come gesto che afferma la presenza dell’Autorità Palestinese, ma anche come mezzo per mettere in scena una dissonanza visiva.
Poche cose servono più all’architettura ideologica dell’Autorità Palestinese: l’immagine di un massacro a Gaza, che si svolge nel regno della resistenza, si è messa contro l’immagine degli acquirenti che passeggiano attraverso un centro commerciale a Ramallah. Una realtà a schermo diviso, dove la sovranità non è più misurata dalla liberazione, ma dall’illusione della normalità – dalla capacità di consumare, di gestire, di mantenere la calma. Si potrebbe ipotizzare che nel prossimo futuro, le immagini di Gaza e della Cisgiordania convergeranno – che coloro che si aggrappano al coordinamento della sicurezza con Israele, che erano spudorati nella loro ricerca della collaborazione, non troveranno rifugio nell’architettura che hanno contribuito a costruire. Ma per ora, lo split-screen rimane: la danza ritmica alla forma delle merci da una parte, e il massacro inesorabile dall’altro – un’immagine schizofrenica attraverso la quale l’Autorità Palestinese non solo cerca di indebolire la determinazione morale e simbolica di Gaza, ma di riaffermare la propria dottrina di sopravvivenza: un modo di governo che commercia la libertà per il capitale, il sacrificio per gli occhiali scadenti e vuoti e la sovranità per l’autoefficacia.
Svergognare come un atto politico
Molto è stato detto sull’insistenza dei palestinesi a registrare i propri massacri – pubblicare filmati di un giornalista bruciato vivo, o di un paramedico che filma il suo martirio dopo essere stato teso un’imboscata dai soldati israeliani. Questi atti di documentazione – di volgere la lente verso la morte stessa – servono non solo come archivio, ma come uno specchio etico che si estende fino a un mondo che permette, anche i supporti, il massacro di decine di migliaia di persone. Forse è anche un mezzo per sfondare la complicità dei media occidentali e la sua volontà di credere alle affermazioni israeliane e nascondere i crimini israeliani.
Sono anche atti di resistenza narrativa, affermazioni di azione di fronte alla cancellazione. E forse, soprattutto, sono tentativi di vergognarsi – di esporre la complicità del mondo non solo nella violenza, ma nel suo silenzio.
Ma questa vergogna non parla solo agli europei, agli americani, ai responsabili politici e ai leader istituzionali. Il suo discorso è, prima di tutto, agli arabi, all’umma islamico o ad altri palestinesi. È un grido che attraversa i confini non per implorare, ma per affrontare, chiedendo perché, di fronte a una chiarezza insopportabile, tanti scelgono ancora di distogliere lo sguardo.
Shaming è stato a lungo uno strumento politico nella storia palestinese – uno strumento brandito non solo contro gli oppressori esterni, ma anche contro i fallimenti di coloro che rivendicano la vicinanza, la solidarietà o la parentela. Basta ricordare l’incendio della moschea di al-Aqsa nel 1969, quando un estremista sionista diede fuoco a uno dei siti più sacri dell’Islam. Le fiamme hanno suscitato non solo indignazione, ma anche un’ondata di vergogna in tutto il mondo arabo. L’evento ha catalizzato la creazione dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) – un gesto istituzionale nato, in gran parte, per imbarazzo, bisogno di apparire reattivo, di essere visto agire sulla scia dell’umiliazione.
Ma cosa ha prodotto questa vergogna? Un vertice, un comunicato, un altro strato di architettura simbolica si diresse in cima a una realtà spezzata. Si potrebbe anche osservare che gran parte della strategia anti-normalizzazione – specialmente nelle sue forme contemporanee – è guidata dalla vergogna, o dalla paura dello scandaloso e del socialmente imperdonabile. Movimenti come il BDS sono, in parte, strutturati attorno a questo registro affettivo.
La vergogna ha anche plasmato le geografie intime della vita politica: tra compagni in carcere, tra circoli affiatati dove un amico o un compagno o un compagno osate pronunciare i nomi di coloro che una volta un tempo hanno agito insieme in resistenza. Anche lì la vergogna opera – non come pura emozione, ma come tecnica di disciplina, un modo per segnare i confini di ciò che dovrebbe rimanere inespresso. Ma più di ogni altra cosa, questa vergogna è disposta a perdonare, ma dipende dal ritenersi responsabile, vergognarsi. Se non riesci a guardarmi negli occhi, allora forse ci guarderemo presto negli occhi.
La vergogna rimane un potente strumento politico. Scommette che sfondando l’indifferenza, nominando ciò che gli altri vogliono oscurare, potrebbe costringere una decisione. Non sempre una trasformazione, non sempre giustizia, ma per lo meno una crepa nella superficie liscia del silenzio e della complicità, di pretese che non sia accaduto nulla.
Oggi, i palestinesi puntano la loro vergogna non solo verso l’alto, ma verso l’esterno e verso l’interno – verso i fratelli e i vicini, verso una regione che prova la solidarietà ma pratica l’evitamento; verso i movimenti di resistenza che hanno abbandonato la lotta; e verso i popoli dei paesi vicini, i cui confini rimangono suggellati mentre Gaza brucia – nessun ingresso di cibo o medicine, nessun ospedale per ricevere i feriti. È un mondo che cerca di abbandonare Gaza e lasciarlo in pace. Non è forse questo anche il cuore dell’arresto di studenti in tutte le università americane, come a dire: “come osi parlare o interrompere a nome di Gaza? Come osi vergognare l’impero?”
Ma qualcosa si è spostato. Oggi, la vergogna circola all’interno di una infrastruttura ideologica molto più intricata all’interno della Palestina – che è riuscita a trasformarla in uno strumento non solo di resa dei conti morale, ma di sottomissione. In un crudele inversione, la vergogna viene ora reindirizzata sulle spalle di coloro che hanno scelto di combattere e hanno osato agire. L’atto di resistere è diventato oggetto di rimprovero e fonte di colpa. Gli stessi che si opponevano all’annientamento sono fatti per sopportare il peso delle conseguenze, come se il loro rifiuto di sottomettersi fosse il peccato originale.
“Hanno deciso [che significa la resistenza], poi sono da biasimare”, dice il mantra. Circola silenziosamente, a volte inconsciamente, tra coloro che non riescono a riconciliarsi con la chiarezza dell’atto, con il rifiuto di aspettare, con l’audacia di uscire dalla scrittura. È più facile, forse, attribuire la colpa che affrontare la propria paralisi; più facile patollerizzare la decisione che fare i conti con ciò che espone: la vacuità della vita in molte parti della Cisgiordania senza la capacità di resistere.
Per molti, la questione del perché ci si dovrebbe vergognare di se stessi, perché si dovrebbe sentire l’agonia della paralisi, affrontare il nucleo traumatico della pacificazione, o fare i conti con gli strati sedimentati di sfiducia, è troppo pesante, troppo destabilizzante. È più facile eludere queste domande, sublimandole nel cinismo o nella rassegnazione, piuttosto che affrontarle direttamente.
Ed è proprio qui che emerge il desiderio nascosto di spudorate come nuovo palo di meta: spudoratezza nel registro affettivo – un desiderio di non sentire nulla, da non essere più esposti al collasso interno che deriva dall’affrontare complicità, paura o tradimento.
In questa condizione, la fantasia della spudorate promette sollievo: un dimenticarsi del sé e un distacco lenitivo dall’insostenibile intimità del fallimento politico. Ma anche questa fantasia è una trappola – che commercia il disagio della riflessione per il conforto dell’intorpidimento, e così facendo, preclude la possibilità di una trasformazione etica, e per estensione, della mobilitazione politica.
In altre parole, permette la spudoratezza del business as usual, il taglio dei nastri a Ramallah, l’accoglienza festiva dei marchi e il caffè troppo costoso. Permette la rieducazione dell’Autorità Palestinese come un regime collaborazionista spudorato – uno che non finge più nemmeno di essere altro.
Eppure, la vergogna dell’inoperabilità, del silenzio, della mancanza della volontà di agire, rimane la pietra angolare della trascrizione nascosta della vita in Cisgiordania. Un amico di Jenin mi ha ricordato di recente che, tuttavia, sono emergenti piccoli atti – nuove parole che prendono forma. Forse il più convincente tra loro è la frase “azàz al-nafs”.
Il termine evoca più che orgoglio: connota un sé, un ego e un’anima tutto in una volta. Alla sua radice c’è nafs, spesso tradotto come “anima” o “sé”, ma originariamente significa “respiro” – aprendo la parola all’intimo intreccio del metafisico e della materia: il respiro come forza vitale e l’anima come presenza.
Essere ’azàz al-nafs – letteralmente, “una l’anima che è tenuta in onore” – è portarsi con calma dignità, rifiutare l’umiliazione o la dipendenza anche di fronte alla devastazione. La parola 'azàz in arabo connota la forza, la preziosità e l'inaccessibilità; al-nafs si riferisce al sé, all'anima, al respiro, al luogo stesso della lotta etica ed esistenziale.
Insieme, la frase descrive qualcuno che conserva la sua integrità quando tutto il resto crolla, che si rifiuta di mendicare o eseguire vittimismo, e che, semplicemente in piedi con compostezza, apre un orizzonte diverso di possibilità politica. Questa non è una politica di spettacolo, né il silenzio della sconfitta, ma una terza posizione: una perseveranza di principio che non soccombe alla vergogna nazionalista né alla sfacciataggine neoliberista. È il rifiuto di cedere l’anima alla degradazione, anche se la dignità stessa diventa strutturalmente impossibile. In questo, Azazàz al-nafs offre una contro-immagine al consumatore depoliticizzato che vaga per le sale dell’Icon Mall di Ramallah – una figura disorientata dalla fantasia della normalità. Inoltre, non cerca di sconfessare, né superare il collasso con pretese di normalità.
Il mio amico Jenin ha parlato di un giovane che, essendo stato costretto a lasciare la sua casa nel campo, indossa ancora i suoi vestiti invernali nonostante l’arrivo del caldo estivo. I suoi altri capi, più leggeri e più adatti alla stagione, sono sepolti sotto le macerie di quella che una volta era la sua casa nel campo. Parla anche di famiglie che tentano di intrufolarsi nel campo sotto la copertura della notte per reclamare non solo riparo, ma presenza, rifiutando di sconfessare o biasimarsi, e rifiutando la seducente attrazione della rassegnazione. Parla sia del crollo che della persistenza invischiata insieme attraverso una figura che si rifiuta di chiedere vestiti estivi, ma persiste ancora.
Abdaljawad Omar è uno studioso e teorico palestinese il cui lavoro si concentra sulla politica di resistenza, decolonizzazione e lotta palestinese.
Da MondoWeiss, USA Traduzione di Giulia B.per SOSPalestina/CIVG