La dipendenza italiana dal dopoguerra a oggi

 

Le radici della dipendenza italiana vanno ricercate nell’ultima fase della Seconda Guerra Mondiale, quando con lo sbarco alleato in Sicilia vennero poste le premesse per la futura collocazione geopolitica del nostro paese, nell’ambito dello scenario determinato dalla Guerra Fredda.
Negli anni che seguirono la fine del conflitto gli Stati Uniti si assicurarono il controllo sul campo occidentale sia attraverso l’adesione dei paesi “alleati” (in realtà subalterni) alla NATO e al Piano Marshall –la cui necessità, contrariamente a quanto sostenuto dalla vulgata comune, fu indotta dagli stessi USA–, sia attraverso la pesante ingerenza sulle vicende politiche interne dei singoli stati, perseguita grazie all’opera della CIA e dei servizi segreti locali.

 

Il Piano Marshall

L’interpretazione ormai consolidata propagandata dagli ambienti filo-atlantici descrive il Piano Marshall come frutto della generosità dell’alleato americano e come lo strumento indispensabile per dare il via al boom economico che i paesi dell’Europa Occidentale conobbero nel dopoguerra.
La realtà si rivela però assai diversa, a cominciare dalla genesi. Diversi studiosi hanno mostrato come tra il 1945 e il 1947 paesi quali Francia, Gran Bretagna, Belgio e la stessa Italia diedero avvio a un intenso programma di ripresa industriale. A tale programma si affiancò una politica di sicurezza fondata su trattati difensivi classici, come il Trattato franco-britannico di Dunkerque (1947), mirante al controllo di una eventuale rinascita di una politica aggressiva da parte della Germania Ovest. La ripresa della produzione fu talmente soddisfacente che diversi paesi europei prevedevano addirittura di riuscire a rimborsare i propri debiti di guerra contratti con gli Stati Uniti. Nel 1947 una crisi finanziaria li mise però in ginocchio: gli USA manovrarono per alzare drammaticamente i prezzi dei propri prodotti, facendo in modo che i paesi europei si trovassero improvvisamente alle prese con una grave mancanza di dollari, per poi proporre loro la soluzione.[1]
Il 5 giugno 1947 il Segretario di Stato americano George Marshall annunciò dall’Università di Harvard la decisione degli USA di elaborare e varare quello che sarebbe passato alla storia come il Piano Marshall. Molteplici le finalità del piano, a cominciare da quella di permettere la ricostruzione del capitalismo occidentale, favorendo al contempo l’integrazione politica ed economica dell’Europa occidentale (ovviamente in funzione degli interessi statunitensi), e sancendo così la fine della cooperazione antifascista con i partiti di ispirazione comunista.

Non è azzardato affermare che fu proprio il Piano Marshall a costituire un momento fondamentale dell’avvio della Guerra Fredda, dal momento che analoghe iniziative nel campo sovietico furono di natura strettamente reattiva rispetto a quanto accadeva nel blocco occidentale. Nel settembre dello stesso anno, nella cittadina polacca di Szklarska Poręba venne costituito il Cominform. Nei documenti preparatori alla Conferenza di Costituzione del nuovo organismo (datati agosto 1947), il Segretario del Comitato Centrale del PCUS Andrej Zdanov illustrò le linee ispiratrici del Cominform, ovvero la necessità di transnazionalizzare la difesa dell’URSS e quella di mobilitare le organizzazioni democratiche contro il Piano Marshall. Non è azzardato quindi affermare che il  Cominform costituì una risposta tutto sommato debole ai più ambiziosi programmi occidentali: non offriva aiuti economici, ma si incentrava sulla pura e semplice contrapposizione ideologica e politica. 

Tale debolezza trova un riscontro nell’atteggiamento del PCI in seguito alla svolta di Salerno: già nell’agosto 1945 Togliatti si dichiarò scettico sulla pianificazione economica, ovvero sulla possibilità di dare vita a una forma di socialismo, in un paese occidentale. Si trattava più realisticamente di puntare a un compromesso col modello capitalistico, una sorta di democrazia progressiva. Non sfugge la natura squisitamente tattica di queste affermazioni, ma allo stesso tempo è evidente che questa sostanziale accettazione del quadro capitalista non può non aver giocato un ruolo determinante nel favorire l’involuzione politica del PCI nei decenni successivi, i cui nefasti effetti sono quanto mai di attualità.

A caratterizzare la condizione di tutti i paesi satelliti nel sistema bipolare che andava delineandosi vi era pertanto il problema della doppia lealtà, che investiva tutti i partiti. Non si trattava di ambiguità o di sotterfugi, bensì del fatto che l’interesse nazionale non era più da considerarsi come un assoluto, ma doveva essere perseguito (da un democristiano così come da un comunista) in relazione all’interesse del campo di appartenenza. Nel caso specifico italiano, per la DC la doppia lealtà significava mediare tra le aspirazioni italiane e quelle dell’area capitalistica, ovvero gli interessi geo-strategici degli Stati Uniti. In questo senso vanno lette le misure, alcune delle quali anche socialmente avanzate, che caratterizzarono l’azione politica democristiana nel dopoguerra e che avevano come scopo la nazionalizzazione della classe operaia e dei braccianti attraverso “l’integrazione negativa”, ovvero isolando politicamente i partiti e movimenti che li rappresentavano ed erodendone in questo modo il consenso. In linea quindi con le necessità strategiche fissate a Washington, occorreva scongiurare il rischio che in Europa Occidentale il modello socialista potesse diventare troppo attrattivo, e a tal fine si rendeva necessario coniugare il capitalismo con misure sociali progressiste e concedere limitati spazi di autonomia alle classi dirigenti (ovviamente fedeli all’alleato americano) dei paesi interessati. A tale proposito, va rilevato che un peso determinante nelle scelte degli Stati satelliti derivava non tanto dalle imposizioni degli Stati Uniti quanto dai diversi orientamenti delle stesse classi dirigenti in relazione alla gestione della dipendenza e di quei limitati spazi di autonomia che Washington concedeva. Al loro interno infatti potevano coesistere sensibilità più stataliste o più liberiste, più o meno attente all’interesse nazionale, sia pure in quadro capitalista e da una posizione assolutamente subalterna e dipendente in ambito geo-politico.

È importante ricordare che in occasione delle Conferenze di Teheran e Mosca il compito di promuovere e gestire la ricostruzione dell’Europa Occidentale era stato assunto dalla Gran Bretagna, ma ben presto fu chiaro che Londra non sarebbe stata in grado di sostenere l’onere economico che una tale operazione avrebbe comportato. Quando gli USA lo capirono, si fecero trovare pronti nel sostituire gli inglesi, utilizzando così la ricostruzione come veicolo per legare gli Stati dell’Europa Occidentale al proprio sistema di potere, facendo leva sulla dipendenza economica per intensificare quella politica, con una speciale attenzione all’aspetto militare.

La volontà di risollevare le sorti economiche e finanziarie dei paesi subalterni aveva infatti come finalità quella di liberare risorse per le politiche di riarmo, che fino ad allora erano gravate solo sulle spalle americane. Non a caso dopo il 1951 l’ERP (European Recovery Program, il nome ufficiale di quello che è conosciuto universalmente come Piano Marshall) cessò di esistere e gli aiuti divennero esclusivamente di tipo militare.

L’enfatizzare la minaccia comunista molto pragmaticamente serviva anche a depotenziare la minaccia fascista, dal momento che si creava un obiettivo in comune e in questo modo si apriva la strada all’integrazione di elementi della fascisteria (ex-membri della polizia politica, ecc) nella NATO e nelle strutture più o meno segrete ad essa collegate (Gladio, Anello), coinvolte in azioni di “guerra sporca”, infiltrazione politica, ecc.

Con una Direttiva Presidenziale il 4 aprile 1951 veniva istituito il Psychological Strategy Board (PSB), un organismo composto da direttore della CIA, Vicesegretario della Difesa e Sottosegretario di Stato. L’obiettivo era definire le linee guida e le modalità di conduzione della lotta ideologica al comunismo. Italia e Francia vennero individuate come terreni di elezione della sua attività e l’Italia in particolare fungerà da laboratorio.

 

I contenuti dell’ERP

Con la Conferenza di Washington  il Dipartimento di Stato americano scopriva le carte e rivelò che il Governo avrebbe erogato agli Stati interessati gli aiuti promessi da Marshall in misura e qualità inferiore rispetto alle speranze europee e solo a condizione che i paesi sottoscrivessero dei pesanti trattati bilaterali in cui si ribadissero in modo stringente gli obblighi già elencati da Clayton in occasione della Conferenza di Parigi (luglio-settembre 1947), ma rimasti sino allora nel vago. 

Nell’ottobre del 1947 il Dipartimento di Stato USA dichiarò che il Congresso era disponibile a erogare solo aiuti in merci, per di più quasi esclusivamente surplus (invenduto e di qualità inferiore). Man mano che se ne chiarivano i termini gli aiuti apparvero sempre più inadeguati ai bisogni dei paesi europei. La strategia USA consisteva infatti nel guidare la ricostruzione occidentale verso una espansione della produzione ma senza lasciare grandi margini di autonomia ai paesi assistiti. Imponendo le merci, gli americani avrebbero influenzato i prezzi e distorto i canali commerciali dei paesi assistiti. Tra gli esempi in tal senso relativi all’Italia si possono citare l’obbligo di acquistare grano -che avrebbe comportato (e comportò) un aumento del prezzo al consumo dello stesso, con la conseguente generazione di una spirale inflattiva- o l’obbligo di acquistare il carbone, in virtù del quale lo Stato non era  più in grado di utilizzare risorse per finanziare i progetti volti al conseguimento di una produzione energetica indipendente. Risulta evidente cosa ciò abbia significato in termini di dipendenza e assenza di sovranità nella sfera economica. Ormai trascinati nella Guerra Fredda, i paesi dell’Europa occidentale si trovarono a essere implicitamente ricattati dal Dipartimento di Stato americano che, sfruttando la loro dipendenza dal dollar-gap, reclamava un’apertura immediata delle frontiere, l’eliminazione dei cartelli, regole di libero mercato e controlli sull’uso degli aiuti.

Una delle finalità del Piano Marshall consisteva nell’obbligare i paesi coinvolti a entrare nel circuito del Fondo Monetario e della Banca Mondiale. Ciò allo scopo di legarli in maniera sempre più stringente ai meccanismi del sistema capitalista a egemonia statunitense. 

Uno strumento fondamentale di tale progetto era rappresentato dai fondi di contropartita in valuta locale sotto controllo statunitense, i quali costituivano la chiave di volta del tentativo americano di controllo sulle finanze e sul mercato europeo in vista dell’attuazione degli impegni di Bretton Woods. Si trattava di un conto presso la Banca Centrale USA, dove avrebbero dovuto essere depositati fondi in valuta locale pari al valore in dollari delle merci che gli usa avrebbero regalato.
Chiedendo di depositare tale somma automaticamente, prima o comunque a prescindere dalla loro vendita sul mercato, il Dipartimento di Stato mirava a eliminare la rete di doppi prezzi e sovvenzioni in vigore in tutti i paesi europei, soprattutto per i generi di prima necessità come grano e carbone, che influivano sul livello generale dei prezzi. Clayton e le altre teste d’uovo dell’amministrazione Truman si proponevano di porre i fondi di contropartita sotto il diretto controllo del Dipartimento di Stato, ed influenzare così direttamente gli investimenti e la politica finanziaria del paese assistito. In questo modo gli americani avrebbero trattato l’OEEC (Organisation for European Economic Cooperation) come un’area economica integrata, orientandola verso la stabilizzazione finanziaria e un’ideale divisione del lavoro.
Alcuni di questi propositi rimasero solo sulla carta, dovendo fare i conti con resistenze e differenti strategie in merito, sia nell’amministrazione USA che tra le classi dirigenti dei paesi alleati. Il Piano Marshall più che un vero piano era infatti un progetto, teso ad elaborare una politica estera che coagulasse visioni diverse dell’interesse statunitense. L’esistenza di contraddizioni e ripensamenti non solo non deve stupire ma non deve essere rimossa dall’analisi storica a causa di una lettura a senso unico e astratta degli interessi americani, in merito ai quali coesistevano invece differenti letture e posizioni.

Per poco tempo, l’unico paese che assunse posizioni critiche e si fece portatore delle istanze in difesa della sovranità (anche degli altri Stati) fu la Gran Bretagna, nel frattempo passata a un governo laburista, la quale arrivò addirittura a che minacciare di uscire dall’ERP. Gli Stati Uniti furono però abili a mostrarsi flessibili di fronte a queste resistenze, permettendo che i vari paesi si relazionassero in modo diverso tra loro, sulla base delle rispettive aspirazioni ed esigenze di politica interna.

I sei punti della bozza Piano Marshall (quelli validi per tutti i paesi) erano i seguenti:

- consultazioni  obbligatorie con il FMI, col diritto degli USA a proporre variazioni dei tassi di cambio, il che avrebbe significato potere imporre svalutazione ai paesi europei;

- politiche economiche più coordinate

- abolizione di pratiche restrittive e introduzione del libero commercio, con l’estensione della clausola della nazione più favorita ai paesi occupati da truppe statunitensi (Corea, Giappone Germania)

- abolizione delle discriminazioni contro le esportazioni di materiali strategici

- garanzie a favore degli investimenti esteri

- creazione di un fondo di contropartita da impiegare per la stabilizzazione finanziaria o per gli investimenti, in accordo tra il paese assistito e gli USA

Si trattava di misure che nei fatti costituivano una evidente limitazione della sovranità e dell’indipendenza dei paesi interessati, e che pertanto non da tutti potevano essere facilmente “digeriti”. Per questa ragione nei trattati formulati tra maggio e giugno ‘48 non furono ufficializzati ma vennero riformulati con una maggiore ambiguità interpretativa, rinviando così le autentiche decisioni ai successivi negoziati bilaterali tra le amministrazioni.

I paesi, come già detto, si relazionano in modo diverso: la Gran Bretagna ad esempio mantenne la possibilità di continuare le politiche imperniate i deficit del bilancio e rifiutò la clausola della nazione più favorita in quanto occupata; l’Italia al contrario preferì sfruttare fino in fondo la dipendenza dagli USA, in quanto si riteneva che una corresponsabilizzazione degli americani nella ricostruzione avrebbe significato una maggiore stabilità per il governo anticomunista di De Gasperi.

Non sarebbe stato più possibile parlare di un interesse nazionale separato da quello dell’area di appartenenza. Una volta accettata la supremazia americana, i governi europei dovevano cercare  di influenzarne i processi decisionali per poterli indirizzare a proprio vantaggio. La funzione preminente della classe dirigente di ciascun paese diventava da un lato quella di rappresentare la propria nazione all’interno del melting-pot statunitense e degli organismi internazionali, dall’altro di rendere compatibili con i bisogni nazionali i nuovi e più pressanti vincoli di stabilizzazione capitalista imposti dal centro. Nonostante questi obblighi, restava comunque decisiva l’interpretazione che ciascuna classe dirigente avrebbe dato della sua funzione. Sebbene le scelte fossero talvolta obbligate, i modi di attuazione delle politiche comuni all’area capitalista ricadevano quindi nella piena responsabilità dei governi. È pertanto a questo livello che va giudicata la responsabilità di ciascun governo, sin dalle manovre di stabilizzazione effettuate per ottemperare agli impegni assunti a Washington.

Alla base dei trattati bilaterali (articolo 1 comma 1) si faceva discretamente riferimento alla legge americana del 3 aprile 1948 (Foreign Assistance Act), vincolando così indirettamente i firmatari dell’ERP agli obblighi che il Congresso aveva imposto per l’erogazione degli aiuti.
Si trattava di quattro principi, apparentemente generici, ma di fatto vincolanti nel senso di un’economia capitalista: un grande sforzo produttivo, l’espansione commercio estero, la creazione e il mantenimento della stabilità finanziaria interna e lo sviluppo della cooperazione economica.

Questi principi erano seguiti dalla seguente espressione: “incluse tutte le misure possibili per mantenere equi assi di cambio ed eliminare progressivamente le barriere commerciali”.
L’articolo 2 comma 1 dei trattati bilaterali prevedeva inoltre che il governo del paese firmatario avrebbe adottato “tutte le misure necessarie per assicurare che le merci e i servizi ottenuti con l’assistenza fornita ai sensi di quest’Accordo vengano usati per scopi che siano in armonia con il presente accordo”. Per lo Stato italiano l’obbligo era quello di adottare misure volte a prevenire intralci alla concorrenza nel commercio internazionale.

L’invio delle merci seguiva un complesso iter. Una volta che queste venivano assegnate vi era l’obbligo per il paese assistito di pagarle, sebbene ne avesse beneficiato soltanto in un secondo tempo. C’era inoltre una sensibile disparità tra le allocations (proposta di aiuti) e quanto veniva effettivamente stanziato (shipments). Chi si rifà alla propaganda fa riferimento alle allocations, tuttavia le shipments totali ammontavano a 10, 4 miliardi di dollari nel giugno del 1951, per arrivare 11,4 miliardi di dollari nel giugno del 1952, quando ci furono gli ultimi invii. Anche considerando tutti gli aiuti militari la cifra totale non supererebbe i 22,4 miliardi.[2]

Va sottolineato che nel ’47 e nel 48  l’ERP non risultò essere l’aiuto più consistente in Italia, essendo superato da IA (Interim Aid) e UNRRA .

I costi e i benefici dell’ERP variarono sensibilmente: alla fine del ’48 il ricavo lordo per il governo italiano non arrivò a un decimo del valore ufficiale degli aiuti, mentre alla fine del giugno ’49 raggiunse la metà. Il massimo ricavo, il 90%, venne raggiunto nel 1950 per poi ridiscendere a circa il 70% dei fondi ufficiali alla fine del 1951. Così, a causa della differenza tra prezzi statunitensi e prezzi italiani, l’Italia co-finanziò i fondi di contropartita ufficiali in media per quasi un terzo del totale.[3]

 

L’integrazione europea come dipendenza

Il processo di integrazione europea, che prende avvio ufficialmente con la fondazione della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), va inserita anch’essa nel contesto storico e geo-politico del dopoguerra, rivelandosi così come un tassello fondamentale di quell’operazione volta a legare in modo indissolubile gli Stati europei agli USA, attraverso rapporti di natura neo-coloniale in tutti gli ambiti: politico, economico, culturale, militare. Prendiamo appunto la fondazione della CECA negli anni Cinquanta. Salutato come un accordo teso a superare divisioni e contenziosi in Europa, in realtà nacque sotto supervisione USA al fine della produzione di armamenti destinati alla NATO. Carbone ed acciaio, infatti, erano e tuttora sono materie prime indispensabili per la produzione bellica. In nome della “pace” e della “sicurezza” del Continente si operò quindi sotto traccia, in direzione di una stretta dipendenza dai centri politici statunitensi.

È pertanto da smentire con forza l’idea secondo cui l’Unione Europea costituirebbe almeno potenzialmente la conditio sine qua non per la creazione di un polo geo-politico autonomo e alternativo agli Stati Uniti. Ripercorrendo la storia dell’integrazione europea, risulta evidente chel’avanzamentodei processi unitari procede di pari passo con l’intensificarsi del legame nei confronti di Washington. I freni e i parziali ripensamenti che, tra la seconda metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta, arrivarono da Oltreoceano rispetto all’integrazione furono di carattere meramente contingente e non mutarono nella sostanza le finalità del processo, né tantomeno lo rimisero in discussione. In tal senso va considerata l’uscita della Francia di De Gaulle dal Comando integrato NATO (non dalla NATO tout court, come spesso si crede, dal momento che il paese d’Oltralpe rimase nel Patto Atlantico a tutti gli effetti) nel 1966. Il fatto che i francesi avessero dato vita a una propria forza di deterrenza atomica, sia pure limitata, provocò certo il malumore di Washington, ma non bisogna dimenticare che questa era rivolta comunque contro l’URSS, a dimostrazione che l’intendimento di De Gaulle era quello di ritagliarsi una posizione di partner privilegiato degli USA, ma sempre nell’ambito del blocco occidentale, non certo di rimettere in discussione la collocazione della Francia nell’area atlantica. Analogamente, la Ostpolitik di Willy Brandt suscitò qualche preoccupazione negli USA, ma è evidente che mai la Germania pensò di riorientare la propria politica estera in ottica pro-sovietica. Lo stesso asse franco-tedesco, il cui fondamento risale al Trattato dell’Eliseo del 1963, funzionò a dovere quando entrambi i paesi si trovavano in perfetta sintonia con Washington, e difatti la dottrina tedesca in materia di sicurezza si basava (e si basa) sul doppio pilastro tedesco-statunitense e franco-tedesco[4].
Lo storico e giornalista Joshua Paul, attualmente collaboratore del U.S. Army Force Development Directorate, ha mostrato, grazie a documenti declassificati dell’Amministrazione USA, come l’integrazione europea sia stata di fatto una creatura del Dipartimento di Stato USA e della CIA. Al fine di promuovere infatti “l’ideale europeo”, gli Stati Uniti si avvalsero dell’ACUE (American Committee for United Europe), creato nel 1948, un anno dopo il varo del Piano Marshall e un anno prima di quello della NATO. Dell’ACUE facevano parte politici, giuristi, banchieri e sindacalisti, ma il nerbo centrale era costituito da uomini dei servizi segreti, come il primo presidente William Donovan (a capo dell’OSS durante la Seconda Guerra Mondiale, l’organizzazione precorritricedella CIA), Allen Dulles (direttore della CIA dal 1953 al 1961), Walter Bedell (primo direttore della CIA), Paul Hoffmann (ex ufficiale dell’OSS, capo dell’amministrazione del Piano Marshall e presidente della Fondazione Ford).

Significativo il fatto che fu proprio Donovan, con un memorandum del 26 luglio 1950, a dare istruzioni per una campagna a favore del Parlamento Europeo, ma lo è ancora di più una comunicazione del Dipartimento di Stato USA datata 11 giugno 1965 e inviata al vice presidente della Comunità Economica Europea (CEE), Robert Marjolin, con la quale si invitava a portare avanti in segreto il progetto dell’unione monetaria: non se ne sarebbe dovuto parlare fino a che l’adozione di proposte del genere non fosse divenuta praticamente inevitabile. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è stata la nascita dell’euro, considerato dagli USA uno strumento di dominio sulle economie degli Stati europei, essendo più semplice controllare un’unica valuta emessa da una Banca Centrale svincolata da esigenze politiche, anziché una pluralità di valute sovrane ed istituti di emissione soggetti al controllo politico dei governi dei singoli Stati.

L’ACUE fu il principale finanziatore del Movimento Europeo, una piattaforma di organizzazioni europeiste creata formalmente dopo il congresso dell'Aia del 7-11 maggio 1948. Già in quell’occasione veniva delineato l’obiettivo del processo di integrazione, ovvero l’Unione Europea politica ed economica, caratterizzata da liberalizzazione dei movimenti di capitale, unificazione valutaria e coordinamento delle politiche di bilancio e del credito. Se le prime due tappe sono già state raggiunte per mezzo dell’euro e, prima ancora, dei vari trattati europei che a partire dagli anni Ottanta hanno smantellato il controllo politico da parte degli Stati sui propri sistemi finanziari, non sfugge agli sguardi più attenti che la centralizzazione delle politiche di bilancio si vada delineando come lo sbocco naturale del processo innescatosi con l’attuale crisi (indotta) del debito. Da più parti (le forze politiche e i media di ispirazione liberista ed atlantista) si insiste infatti nel dire che per uscire dalla crisi ci vuole “più Europa”, in altre parole un avanzamento nel processo di centralizzazione delle decisioni in ambito economico in vista della costruzione degli Stati Uniti d’Europa. In questa direzione si inscrivono tra l’altro alcuni recenti provvedimenti come il Fiscal Compact, nonché l’istituzione del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità).
Il Movimento Europeo ha giocato un ruolo essenziale nel processo di integrazione europea, esercitando la propria influenza sulle istituzioni nazionali e comunitarie fino ai giorni nostri. Tuttavia è stato l’ACUE a gestire i programmi del Movimento e a dirigerne i leader, erogando i fondi solo a condizione che l’esecuzione proposta fosse precedentemente approvata e agendo in modo tale da impedire la raccolta dei fondi stessi in Europa, mantenendo così il Movimento dipendente dall’America.

I finanziamenti ai federalisti europei avvenivano tramite canali come la Fondazione Ford, la Fondazione Rockfeller e uomini d’affari legati agli Stati Uniti. I leader del Movimento Europeo erano considerati dalla Commissione Americana per l’Europa Unitaaddirittura come “suoi uomini”. Si trattava del Primo Ministro e Ministro degli Esteri belga Paul-Henri Spaak (uno dei firmatari dei Trattati CECA ed Euratom del 1957), del Ministro degli Esteri francese Robert Schumann, di Jean Monnet (Presidente dell’Alta Autorità della CECA). Tra i principali interlocutori dell’ACUE figuravano anche personalitàcome quella di Giovanni Agnelli, di Giovanni Malagodi (ex segretario del Partito Liberale), di Ugo La Malfa (ex segretario del Partito Repubblicano) e di Franco Malfatti, sottosegretario DC di vari governi dal 1958 al 1960 e Presidente della Commissione Europea dal giugno del 1970 al marzo del 1972[5].

Va sottolineato che l’integrazione politica europea è stata sin da principio (ed è tuttora) indissolubilmente legata all’integrazione militare, ovviamente entro la cornice atlantista della NATO. I differenti atteggiamenti prodottisi storicamente da parte delle amministrazioni USA vanno anche in questo caso letti come il frutto di differenti visioni sia dell’interesse americano sia della modalità ottimale di portare avanti il processo di integrazione: si va perciò dai più convinti sostenitori del federalismo europeo a coloro i quali pongono l’accento soprattutto sulla necessità di creare una difesa comune europea, dal momento che ciò esigerebbe una maggiore partecipazione dei paesi europei alle spese militari dell’Alleanza Atlantica, per arrivare a chi invece ritiene indispensabile mantenere un certo protagonismo statunitense nel processo di integrazione, al fine di intervenire e creare dissenso tra i paesi membri qualora si presentasse l’eventualità di una leadership europea ostile agli interessi americani[6]. Una posizione, questa, diffusa per lo più negli ambienti repubblicani (mentre i democratici al contrario risultano spesso tra i più strenui sostenitori del federalismo europeo) e che costituisce la sponda politica privilegiata oltreoceano per quegli “euroscettici” di matrice liberal-conservatrice, proiettati verso una rinegoziazione dei contenuti della dipendenza con il proposito di strappare condizioni più vantaggiose, in cambio dell’assoluta fedeltà all’atlantismo.

È significativo comunque che dopo la caduta del Muro di Berlino il processo di allargamento verso est dell’Europa sia andato di pari passo col processo di allargamento verso est della NATO. Di più: per ogni nuovo paese membro l’adesione all’Unione Europea è stata sempre preceduta dall’adesione alla NATO, a testimonianza del fatto che non esiste alcuna autonomia geopolitica dell’Europa rispetto agli USA. A tale proposito, non è un caso che le sporadiche voci di (parziale) dissenso nei confronti di Washington siano state storicamente espressione unicamente di singoli governi nazionali. Al contrario, le prese di posizione degli organi comunitari dell’Unione Europea, quando sono arrivate, si sono sempre rivelate più che allineate con quelle dell’alleato/padrone d’oltreoceano.

 

L’accelerazione del processo di integrazione europea a partire dalla seconda metà degli Anni Settanta.

Gli Anni Settanta sono un decennio cruciale sotto molti aspetti: la crisi petrolifera del 1973, la fine della convertibilità aurea e degli accordi di Bretton Woods nel 1971 sono tutti fattori che concorrono a determinare quella svolta liberista teorizzata dalla Scuola di Chicago, il cui principale esponente, Milton Friedman, riceve il Nobel per l’economia proprio nel 1976.
Tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta assistiamo a fenomeni di indubbia rilevanza, che segnano un passaggio epocale: la fine della stagione di grande conflitto sociale e politico avviatasi nel 1968 e gli anni del cosiddetto “riflusso” (la ritirata nel privato dopo i “botti finali” del ’77 che chiudono un decennio alquanto turbolento), le elezioni di Margareth Thatcher e Ronald Reagan e l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo II. A ciò si devono aggiungere le vicende del blocco socialista, il quale continua a crescere economicamente nella prima metà del decennio per poi iniziare manifestare evidenti segnali di crisi, sia sul piano economico che su quello politico. In questo quadro va collocata l’accelerazione del processo di integrazione europea, che si accompagna indissolubilmente a misure di segno ultra-liberista.

Nel 1979 viene creato lo SME (Sistema Monetario Europeo), il quale prevedeva per i cambi monetari una banda di oscillazione massima fissata al 2,5% (con l’eccezione dell’Italia, per la quale il tetto era del 6%), il cui scopo era quello di promuovere un sistema di cambi fissi tra i paesi europei. Una sorta di anticipazione, in forme più blande e flessibili, del sistema-euro. Questo meccanismo obbligava ad adottare una politica di tassi d’interessi elevati al fine di compensare il minore afflusso di valuta dovuto al passivo dei movimenti di merci. Lo SME costituiva un passo preliminare per la creazione di uno spazio europeo integrato dal punto di vista finanziario e basato sui principi della libera concorrenza e della totale liberalizzazione dei movimenti di capitale. Obiettivi su cui ci si impegna con la sottoscrizione dell’Atto Unico Europeo nel 1986 e che poi verranno formalizzati col Trattato di Maastricht nel 1992. Durante gli Anni Ottanta vengono poi smantellati ad uno ad uno tutti gli strumenti della cosiddetta repressione della rendita finanziaria, sino ad allora fondamento indiscusso della politica economica italiana. Attraverso questi strumenti il risparmio dei residenti (cittadini o stranieri, famiglie o imprese) non poteva uscire liberamente dai confini nazionali, ma era spinto ad essere investito e depositato nel nostro paese e ad essere trasformato in obbligazioni, pubbliche e private, emesse in Italia.

Erano infatti in vigore i divieti di esportazione della moneta, di acquistare quote di società aventi sede fuori dal territorio della Repubblica Italiana, di acquistare ed esportare titoli emessi all’estero e pagabili all’estero. La necessità di autorizzazioni amministrative e la possibilità che esse venissero negate spingevano il risparmio italiano verso investimenti e prestiti ad attività produttive che si svolgevano in Italia, verso l’acquisto di titoli, azionari e obbligazionari, pubblici e privati, emessi in Italia, nonché verso l’effettuazione di depositi in filiali di banche aventi sedi in Italia. Già per questa ragione si creava una domanda di titoli obbligazionari che altrimenti non vi sarebbe stata, con la conseguenza che direttamente (per la domanda di titoli del debito pubblico) e indirettamente (per la generale domanda di titoli obbligazionari) tendevano a scendere i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico. Se il risparmiatore è libero (e i gestori del risparmio sono liberi) di investire in ogni luogo del mondo, sovrano è il risparmiatore (e i gestori) ma non lo Stato e quindi il popolo, che deve alzare interessi per attirare i “prestiti” dei cittadini e dei residenti e non soltanto dei risparmiatori stranieri. Esisteva poi il vincolo di portafoglio, attraverso cui le banche commerciali erano obbligate ad acquistare obbligazioni in una “rosa” indicata dalla Banca d’Italia, che disciplinava anche come amministrare il portafoglio. Si trattava in parte di uno strumento di politica industriale, poiché consentiva di far affluire il risparmio verso particolari settori reputati importanti.

Lo smantellamento del protezionismo finanziario ha un passaggio assolutamente fondamentale nel 1981, quando viene sancito il divorzio tra la Banca d’Italia (presieduta al tempo da Carlo Azeglio Ciampi) e il Ministero del Tesoro (in mano allora a Beniamino Andreatta): da quel momento la Banca d’Italia non garantisce più la sottoscrizione dei titoli rimasti invenduti.Diminuirà così progressivamente il finanziamento monetario delle esigenze del Tesoro, costretto ad alzare i tassi d’interesse sulle emissioni di titoli per poterli piazzare. Nel 1983 viene accantonato il massimale sugli impieghi, strumento della politica creditizia consistente nel fissare un limite massimo all’espansione degli impieghi bancari, al fine di determinare una diminuzione dei tassi d’interesse sul mercato finanziario. Nello stesso anno cadono anche gli ultimi vincoli di portafoglio, mentre nel 1984 vengono allentate le restrizioni nell’assegnazione di valuta per i viaggi all’estero. È del 1987 invece l’abolizione del deposito vincolato infruttifero sull’acquisto di attività estere, mentre nel 1990 entra in vigore la direttiva CEE sulla liberalizzazione dei movimenti di capitali a breve termine. Liberalizzazione che come detto verrà completata (estendendola ai tutti i movimenti di capitale) dal Trattato di Maastricht del 1992.

Nel 1993 cade poi lo scoperto del conto corrente di Tesoreria presso la Banca d’Italia, in vigore dal 1948. Il Tesoro aveva sino ad allora goduto di questo credito automatico, verificato con riscontro mensile. Lo scoperto aveva il limite del 15% (poi 14%) delle spese risultanti dal bilancio di competenza (la disposizione è stata formalmente abrogata nel dicembre 2010, ma era inapplicata dal 1994, dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, che, nell’art. 104, ora 123 del TFUE, ha vietato ogni forma di anticipazione della banca centrale verso gli Stati membri della UE). Lo Stato italiano pagava l’interesse dell’1% e spese basse e forfettarie, qualsiasi fosse il livello d’inflazione.

Attraverso questo strumento si consentiva allo Stato di introdurre moneta in base alle esigenze necessarie a promuovere la piena occupazione e a fornire i servizi pubblici essenziali, oltre che a finanziare le funzioni pubbliche. Il regime di finanziamento del fabbisogno pubblico sottraeva il finanziamento pubblico alla concorrenza dei mercati finanziari.  Lo scoperto del conto corrente di Tesoreria era parte essenziale di quel regime. A tal fine era necessario che parte del denaro depositato presso le banche commerciali dai residenti – cittadini e stranieri, imprese con sede in Italia e famiglie – andasse a finanziare il debito pubblico, ponendo vincoli alle banche che esercitano la raccolta dei depositi: l’intermediazione finanziaria doveva essere posta al servizio della collettività. Il risultato si poteva ottenere, e durante la prima Repubblica fu ottenuto, mediante il ricorso ad una elevata riserva obbligatoria, quale strumento per convogliare parte rilevante del risparmio dei residenti – soprattutto i piccoli e i piccolissimi depositi effettuati presso le filiali delle banche commerciali – verso l’acquisto di titoli del debito pubblico.

Tra le rilevanti conseguenze dell’abolizione di queste norme vi è il fatto che viene meno l’obbligo di utilizzare il sistema bancario per i rapporti economici con l’estero. L’incanalamento di tutte le transazioni con l’estero nel sistema bancario, fino ad allora prevalentemente statale, consentiva a Tesoro e Banca d’Italia di attuare controlli coercitivi sui flussi valutari e sui cambi. Si rinuncia così a cuor leggero a strumenti decisivi per l’esercizio della sovranità monetaria e finanziaria.

Il sistema delineato da questa gigantesca opera di deregolamentazione dei flussi finanziari costituisce l’impalcatura al sistema dell’euro, il quale non sarebbe stato altrimenti concepibile ed i cui effetti nefasti sono sotto gli occhi di tutti. In primo luogo il fatto che lo Stato non possa esercitare alcun controllo sulla politica monetaria danneggia in maniera letale un sistema produttivo da sempre legato all’esportazione (e quindi alla svalutazione); in secondo luogo l’unificazione valutaria beneficia – come sempre in questi casi – unicamente il “centro” (la Germania), che esporta merci e capitali nei paesi della periferia, con l’effetto di desertificare il loro sistema produttivo e di innescare una crescita esponenziale del debito, il quale ha cambiato completamente natura rispetto al passato. Se un tempo esso veniva infatti contratto con i cittadini risparmiatori, oggi lo Stato deve invece finanziarsi sul mercato, attraverso la vendita di titoli a tassi d’interesse sempre più alti per attrarre i capitali (esteri soprattutto).

 

Conclusioni

Il processo d’integrazione europea si inserisce, sin dai suoi primi passi, nel quadro della dipendenza atlantica, la quale si è dispiegata nel nostro paese attraverso una pluralità di canali a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Non solo è stato fortemente voluto dagli USA (a dispetto delle teorie di una certa vulgata che vedono nella UE un – quantomeno potenziale – concorrente geopolitico degli Stati Uniti), ma gli obiettivi fino ad ora raggiunti erano stati fissati già nei primi anni del Dopoguerra. Una conferma in tal senso ce la fornisce l’assoluta centralità che l’adesione alla NATO rappresenta come requisito per ogni paese che si candidi a entrare nell’Unione Europea.

La crisi prima e l’implosione poi del blocco sovietico hanno fatto venir meno le ragioni che giustificavano nei paesi dell’Europa occidentale quel compromesso fra capitale e lavoro di matrice keynesiana che aveva contraddistinto i cosiddetti “trent’anni gloriosi”, e lo stesso discorso vale per la sia pur limitata autonomia concessa dagli USA ai propri alleati/subalterni in politica estera negli stessi anni. La spinta decisa verso il modello neo-liberista (avviata già a partire dagli Anni Settanta) e la riaffermazione della propria egemonia nel campo occidentale contro eventuali concorrenti sul piano economico (in primis la Germania) sono stati i cardini della strategia statunitense dopo la caduta del Muro di Berlino. In questo senso va letta l’accelerazione del processo d’integrazione, la cui tappa successiva sarà rappresentata dall’integrazione euro-atlantica. Primo passo in tal senso dovrebbe essere rappresentato dal TAFTA, acronimo TransAtlantic Free Trade Area. Obiettivo:  i capitalismi potenzialmente concorrenti, su tutti quello tedesco. La Germania – si ricorderà – non era inizialmente entusiasta riguardo la prospettiva dell’euro, ma è stata “allettata” attraverso la possibilità concessale di sfruttare la moneta unica a proprio vantaggio contro i suoi competitors continentali e attraverso il beneplacito alla riunificazione. Ora però siamo di fronte ad un bivio, con gli USA che premono per centralizzazione delle politiche di bilancio e del credito – al fine di imbrigliare definitivamente la Germania – e quest’ultima che comprensibilmente tenta di smarcarsi. L’esito della confliggenza d’interessi tra Washington e Berlino determinerà o un’ulteriore avanzamento verso gli United States of Europe o lo scenario di un’Europa a due velocità, con i paesi della periferia che potrebbero uscire dalla moneta unica e dar vita a un euro del sud o a forme di aggancio al dollaro sul modello di quanto sperimentato in altre aree del pianeta soggette all’egemonia statunitense.

In entrambi i casi ciò che non muterebbe sarebbe il regime di dipendenza, l’assenza di sovranità e il progressivo impoverimento materiale di larghi strati della popolazione, dovuto all’applicazione inesorabile dei dogmi liberisti. Alla luce di questo legame inscindibile tra dipendenza atlantica, Unione Europea, liberismo ed euro, appare quindi sempre più ineludibile la (ri)conquista della sovranità nazionale, la rottura con UE ed euro e la ricollocazione geopolitica dell’Italia. Si tratta di passaggi irrinunciabili per poter anche solo pensare una trasformazione dei rapporti economici e sociali, in Italia come in qualsiasi altro paese del continente.

 

Dario Romeo

 



[1] Giorgio Fodor, Perché nel 1947 l’Europa ha avuto bisogno del Piano Marshall, “Rivista di storia economica”, n..s., 2, 1985, n. 1; Marcello De Cecco, Economia e Costituzione, in E. Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Mursia, Milano 1977; Alan Milward, The Reconstruction of Western Europe, 1945-51, Meuthen, Londra 1984.

[2] David A. Baldwin, “Foreign Aid and american  foreign policy. A documentary analysis” Praeger, New York-Washington-London, 1966, pp. 30-31.

[3] Carlo Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta. Il Piano Marshall in Italia: 1947-1952, Carocci, Roma 2001.

[4] Alessio Testa, Gli Stati Uniti e l’integrazione europea. Washington e la politica comune europea in materia di sicurezza e difesa, in “Indipendenza”, nuova serie, anno IX, n. 17, gennaio/febbraio 2005, pp. 24-26; Georges H. Soutotu, L’Alliance incertaine, Fayard, Parigi 1996; Peter Schmidt, Le couple franco-allemande et la sécurité dans les années 1990, UFO, Istitutodi studi sulla sicurezza, Parigi 1993; Bruno Colson, La stratégie américaine et l’Europe, ED. Economica, Parigi 1997.

[5] Si veda Agostino Santisi, L’Unione Europea a stelle e strisce. Integrazione economica e militareeuropea nelle strategie USA, in “Indipendenza”, nuova serie, anno X, n. 19-20, febbraio/maggio 2006, pp. 23-24.
Un resoconto delle ricerche di Joshua Paul è contenuto nell’articolo di Ambrose Evans-Pritchard, Euro-federalists financed by US Spy Chiefs, “Daily Telegraph”, 19 settembre 2000, http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/1356047/Euro-federalists-financed-by-US-spy-chiefs.html

[6] Alessio Testa, Gli Stati Uniti e l’integrazione europea. Washington e la politica comune europea in materia di sicurezza e difesa, in "Indipendenza", nuova serie, anno IX, n. 17, gennaio/febbraio 2005, pp. 24-26.

 



Ruolo dei servizi, trame occulte, doppio livello

 

Sin dai primissimi anni del dopoguerra, un ambito di cruciale importanza nel quale il vincolo di dipendenza dell’Italia dagli USA si è rivelato particolarmente stringente è stato quello dei servizi segreti, con effetti assolutamente deleteri per la vita democratica del nostro paese.

Per avere un’idea di come sin da subito il grado di ingerenza e di condizionamento da parte statunitense fosse intenso, basti ricordare che i servizi informativi italiani di fatto non esistevano nel 1946 e ripresero timidamente a funzionare nel 1947, svolgendo però un’attività meramente assistenziale. Soltanto dopo le elezioni del 18 aprile 1948, che sancirono –grazie alla vittoria democristiana– la collocazione dell’Italia nella sfera d’influenza USAe l’adesione al Patto Atlantico, Washington acconsentì alla ricostituzione di un servizio segreto.[1]

È importante infatti tenere presente che la NATO non era soltanto un’organizzazione militare ma, analogamente ad altre alleanze che gli Stati Uniti promossero e imposero in quegli anni (OAS, SEATO, CENTO, Patto di Colombo), aveva come scopo anche e soprattutto quello di conservare lo status quo politico nei paesi aderenti.[2] A tal fine non si esitò a reclutare elementi provenienti dalle fila fasciste, in ragione della loro provata fede anti-comunista. Non bisogna inoltre dimenticare l’esistenza dei protocolli aggiuntivi segreti, stipulati nel 1949 contestualmente alla firma del Patto Atlantico, i quali prevedevano l’istituzione di un organismo non ufficiale, giuridicamente inesistente, preposto a garantire con ogni mezzo la collocazione internazionale dell’Italia all’interno dello schieramento atlantico, anche nel caso l’elettorato si fosse orientato in maniera differente.[3] Tra i vari obblighi assunti dall’Italia con l’adesione al Patto molti riguardavano in modo specifico i servizi nostrani, i quali erano tenuti a passare notizie e ricevere istruzioni da una centrale apposita della CIA che dipendeva direttamente dalla Presidenza degli Stati Uniti. Non stupisce quindi che i servizi segreti italiani venissero riorganizzati contemporaneamente alla fondazione dell’alleanza atlantica: il 30 marzo 1949 fu decisa la ricostituzione del servizio, il 4 aprile veniva firmato il Patto Atlantico, il 1° agosto il Parlamento ratificava l’adesione italiana al Patto, il 24 agosto il trattato diventava operativo e il 1° settembre veniva attivato il SIFAR (il servizio segreto militare).[4]

 

Operazioni e strutture stay-behind
Qualsiasi mezzo era buono pur di frenare l’avanzata comunista in quei paesi che –come l’Italia– facevano parte dal blocco occidentale, incluso il supporto finanziario a organizzazioni italiane di destra (oltre dieci milioni di dollari in armamenti per la campagna elettorale del 1948, destinati a movimenti reazionari con caratteristiche anticomuniste, nell’ambito del cosiddetto Piano X). Secondo i rapporti del Foreign Office, l'intelligence USA, procedendo alla ‘schedatura’ dei gruppi, premevaaffinché si creasse un rapporto di stretta collaborazione tra questi e l’Arma dei Carabinieri, la quale si era contraddistinta per via del fatto che diversi sui ufficiali si erano a suo tempo schierati con la Repubblica di Salò. Nel 1952 fu poi siglato il Piano Demagnetize, il quale prevedeva –neanche a dirlo– una stretta collaborazione tra SIFAR e CIA per il definitivo affossamento con ogni mezzo dell’attività comunista nel paese, per spezzare “l’attrazione magnetica” che esercitava sulle popolazioni.[5]

In questa prospettiva va letta anche la costituzione –analogamente a quanto avvenne in diversi paesi dell’Europa occidentale– di strutture para-militari di tipo stay-behind (s/b). Con questa espressione (che in inglese vuol dire letteralmente «rimanere indietro», nel senso di dietro le linee nemiche) si identifica quel complesso di organizzazioni, reti e strutture capaci di attivarsi per operare nel proprio paese in caso di occupazione. Si trattava in realtà di «strutture di guerra non ortodossa direttamente riferibili agli Stati Uniti e operanti sul territorio nazionale».[6]Esemplare in tal senso la vicenda dell’organizzazione Gladio: la versione ufficiale, quella cioè fornita dall’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti (agosto 1990) alla Commissione Stragi, la dipingeva come un’organizzazione stabile, fissa, formata da 622 patrioti (gladiatori) pronti a entrare in azione per difendere i confini da un’eventuale invasione sovietica. Secondo la relazione Dini e Roberti, inviata al Parlamento nell’ottobre 1994, esisteva un livello superficiale dell’organizzazione (la famosa lista dei 622 resa pubblica dal SISMI e dal governo Andreotti) –la quale aveva funzione di resistenza in caso di occupazione da parte delle truppe del Patto di Varsavia ed era inquadrata in ambito NATO– e un livello occulto, vero cuore e nocciolo degli interessi statunitensi in Italia, che dipendeva in modo assoluto direttamente dalla CIA.[7] La funzione di questo organismo non ufficiale consisteva nella conduzione della guerra non ortodossa, attraverso la penetrazione silenziosa dell’avversario, «azioni segrete, infiltrazione, atti di provocazione, anche attentati».[8] Per scongiurare la vittoria del nemico ed evitare che un paese uscisse da una certa area di influenza occorreva cioè destabilizzarlo di continuo, e a tal fine non erano sufficienti i militari ma c’era bisogno di un vero e proprio esercito segreto in grado di insinuarsi nella società. È esistita una vasta “Gladio popolare”, costituita da civili (alcuni espressione di organizzazioni politiche, altri semplici cittadini) reclutati per i compiti più svariati, e sostenuta finanziariamente da esponenti di spicco del potere economico. Nel corso degli anni furono reclutate centinaia di persone, genericamente nazionalisti, ex carabinieri o ex poliziotti, tutti accomunati da un viscerale anticomunismo. È impossibile oggi stabilire la consistenza numerica di questo fenomeno, dal momento che Gladio, lungi dall’essere quell’organismo immobile propagandato dalle versioni ufficiali, fu invece un grande contenitore in cui entravano e da cui uscivano molte persone, la maggior parte delle quali non conoscevano né la struttura né contenuto e portata effettivi delle sue attività.[9]

 

Il connubio fascismo-mafia-atlantismo

L’inserimento di fascisti nei gangli vitali della neonata Repubblica fu studiato e messo a punto congiuntamente dai supervisori dell’amministrazione statunitense e dalla DC italiana. Alcide De Gasperi aveva coniato la formula della «superiore continuità dello Stato», al fine di giustificare la nomina di persone legate al fascismo (ma compiacenti con la DC, l’atlantismo e la fede anti-comunista) nei ministeri, nelle prefetture, nelle amministrazioni comunali a maggioranza democristiana, e in numerosi altri enti. Fu sempre De Gasperi, durante il suo primo governo (estate 1946), a ‘riconvertire’ oltre 150 spie fasciste che vennero così assoldate e collocate nell’amministrazione statale.[10]

Non fu questa la sola eredità del passato regime: i principali organi dello spionaggio poliziesco passarono direttamente alle dipendenze della Presidenza del Consiglio e non casualmente a dirigere la “Divisione Affari Generali e Riservati” del Ministero degli Interni fu chiamato nel 1946 il questore Gesualdo Barletta (che restò in carica fino al 1958), affiancato da Domenico Rotondano. Entrambi erano ex funzionari dell’OVRA, la polizia politica fascista.[11] 

Il recupero di esponenti dei vecchi regimi nazifascisti era un elemento cardine della strategia nordamericana non soltanto in Italia, sulla base del convincimento che ci si dovesse avvalere degli uomini più capaci che erano stati al servizio di Hitler e Mussolini, principalmente in chiave anti-comunista. Non si trattava peraltro di semplice cooptazione nel nuovo sistema politico, ma di utilizzare i fascisti anche per operazioni ‘sporche’, il cui obiettivo politico era quello di frenare l’ascesa del PCI e scongiurare così il pericolo di una presenza comunista al governo. Governo che –come è facile immaginare– avrebbe potuto costituire un fattore di grande instabilità rispetto all’ordine mondiale delineato dalle grandi potenze nelle conferenze di Teheran, Jalta e Potsdam, tra il 1943 e il 1945.

In tal senso le politiche sociali dei governi democristiani –che se paragonate all’odierna dittatura dei dogmi liberisti, ci appaiono molto avanzate– non possono essere disgiunte (in quanto a significato politico) dall’alleanza con la mafia in meridione, il cui scopo era quello di garantire allo scudo crociato un consistente serbatoio di voti e conseguentemente la supremazia a livello nazionale rispetto al PCI. Alleanze –quelle con fascisti e mafie– che produssero numerose operazioni ascrivibili alla cosiddetta “strategia della tensione” (in realtà della stabilizzazione atlantica e anti-comunista), la prima delle quali fu la strage di Portella della Ginestra, avvenuta il Primo Maggio del 1947. L’alleanza con la mafia siciliana risaliva allo sbarco del 1943 e si era manifestato anche con l’appoggio che gli Stati Uniti diedero alla nascita del MIS (Movimento Indipendentista Siciliano), attivo dal 1943 al 1951, nel quale confluirono diversi esponenti di Cosa Nostra, fra cui Calogero Vizzini, Francesco Paolo Bontate, Michele Navarra, Giuseppe Genco Russo e Gaetano Filippone. In una fase di incertezza gli USA volevano infatti assicurarsi almeno la Sicilia qualora non fosse stato possibile controllare in modo sicuro ed efficace l’Italia.[12] Non a caso il Movimento godeva dell’appoggio di monarchici e latifondisti, e non mancò chi al suo interno arrivò a rivendicare per l’isola lo status di ‘49° Stato’ degli USA. Il MIS era dotato anche di un braccio militare, l’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), nel quale a partire dal 1945 fu inquadrato come colonnello Salvatore Giuliano.

 

Servizi occulti

Accanto –e al di sopra– ai servizi segreti ufficialmente riconosciuti, negli anni della Guerra Fredda operarono in Italia diverse organizzazioni parallele, la cui natura “occulta” era motivata dal fatto che rispondevano più o meno direttamente a interessi ed esigenze geo-strategiche della super-potenza statunitense.
Tra queste figurava la Rosa dei Venti, sorta di filiale nostrana di un servizio di intelligence NATO, la cui funzione era di «garantire il rispetto del potere vigente e dei patti NATO sottoscritti riservatamente, nonché del regime sociale ed economico indotto da tali strutture. La filosofia ispiratrice è quella dell’appartenenza dell’Italia al blocco occidentale inteso come immutabile, mobilitato permanentemente contro il comunismo e finalizzato ad impedire l’ascesa alla direzione del paese da parte delle sinistre» (Amos Spiazzi, verbale 4 e 12 maggio 1974)[13].Tale organismo non si identificava con il SID, e ne facevano parte non solo militari ma anche civili, industriali, politicinonché vari personaggi di spicco dell’estremismo di destra.

Ad essere legata a doppio filo con l’area neo-fascistaera ancheun’organizzazione assai ambigua, di cui per lungo tempo non si è conosciuto neanche il nome, e a cui spesso ci si riferiva con l’appellativo di “noto servizio” o “Anello” (nome che secondo alcuni apparirebbe soltanto nei primi Anni Settanta). Si trattava di un servizio di informazioni, il quale operava in Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e che era stato creato per volontà del Generale Roatta (ex capo del SIM, il servizio segreto fascista). Formato in origine da uomini provenienti dai ranghi militari del defunto regime, aveva come compito principale quello di ostacolare l’avanzata dei comunisti in Italia, comunquedi impedire una sostanziale modifica della situazione politica italiana e della posizione geo-politica del nostro paese. Non a caso sarà al centro ditutti gli eventi più controversi della storia di quegli anni.

Denominatori comuni di questi e altri organismi (come Gladio per esempio) sono ad ogni modo sempre gli stessi: il ruolo stabilizzatore (nel senso di rendere stabile la collocazione geo-politica dell’Italia), il legame con le organizzazioni neo-fasciste, l’operare in una dimensione occulta, l’agire rispondendo più a Washington che a Roma e l’ampio ricorso alle strategie del “doppio livello” e della “guerra non ortodossa”.

 

La nascita della strategia del doppio livello

Il connubio di ferro tra fascismo e atlantismo non fu circoscritto in quegli anni soltanto agli apparati dello Stato e dei servizi segreti, ma coinvolse in maniera capillare le organizzazioni politiche dell’estrema destra. Se il MSI potè godere di finanziamenti da parte delle amministrazioni statunitensi (come dichiarato da un suo illustre esponente dell’epoca, Giulio Caradonna, nell’ultima intervista concessa prima di morire[14]), formazioni come Ordine Nuovo (ON) e Avanguardia Nazionale (AN) si caratterizzarono per costituire sostanzialmente delle false flag a tutti gli effetti.

Il Centro Studi Ordine Nuovo fu fondato nel 1956 da Pino Rauti e si presentava all’opinione pubblica come un’organizzazione politico-culturale caratterizzata da un radicale anti-atlantismo. In realtà, più che un movimento politico, ON è stato un vero e proprio servizio segreto clandestino (sia pure all’insaputa della maggioranza dei suoi iscritti), in linea con quanto teorizzato dallo stesso Rauti nel suo intervento al convegno del maggio 1965 (organizzato dal SID all’Istituto Pollio) delle forze militari italiane e atlantiche. Una conferma in tal senso arriva anche dalla scheda di adesione a Ordine Nuovo, documento che figura agli atti del processo di Catanzaro sulla strage di Piazza Fontana. A chi intendeva aderire veniva chiesto se era in possesso del porto d’armi, se aveva assolto gli obblighi militari e con quale grado e specializzazione o notizie sulla conoscenza di “discipline sportive” orientali. Secondo la scheda compilata da Carlo Maria Maggi (reggente di ON del Triveneto) ai vertici del movimento interessava sapere inoltre: l’orientamento politico del datore di lavoro; il possesso della patente automobilistica, motociclisticae nautica o il brevetto aeronautico; il possesso di autovetture, moto, imbarcazioni o velivoli; in caso affermativo, il tipo e la targa; il possesso della patente di caccia o del porto d’armi; il possesso del passaporto e di quali paesi; l’eventuale pratica di sport e presso quali associazioni, in qualiorari, nonché l’orientamento politico delle associazioni in questione; l’eventuale appartenenza alle forze armate prima dell’8 settembre 1943, e in quali reparti; l’eventuale partecipazione a campagne di guerra, le ferite riportate e le decorazioni ricevute; l’eventuale appartenenza ad associazioni d’arma. In pratica, chi  aderiva ad Ordine Nuovo, se veniva scelto dai suoi vertici doveva essere preparato a portare avanti la guerra controrivoluzionaria, dal momento che ON era in ultima istanza un centro di reclutamento che insegnava a usare tutte le armi contro il nemico comunista. Anche l’ideologia tuttavia ricopriva un ruolo rilevante nella formazione dei militanti ordinovisti. La principale figura ispiratrice era quella del filosofo neopagano Julius Evola, il quale negli articoli apparsi sul mensile “Ordine Nuovo” direto da Pino Rauti teorizzava quella che doveva essere la natura «dell’indistruttibile nucleo, un piccolo, ascetico ordine monastico-cavalleresco, devoto all’ordine e all’élite, opposto al partito, e con una ‘nuova’ concezione di patria». L’Ordine infatti doveva essere inteso come «la (mistica) unione di uomini superiori (un’élite, una specie di “guardia armata dello Stato”), accomunati dalla fedeltà ai dei principi, testimoni di una superiore autorità e legittimazione, procedenti dall’idea: “nell’idea va riconosciuta la nostra vera patria”». Ordine Nuovo ebbe un particolare radicamento nel Nordest, all’ombra delle numerose basi USA attorno alle quali venivano addestrati i militanti.
In particolare, all’ombra di Gladio operarono tra il 1967 e il 1972-'73 i Nuclei per la Difesa dello Stato (NDS), strutture in grado di assicurare l’addestramento militare dei civili e fortemente legate agli ambienti ordinovisti e a settori dell’Arma dei Carabinieri, che fornivano le armi.[15]

Fenomeno prettamente romano (sia pure con una certa capacità di radicamento nel meridione) fu invece Avanguardia Nazionale, fondata da Stefano Delle Chiaie nel 1960 per scissione dallo stesso ON. AN non aveva l’ambizione della ricerca mistica del concetto di militanza, ma era caratterizzata da un orientamento squadristico e brutale, sia nelle parole che nei fatti. Il movimento di Delle Chiaie infatti si rivelò come il principale protagonista della violenza fascista negli Anni Sessanta. Fin dalla sua nascita, i gruppi giovanili di Avanguardia Nazionale si legarono all’Arma dei Carabinieri, che spesso faceva ricorso all’ultilizzo dei movimenti neofascisti nei cosiddetti casi di emergenza.[16]

Il coinvolgimento di queste due formazioni in quella che è conosciuta come strategia della tensione fu sistematico, attraverso forme di provocazione e di operazioni false flag che dovevano apparire come opera di gruppi di sinistra. Il tutto con la compiacenza dello Stato e la direzione più o meno occulta da parte di una catena di comando che attraverso i servizi italiani, la CIA e la NATO faceva capo direttamente a Washington.

A fungere da cameradi compensazione, da collante silenzioso e discreto della sinergia tra politici, servizi segreti (di entrambi i paesi), uomini d’apparato, mafiosi e terroristi neo-fascisti, fu la fratellanza massonica italo-americana. La massoneria statunitense ebbe infatti un ruolo cruciale negli eventi che caratterizzarono gli anni della Guerra Fredda in Italia e riuscì a impiantare, agli inizi del 1961, ben sette logge in altrettante basi NATO della penisola.[17] A dimostrazione di come la massoneria vada considerata non come una novella Spectre, indipendente da condizionamenti politici, bensì come uno strumento utilizzato dal potere politico (in questo caso da quello egemonico degli USA), finalizzato a coordinare nella maniera maniera più efficace possibile le sinergie con altri poteri (politici, economici, militari, dell’informazione, ecc., anche dei paesi subalterni) nel perseguimento dei propri interessi e delle proprie direttive strategiche.

In questo quadro si inscrive perfettamente la parabola della Loggia P2, fondata da Licio Gelli con gli auspici della massoneria statunitense, interessata alla riunificazione del mondo massonico italiano, diviso nelle due logge di Palazzo Giustiniani e di Piazza del Gesù. Particolarmente significativo, per quanto concerne i vincoli di dipendenza con gli Stati Uniti, era che il capo stazione CIA in Italia negli anni della strategia della tensione, Howard E. Stone (detto Rocky), fosse iscritto alla P2, la quale divenne sostanzialmente un’agenzia della CIA in Italia.[18]

Al di là del coinvolgimento diretto nella strage dell’Italicus del 4 agosto 1974, delle sinergie con la destra eversiva, del coordinamento e del finanziamento delle operazioni Stay Behind, la P2 si distinse sul piano strettamente politico per il Piano di Rinascita Democratica (detto anche Programma di Rinascita Nazionale o più semplicemente il Piano). Tra suoi punti principali figuravano la semplificazione del quadro politico in senso bipolarecon la nascita di due grandi partiti, il controllo dei quotidiani, la liberalizzazione delle emittenze televisive, la privatizzazione della RAI, la ripartizione delle competenze tra i due rami del Parlamento, la riforma della magistratura con la differenziazione dei ruoli del Pubblico Ministero e del magistrato, la responsbilità del CSM nei confronti del Parlamento, la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione delle province, l’abolizione del valore legale dei titoli di studio, la limitazione del ruolo dei sindacati e del diritto di sciopero. Colpisce come si tratti di temi che per la maggior parte o si sono concretizzati o sono parte dell’agenda politica odierna.

 

Dario Romeo



[1] Giuseppe De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 38.

[2] Id., p. 40.

[3] Id., p. 128.

[4] Id., p. 42. Il SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) fu sostituito nel 1966 dal SID (Servizio Informazioni Difesa), il quale fu sciolto nel 1977 quando vennero create due strutture, una civile (il SISDE, Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica) e l’altra militare (il SISMI, Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare).

[5] Stefania Limiti, L’Anello della Repubblica. La scoperta di un nuovo servizio segreto. Dal fascismo alle Brigate Rosse, Chiarelettere, Milano 2009, pp. 43-45.

[6] Stefania Limiti, Doppio livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, Chiarelettere, Milano 2013, p. 142.

[7] Id., pp. 161-167.

[8] Intervista al maggiore Amos Spiazzi, in Sandro Neri, Segreti di Stato, Aliberti, Reggio Emilia 2008, p. 221

[9] Stefania Limiti, Doppio livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, op. cit., pp. 172-179.

[10] Stefania Limiti, L’Anello della Repubblica. La scoperta di un nuovo servizio segreto. Dal fascismo alle Brigate Rosse, op. cit., p. 47.

[11] Giuseppe De Lutiis, op. cit., p.47-48.

[12] Deborah Paci, Fausto Pietrancosta, Il separatismo siciliano (1943-1947), in Diacroni. Studi di Storia Contemporanea. DOSSIER: Luoghi e non luoghi della Sicilia contemporanea: istituzioni, culture politiche e potere mafioso, n. 3, 2/2010, http://www.studistorici.com/wp-content/uploads/2010/07/PACI-PIETRANCOSTA_Separatismo_dossier_3.pdf

 

[13] Mimmo Franzinelli, La sottile linea nera, Rizzoli, Milano 2008, p. 234.

[14] La storia siamo noi, puntata del 20/06/2013. Caradonna affermò in quella sede che l’amministrazione Nixon pilotò e sostenne finanziariamente l’alleanza con i monarchici e la svolta  Destra Nazionale risalente all’inizio degli Anni ’70, allo scopo di creare una destra più moderna e di erodere il consenso della DC, giudicata in quella fase troppo sbilanciata a sinistra. Il denaro fu consegnato dall’allora capo del SID, Vito Miceli nelle mani di Almirante stesso, dopo averlo ricevuto dall’imprenditore italo-americano, Pier Francesco Talenti, uomo di fiducia di Nixon. Nell’ambito della stessa puntata la testimonianza di Caradonna venne tra l’altro confermata dalle parole di Giulio Andreotti.

[15] Stefania Limiti, Doppio livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, op. cit., p.145.

[16] Id., pp. 73-78.

[17] Ferdinando Imposimato, La Repubblica delle stragi impunite, Newton Compton, Roma 2012, pp. 29-35.

[18] Stefania Limiti, Doppio livello. Come si organizza la destabilizzazione in Italia, op. cit., pp. 208-216.