Notiziario Patria Grande - Dicembre 2023
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NOTIZIARIO DICEMBRE 2023
RT en español / ANALISI / GLI EVENTI SALIENTI DEL 2023 IN AMERICA LATINA
I sei eventi che hanno segnato la politica latinoamericana nel 2023
(e che influenzeranno anche il 2024)
REBELION (CUBA) / ESTERI / ARGENTINA IN PIAZZA
Argentina in piazza per protestare contro Milei
REBELION (CUBA) / ANALISI / L’ONDA ECOLOGISTA
Il governo di Lula naviga in acque pericolose
TERCERA INFORMACION (SPAGNA) / AMBIENTE / ENERGIE RINNOVABILI IN NICARAGUA
Nicaragua tra i leader mondiali in energie rinnovabili
GRANMA (CUBA) / ESTERI / LA MORTE DI HENRY KISSINGER
Il miglior servitore dell’impero muore a cento anni
REBELION (CUBA) / ANALISI / L’ONDA ECOLOGISTA VISTA DAL SUD DEL MONDO
L’ecologismo dei poveri
GRANMA (CUBA) / INTERNI / L’INGERENZA DEGLI STATI UNITI
Ordine del governo degli Stati Uniti: «incendiare» il clima di festa nell’Isola
GRANMA (CUBA) / INTERNI / INFLAZIONE
Appunti sull’inflazione a Cuba
GRANMA (CUBA) / STORIA / L’ITALIANO DEL GRANMA
Gino Donè: da partigiano italiano a ribelle della spedizione del Granma
RT en español / ANALISI / GLI EVENTI SALIENTI DEL 2023 IN AMERICA LATINA
I sei eventi che hanno segnato la politica latinoamericana nel 2023
(e che influenzeranno anche il 2024)
In diversi paesi si sono verificati shock istituzionali che compromettono la governabilità e la capacità della classe politica di far fronte alle richieste sociali.
L’America Latina si sta caratterizzando per l’effervescenza del clima politico. Nella contabilità continentale del 2023 si registrano questioni come il tentativo di colpo di stato in Brasile, la ripresa del dialogo tra il governo del Venezuela e l'ala più estremista dell'opposizione e il boicottaggio legale contro il presidente eletto del Guatemala. A questo primo elenco vanno sommati i difficili progressi verso la “pace totale” in Colombia, il fallimento del secondo tentativo di una nuova Costituzione in Cile e il trionfo dell'esponente di estrema destra Javier Milei in Argentina.
Sebbene si tratti di situazioni non necessariamente paragonabili tra loro né per intensità né per impatto, in esse si può individuare un tratto comune: la comparsa di limiti e conflitti istituzionali nelle democrazie liberali, che impediscono una gestione efficace del dissenso politico e sociale.
Viva la libertà?
Quest’anno l’Argentina ha optato per un cambiamento radicale. La stanchezza derivata da una crisi economica di lunga durata ha aperto la strada all’economista ultra-liberale Javier Milei, personaggio che solo due anni fa appariva ospite in talk show televisivi e oggi è diventato presidente del Paese, con poco più del 55% dei voti.
Milei ha promesso un programma shock che prevede l’eliminazione dei controlli statali sulle attività di impresa, sulle privatizzazioni, sulla liberalizzazione dei prezzi e sui licenziamenti di massa, sostenuto dal Fondo Monetario Internazionale con il quale la nazione sudamericana ha contratto un debito di 44 miliardi di dollari nel 2018.
I primi passi di questo piano sono stati annunciati il 20 dicembre con il Decreto di Necessità e Urgenza (DNU), a cui è seguita la cosiddetta “legge omnibus”, un'iniziativa che comprende più di 300 riforme della legislazione vigente e con il fine di garantire la libertà economica.
La DNU ha suscitato il rifiuto dei sindacati e dei cittadini, che hanno organizzato proteste e presentato ricorsi giudiziari cercando di dichiarare incostituzionale la proposta presidenziale.
Nel frattempo, l’Esecutivo ha risposto con norme severe che secondo gli oppositori criminalizzano i diritti di protesta e di associazione sostenendo restrizioni, controlli di polizia, denunce e altri meccanismi persecutori contro gli organizzatori, fatti passare come approfittatori di benefici concessi dallo Stato.
Questo quadro ha appena cominciato a muoversi. Sia la DNU che la “legge omnibus” devono passare attraverso le due camere del Congresso, dove il partito al potere non ha la maggioranza. In previsione di un possibile rifiuto, Milei ha già annunciato che sottoporrà a referendum il cosiddetto “decreto”.
L’anti-democrazia in Brasile
Domenica 8 gennaio, appena una settimana dopo il giuramento per il terzo mandato del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, i seguaci del suo predecessore, Jair Bolsonaro (2019-2022), hanno fatto irruzione nella sede dei poteri pubblici di Brasilia con l’intenzione di assaltare il governo.
La folla inferocita ha provocato ingenti danni e ha ricordato all’opinione pubblica quanto accaduto un paio di anni fa negli Stati Uniti, quando i sostenitori dell’ex presidente Donald Trump prese d’assalto il Campidoglio nella convinzione di essere stati vittime di una frode elettorale che garantì la vittoria di Joe Biden.
L'evento ha toccato direttamente Bolsonaro, accusato di aver presentato ad alcuni vertici delle Forze Armate, dalle cui fila egli proviene, un piano golpista contro Lula, secondo le dichiarazioni offerte dal tenente colonnello Mauro Cid alle autorità in cambio di garanzie procedurali benefici.
Allo stesso modo, la commissione interparlamentare incaricata di indagare sul tentativo sedizioso lo ha ritenuto direttamente responsabile dei fatti e ha chiesto il suo perseguimento penale, ritenendo che "è stato l'autore, intellettuale o morale, degli attacchi perpetrati contro le istituzioni".
Sebbene il tentativo di rimuovere con la forza Lula abbia ricevuto una condanna unanime da parte dei governi di tutto il mondo e delle istituzioni brasiliane pronte a indagare a fondo sui fatti e a punire severamente i responsabili, ciò che è accaduto nel gennaio 2023 ha rivelato che, nel parossismo, il forte movimento conservatore che esiste nel colosso sudamericano può assumere forme decisamente antidemocratiche che godono di consensi – per ora non maggioritari – all’interno dello Stato.
Il Guatemala o il nuovo volto del “lawfare”
Nell’ultimo anno, si è assistito in Guatemala a un dispiegamento istituzionale senza precedenti per impedire l’ascesa al potere del progressista Bernardo Arévalo de León, vincitore al secondo turno delle elezioni presidenziali del 20 agosto.
Le azioni hanno comportato la sospensione dello status giuridico del Movimento Semilla di Arévalo, la promozione di numerose cause da parte del Pubblico Ministero contro i leader di quella formazione politica e perfino un tentativo di annullare le elezioni.
I cittadini hanno risposto con massicce proteste di piazza, chiusure di strade e scioperi generali per chiedere le dimissioni del procuratore generale Consuelo Porras, mentre i governi della regione – compresi gli Stati Uniti – e le organizzazioni multilaterali e i forum politici di varia ideologia hanno condannato i tentativi degli organi di giustizia di soffocare la volontà popolare espressa alle urne.
Arévalo dovrebbe assumere la presidenza il 14 gennaio ma, sebbene abbia assicurato che il “colpo di stato” istituzionale è già stato disinnescato, gli eventi costituiscono un nuovo esempio dell'uso delle istituzioni giudiziarie per attaccare la democrazia.
Venezuela e Stati Uniti faccia a faccia
Dopo quasi un anno di sospensione, il governo del Venezuela e il settore estremista dell’opposizione riuniti nella Piattaforma Unitaria hanno ripreso il dialogo alle Barbados con l’obiettivo di discutere le condizioni delle elezioni presidenziali del 2024.
Tuttavia, nella riunione del 17 ottobre sono stati firmati due accordi, uno per le garanzie elettorali e un altro per la difesa del territorio della Guayana Esequiba in conflitto con la Repubblica della Guyana, che ha chiarito quale fosse il livello dei negoziati. Si è trattato della revoca senza precedenti delle sanzioni petrolifere e minerarie imposte dagli Stati Uniti più di cinque anni fa.
Allo stesso modo, le parti hanno definito una tabella di marcia per l’abilitazione dei politici sanzionati dalla Controlleria Generale della nazione sudamericana quando Washington e Caracas concordarono uno scambio di prigionieri che portò alla liberazione del diplomatico Alex Saab, detenuto irregolarmente dal 2020 sotto l’accusa di riciclaggio di denaro, mai accertata.
Rispetto alla libertà di Saab, il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha sottolineato il ruolo dell'emiro del Qatar per essere stato "brillante facilitatore di squisita diplomazia" nei negoziati diretti con la Casa Bianca, mentre Doha ha sottolineato che si tratta di uno "sforzo di mediazione più ampio volto ad affrontare le questioni in sospeso tra i due paesi".
Quanto sopra riflette un cambio di rotta nella politica del governo statunitense nei confronti del Venezuela derivato dal fallimento della politica di “massima pressione” praticata dall’amministrazione Trump e, allo stesso tempo, relega l’ala radicale dell’opposizione in una posizione secondaria.
Sebbene si possa ritenere che l’alleggerimento delle restrizioni avrà effetti benefici sull’economia venezuelana, quanto accaduto ha anche rivelato l’incapacità di un settore politico all’interno del Venezuela di diventare una vera alternativa al chavismo se non ha l’assenso degli Stati Uniti.
L'andirivieni della "pace totale" di Petro
Nel 2023, la politica di “pace totale” avanzata dal governo del presidente colombiano Gustavo Petro è stata sottoposta a diverse prove del fuoco che hanno messo in dubbio l’efficacia della strategia per porre fine agli oltre sessant’anni di conflitto armato.
Sebbene ci siano stati progressi nei colloqui con l'Esercito di Liberazione Nazionale, il rapimento del padre del calciatore Luis Díaz ha messo in crisi la formula, costringendo alla discussione sui sequestri a fini economici praticati dall’organizzazione: mentre l'Esecutivo e buona parte della società li condannano, i guerriglieri la difendono, sostenendo che non hanno altro modo per finanziare le loro operazioni.
Allo stesso modo, sebbene Bogotá sia riuscita a concretizzare un formato di negoziati di pace con lo Stato Maggiore Centrale – gruppo dissidente delle dissolte Forze Armate Rivoluzionarie – in questo caso i progressi sono stati scarsi, anche se le parti insistono sul fatto che non abbandoneranno il confronto.
Di fronte alle pressioni, Petro scelse di rimuovere dall'incarico l'alto commissario per la Pace, Danilo Rueda, e di nominare al suo posto Otty Patiño, fino ad allora capo della delegazione governativa nei dialoghi con l'ELN, che a sua volta fu sostituito dal anche ex membro della guerriglia M-19, Vera Grabe.
In un addendum, sia l'Ufficio del Difensore Civico colombiano che le Nazioni Unite hanno messo in guardia sulla persistenza di pratiche come i massacri e l'omicidio selettivo di leader sociali e difensori dei diritti umani, nonostante gli sforzi del governo per fermarli.
Senza cambio costituzionale
In Cile è fallito il secondo tentativo di sancire una Costituzione che lasci alle spalle quella del 1980 ereditata dalla dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990), e modificata più volte dopo il ritorno della democrazia.
Dopo una prima sconfitta nel settembre 2022, quando la maggioranza respinse una proposta dai larghi toni progressisti, i cittadini optarono per eleggere un Consiglio costituzionale dominato da una maggioranza di destra e di ultradestra, che produsse un testo incapace di riflettere l’espressione cittadina richieste nell’esplosione sociale del 2019.
In questa contesa, il governo del presidente Gabriel Boric è stato indebolito nelle sue possibilità di promuovere le riforme promesse durante la campagna elettorale, in gran parte legate ai cambiamenti progressisti dello statuto costituzionale nonché agli scandali di corruzione all’interno della sua amministrazione.
Sebbene il caso cileno si discosti notevolmente dagli shock istituzionali e dalle mancate risposte alle istanze dei cittadini in altri eventi regionali, rappresenta una chiara espressione dell’incapacità delle classi politiche di offrire risposte e attuare i cambiamenti che la popolazione richiede.
Zhandra Flores, RT en español, 27 dicembre 2023
Traduzione a cura di Luigi M., Patria Grande/CIVG
Articolo originale: Los 6 eventos que marcaron la política latinoamericana este 2023 (y que tendrán resonancia en 2024)
https://actualidad.rt.com/actualidad/493852-eventos-marcar-politica-latinoamericana-2023
REBELION (CUBA) / ESTERI / ARGENTINA IN PIAZZA
Argentina in piazza per protestare contro Milei
Copertura fotografica speciale di Resumen Latinoamericano
Diverse organizzazioni di lavoratori hanno marciato verso Plaza Lavalle con lo slogan “Abbasso il DNU”. La CGT, le due CTA, la Unidad Piquetera, l'Unione dei Lavoratori e Lavoratrici dell'Economia Popolare (UTEP), il Coordinamento per il Cambiamento Sociale, la Corrente Classista e Combattiva, i partiti di sinistra e altri esponenti sociali, politici e sindacali, sono arrivati qui, mercoledì 27 dicembre, davanti al Palazzo della Corte, nel centro di Buenos Aires, per respingere il Decreto di Necessità e Urgenza (DNU) che deregolamenta l'economia e abroga numerose leggi, alcune delle quali sul lavoro.
Indetto dalla CGT con lo slogan "Abbasso il DNU", la folla si radunata alle 12 davanti al Palazzo di Giustizia con l'obiettivo di sostenere la presentazione di un’interrogazione giudiziaria del sindacato e di altre misure – più di una dozzina – che cercano di bloccare la portata del DNU firmato dal presidente Javier Milei.
È stato letto un documento condiviso, ma soprattutto si è distinta la presenza in strada di gran parte della dirigenza sindacale e dei movimenti sociali al fianco dei militanti.
Per contenere la protesta, il governo ha attuato ancora una volta il protocollo di ordine pubblico del Ministero della Sicurezza che impedisce il blocco delle strade, e le forze di sicurezza hanno piantonato diversi punti della città, ma vista l’importanza della mobilitazione, la repressione-spettacolo non è andata in scena.
Dopo le 10, piazza Lavalle ha cominciato a riempirsi di manifestanti del sindacato dei camionisti, dei magistrati, dei chimici e del Coordinamento per il Cambiamento Sociale (con militanti di FOL, MULCS, OLP-Resistere e Lottare, FAR, FOB, FPDS Corrente Plurinazionale), MAR, FENAP e UTEP tra gli altri, mentre ogni accesso allo spazio pubblico davanti ai Tribunali è stato limitato attraverso controlli da parte delle forze di sicurezza appartenenti al Comando Unificato, con l'obiettivo di far rispettare il protocollo di ordine pubblico. Centinaia di agenti di polizia della guardia di Fanteria, poliziotti in motocicletta e personale della gendarmeria hanno infastidito i manifestanti all’inizio del raduno cercando di trattenerli nella piazza o sui marciapiedi, ma sono poi stati travolti dalla folla che, in diverse occasioni, ha gridato: “Adesso il protocollo mettetevelo nel culo” e “Sciopero, sciopero, sciopero generale!”.
Alla manifestazione si sono uniti anche diversi movimenti politici e organizzazioni sociali come il MST, il Polo Obrero, Izquierda Socialista, Movimiento Evita e Libres del Sur, e la Plenaria delle Corporazioni Combattenti. Questi ultimi sono arrivati con militanti dei gruppi UOM di Morón e San Miguel, e i ferrovieri del gruppo motorizzato guidato dal leader “Pollo” Sobrero.
Il leader del Polo Obrero Eduardo Belliboni ha detto che la marcia verso i Tribunali "è un primo passo", e si è battuto anche per l'appello a realizzare “uno sciopero generale che comprenda un piano di lotta perché il Governo avanza e si fermerà”.
Belliboni ha inviato un messaggio alla direzione della CGT: “Non possiamo aspettare, questo governo andrà avanti e dobbiamo fermarlo, ha fatto più danni in tre settimane di quanti ne abbiano fatti altri in dieci anni”.
Nora Cortiñas, Madre di Plaza de Mayo LF: “Nessuno rimanga a casa a guardare la manifestazione in televisione, tutti devono andare in strada per dire no, no e no a Milei, per vincerlo”.
L'associazione Abuelas de Plaza de Mayo ha ribadito il suo rifiuto "al megadecreto incostituzionale e antirepubblicano", in riferimento alla DNU di deregolamentazione dell'economia dettata dal governo di Javier Milei, ha esortato a difendere i "meccanismi democratici" e in relazione alla manifestazione davanti ai Tribunali indetta dalla CGT e da altre organizzazioni sociali e sindacali ha affermato che: «Protestare è un diritto. Riaffermiamo il nostro rifiuto al megadecreto incostituzionale e antirepubblicano. La società ha il diritto di scegliere il proprio destino attraverso i suoi rappresentanti”, ha scritto Abuelas sul suo account X.
Resumen Latinoamericano, 27 dicembre 2023
Traduzione a cura di Luigi M., Patria Grande/CIVG
Articolo originale: Argentina. Decenas de miles de manifestantes asistieron a la convocatoria de la CGT y los movimientos sociales para protestar contra el DNU de Milei (fotos+videos)
REBELION (CUBA) / ANALISI / L’ONDA ECOLOGISTA
Il governo di Lula naviga in acque pericolose
Il presidente Lula durante la celebrazione del Natale con i senzatetto nello stadio nazionale
Mané Garrincha, a Brasilia, il 22 dicembre 2023. Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil
Un anno senza molto da festeggiare
Il prossimo 1° gennaio si compie il primo anno dall’insediamento del presidente Lula da Silva. In questo periodo, il presidente brasiliano ha potuto realizzare alcune delle sue proposte elettorali, ma per farlo ha dovuto rinunciare alla costruzione di un governo effettivamente progressista nella sfera economica, politica, sociale, culturale e ambientale.
Il cosiddetto “presidenzialismo di coalizione” ha fatto sì che Lula subisse alcune sconfitte derivanti dalla piattaforma di sostegno sempre più ampia tra i partiti che compongono la sua attuale amministrazione. Con l’obiettivo di garantire stabilità istituzionale e sacrosanta governabilità, il presidente ha incorporato anche i partiti più tradizionali della destra brasiliana, come la Union Brasil, il Partito Socialdemocratico (PSD), il Partito Prgressista (PP), il Repubblicano e il Partito Laburista Brasiliano (PTB).
In contrasto con l’elettorato e la base sociale che lo sostennero nell’ottobre 2022, il governo ha dovuto rinunciare alle aspettative rispetto al suo programma originario per avviare – prima ancora di assumere il mandato – un ciclo interminabile di negoziati con i settori di destra che permanentemente minacciano di boicottare la sua amministrazione se non ottengono i benefici che credono di “meritare” dall’Esecutivo, principali ostacoli del governo Lula.
Eletti attraverso la costruzione di un consenso con i partiti di sinistra e di centrosinistra, i correligionari del presidente rappresentano solo un quarto dei seggi al Congresso, il che significa che il governo ha un rapporto di forza molto sfavorevole per promuovere la sua agenda programmatica sul piano politico.
Giusto per aiutare la memoria, è bene ricordare che, al secondo turno delle elezioni del 30 ottobre 2022, il candidato Lula da Silva ha trionfato con solo il 50,9 per cento dei voti validi che rappresentavano poco più di 60 milioni di voti, vincendo per un margine molto stretto rispetto al suo avversario di estrema destra.
È sempre curioso che 58 milioni di brasiliani hanno votato per Jair Bolsonaro, che è stato il peggior presidente dalla ri-democratizzazione del 1985. La sua amministrazione non solo ha lasciato un’eredità di quasi 700.000 morti a causa della pessima gestione della pandemia, ma sarà riconosciuta nella storia brasiliana come quella che ha causato la più grande distruzione dei sistemi di protezione sociale, lo sterminio dei popoli indigeni, la devastazione ambientale, il sostegno incondizionato alle milizie e il violento attacco alle minoranze e alla diversità sessuale.
Nonostante la sua vittoria – con una prestazione che ha frustrato le aspettative sulla sua candidatura – le alleanze che il patto democratico è riuscito a costruire non sono state sufficienti a fornire a Lula gli snodi necessari per attuare il suo programma con calma e fluidità. Ciò è in gran parte dovuto al fatto che, nelle elezioni dei governatori, senatori e deputati, la destra e l’estrema destra hanno ottenuto una rappresentanza significativa in tutto il paese.
Diversi ministri di Bolsonaro hanno ottenuto seggi alla Camera e al Senato e i quattro stati più importanti della Repubblica (San Paolo, Rio de Janeiro, Minas Gerais e Rio Grande do Sul) hanno governatori vicini o militano nell’estrema destra. Senza contare le pressioni costantemente esercitate da parte delle Forze Armate a vocazione golpista, degli imprenditori retrogradi, dei settori dell’agrobusiness, dei conglomerati estrattivisti, degli speculatori finanziari, delle chiese pentecostali o delle milizie che controllano parte del territorio delle grandi capitali.
In questo scenario di pressioni e ricatti, il Parlamento ha appena approvato il bilancio del prossimo anno che prevede la cifra scandalosa di 53 miliardi di reais (circa 11 miliardi di dollari) per opere proposte e scelte dai suoi deputati e senatori. Questo enorme numero di emendamenti parlamentari è simile a quello su cui il governo dovrebbe investire in tutti i progetti previsti per il prossimo anno. Queste risorse sono la moneta di cui dispongono i deputati per riprodursi nelle loro roccaforti elettorali, quasi sempre ignorando le priorità del governo. Quest'ennesima manifestazione della perdita di controllo rispetto alla pianificazione del bilancio rientra in quella che può essere considerata una nuova modalità di “parlamentarismo mascherato”, che riduce ulteriormente la capacità decisionale dell'esecutivo, limiti che già si presentano nel segno del presidenzialismo di coalizione a cui alludevamo.
I compiti in sospeso di un governo alle strette
Insomma, da quando è stato consacrato presidente, Lula ha dovuto governare in una sorta di regime ibrido o trasformista che si muove tra una sorta di presidenzialismo incompleto e un parlamentarismo mascherato, sempre minacciato dal presidente della Camera, Arthur Lira, che chiede maggiori poteri in cambio del sostegno dei partiti del centro, operando quasi come un primo ministro che amministra i compiti di uno Stato che di repubblicano non ha nulla. Lira è una figura più interessata a rafforzare i privilegi personali e quelli dei suoi seguaci avvalendosi del tesoro pubblico e contro qualsiasi iniziativa che aiuti a superare i problemi dei brasiliani.
Quindi, fin dalla formazione del suo gabinetto, Lula ha dovuto cedere agli interessi dei partiti incorporati nella base del governo, scartando i ministri – specialmente le donne – che erano di sua fiducia. Il caso più emblematico è l’uscita del ministro dello Sport, Ana Moser, un'atleta di spicco della quale il presidente aveva piena fiducia. Ha dovuto lasciare l'incarico per consegnarlo al discutibile André Fufuca, membro del Partito Progressista, un agglomerato di destra che non sostiene il governo nemmeno nelle votazioni più importanti e al quale la maggioranza dei suoi membri rimane fortemente legata alle forze bolsonariste.
Questo partito e i repubblicani e all’Unión Brasil stanno negoziando i ministeri del governo Lula, pur continuando a mantenere i ponti con il bolsonarismo. La strategia consiste nel lasciare le porte aperte ad entrambi gli schieramenti politici per valutare con chi unirsi, secondo le configurazioni presentate al Congresso e il termometro elettorale.
In altre parole, considerato l’insieme dei limiti politici ed economici che gli ha imposto un Congresso corrotto e opportunista, il presidente Lula si trova praticamente nell’impossibilità di realizzare anche solo un governo riformista con un profilo moderato come lo sono state le sue due amministrazioni precedenti tra il 2003 e il 2010. Anche se parte di un ciclo socialdemocratico imperfetto, quei governi riuscirono almeno – attraverso il welfare e i trasferimenti diretti dallo Stato ai gruppi più bisognosi – a togliere migliaia di famiglie dalla povertà. In questo momento, la fame di milioni di brasiliani ereditata dall’amministrazione Bolsonaro persiste ancora come una sfida enorme e inevitabile da superare.
La permanenza di un'ideologia ultraconservatrice e dell'estrema destra politica non viene discussa come un dato di fatto, ma ha solide basi nella stessa storia brasiliana, con la sua eredità schiavista, razzista e classista, le sue radici religiose ataviche, la sua cultura contadina e la sua élite colonizzata. Questa impronta reazionaria si sostiene da secoli – con poche eccezioni – su una forza militare che minaccia sempre i progressi democratici della società, con una comunità imprenditoriale arretrata che bada solo ai propri interessi ed è subordinata alle linee guida delle multinazionali.
In questo contesto, il governo Lula non è riuscito nemmeno a migliorare il programma Bolsa Familia o ad aumentare il salario minimo a livelli che consentano alle famiglie brasiliane di recuperare la capacità di acquisto persa durante l’amministrazione Bolsonaro. Altri programmi emblematici delle precedenti amministrazioni del Partito dei Lavoratori (Programma di accelerazione della crescita, del sistema sanitario unificato o il Minha Casa-Minha Vida e della Farmacia Popolare), si trascinano faticosamente e sopravvivono grazie agli sforzi di professionisti impegnati verso la popolazione più vulnerabile.
Nel campo della partecipazione popolare, il compito è ancora in sospeso e non esiste un’efficace politica di formazione politica dei cittadini. Da parte loro, le organizzazioni e i movimenti sociali si sono astenuti quest’anno dall’organizzare manifestazioni, sostenendo che è necessario appoggiare incondizionatamente il governo che deve districarsi tra avversari dichiarati e aggressivi. Sembra ci sia un’assoluta abdicazione alla necessità di integrare le politiche pubbliche con la partecipazione popolare, proprio da parte di un governo che pretende di promuovere l’inclusione sociale attraverso processi pedagogici che assicurino la mobilitazione della popolazione attorno ai propri diritti disattesi.
In sintesi, ci troviamo di fronte a un governo con le mani legate, minacciato da una legislatura e da varie forze retrograde che si sono impegnate a smantellare il programma progressista presentato in campagna elettorale. Senza il sostegno dei sindacati, delle organizzazioni sociali e dei cittadini in generale, sarà molto difficile per l’attuale governo modificare gli attuali rapporti di forza sfavorevoli e uscire dalle trappole che i suoi nemici gli tendono quotidianamente. L’attuale presidente e il suo progetto di riforma sono di fronte a questo grande bivio se intende migliorare positivamente la vita dei cittadini di un Paese che non dovrebbe rinunciare alla speranza.
Fernando de la Cuadra, 28 dicembre 2023
Dottore in Scienze Sociali, curatore del blog Socialismo e Democrazia e autore del libro Da Dilma a Bolsonaro: itinerario della tragedia sociopolitica brasiliana (Editrice RIL, 2021).
Traduzione a cura di Luigi M., Patria Grande/CIVG
Articolo originale: El gobierno Lula navega sobre aguas turbulentas
https://rebelion.org/el-gobierno-lula-navega-sobre-aguas-turbulentas/
TERCERA INFORMACION (SPAGNA) / AMBIENTE / ENERGIE RINNOVABILI IN NICARAGUA
Nicaragua tra i leader mondiali in energie rinnovabili
Latinometrics, il sito specializzato in dati e indicatori di crescita della regione, ha sottolineato oggi i progressi compiuti dal Nicaragua negli ultimi anni in materia di energia elettrica
"Superando Norvegia e Svezia, il Nicaragua eccelle nel campo delle energie rinnovabili. Qual è il suo segreto per rendere più ecologica la rete? Abbiamo analizzato l'impressionante quota di energia rinnovabile che alcuni paesi dell'America Latina, come Paraguay, Costa Rica, Uruguay e Brasile, producono ogni anno. In tale ambito primeggiano letteralmente sulla maggior parte del mondo", riporta il sito Latinometrics.
Un rapporto ufficiale del Ministero di Energia e Miniere riporta che dal 1° al 12 novembre di quest’anno la produzione elettrica da fonti rinnovabili è stata del 60.56% e da fonti termiche del 39.44%. In tale periodo l’apporto è stato: energia solare 0.41%; idroelettrico 7.76%; geotermico 13.35%; biomassa 11.35%; eolico 12.48%; importazioni 15.21%.
"Guardando i numeri da una diversa prospettiva, ciò che emerge è la crescita encomiabile del contributo nicaraguense all'elettricità derivante da fonti pulite. Nell’arco di due decadi (2000-2020) il Nicaragua ha più che triplicato la cifra precedente: dal 21% al 70%".
Latinometrics spiega che "attualmente il Nicaragua occupa un posto più alto rispetto a nazioni come Norvegia e Svezia e si è aggiunto alla lista dei Paesi latinoamericani la cui elettricità proviene per oltre la metà da energie rinnovabili. Nella nostra regione ciò può sembrare più un'eccezione che una regola, ma l’analisi mostra senza dubbio che la maggior parte dei Paesi già supera tale soglia".
"Come ci è riuscito il Nicaragua?" si chiedono gli autori, aggiungendo che "secondo la Banca Mondiale, il Nicaragua è un paradiso di energie rinnovabili, per via delle ricche risorse geotermiche, vento e sole abbondanti e svariate fonti d’acqua".
"Nonostante questi beni naturali, il Paese paradossalmente era solito dipendere in larga misura dai derivati del petrolio. Nel 2007, riconoscendo questa contraddizione, il governo del Nicaragua avviò sforzi per cambiare la rete elettrica con l'obiettivo di approfittare del vasto potenziale di energia rinnovabile a disposizione", segnala il sito. E sottolinea: "Ovviamente, non tutti gli Stati sono tanto forniti geograficamente da conseguire cifre così impressionanti nello sforzo di generare energia pulita. Ma è chiaro: bisogna individuare e sfruttare pienamente il vasto potenziale della nostra regione per rendere il mondo più pulito e sostenibile".
Tercera Información, 9 dicembre 2023
Traduzione a cura di Adelina B., Patria Grande/CIVG
Articolo originale: Nicaragua entre líderes mundiales en energías renovables
GRANMA (CUBA) / ESTERI / LA MORTE DI HENRY KISSINGER
Il miglior servitore dell’impero muore a cento anni
Ha vissuto cent’anni l’eminenza grigia della politica e della diplomazia statunitense. Henry Kissinger è morto il 29 novembre scorso nella sua casa in Connecticut. È morto l’uomo, ma della sua «opera» non si cancella niente, e le cicatrici delle ferite aperte dal suo passaggio resteranno per sempre.
Come disse Mario Benedetti, lo piangeranno i suoi uguali, e anche se non si deve festeggiare la morte di nessuno, almeno proveranno sollievo quelli che non potranno mai dimenticare, gli innocenti, le vittime, quelli che la notte ancora gridano, quelli che bestemmiano e bruciano.
Figura imprescindibile della diplomazia statunitense, Henry Kissinger è stato un triste protagonista sulla scena internazionale del XX secolo. Segretario di Stato degli USA, consigliere personale del presidente Nixon; per i temi di sicurezza nazionale, membro del Partito Repubblicano per 50 anni, consigliere di diversi presidenti, sia democratici che
repubblicani, collaboratori, leader di organismi governativi e istituzioni private. Laureato nel 1950 in Scienze Politiche, nel 1952 e nel 1954 ottenne il dottorato all’Università di Harvard. Fu rappresentante degli Stati Uniti nei negoziati per terminare la guerra del Vietnam, finita nel 1973, anno in cui ricevette il Premio Nobel della Pace nonostante la sua complicità nei bombardamenti a tappeto sulla Cambogia e sul Vietnam.
Non potremo dimenticare mai che il «brillante» consigliere e diplomatico, alleato di Franco in Spagna, ha contribuito con la sua politica a far sì che Pol Pot, leader dei Kmer Rossi, giungesse al potere in Cambogia. Ha anche partecipato all’insediamento di diversi regimi criminali in America Latina, come quello di Augusto Pinochet in Cile e la dittatura di Videla in Argentina, e fu l’artefice chiave dell’Operazione Condor e di tanta “guerra sporca” promossa da Washington.
Il suo nome compare nei negoziati sulla limitazione delle armi strategiche che si chiusero con la firma nel 1972 dei trattati tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Promosse l’accerchiamento ad opera degli Stati Uniti alla Repubblica Popolare Cinese, che favorì la visita di Nixon al gigante asiatico nel 1972. Tra il 1984 e il 1990, fu consigliere dei presidenti Ronald Reagan e George W. Bush nella preparazione degli incontri con Mijaíl Gorbachov. Lavorò alacremente sul Medio Oriente in difesa degli interessi della Casa Bianca. Recentemente, in un’intervista con il quotidiano The Wall Street Journal pubblicata nell’agosto del 2022, riferendosi alle tensioni internazionali
dell’attualità, allertò che il suo paese si trovava sulla soglia di crisi dall’esito imprevedibile con Mosca e Pechino, fomentate da Washington.
Henry Kissinger ha servito fedelmente l’impero, e alla sua gestione si devono non poche «vittorie» nell’arena internazionale. Ha svolto un ruolo determinante nel disegno della politica d’ingerenza degli Stati Uniti che ha sempre difeso con passione.
I suoi uguali lo piangeranno, ma grandi masse di popoli massacrati ed esclusi, i familiari degli scomparsi, le vittime delle politiche che ha fomentato, sentiranno di non dovergli il minimo rispetto.
Raúl Antonio Capote e GM per Granma Internacional, 30 novembre 2023
REBELION (CUBA) / ANALISI / L’ONDA ECOLOGISTA VISTA DAL SUD DEL MONDO
L’ecologismo dei poveri
Il variegato movimento sociale che incendiò le strade di Francia e mise alle corde il presidente Macron alla fine del 2018, ha messo in evidenza le contraddizioni di una transizione ecologica che non tiene conto delle differenze di classe.
Fonte: El salto [Immagine: Manifestazione dei Gilet Gialli a Bruxelles nel 2018
Foto di Pelle De Brabander (Flickr)]
Il 17 novembre, gli attivisti dei gilet gialli e del collettivo ambientalista Dernière Rénovation hanno riempito di vernice gialla la piazza dell'Arco di Trionfo a Parigi. L’hanno fatto per commemorare il quinto anniversario della loro mobilitazione che mise alle corde il governo di Macron nel 2018. Cinque anni dopo quel movimento che nacque in opposizione all’aumento della tassa sul carburante, questa curiosa unione tra giovani ambientalisti e simpatizzanti dei gilet gialli discute alcuni temi salienti di quella rivolta eterogenea, lungi dallo stigma che si trattasse di un movimento “eco-scettico”, e che ha invece favorito l’emergere di una diversa sensibilità nella lotta contro il cambiamento climatico: quella di un’ecologia popolare.
Pochi movimenti hanno avuto tanta influenza nella storia recente della Francia come i gilet gialli. Anche se non riuscirono a vincere tutte le loro rivendicazioni più massimaliste – un aumento significativo del salario minimo, la fine delle politiche di austerità, la creazione di un referendum di iniziativa popolare – ottennero il ritiro dell’ecotassa e un piano di più di 10 miliardi di euro, più di quanto hanno ottenuto le ondate di scioperi e proteste sindacali tra la fine del 2019 e l’inizio del 2023.
Come già accadde con il maggio del '68, ci sono mobilitazioni che possono fallire nel breve periodo, ma che hanno un grande impatto sociale o cambiano la mentalità e il senso comune dell’epoca. I movimenti sociali generano comunità critiche che procedono verso innovazioni concettuali. Questo è ciò che è successo con i gilet gialli, soprattutto per quanto riguarda l’emergenza climatica.
La lezione di questa mobilitazione è che “la carbon tax non è impraticabile, ma deve essere fatta con la consapevolezza degli effetti discriminanti”, ha ricordato lo storico economico Adam Tooze. Quella rivolta da un lato contestava le esagerate caricature secondo cui le popolazioni rurali sono le più inquinanti, mentre dall’altro sottolineava la necessità di conciliare la giustizia climatica con la giustizia sociale. “Fine del mondo, fine del mese, stessa lotta” è lo slogan che da allora è diventato popolare in Francia.
Sono solo eco-scettici?
Quando emersero i gilet gialli con le proteste e l’occupazione delle strade, le élite politiche e i loro pappagalli mediatici tirarono fuori la consueta artiglieria del discredito. I gilet furono tacciati di “antisemitismo”, “omofobia” e soprattutto “eco-scetticismo”. “È gente che fuma sigarette e guida macchine a gasolio. Non è la Francia del XXI secolo che vogliamo”, dichiarò l'allora portavoce dell'esecutivo di Macron, Benjamin Griveaux, con affermazioni che avrebbero meritato la Palma d'Oro del razzismo sociale. L’ex ministra e candidata alle primarie dei Verdi del 2021, Delphine Batho, disse che il movimento è “una manifestazione di solidarietà con la lobby petrolifera che risponde a una logica profondamente reazionaria e conservatrice”.
Secondo il politologo Simon Persico “l’impatto della carbon tax sui più poveri può essere molto pesante, le politiche verdi possono accentuare le disuguaglianze” oltre che la stigmatizzazione morale.
“All’inizio c’era la tentazione di presentare i gilet come contrari all’ecologia, ma poi si è capito che non era vero. Tra i manifestanti c’era chi era molto interessato all'ambiente e al cambiamento climatico, soprattutto attraverso il prisma dell'ecologia popolare”, spiega a El Salto il politologo Simon Persico, professore a Sciences Po Grenoble e membro del laboratorio Pacte. Secondo questo esperto ambientalista, le indagini quantitative hanno dimostrato che l’atteggiamento dei gilet gialli nei confronti dell’ambiente è molto simile a quello della popolazione francese in generale: “Alcuni di loro sono molto sensibili e altri hanno poco interesse per la questione ambientale”.
La rivolta si distinse per il suo carattere eterogeneo. Riunì gli elettori di France Insumise di Jean-Luc Mélenchon (affine a Sumar o Podemos), l’ultra destra di Rassemblement National, molti astensionisti e alcuni elettori delusi di Macron. Ma se qualcosa la caratterizzò dal punto di vista sociologico fu la sovra-rappresentazione delle categorie rurali più modeste, classi lavoratrici che subiscono una doppia penalizzazione ecologica, quelle che contribuiscono meno all’inquinamento e che soffrono di più nei luoghi di residenza e di lavoro.
Negli ultimi decenni, l’immaginario ecologista è stato molto segnato dai partiti verdi e da un progetto pieno delle contraddizioni di un capitalismo incompatibile con l’emergenza climatica. Ciò ha contribuito all’apprezzamento sociale delle pratiche “ecoresponsabili”, cioè un’ecologia concepita a partire dai gesti individuali – andare in bicicletta, guidare un’auto elettrica, fare la spesa in un supermercato biologico – molto più facilmente alla portata delle classi medie e alte delle grandi città che delle modeste categorie rurali. E una significativa parte delle classi lavoratrici, ben rappresentate nei gilet gialli, diffidano molto di questa ideologia verde.
L’ecologismo dei poveri
Sebbene i suoi membri dipendano molto dalle automobili nelle aree rurali ed extraurbane, hanno senza dubbio stili di vita a basso impatto ambientale. Ciò è dovuto al minor consumo – di abbigliamento, dispositivi elettronici, ecc. – e ai pochi viaggi aerei rispetto alle classi medie e alte. “Ci sono pratiche tra le categorie popolari, come condividere o riparare beni, che sono considerate cose da poveri, ma che in realtà dovrebbero essere valutate molto positivamente a livello ecologico”, sottolinea Persico. Sono “l’ambientalismo dei poveri”, secondo il concetto sviluppato dall’economista catalano Joan Martínez Alier. È l’ecologia di chi sa che è più logico e sensato consumare meno che consumare meglio.
Queste categorie rurali modeste rivendicano, a modo loro, una “ecologia popolare” e locale basata sull'autoproduzione (cucina, riparazioni, conserve o fai da te). Si distinguono inoltre per lo stretto rapporto con la natura e il paesaggio (con il bosco, l'orticoltura, l'allevamento di polli, il riutilizzo dell'acqua piovana, l'utilizzo dei prodotti della caccia o del legno). Nelle aree rurali popolari, queste pratiche si costruiscono attraverso reti di mutuo aiuto e di scambio che sono preziose per le persone con poche risorse (baratto di cibo autoprodotto, economia informale, ecc.).
Sebbene la smobilitazione abbia prevalso tra i gilet gialli dall’estate del 2019, alcuni gruppi più resistenti hanno continuato a protestare e a incontrarsi nelle rotonde sulle strade, trasformate in spazi di discussione politica e aggregazione sociale. Altri hanno promosso anche orti collettivi, distribuzione di cesti di frutta e verdura per i più vulnerabili. Oppure si sono uniti ad altri gruppi ambientalisti per opporsi a progetti dannosi per l’ambiente come i magazzini di Amazon.
In aprile il gruppo dei Verdi ha presentato all'Assemblea Nazionale un progetto di legge per vietare i jet privati, che alla fine è stato respinto.
“I gilet gialli hanno rimesso alla politica il fatto che non si può pensare all’ecologia senza tenere conto delle disuguaglianze sociali e di classe”, ricorda Persico. Gli economisti Lucas Chancel e Thomas Piketty hanno osservato in un importante studio del 2015 che il 10% degli individui più ricchi del mondo è responsabile di quasi la metà delle emissioni totali. L’1% più ricco, che vive nei paesi meno rispettosi delle regole climatiche, costituisce il gruppo che è il maggior produttore di gas serra. Emettono almeno nove volte di più della media, ovvero più di 200 tonnellate di CO2 pro capite all'anno. Studi econometrici mostrano che le famiglie con redditi più bassi contribuiscono meno al riscaldamento globale.
L’interesse (frustrato) della sinistra
Per cercare di uscire dal pantano di quella crisi di fine 2018, il governo Macron rispose astutamente organizzando la Convenzione Cittadina sul Clima. Quell’assemblea, composta da 150 cittadini scelti a caso, sviluppò una serie di 150 misure per conciliare la giustizia climatica con la giustizia sociale. Tra le proposte era palpabile la necessità di tenere conto delle differenze di classe, ad esempio con la creazione di un’imposta speciale del 4% sui dividendi delle società con utili superiori a 10 milioni di euro per finanziare le misure di transizione climatica. Oppure con un aumento significativo delle tasse sul carburante per gli aerei privati.
Tuttavia, l’esecutivo di Macron dimostrò la sua incapacità di prendere le distanze dal suo proprio DNA neoliberista, e respinse la maggior parte di queste misure. Secondo i calcoli del quotidiano digitale Reporterre, ne applicò solo un 10%. Ciò non ha impedito che molte di queste proposte entrassero nel dibattito politico francese degli ultimi anni. Ad aprile il gruppo dei Verdi ha presentato all'Assemblea Nazionale un disegno di legge per vietare i jet privati, che alla fine è stato respinto. Tutti i partiti di sinistra scommettono sulla creazione di un’imposta speciale sulla ricchezza per finanziare la transizione climatica, misura ripresa anche dal centro MoDem.
“Per la sinistra sarebbe un passo avanti se riuscisse a realizzare un’alleanza tra i movimenti sociali tradizionali e i gilet gialli”, sottolinea Persico in merito all’interesse delle formazioni progressiste in questi settori. Priscillia Ludosky, promotrice di una petizione contro l'aumento della carbon tax che causò la rivolta del 2018, farà parte della lista dei Verdi alle prossime elezioni europee. Il Partito Socialista ha dedicato la sua ultima scuola estiva a come riconciliarsi con le categorie sociali più modeste. E il deputato François Ruffin – uno dei più mediatici della sinistra Insumise – è impegnato a ricucire i legami con quella Francia, nonostante lo zoccolo duro del partito di Mélenchon preferisca concentrarsi sulle banlieues.
“La riconquista del voto popolare rurale” deve essere “la priorità assoluta del blocco sociale-ecologico”, affermano gli economisti Thomas Piketty e Julia Cagé nel libro Une histoire du conflit politique. Pubblicato a settembre, questo lavoro sulla storia elettorale e politica della Francia ha alimentato un interessante dibattito nella gauche sulle motivazioni materiali del voto all’estrema destra, nonché sul modo in cui la sinistra potrebbe riconciliarsi con chi la vota. Una strategia che, secondo Piketty e Cagé, aiuterebbe la sinistra a superare la sua attuale debolezza. Rappresenta appena un terzo dell’elettorato francese.
Sebbene molti elettori nelle zone rurali possano avere forti motivazioni materiali, ciò che Piketty e Cagé sembrano ignorare è la difficoltà di sedurli con un semplice argomento economico. La maggior parte di loro sono molto lontani in termini di valori culturali dall’elettorato progressista. L'estrema destra di Marine Le Pen è fortemente presente in questi settori rurali e periurbani: da lì proviene il 75% dei suoi voti. E l’85% di questi elettori si dichiara “razzista” o pone motivazioni xenofobe al centro del proprio voto.
Il canto delle sirene della xenofobia rende difficile per la sinistra riconciliarsi con i suoi molteplici elettori e con i suoi interessi non sempre conciliabili: i giovani urbani, le minoranze nei quartieri multiculturali e l’elettorato operaio e rurale. Alcune differenze che ostacolano la costruzione di un blocco di ambientalismo popolare.
Aldo Rubert e Enric Bonet, rebelion.org, 28 dicembre 2023
Traduzione a cura di Luigi M., Patria Grande/CIVG
Articolo originale: El ecologismo de los pobres
https://rebelion.org/el-ecologismo-de-los-pobres/
GRANMA (CUBA) / INTERNI / L’INGERENZA DEGLI STATI UNITI
Ordine del governo degli Stati Uniti: «incendiare» il clima di festa nell’Isola
I venti del nord portano più di qualche fronte freddo a Cuba, per la quale le agenzie d’intelligenza degli Stati Uniti stanno preparando una fine d’anno violenta con l’obiettivo di causare un’esplosione sociale di destabilizzazione che contribuisca a sovvertire l’ordine socio politico e distruggere, una volta per tutte, la Rivoluzione cubana.
Quest’anno “il piatto forte” dei terroristi con base a Miami è “far sì che succedano fatti” in virtù di operazioni che considerano “urgenti”. Che da circa 60 anni non abbiano raccolto grandi risultati è una cosa che li innervosisce non poco, ha scritto il sito web Razones de Cuba.
Il centro delle operazioni è la casa dell’agitatore controrivoluzionario Ibrahim Bosh, sotto la costante pressione dei finanziatori che vogliono agire approfittando del periodo festivo.
Su ordine del Dipariamento di Stato, Ibrahim Bosh, Orlando Gutiérrez Boronat e Manuel Milanés Pizonero cercheranno di convocare uno sciopero generale per i giorni 10 e 11 dicembre, nel contesto del Giorno Internazionale dei Diritti Umani. Hanno pensato di usare una parte del denaro che ricevono dal Governo degli Stati Uniti per pagare “azioni di protesta” durante la processione di San Lázaro del 17 dicembre. Tra i gruppuscoli che hanno pensato di unirsi alla nuova messa in scena ci sono gli autodenominati Partito Repubblicano di Cuba e il Movimento 30 Novembre, oltre a noti personaggi anticubani come Pedro Corso, Tomás Regalado e Rosa María Payá, che chiede un finanziamento all’Organizzazione degli Stati Americani e al governo degli USA per sobillare uno sciopero dei lavoratori della salute in Granma, Holguín e Camagüey.
Ogni anno, proprio nei giorni in cui la famiglia cubana si unisce per dire addio al vecchio anno, la controrivoluzione tenta di rompere la tranquillità offrendo denaro per diffondere menzogne e effimeri benefici a fronte di azioni illegali a persone che non hanno niente a che vedere con ciò che difendono i provocatori.
Per fortuna, nonostante la “attenzione dell’impero”, i pochi che abitualmente seguono lo show finiscono col dare alla controrivoluzione la sua stessa medicina: si fanno pagare per quello che non fanno e non dicono.
Le reti sociali, attraverso le valanghe di “fake news” e le catene dei contatti create da politici anticubani e “influencer” finanziati dall’estero per manipolare la realtà, sono la base comunicativa che serve per articolare l’offensiva stabilita dal Dipartimento di Stato USA.
Attaccare le principali fonti di entrata economica, sobillare lo scontento popolare a fronte di errori dei servizi sociali ed esasperare un clima d’insicurezza sono azioni che nella loro ripetitività si auto rivelano e confermano la deliberata intenzione di gettare discredito contro la salute, l’educazione, il turismo e la sicurezza sociale.
Da parte nostra, continua il nostro impegno con la verità, con il popolo di Cuba, mostrando come funziona la guerra ibrida contro un’Isola che lotta per la vita, perché sia prospera e sostenibile. Di fronte ad ogni azione d’odio perpetrata contro Cuba, la verità sarà sempre la nostra arma più forte per conquistare la vittoria.
Redazione Granma e GM per Granma Internacional, 2 dicembre 2023
GRANMA (CUBA) / INTERNI / INFLAZIONE
Appunti sull’inflazione a Cuba
Spesso, su tanti media stranieri si sottolinea il fatto che a Cuba il salario minimo è di una decina di dollari. Prendono la fascia inferiore della scala salariale indicato in pesos e lo convertono in divisa, oltretutto con i tassi del mercato nero. Oltre a essere un’esagerata semplificazione, questa è spesso la prima delle manipolazioni politiche.
Non sto sottovalutando la nostra crisi, sto solo dicendo che questo passaggio non è corretto. In realtà non è una cosa semplice dimostrarlo, ma in qualsiasi paese dove il salario è inferiore ai 50 centesimi di dollaro, la carestia è estrema. E quando dico carestia, non mi riferisco a saltare una merenda o una colazione, ma ad una condizione umana prolungata e generalizzata in cui non è possibile consumare alimenti per lunghi periodi, con la conseguenza della morte di migliaia di persone nel mondo e con centinaia di milioni di esseri umani che soffrono di una severa denutrizione. Il nostro paese è molto lontano da questo panorama. Certamente numerose persone a Cuba integrano le loro necessità con beni acquisiti nei mercati in MLC, ma paragonare le nostre entrate personali a una moneta straniera induce a grossolani errori.
Nell’economia generale, l’importanza di questo segmento è certamente minore rispetto al mercato in pesos. Un semplice esempio: nel 2000 non si parlava d’inflazione, il cambio era di 25 pesos a dollaro e il salario minimo era di 210 pesos, mentre oggi il salario minimo è di 2100 e il cambio informale è di circa 250 pesos per dollaro (o euro). Ossia, se nei due periodi dividiamo il salario minimo tra i tassi di cambio corrispondenti, vedremo che il risultato è identico: 8,40.
Cosa indica questo? Tra le altre cose quello che abbiamo detto prima, e cioè che il segmento di mercato più importante per il cubano medio è dove si acquistano beni e servizi in moneta nazionale.
E' precisamente in quell'ambito che si presenta il maggior deficit di prodotti di prima necessità, causa fondamentale dell’inflazione. Questo indica perciò che non è la libera fluttuazione cambiaria che risolverà la crisi, ma anzi la aggraverebbe, portandola a quello che si conosce come stagflazione (inflazione + recessione). L’impatto di una libera fluttuazione cambiaria non solo sarebbe devastante per il cittadino medio, ma, paradossalmente, aggraverebbe la mancanza d’offerta.
Immagina che l’elettricità aumenti di dieci volte mentre il tuo salario rimane lo stesso. Si dovrebbe anche moltiplicare per dieci il prezzo dei combustibili, e i due fattori provocherebbero una spirale di aumenti sul resto dei beni e dei servizi. Le imprese vedrebbero in un minuto ridotta fino al 90% la capacità d’acquisto di quanto depositato nei loro conti correnti per operazioni in moneta nazionale. Se il giorno prima compravano MLC a un tasso di 25 per 1, dovrebbero subito farlo diciamo a 250 per 1, e non avrebbero più capitale sufficiente per acquistare materie prime, materiali, combustibili ed energia: risorse che inoltre sarebbero molto più costose. Il risultato? Fallimenti generalizzati, aumento della disoccupazione e minor disponibilità di beni e servizi. Caos totale. Non va dimenticato allora il motivo per cui tanti media stranieri, tipicamente nemici di Cuba, raccomandino una misura simile.
Affrontare l’inflazione significa produrre di più con i nostri stessi sforzi e senza rinunciare alle conquiste sociali. È urgente superare gli effetti della pandemia che hanno depresso il turismo e le esportazioni, e va fatto in una situazione molto ostile per l’inasprimento del blocco e di un’inflazione indotta dall’estero. Oggi i beni importati sono sempre più cari, soprattutto gli alimenti. Per esempio, rispetto al 2019 il grano ha subito un aumento del prezzo del 46% e l’olio alimentare dell’82%. Ovviamente è necessario superare i problemi interni per risparmiare le risorse e aumentare la produttività. Sono mete difficili, ma questo paese non ha mai avuto mete facili, e continueremo sulla nostra strada.
Antonio Rodríguez Salvador e GM per Granma Internacional, 13 novembre 2023
GRANMA (CUBA) / STORIA / L’ITALIANO DEL GRANMA
Gino Donè: da partigiano italiano a ribelle della spedizione del Granma
Quando lo yacht Granma salpò in una fredda mattina dal porto messicano di Tuxpan con rotta a Cuba trasportando 82 uomini al comando di Fidel Castro Ruz per iniziare la lotta armata contro la tirannia batistiana, uno di quei giovani che si stringevano a bordo era italiano.
Non si trovava lì per caso, ma grazie al suo pensiero antifascista e al suo spirito rivoluzionario internazionalista, per l’esperienza acquisita quando fece parte dei gruppi combattenti dei partigiani che operarono contro le truppe tedesche nelle sue zone di origine. Gino Donè Paro, questo il nome di quel giovane nato il 18 maggio del 1924 a San Biagio di Callalta in provincia di Treviso.
Fece il militare in Veneto, in piena occupazione tedesca, e fu addestrato al combattimento, all’uso delle armi, nell'uso degli esplosivi e nella conduzione di veicoli pesanti. Nel 1945, durante una missione anglo-americana con un gruppo di partigiani militari su di un’imbarcazione, fu catturato e inviato in un campo di concentramento dal quale, alcuni mesi dopo, riuscì a fuggire.
Terminata la guerra, nel 1946, la sua condizione di ex partigiano e antifascista, come quella di altri giovani, non era ben vista dalle autorità del Veneto, che li considerava delinquenti.
Non c’era lavoro nell’Europa devastata dalla guerra, per cui decise d’andare a cercare opportunità nei paesi dell’America Latina.
L’arrivo a Cuba
Gino arrivò in nave al porto cubano di Manzanillo, nell’attuale provincia di Granma, nel 1951, e si trasferì a l’Avana. Tempo dopo, grazie a un amico ingegnere, fu assunto come operatore di veicoli pesanti per lavorare alla costruzione dell’autostrada del Circuito Sud Cienfuegos-Trinidad, e fissò la sua residenza in quest’ultima, dove conobbe la giovane Norma Turiño, che militava nel Partito Ortodosso. Si sposò con lei nel 1953 e si impegnò con la Rivoluzione nella provincia di Las Villas.
In quello stesso anno si trasferì a L’Avana e cominciò a lavorare alle opere di costruzione della Piazza Civica (oggi Piazza della Rivoluzione José Martí). La sua residenza si trovava ai piani alti del Liceo Ortodosso, in Prado 109. Si sposò con lei nel 1953 e si impegnò con la Rivoluzione nella provincia di Las Villas.
Il legame con Fidel
Venuto a conoscenza dell’impegno di Gino per la Rivoluzione, Fidel valutò il suo impiego come messaggero di fiducia per trasferire denaro e documenti, data la sua condizione di straniero sconosciuto alla tirannia batistiana.
Al principio del 1956, l’italiano si accorpò ufficialmente al Movimento 26 Luglio. Fece due viaggi in Messico portando documenti e denaro a Fidel, nascondendoli nella fodera della giacca, senza che le autorità sospettassero di lui come rivoluzionario.
Nel mese di maggio, Fidel sollecitò la presenza di Gino in Messico per integrarlo ai preparativi della spedizione. Portò denaro, lettere per i compagni e altri documenti nascosti nei suoi abiti.
Appena atterrò, il giovane italiano prese un taxi e si diresse all’appartamento di Emparan 49, come gli avevano indicato a L’Avana, nel quale fu ricevuto da una giovane. Dopo poco giunse Raúl, e poi Fidel, che Gino non conosceva. Diede loro quello che portava e cominciarono una lunga e animata conversazione. Alloggiarono Gino nell’appartamento di Insurgentes 5, e lo integrarono negli addestramenti che si realizzavano nella palestra Bucareli e nel campo di tiro Los Gamitos durante la sua breve permanenza in Messico.
Dopo pochi giorni l’italiano si trasferì nell’Isola per portare con sicurezza dei documenti che gli affidò Fidel in una grande busta, destinati a varie persone. Dovette, per ragioni di sicurezza, memorizzare l’indirizzo.
Quando giunse a l’Avana, un agente dell' immigazione lo informò che non aveva il permesso d’entrata nel paese. Lui disse d’essere un turista confusionario, ma le autorità lo inviarono all’accampamento de Tiscornia, a Casablanca, dove venivano trattenuti gli stranieri senza documenti.
Preoccupato per la busta che gli aveva affidato Fidel e che custodiva gelosamente, riuscì a telefonare a Trinidad, comunicò con i suoi familiari e li mise al corrente della pericolosa situazione in cui si trovava.
Poche ore dopo suo cognato si presentò con un certificato di matrimonio per accreditare la sua residenza permanente nel paese e ottenere la sua liberazione. Riuscì di nascosto ad affidare al suo “fratello politico” la busta che gli aveva dato Fidel, gli diede l’indirizzo di consegna raccomandando l'importanxa e l'urgenza della consegna.
Alcuni giorni dopo Immigrazione mise Gino in libertà.
Le attività in Messico
Al principio del mese di settembre, Faustino Pérez si trasferì a Trinidad per informare il futuro partecipante alla spedizione che, per ordine di Fidel, doveva tornare prima possibile in Messico. Gli consegnò denaro e documenti perché li portasse a loro, nascosti nella fodera della giacca.
Stavolta entrò in Messico con un volo diretto a Mérida, in Yucatán, e da lì si trasferì in autobus sino al Distretto Federale. Localizzò nel centro della città la casa che gli avevano indicato e poco tempo dopo apparve Fidel e Gino gli consegnò i documenti e il denaro che portava con sé.
Fidel lo accompagnò al hotel Fornos, in via Revillagigedo, dove gli presentò il dominicano Ramón Mejías del Castillo (Pichirilo) e il cubano Rolando Moya, che erano ospiti lì.
I quotidiani messicani informarono il 23 novembre che la polizia aveva sequestrato armi, documenti e munizioni da guerra in quella che sembrava una cospirazione. C’era stata una spiata e Fidel immediatamente ordinò d’evacuare e trasferire in un luogo sicuro alcuni depositi di armi. La partenza della spedizione fu anticipata, non era più sicuro in territorio messicano.
A bordo un’auto partirono per la città di Poza Rica – punto di concentrazione dei combattenti – il dominicano Ramón Mejías del Castillo (Pichirilo) e l’italiano Gino Doné. Nel pomeriggio di quel piovoso sabato del 24 novembre in picoli gruppi gli uomini camminarono in un fangoso sentiero al margine del fiume, sino a quando raggiunsero la casa di Santiago de la Peña, dov’era attraccato lo yacht Granma.
Otto giorni dopo una difficile navigazione per il cattivo tempo, i venti forti e il mare grosso, i ribelli sbarcarono sulla costa sud cubana, in un luogo inospitale chiamato Los Cayuelos, a due chilometri da Las Coloradas.
Il 5 dicembre, i combattenti, tra i quali Gino Doné, furono sorpresi e si dispersero nei campi di canne da zucchero di Alegría de Pío. L’esercito batistiano circondava la zona e li cercava affannosamente. L’italiano riuscì a rompere l’assedio e con l’aiuto dei contadini viaggiò sino città di Santa Clara, dove si dedicò alle attività rivoluzionarie. Nel gennaio del 1957 gli ordinarono dipartire per l’estero, per realizzare altri compiti.
Varie volte viaggiò a Cuba. Nel 2005, in occasione della celebrazione del 52º anniversario dell’assalto alle caserme Moncada e Carlos Manuel de Céspedes, ebbe un fraterno incontro con il Comandante in Capo Fidel Castro Ruz.
Gino Donè Paro è morto in Italia, il 22 marzo del 2008 e, rispettando le sue ultime volontà, le sue ceneri dal 2 dicembre scorso riposano in Cuba.
Delfin Xiquès e GM per Granma Internacional, 11 dicembre 2023
Fonte: La parola impegnata, di Heberto Norman Acosta