Net Generation: la cultura giovanile in una prospettiva di società virtualizzata

Scopo della presente relazione[1] è identificare nel «modello della propaganda»[2], gestito dalle principali corporations mediatiche private occidentali, un sofisticato quanto facilmente demistificabile meccanismo di riproduzione economico-politico-culturale del sistema di capitalismo assoluto caratterizzante la società dei consumi e dello spettacolo della quale, come “Occidente”[3], siamo parte integrante.

Il controllo sociale messo in atto dal modello di cui sopra, si invera attraverso un processo di manipolazione e formazione del consenso su ampia scala, concernente tre anelli concentrici di un unico cerchio. Il primo anello comprende il controllo dell'informazione strumentale a reindirizzare, per via politica, economica e militare, gli scenari geopolitici nell'ottica degli interessi delle multinazionali private occidentali[4], del complesso militare-industriale statunitense e dell'imperialismo sionista; il secondo anello riguarda le strategie postmoderne tese al controllo coloniale delle politiche interne agli Stati assoggettati al Nuovo Ordine Mondiale; il terzo anello infine, concerne la strategia di ridefinizione della struttura di classe nell'ambito del capitalismo contemporaneo[5], nonché conseguentemente e consustanzialmente, delle mentalità e dell'immaginario collettivo occidentale nel novero dell'affermazione e del consolidamento di una società di consumatori individualizzata. Procediamo con ordine. Scrive, in merito alla comunicazione mediatica, da parte di politici neo-liberali ed organi di “informazione” atlantisti, quale veicolo per suscitare il consenso dell'opinione pubblica occidentale semi-colta (knowledge class) in riferimento alla strategia imperialista di costruzione del Nuovo Ordine Mondiale, Cesare Allara:

 

L'arma principale che ha consentito agli Stati Uniti di intervenire militarmente in Medioriente, nel Nord Africa e in Asia Centrale è stata la comunicazione […]. Per scatenare una guerra, il primo obiettivo è conquistare le menti e i cuori, quindi il consenso. Sotto questo aspetto, gli Stati Uniti ed i loro alleati hanno vinto a mani basse, anzi si può affermare che non c'è stata proprio partita. Già dai primi anni '20, Mussolini aveva compreso che “il cinema” era “l'arma più forte dello Stato” e infatti, poco dopo, si appropriava de L'Unione Cinematografica Educativa (LUCE) per farne lo strumento principale di propaganda del regime fascista […]. Joseph Goebbels, gauleiter di Berlino nonché ministro della Propaganda del Terzo Reich, consigliava: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà verità”. Sono state 935 le false dichiarazioni sull'Iraq rilasciate dai dirigenti degli Stati Uniti tra l'11 settembre 2001 ed il 20 marzo 2003 alla media di 1,7 al giorno, a cui bisogna aggiungere quelle del leader laburista inglese Tony Blair. La classifica finale dei bugiardi vede in testa Bush jr con 259 false dichiarazioni, seguito a poche lunghezze dalla “colomba” Colin Powell e poi da Condoleezza Rice, Donald Rumsfeld, ecc.[6]

 

La subordinazione delle scelte di politica interna dei Paesi ri-colonizzati alle istanze del Nuovo Ordine Mondiale “a stelle e strisce” ai desiderata statunitensi, non sempre si configura quale conseguenza di un'occupazione militare diretta o degli effetti di un golpe, più o meno attuato secondo modalità di sovversione postmoderna («rivoluzione colorata»). I cittadini degli Stati ri-colonizzati o in fase di ri-colonizzazione, tra cui deve essere giocoforza annoverata anche l'Italia, sono “liberi di scegliere” entro una pluralità di opzioni politiche, purché esse non si caratterizzino quali ostili, resistenti o contrarie alla tutela degli interessi e dei desiderata di cui sopra. Gl'intellettuali ed i politologi[7] facenti riferimento ai think tank ed ai partiti della sinistra liberal statunitense sono, come dimostrava, già nel 1992, Noam Chomsky, i principali fautori e promotori di tale strategia politico-mediatica:

 

Gli Stati Uniti devono essere pronti ad usare la forza se si registrano violazioni e contemporaneamente devono sostenere «le democrazie centro-americane», minacciate dalla sovversione e dall'aggressione del Nicaragua. Si tenga presente che questo è il pensiero di una delle “colombe” più rappresentative e viene considerato del tutto ineccepibile dall'opinione pubblica liberal americana. E' un modo di pensare perfettamente in sintonia con la concezione politica Usa, così come è presentata da Robert Pastor, un altro specialista dell'America Latina dell'amministrazione Carter, che allora era all'estremità «colombesca» dello spettro ideologico e politico e ora, forse, ancor più in là. In una difesa della politica americana nel corso degli anni, Pastor scrive che «gli Stati Uniti non intendevano controllare il Nicaragua o altre nazioni di quella regione, ma nemmeno intendevano permettere che il loro sviluppo sfuggisse a qualunque controllo. Hanno accettato che la popolazione del Nicaragua agisse in maniera indipendente, tranne quando tale comportamento poteva interferire negativamente con i propri interessi». In parole povere, il Nicaragua e gli altri Paesi sono liberi... di fare quello che noi vogliamo facciano e possono scegliere la propria strada in piena indipendenza... se le loro scelte si adeguano ai nostri interessi. Quando usano stoltamente la libertà che noi accordiamo loro, allora logicamente abbiamo il diritto di difendere noi stessi. Si noti che tali idee sono il risvolto esterno di quella concezione di democrazia che, all'interno, porta a considerarla una forma di controllo popolare[8].

 

Il controllo politico esercitato, anche attraverso un imponente apparato di fuoco multimediale, dall'imperialismo nei confronti delle scelte ed opzioni di politica estera ed interna degli Stati soggetti al processo di ri-colonizzazione di cui sopra[9], trova riscontro e permeabilità nella propria attuazione, attraverso la formazione di un immaginario collettivo rivestito di abiti mentali genericamente liberisti (funzionali alla perpetuazione del modello di capitalismo assoluto e senza classi), nell'edificazione di una società dei consumi e di consumatori[10].

La società dei consumatori è uno spazio illimitato di possibilità e desideri nell'ambito del quale merci animate si rapportano con, e si subordinano a, merci inanimate, attribuendo a queste ultime valore di integrazione e promozione sociale.

I giovani occidentali (o meglio, occidentalizzati nei costumi, nelle mode, negli atteggiamenti e nei modelli di consumo) in particolare, scontano sulla pratica della propria esistenza quotidiana gli effetti dei processi di mercificazione. Sono essi stessi “cose”, merci. Devono continuamente proporsi, “vendersi”, e per “stare sul mercato delle immagini” (e dell'immaginario) sono costretti ad inseguire ciò che la pubblicità “consiglia” loro per risultare continuamente “spendibili” ed evitare di correre il “rischio sociale” di trasformarsi in “merce avariata”, o “scaduta”. Il problema è che, diversamente dalle merci inanimate, gli esseri umani devono mangiare, bere, riposarsi, ripararsi dalle intemperie, soddisfare altri bisogni di derivazione immateriale... Ed a fianco della incessante corsa alla promozione del proprio “io” come merce («feticismo della soggettività», per citare Zygmunt Bauman), devono lavorare.

Ecco allora che i “mercati di integrazione lavorativa” li trattano come merci (instrumentum vocalis), da utilizzare fin che serve, spremere per poi gettar via (mediante la tipologia dei cosiddetti “contratti atipici di lavoro”, o “contratti spazzatura”). Dunque, i giovani sono merci gli uni agli occhi degli altri, nell'ambito della promozione del proprio “io” mercificato, e merci dinnanzi ai mercati che li inducono a reificarsi tramite il messaggio pubblicitario e ne promuovono lo sfruttamento sui luoghi di lavoro. Bisogna infatti lavorare sempre di più ed a ritmi forsennati per ottenere il denaro sufficiente per comprare futilità attraverso la cui ostentazione potersi proporre quali attori sociali perfettamente integrati nella società dei consumatori, nonché alimentare, di concerto, l'industria delle mode, dei divertimenti ed infine dello smaltimento dei rifiuti, perché la società dei consumatori si fonda sulla continua dismissione di beni e sulla altrettanto stimolata fabbricazione di nuovi desideri, atti ad invogliare il pubblico-consumatore ad acquistare (dopo averle sognate, bramate ed agognate in quanto funzionali alla permanenza dei singoli nel novero del sistema di compatibilità di tipo consumistico) nuove merci, destinate successivamente alla dismissione. La società dei consumatori è, dunque, una filiera che comincia nei think tank e negli studios pubblicitari statunitensi e dei Paesi vassalli degli Usa, transita, per via mediatica, per il consenso pubblico e termina nella discarica atta allo smaltimento dei rifiuti.

Le classi dominanti, ossia i produttori (anche di immagini), non “utilizzano” la società dei consumatori, di cui fanno parte, ma veicolano, tramite la pubblicità, l'ideologia consumista, che è anche quella cui essi stessi fanno riferimento. Le classi dominanti non sono “altra cosa” dalla società dei consumatori, la “società dei produttori” di derivazione fordista è morta e sepolta. Le classi dominanti non esercitano più un controllo di tipo “schmittiano” sui corpi dei consociati, ma ottengono il consenso attraverso meccanismi indotti di esternalizzazione, individualizzazione e privatizzazione del controllo sociale, non rinunciando del tutto alla repressione. Per cui le classi dominanti ricevono nelle proprie mani l'approvazione alle politiche di promozione dei consumi e non le dettano tout court. L'ibridazione e la pluralizzazione dei canali mediatici (anche telematici) ha infatti reso il consumatore più “libero” nella scelta del canale cui rivolgersi (ma allo stesso modo ed allo stesso tempo non ne ha ridotto il tasso di condizionamento ideologico dal modello di riferimento culturale dominante, quello improntato all'«esistenza commerciale»[11]). Si chiama, citando Zygmunt Bauman, «processo di sorveglianza volontaria contemporanea». Viviamo in una società che è, dunque, gerarchicamente strutturata ed a rete consustanzialmente. La distanza dalle classi dominanti si è, da parte della sterminata base sociale intrinseca ad un sistema ultra-capitalistico[12] riproducentesi in maniera accelerata e senza futuro[13] (che ha promosso una ridefinizione sostanziale della tradizionale suddivisione in classi), ampliata economicamente e ridotta ideologicamente al contempo.

Se dovessi descrivere la dimensione in cui sono inseriti i giovani (segnatamente, i nati dopo il 1980) oggi, procederei come segue: una rete stratificata dove ciascuno mira ad allontanarsi il più possibile da chi gli sta materialmente vicino, mantenendo però uno spazio di connessione, virtuale, con il resto del world wide web. La noia, nell'accezione di radicalizzazione del concetto di disimpegno, è l'elemento comune ai non-abitanti[14] di siffatto spazio globale virtuale, ovviamente non delimitato da confini ed indifferenziato culturalmente.

La noia viene declinata nella perenne volontà di evasione, vissuta come un dogma. La noia, a sua volta, è uno stato d'animo complesso che deriva dal senso di deprivazione relativa che pervade chi è stato mediaticamente persuaso, da decenni di messaggi pubblicitari (subliminali quando non palesi), di valere molto di più di quanto effettivamente è, e per cui avverte sé stesso come “sprecato” dovunque. Per questo, sostanzialmente, viene percepito come meno da “sfigati” esercitare lavori precari, sottopagati, dequalificati ed ininfluenti ai fini della propria formazione intellettuale e/o manuale in una città cosiddetta “globale” che non ricoprire un incarico od un'occupazione di impiegato di concetto, assai meglio remunerata e socialmente considerata qualificante e finanche, in tempi di “crisi”, «prestigiosa», in una città avvertita come periferica rispetto alle dinamiche concernenti i processi di globalizzazione neoliberista[15]. Il non-luogo, la città globale, caratterizza di per sé lo status sociale della persona che viene a transitarvi, reinterpretando un luogo geografico quale una sorta di indefinito mercato consumistico virtualizzato, dove intessere un complesso distopico e finanche autistico di relazioni altrettanto virtuali, «liquide»[16], alla stregua di una rete dalla quale è possibile connettersi, disconnettersi e riconnettersi a piacimento, lontano da qualsivoglia rimando a postulati politici (e addirittura pre-politici) caratterizzanti il contratto sociale in un moderno ed organizzato “stato di diritto”, quali il criterio di “responsabilità” circa le proprie scelte, azioni e decisioni. Viviamo pertanto, come Occidente, una società televisiva, che si appresta a completare la propria metamorfosi in chiave virtuale (la società virtualizzata prossima ventura).

Il processo di virtualizzazione ha spaccato la società  tra chi se ne fa attore, o meglio, più o meno consapevole vittima, e chi (pochi per la verità, una risicatissima quanto coraggiosa minoranza) lo critica e, conseguentemente, per quanto possibile, lo stigmatizza e rifiuta. Questi ultimi, in assenza di una sponda politica organizzata (la sinistra, in Italia, oggi, «parla molto per non dire nulla, ma quel nulla lo dice bene, in modo che piaccia al suo popolo, ma non dispiaccia ai ceti dominanti e alle loro agenzie di comunicazione»[17]) sono destinati ad una sorta di “suicidio sociale”, ossia a subire un processo di marginalizzazione in quanto «consumatori difettosi» (Z. Bauman). I primi sono, invece, destinati alla morte cognitiva, causata dal collasso della psiche sotto i colpi di un martellamento dovuto all'eccesso di informazioni, in larga parte inutili (e fautrici di non improbabili cortocircuiti  conoscitivi, determinati dall'acquisizione di un eccesso di informazioni), ma comunque accumulate, cui sono esposti ed a cui si espongono volontariamente. La virtualizzazione è la progressiva e totalizzante dipendenza del singolo dallo strumento tecnologico, che assume i contorni ed il significato di surrogato delle emozioni prodotte dal contatto diretto (processo di “gadgettizzazione delle relazioni sociali ed interpersonali”, allorquando il gadget,prodotto del mercato dei consumi a stelle e strisce e strumento “essenziale” di approvazione e riconoscimento pubblico, diviene il veicolo attraverso cui stabilire una connessione relazionale tra singoli individui e «sciami sociali» [Z. Bauman] postmoderni), dagli anni '80 subordinato al tasso di reificazione raggiunto dai corpi e di omologazione raggiunto dalle menti degli individui.

La virtualizzazione è surrogato e “motore di ricerca” delle suddette emozioni (rielaborate e culturalmente riadattate al rango di reciproci scambi verbali e fisici[18], volti a sanzionare l'avvenuta approvazione nell'ambito di un determinato circuito socio-amicale “che conta”, a livello naturalmente di stereotipato immaginario mediatico) a sua volta. Oggi i partner si acquistano dalle vetrine telematiche dei social network ad hoc, come Meeting, OkCupid,ecc. Si acquistano per poi essere dismessi allo spuntar di un'offerta migliore e di un desiderio di nuovo conio, maggiormente avvertito come “seducente”, perché il negozio virtuale delle relazioni affettive è sempre aperto e l'offerta s'incontra facilmente con la domanda. La virtualizzazione sociale è il “caos organizzato”. Destabilizzare l'ordine pubblico per stabilizzare l'ordine politico, si usa, giustamente, affermare allorquando si discetta della strategia della tensione e del terrore caratterizzante il riequilibrio degli scenari politici in chiave moderato-conservatrice ed atlantica nell'Italia del secondo dopoguerra. Ridefinire l'immaginario collettivo e destrutturare, attraverso i processi mediatici e di virtualizzazione, la società in quanto tale, per creare consenso, o quanto meno irriflessiva indifferenza ed acquiescenza, attorno alle politiche di stabilizzazione del dis-ordine geopolitico neo-conservatore ed alle complesse procedure di finanziarizzazione dell'economia globalizzata, si dovrebbe osservare, in merito al modello di virtualizzazione dello spazio pubblico, delle relazioni sociali e dei rapporti interpersonali di cui sopra.

E' piuttosto semplice, ma non semplicistico, affermare che la generazione dei nati all'incirca entro l'arco di tempo corrispondente al decennio Ottanta-Novanta del secolo XX (“Generazione Y”), ossia quella successiva alla cosiddetta “Generazione X” (i nati tra il 1960 ed il 1980, i figli del boom economico), possa essere definita culturalmente figlia della tv commerciale, e tendenzialmente orientata a riversare “in rete” (tramite un meccanismo di ibridazione tra media differenti) il proprio bagaglio di conoscenze, credenze, rituali ed atteggiamenti finalizzati all’approvazione ed all’integrazione sociale.

Un dato di fatto si pone come altrettanto inequivocabile. Se la generazione nata negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e fino al 1960 circa, era culturalmente figlia del conformismo democristiano di quegli anni, mediato però da un incisivo intervento in ambito socio-culturale da fattori di integrazione declinati in senso progressista (i partiti di sinistra, allora di massa, il cinema dell’epoca, l’eredità culturale, magari non maggioritaria ma avvertita e sacralizzata in qualche modo nella memoria storica e nell’immaginario collettivo dell’epoca, della resistenza antifascista, anche di matrice comunista), oggi ci troviamo di fronte ad una galassia giovanile e giovanilistica largamente incurante, anche, ma non solo, per via dell’ignoranza “tecnica” dei fatti storici, del passato[19], che vive nel culto dell’eterna conservazione del sé, molto bene integrata, come forma mentis, nella società dei consumi (declinati in ogni ambito, anche per quel che concerne la dimensione immateriale e politica), pressoché completamente priva di una visione del futuro.

Inoltre, se si esclude il breve passaggio della stagione dei movimenti no-global (o meglio, altermondialisti), eterogenei quanto perlopiù caratterizzati da un approccio culturale assai confacente al soggettivismo liberistico e postmoderno “negriano” in tema di analisi complessiva delle tematiche geopolitiche, e sulla cui reale consistenza politico-ideologico-organizzativa come avanguardia rivoluzionaria cosciente vi è motivo di dubitare assai seriamente, la generazione dei nati dopo il 1980 (la citata “Generazione Y”) ha prodotto piuttosto poco, per usare un eufemismo. Tra l’altro, a parte occasionali vampate ribellistiche, subito rientrate o represse (ma sarebbero rifluite nel marasma generalista comunque..., anche senza l'intervento repressivo), la “Generazione Y” si è addirittura qualificata come particolarmente obbediente ai postulati ideologico-programmatici del modello socio-politico entro cui si trova costretta ed inserita al contempo, grazie al messaggio pubblicitario e televisivo che ne ha influenzato gli appartenenti sin da bambini, a quanto sancito in materia di adesione all’«esistenza commerciale» ed alla «cultura della visibilità massmediatica» (P. Barnard). La “Generazione Y” non si è formata culturalmente con i film politici d’inchiesta o della “commedia all’italiana”, bensì con il reality show, evento mediatico competitivo e caratterizzante, in senso individualistico ed edonistico (90 giorni ripreso da una telecamera in diretta tv in prima serata su Canale 5, fin oltre la mezzanotte e con milioni di ascoltatori adoranti..., fuori e dentro gli studios tv, che cosa chiedere di “meglio” per un ragazzo o una ragazza cresciuti dinnanzi ad uno schermo televisivo fatto di vip e starlettes da idolatrare ed imitare ad ogni piè sospinto...) una tappa verso la progressiva trasformazione del cittadino in merce esposta, con un ritorno di interesse materiale ed immateriale, nelle vetrine mediatiche del “supermarket dell’etere” commerciale. Da mero homo videns seduto a casa davanti alla tv a protagonista della fiction televisiva. La tv come fabbrica dei desideri e delle mitiche e mitizzate “opportunità” individuali (X Factor, per esempio, è il nome di un reality che sforna cantanti e che concede ai protagonisti dello show la possibilità di vivere la scuola d’arte e recitazione d’un tempo come esperienza di continuata esposizione mediatica, al fine del godimento del pubblico da casa, che intende i concorrenti del programma più o meno come i protagonisti di un circo). Inoltre, il reality show ha attribuito al pubblico-consumatore-di-immagini, per la prima volta e nella maggior parte dei casi relativi a questi programmi, la possibilità di accedere direttamente ai fasti della visibilità massmediatica pur senza detenere altre qualità se non l’avvenenza fisica, la sfrontatezza esibizionistica, un'estetica glam ed una mentalità free (nel senso di perfettamente adattabile ai modelli culturali e di consumo della classe media americanizzata), o comunque quanto richiesto, sempre in materia  di atteggiamenti, dal reality show di turno. Una vera e propria manna dal cielo per i fautori dell'ideologia consumistica! Difficile, in tale contesto, non richiamare alla mente le istantanee, sconfortanti quanto indicative, relative alle code chilometriche dei ragazzi e delle ragazze assiepate notte e giorno davanti al backstage itinerante del Grande Fratello per sottoporsi ad un provino..., sorta di ordalia postmoderna, atta a giudicare, attraverso un vero e proprio rito probatorio, l'adattabilità dell'“imputato-candidato-esaminando” agli stereotipi ideologici caratterizzanti la società dei consumi e dello spettacolo.

Tutto ciò si ricollega, senza dubbio, a quanto il giornalista tedesco Juergen Elsaesser ha esplicitato parlando della Fun Generation, la generazione secondo cui «il divertimento [nell’accezione veicolata dal messaggio pubblicitario-commerciale] è la sovversione»[20]. Non vi sono dubbi circa il fatto che molti adolescenti e post-adolescenti, anche (e, per certi versi, soprattutto) culturalmente di sinistra, si percepiscano, oggi, quali portatori di un modus vivendi “rivoluzionario” o comunque “controcorrente” perché intenti ad assumere atteggiamenti conformi ai costumi sociali odierni[21], quali il pendolare tra un locale notturno catchy e l'altro, lo spendere in maniera eccentrica il proprio, poco o tanto, denaro, l'abbigliarsi in modo confacente alla moda del momento (anticipando in tal modo il trend del gruppo), fumando marijuana, bevendo ettolitri di birra il fine settimana e caratterizzandosi per uno stile di vita tecnologico e “gadgettizzato”. La cosiddetta “generazione perduta”, in tal modo, aderendo alle logiche commerciali e centrate sul disimpegno generalizzato, ed anzi avvertendo tutto ciò come esibizione di una pratica estetizzante di taglio “sovversivo”, si rende non solo vittima, ma anche corresponsabile delle dinamiche di schiavizzazione socio-psicologica determinanti la “perdizione”, lo “smarrimento”, il senso di vuoto e di irrimediabilità prodotte dalla deriva precarizzante ed alienante (la generazione cosiddetta “senza futuro”) di cui sopra.

La società dei consumi e dello spettacolo ha generato, nel tempo e non senza contraddizioni e lasciandosi alle spalle meritorie ma minoritarie sacche di resistenza, un sistema di riferimenti volti all’interazione tra i gruppi, oggi ridotti a sciami o a «tribù postmoderne»[22], subdolo ma efficace: canalizzare le istanze, più o meno caratteristiche della fase adolescenziale, delle generazioni nate dopo il 1980, nell’ambito dell’adesione ad un complesso di riferimenti culturali e comportamentali offerti attraverso varie ma circoscritte alternative d’insieme, dal “dogma pubblicitario”, dal “regime pubblicitario massmediatico”. Oggi, la “Generazione Y” è effettivamente “libera di scegliere” nella stessa misura in cui, come abbiamo avuto modo di osservare più sopra, lo era il Nicaragua ai tempi della propria dipendenza coloniale dal dominio statunitense.

La “facoltà di scelta”, infatti, può avvenire soltanto nell'ambito delle opzioni conformi ed adeguate alla perpetuazione della società dei consumi e dello spettacolo. Essa però, deve avvenire. Chi si rifiuta di “scegliere”, si auto-qualifica come «consumatore difettoso», destinato alla marginalizzazione sociale.

L'adesione, da parte di ampie fasce giovanili, ai meccanismi potenzialmente veicolo di approvazione sociale scaturenti dal distinguersi come intrinseci ad un modus vivendi peculiare ad un'«esistenza commerciale» volta alla «visibilità massmediatica» (P. Barnard), in definitiva, non ha nulla di creativo, perché il suddetto riconoscimento sociale avviene soltanto per coloro i quali orientano la propria scelta nel novero delle soluzioni prospettate dalla pubblicità, né tanto meno di “rivoluzionario”, poiché il citato riconoscimento sociale è finalizzato al consolidamento ed alla perpetuazione del sistema. Il modus vivendi di cui s'è detto è soltanto una nuova forma di esistenzialismo, declinato in chiave commerciale-consumista.

Così acquiescente al messaggio pubblicitario e sottoposta all’egemonia della tv commerciale, la “Generazione Y”, che si è creduta e si crede, grazie alla rete ed alla diffusione della conoscenza dell’inglese, cosmopolita e globetrotter, è viziata dai più consolidati sostrati ideologico-culturali-attitudinali piccolo-borghesi, nonostante viva in un contesto sociale contraddistinto da una ridefinizione della tradizionale suddivisione in classi di riferimento, in chiave post-borghese (e post-proletaria). Questo perché il medium tv alterna, sapientemente, programmi e messaggi di taglio edonistico-cosmopolita-spersonalizzante ad altri di derivazione più propriamente generalista e perbenista (tutta la fiction Rai e Mediaset, le soap-opera, “italiane” ed a “stelle e strisce”, i programmi di approfondimento “storiografico” e politico ecc.), essenziali, nel loro complesso, a cristallizzare la contemporanea dicotomia politico-pubblicitaria tra una sinistra culturalmente liberal, ultra-capitalistica, neoedonistica e postmoderna (nonché programmaticamente del tutto adattata alle logiche dominanti del “mercato globale” e della sudditanza geopolitica agli Usa) ed una destra economicamente neoliberista, culturalmente populista e qualunquistico-generalista, unificate nella comune interessata adesione al leitmotiv propagandistico, di derivazione thatcheriana, «non c’è alternativa» al sistema...

In estrema sintesi, la merce “ragazzo” o “ragazza” del secolo XXI è un prodotto che richiede una lavorazione in filiera. I media sono gli artigiani, i formatori, di tale merce.

Il prodotto finito dev’essere un consumatore de-psicologizzato e spoliticizzato, ma rivestito di abiti mentali liberisti e consumisti, disposto a lavorare 14 ore al giorno, precario, sfruttato, ricattato, al fine di guadagnare quel tanto che basta per comprare futilità che lo fanno sentire, al contempo, «protagonista» di una “rivoluzione culturale permanente”, dettata dai pubblicitari e dai creativi in materia di ri-generazione, a scopo consumistico e commerciale, delle mode[23], e sulla via per ottenere un pass funzionale all’accesso, a tempo determinato, sia chiaro (perché la ri-generazione delle mode di cui ho detto, va seguita, anzi, inseguita, pena l’esclusione dal circuito sociale della visibilità mediatica, anche solo a livello amicale o di quartiere), nell’ambito della riconosciuta, e riconoscibile, “tribù” di quelli che, in un dato momento «fanno tendenza».

In tale contesto s'inserisce il tema concernente il senso di inadeguatezza che pervade l'esistenza quotidiana di ampia parte dei componenti la fascia d'età considerata adolescenziale e post-adolescenziale. Perché gli appartenenti alla “Generazione Y” si percepiscono, perlopiù, come perennemente inadeguati, pur esteriorizzando atteggiamenti tesi a promuovere una certa qual “sicurezza” in ambito relazionale? Forse, la risposta a tale domanda può articolarsi come segue: 1) la vulgata concernente il cosiddetto “mercato del lavoro” trasmette, per via mediatica, alle ipotetiche maestranze, soprattutto giovanili, un senso di inadeguatezza e di precarietà, anche e soprattutto psicologico, per poter, dopo aver spezzato qualsivoglia residuale fattore di resistenza all'assunto della mercificazione del lavoro, demandare loro sempre di più in termini di ricatto e sfruttamento, a costo quasi zero; scrive, in proposito, Zygmunt Bauman:

 

La […] principale scoperta [dei sociologi] Luc Boltanski ed Eve Chiapello, [definita] il «nuovo spirito del capitalismo» […] è stata la spiccata preferenza, da parte degli imprenditori, per lavoratori privi di vincoli, autonomi, flessibili, «generalisti» e, in ultima analisi, «usa e getta» (più simili a factotum, anziché preparati e specializzati in modo mirato). Come scrive Arlie Russell Hochschild, «nella Silicon Valley, cuore della rivoluzione informatica in America, nel 1997 iniziò, silenziosamente, a diffondersi un nuovo termine: zero drag – resistenza zero […]. Più recentemente, questo termine ha assunto il significato di “svincolato”, o “senza obblighi”. Un'azienda dot.com potrebbe elogiare un lavoratore dicendo che è a «resistenza zero», per far capire che egli è disponibile ad assumere compiti fuori dall'ordinario, a rispondere a richieste urgenti o a trasferirsi in qualunque momento» […]. Il lavoratore ideale non ha vincoli, legami affettivi ed evita di crearsene; è pronto ad assolvere qualsiasi nuovo compito ed è preparato a riadattarsi e a rifocalizzare le proprie inclinazioni, accettando nuove priorità e abbandonando in quattro e quattr'otto quelle finora valide; è abituato ad un ambiente in cui «fare l'abitudine» – ad un lavoro, ad una capacità o ad un modo di fare le cose – è malvisto e ritenuto imprudente di per sé […]. Il trasferimento al mercato [in luogo della burocrazia di governo, impacciata, notoriamente pigra, tradizionalista, resistente al cambiamento ed affezionata alle procedure] del compito di rimercificare il lavoro è il significato più profondo della conversione dello Stato al culto della deregolamentazione e della privatizzazione[24].

 

2) la pubblicità contribuisce, da par suo, a diffondere una percezione, se possibile, più subdola del senso di inadeguatezza e di «vuoto»[25] generalizzato; il messaggio pubblicitario tende a “sopravvalutare” l'individuo cui è destinato ed al contempo lo avverte che soltanto attraverso il consumo dei beni oggetto del detto messaggio, egli potrà, mercificandosi, concretizzare la propria “idea di vita” in un preciso ed adeguato “stile di vita”; secondo Bauman, infatti, gli individui mercificati

 

sono, al tempo stesso, promotori di un prodotto e il prodotto che promuovono. Sono, contemporaneamente, la mercanzia ed il suo venditore, l'articolo e il commesso viaggiatore che lo propone […]. Tutti costoro, quale che sia la fascia in cui vengono inseriti dai rilevatori di statistiche, abitano nello stesso spazio sociale, noto come mercato. Indipendentemente dalla voce sotto cui le loro preoccupazioni vengono classificate da archivisti ministeriali o da autori di inchieste giornalistiche, l'attività in cui sono impegnati (per scelta, per necessità o, più spesso, per entrambe) è il marketing. Il test che devono superare per accedere al premio sociale cui aspirano richiede che si ridefiniscano come merci, vale a dire come prodotti capaci di catturare l'attenzione e di attrarre domanda e clienti[26].

 

3) gli individui percepiscono loro stessi, a livello più o meno irriflessivo, come socialmente inadeguati, perché soggetti ad un processo di reificazione, ma in quanto “merci pensanti” sono, consciamente od inconsciamente, consapevoli che il modello di mercificazione volto al raggiungimento del propagandato ed agognato riconoscimento sociale di derivazione pubblicitaria che viene loro veicolato dal medium televisivo commerciale, e che essi accettano quale unico corridoio di integrazione nell'ambito dello spazio pubblico privatizzato ed in fase di virtualizzazione, è un corridoio stretto, affollato e difficilmente percorribile. Abitare lo spazio sociale unificato, a livello di mentalità e riferimenti collettivi, definito «mercato globale», genera una condizione di profonda alienazione, solitudine, deprivazione individuale[27] e politica e determina, nel migliore dei casi, la tentazione al riflusso in una dimensione puramente esistenziale e virtuale (il “rifugio” nei meccanismi della «società confessionale» virtuale, internet compreso, quale percorso di evasione, o via di fuga, second life, dal citato senso di deprivazione relativa, impotenza politica e vuoto esistenziale), anche per quel concerne le relazioni interpersonali ed affettive cosiddette «liquido-moderne»[28], mercificate, schematizzate ed adattate ai dettami mainstream ed aziendali, trasformatesi dunque, di per sé, in veicolo di riconoscimento pubblico, anche in riferimento alle esigenze stabilite dal “mercato del lavoro” (il lavoratore «privo di legami stabili», consumatore di relazioni affettive “usa e getta”, funzionali alla perpetuazione di un modello socio-culturale fondato sull'ideologia dell'«iperconsumo»[29]).

A livello di comunicazione mediatica diretta e di massa, fruibile ad un pubblico su vasta scala,  le riviste ed i tabloid patinati di gossip e di costume rappresentano, oggi, esempi tangibili e concreti, nonché megafoni e veicoli di propaganda, volti alla promozione dello scenario iperconsumistico, privatizzato, individualizzato ed in fase di virtualizzazione che ho provato, in queste righe, a descrivere.

La generazione successiva, quella nata dopo il 1990 (“Net Generation”), non potrà che essere soggetta ad un'analisi sociologica ancora in via di elaborazione[30] e tuttavia è appropriato definirla in  fase di virtualizzazione o meglio, di internettizzazione, in quanto sarà la prima ad essere culturalmente figlia né del cinema né della tv commerciale, bensì del web, della galassia spersonalizzante ed omologante in cui sono destinati a precipitare i fruitori delle tecnologie multimediali scaturite dal “progresso”[31] economico espressione del capitalismo contemporaneo. Una generazione, la “Net Generation”, che si muoverà oltre la mera ibridazione dei canali mediatici (tv e web) posta in essere dalla “Generazione Y”, in favore di una netta preminenza del non-luogo virtuale della rete, dove i modi, i tempi e l’intensità delle relazioni tra singoli e “sciami sociali” sono “immediati”, ossia anche, sostanzialmente, non-mediati. In simile contesto, tali relazioni si caratterizzano come passibili di essere risolte o dismesse tramite un semplice, quanto deresponsabilizzante, clic. La società virtuale dell’internet è, se vogliamo, per molti aspetti ancor più confacente al modello di controllo sociale[32] consumistico ed ultra-capitalistico di quella televisiva.

 

 

 

 



[1]    Per un approfondimento del tema in questa sede trattato, rimando a: P. Borgognone, La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media, Vol. 3. La strategia mediatica di formazione e manipolazione del consenso attraverso i nuovi media. L'analisi critica del caso italiano, Zambon, Frankfurt, 2014.

[2]    N. Chomsky, E. S. Herman, La fabbrica del consenso. Ovvero la politica dei mass media, Il Saggiatore, Milano, edizione 2008.

[3]    Cfr. F. Cardini, L'invenzione dell'Occidente, Il Cerchio, Rimini, 2004.

[4]    L'ultima, in ordine di tempo, di queste menzogne mediatiche pubblicizzate dai media occidentali al soldo degli interessi economici e politici statunitensi, allo scopo di costruire una strategia di “guerra umanitaria”, è quella relativa al cosiddetto «attacco chimico» dell'Esercito siriano ai danni di civili presso l'area di Ghouta il 21 agosto 2013. Per una definitiva demistificazione di tale messinscena degna di una vera e propria operazione di marketing- politico, vedasi: S. M. Hersh, Whose sarin?, in «London Review of Books», 8 dicembre 2013.

[5]    Cfr. C. Preve, E. Orso, Nuovi signori e nuovi sudditi. Ipotesi sulla struttura di classe del capitalismo contemporaneo, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2010.

[6]    C. Allara, Chi sta vincendo la Quarta guerra mondiale, VerJus Edizioni, Torino, ciclostilato, 2013.

[7]    Cfr. N. Chomsky, I nuovi mandarini. Gli intellettuali e il potere in America, prefazione di Howard Zinn, Net, Milano, edizione 2003.

[8]    N. Chomsky, Illusioni necessarie. Mass media e democrazia, Elèuthera, Milano, 1992, p. 115.

[9]    Scrive a riguardo il docente universitario e pubblicista Patrick Boylan: «In Italia, ad esempio, la Cia pagava giornali e case editrici per diffondere articoli e testi che screditavano il comunismo ed esaltavano l'individualismo. L'indottrinamento [iniziato nell'immediato secondo dopoguerra, nda] proseguì, poi, in maniera ancor più metodica (per debellare i residui delle contestazioni del '68 e del '77), durante gli attutiti anni '80 […]. Se tanti intellettuali avevano rinnegato l'Urss e il comunismo dopo la sanguinosa repressione sovietica della Primavera di Praga del 1968, nessuno pensò di rinnegare gli Usa o il capitalismo – anzi, nessuno batté ciglio – quando, nel 1983, gli Stati Uniti invasero l'isoletta di Grenada (con elicotteri d'attacco al posto dei carri armati) e repressero nel sangue il tentativo della piccola isola d'affermare la propria indipendenza dalle grinfie di una Superpotenza. Idem per l'invasione Usa di Panama del 1989: silenzio totale […]. In pratica, gli anni '80 – quelli del reaganismo, del thatcherismo e del craxismo – sono stati un periodo di terrificante “normalizzazione”». P. Boylan, Progressisti in divisa (4): Dall'Oglio e Marcon, in «Megachip», http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=82521&typeb=0&Loid=315&Progressisti-in-divisa-4—Dall-Oglio-e-Marcon, 30 luglio 2013. Lungi dal condannare l'invasione statunitense di Grenada prima e Panama poi, come tappe successive di un progetto neo-coloniale ed espansionista degli yankee nell'America Centrale, i media aziendali occidentali definirono quelle brutali aggressioni militari una provvidenziale, per le sorti della “democrazia liberale di mercato”, fuoriuscita, anche psicologica, degli Usa, dalla “sindrome isolazionista” di cui erano stati oggetto dopo la “sconfitta” patita in Vietnam nel 1975.

[10]  Cfr. Z. Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari, 2007.

[11]  Cfr. P. Barnard, Il più grande crimine (Ecco cos'è accaduto veramente alla democrazia e alla ricchezza comune. E a vantaggio di chi), http://paolobarnard.info/docs/ilpiugrandecrimine2011.pdf, ottobre 2011, p. 38-43.

[12]  Cfr. Mémoire des luttes, La Hipermundializacion, in http://www.medelu.org/La-Hipermundializacion, 15 ottobre 2013.

[13]  Cfr. D. Fusaro, Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Bompiani, Milano, 2012.

[14]  “Abitare”, “stabilirsi” equivale a “mettere radici” e per un giovane ideologicamente orientato allo stile di vita globalizzato, globetrotter, veicolato a piene mani dall'universo mediatico-pubblicitario, ciò equivale ad una condizione sociale superata, da rifiutare in quanto “vecchia” e “stantìa”, tipica degli “a-sociali” e degli “sfigati”, socialmente percepiti come impotenti; inoltre, è possibile abitare solamente luoghi. La rete globale-virtuale, “non-luogo” per eccellenza, può soltanto essere in un certo qual senso “frequentata”, ma non “abitata”, non consente né considera la pratica dell'insediamento, solo quella della connessione-disconnessione-riconnessione.

[15]  Sulla pratica esistenziale (ed esistenzialista), dei cosiddetti furiti, vedasi: Z. Bauman, La società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari, edizione 2007.

[16]  Cfr. Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Roma-Bari, 2008.

[17]  A. d'Orsi, Il Pieraccioni della politica. «La mutazione politica, culturale, sociale e persino antropologica del PD è compiuta, è arrivata a una meta», in «Megachip», http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=92970&typeb=0&Il-Pieraccioni-della-politica, 9 dicembre 2013. Più in generale, sul tema: P. Borgognone, Il fallimento della sinistra “radicale”, Zambon, Frankfurt, 2013.

[18]  Sull'adattamento dell'intimità affettiva a componente della società dei consumi, dello spettacolo e dell'immagine pubblicitaria dei singoli, vedasi, a titolo indicativo: A. Giddens, La trasformazione dell'intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna, 2008; E. Bernstein, Temporaneamente tua. Intimità, autenticità e commercio del sesso, prefazione di Sexyshock, Odoya, Bologna, 2009.

[19]  Un passato, quello contraddistinguente il Novecento, ad arte demonizzato da media ed opinion leader liberali, come il «secolo mostruoso dei totalitarismi gemelli fascista e comunista», ponendo sullo stesso piano il nazionalsocialismo ed il comunismo storico frutto di un lungo, e per certi aspetti contraddittorio, processo di apprendimento di popoli e classi dirigenti successivo alla rivoluzione d'Ottobre, alla battaglia di Stalingrado ed al periodo contrassegnato dall'insorgere dei movimenti di liberazione nazionale anti-coloniali, al fine di mettere in atto un'apologia, più o meno diretta, del modello capitalistico-assoluto senza classi, funzionale alla perpetuazione dello stereotipo politico secondo cui quello occidentale, se non il “migliore”, è comunque il “meno peggiore” (e dunque foriero di essere, anche militarmente, “esportato”) dei modelli di civiltà all'interno del quale collocarsi e collocare obtorto collo chi, a vario titolo, osa resistere e dissentire. Sul tema, vedasi: C. Preve, Gli usi ideologici della memoria storica, in http://www.youtube.com/watch?v=etko52ljlj0, 4 novembre 2010. Un testo indicativo dell'operazione politico-mediatica tesa alla demonizzazione del Novecento quale «secolo mostruoso del totalitarismo fascio-comunista» è: R. Conquest, Il secolo delle idee assassine, Mondadori, Milano, 2001.

[20]  J. Elsaesser, Cavallette. Capitale finanziario, balcanizzazione e fallimento della sinistra, Zambon, Frankfurt, 2008.

[21]  Non a caso, i media aziendali si prodigano nella costruzione (e talvolta, come nel caso preso in esame, nell'invenzione tout court), di “dissidenti” e “rivoluzionari” rappresentanti, nei Paesi da ricondurre al dominio neo-coloniale occidentale, la causa politica della cosiddetta “democrazia di libero mercato”. E' il caso di Amina Arraf, la sedicente blogger siriana «anti-regime», nella primavera 2011 impegnata in un vasto dispiego pubblicistico online teso a promuovere, attraverso il sito da cui affermava di scrivere, A Gay Girl in Damascus, le istanze dei settori maggiormente cosmopoliti e liberal della classe media damascena. Il «Corriere della Sera», il 12 giugno 2011, descrisse Amina Arraf in questi termini: «Lesbica, attraente, colta, brava a scrivere (in inglese), sembra fatta apposta per piacere all'Occidente». Amina Arraf fu definita una “rivoluzionaria” dal mainstream occidentale proprio in quanto culturalmente adattabile agli stereotipi mediatici e di “costume” dominanti nel cosiddetto “mondo libero”. Amina era «una di noi» che combatteva contro di «loro», per «aprire il suo Paese alle libertà occidentali» e dunque rappresentava quel che, ad ovest di Minsk, viene definita, dal lessico politico massmediatico, una causa “rivoluzionaria”. In seguito, si scoprirà che Amina Arraf non era né «una di noi» né «una di loro» e che neppure era mai esistita. La blogger Amina Arraf era, infatti, una diversione strategica degli apparati di disinformazione atlantici, rispondente, per dichiarazione resa dal Washington Post, al nome di Tom MacMaster, quarantenne cittadino statunitense e militante “pacifista” residente in Scozia. Sull'intera vicenda, rimando al mio: La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media, Vol. 2. La disinformazione strategica come propaganda di guerra (INFOWAR). Analisi geopolitica degli scenari eurasiatico e mediorientale, prefazione di Diego Siragusa, Zambon, Frankfurt, 2013, p. 239-242.

[22]  Cfr. M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell'individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, Milano, 2004.

[23]  Cfr. A. M. Curcio, a cura di, Sociologia della moda e del lusso, Franco Angeli, Milano, 2007; T. Edwards, La moda. Concetti, pratiche, politica, Einaudi, Torino, 2012.

[24]  Z. Bauman, Consumo, dunque sono, op. cit., p. 13-15.

[25]  Cfr. G. Lipovetsky, L'era del vuoto. Saggi sull'individualismo contemporaneo, Luni, Milano, 2013.

[26]  Z. Bauman, Consumo, dunque sono, op. cit., p. 9-10.

[27]  Tale assunto è riconosciuto dagli stessi psicologi liberal statunitensi, ideologicamente promotori dell'affermazione politica, economica, sociale e culturale dello spazio relazionale unificato cosiddetto “mercato globale”. Cfr. J-M. Twenge, Generation Me. Perché i giovani di oggi sono più sicuri di sé, hanno più diritti e sono più infelici che mai, Excelsior 1881, Milano, 2007.

[28]  Cfr. Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Roma-Bari, edizione 2006.

[29]  Cfr. G. Lipovetsky, Una felicità paradossale. Sulla società dell'iperconsumo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007.

[30]  Cfr. F. Berardi Bifo, Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk. L'esaurimento della modernità, DeriveApprodi, Roma, 2013.

[31]  Per una reinterpretazione della nozione di “progressismo liberale” postmoderno, vedasi: J-C. Michéa, L'impero del male minore. Saggio sulla civiltà liberale, Libri Scheiwiller, Milano, 2008.

[32]  Cfr. J. Assange, Internet è il nemico. Conversazione con Jacob Appelbaum, Andy Mueller Maguhn e Jérémie Zimmermann, Feltrinelli, Milano, 2013. 

 

Relazione al convegno Informazione e guerra. L'informazione come vittima, ostaggio e arma di guerra, Venegono Superiore (VA), Castello dei Padri Missionari Comboniani, 7 dicembre 2013.