Ilva, dopo i bluff la politica giochi a carte scoperte

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 24 giugno 2021

 

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Da oltre sessant’anni lo stabilimento siderurgico condiziona Taranto al punto da averla trasformata in un caso internazionale. Da almeno una quarantina magistrati e giudici conducono inchieste ed emettono sentenze su inquinamento, tumori, infortuni, malattie e quanto di illegale può riservare una gigantesca fabbrica. Per quanto la si stia ancora studiando, non c’è probabilmente – e non solo dal punto di vista giudiziario – una vicenda più studiata e conosciuta di quella di Taranto, partendo addirittura dagli anni Sessanta (quindi dall’Italsider), passando per l’Ilva (prima e dopo Emilio Riva) e poi finendo ad ArcelorMittal.

In realtà oggi dovremmo parlare correttamente di Acciaierie d’Italia, cioè del matrimonio fra lo Stato italiano e il più grande produttore di acciaio al mondo, unione che ha resuscitato la presenza pubblica nell’economia dopo la stagione apparentemente irreversibile delle privatizzazioni. Ma in fondo, a parte i nomi, siamo al punto di partenza. La lunga parabola ha lasciato invariata la sostanza: il centro siderurgico inquinava e inquina, è grande esattamente quanto prima e la produzione avviene seguendo il modello produttivo ottocentesco degli esordi.

Volendo individuare una differenza, possiamo indicare il numero dei dipendenti: oggi sono poco più di ottomila contro i trentamila degli anni Settanta. Dobbiamo desumerne che le inchieste e le sentenze abbiano prodotto effetti abbastanza circoscritti lasciando ferme le condizioni iniziali. L’ultima decisione ha confermato questo ballo del mattone.

La sentenza del Consiglio di Stato ha stabilito ieri che l’area a caldo (cioè gli altiforni) non va chiusa, contrariamente a quanto, accogliendo il ricorso del Comune di Taranto, aveva sostenuto il tribunale amministrativo regionale di Lecce.

Nessuna persona di buon senso si attendeva che nel suo massimo grado di giudizio la magistratura amministrativa avrebbe fatto esplodere un carico di dinamite nelle mani di una politica dimostratasi incapace – attraverso più governi – di gestire questa faccenda. Ma alla politica, scongiurato il pericolo di chiusura dell’area a caldo per via giudiziaria, spetta ancora il compito di indicare una strada che tenga conto delle risultanze di quasi mezzo secolo di inchieste, sentenze, perizie, indagini epidemiologiche, conclamati danni prodotti dall’inquinamento. Bastò molto meno nel 2005 a Genova per dire addio all’area a caldo dello stabilimento di Cornigliano; purtroppo molto di più non basta, al di sotto della linea gotica, per indurre a una decisione che non sia un contorsionismo. Chiusura dell’area a caldo, uso del gas al posto del carbone, rivoluzione dell’idrogeno: se ne parla e non se ne viene a capo. Ogni tentativo di disegnare uno scenario futuristico e ipertecnologico su una fabbrica nata vecchia già sessant’anni fa dà l’idea di quanto sia inadeguata e probabilmente furbesca l’ipotesi di programmare il risanamento in un tempo lungo qualche decennio, lasciando una bomba a orologeria nelle mani di chi verrà e ignorando il mercato, che dà sempre le carte. Ricordiamo Bagnoli. Agli inizi degli anni Ottanta fu annunciata la ristrutturazione con la chiusura dell’area a caldo (poi avvenuta nel 1989) e con il contestuale rafforzamento dell’area a freddo, che però fu chiusa nel 1992 dopo un investimento di 1200 miliardi di lire da parte dello Stato. Può servire, questo esempio?

L’inchiesta giudiziaria per disastro ambientale denominata Ambiente Svenduto, cominciata nel 2012 e chiusa con la sentenza del 31 maggio scorso, ha paradossalmente prodotto, a parte le pene rilevanti (ma siamo al primo grado), l’effetto di togliere il controllo dell’Ilva all’imprenditore che l’aveva acquisita dallo Stato nel 1995, Emilio Riva, consegnandola nelle mani (ha deciso la politica) di un imprenditore addirittura più aggressivo e sprezzante di lui, Mittal, al quale fu riservata un’accoglienza tutt’altro che ostile. Il sindaco Rinaldo Melucci, quando nel 2017 dialogava con il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda, la considerava una presenza preziosa per le prospettive della città; ora, con alleanze diverse all’interno del Pd, la avversa con i ricorsi in tribunale. Non bisogna sempre diffidare della politica, ma è evidente che ora bisogna invitarla a giocare a carte scoperte. Potrebbe opportunisticamente tornare utile autoassolversi ricordando di avere combattuto Mittal nelle aule di giustizia. Ma dopo sessant’anni di industrializzazione e di ambiente svenduto siamo ancora a questo punto?

 

Da La Gazzetta del Mezzogiorno,