Tribunale penale Internazionale per i crimini commessi in ex-Jugoslavia (Tpi) - Parte II

(qui la parte I)

International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia | United  Nations<br /> International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia

 

1. La giustizia selettiva dei tribunali ad hoc 

 

1.1 Premessa Generale


Con risoluzione 827 del 25 maggio 1993, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dà vita, operando nell’ambito dei poteri attribuitegli dal capitolo VII della Carta dell’Onu, al “Tribunale penale internazionale per perseguire i responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio dell’ex Jugoslavia dal 1991”.

Un Tribunale ad hoc che violerebbe i principi del giudice naturale. Similmente, con la risoluzione 955 dell’8 novembre 1994 il Consiglio di Sicurezza istituì il “Tribunale penale internazionale per i crimini commessi in Ruanda nel 1994”. I due Tribunali ad hoc sono organi sussidiari del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, tuttavia non sono soggetti all’autorità o al controllo del Consiglio per tutto ciò che riguarda l’esercizio delle loro funzioni giudiziarie. I Tribunali sono composti da civili e non vi siede personale militare e sono formati da tre organi fondamentali: corte, procuratore, cancelleria. L’organo giudicante si compone di due camere di primo grado per ciascuno dei due tribunali, formate ognuna da tre giudici e da una camera d’appello, formata da cinque giudici. Le decisioni di istituire i due Tribunali sono intervenute a conclusione di numerose iniziative politiche e di accertamento dei fatti intraprese dalle Nazioni Unite negli anni precedenti. Tali iniziative comprendono una lunga serie di risoluzioni di contenuto raccomandatorio rivolte agli Stati interessati, quali l’invio di missioni di “peace-keeping”, l’organizzazione di missioni di osservatori e la creazione di sistemi di raccolta di informazioni sulle violazioni di diritti umani, in collegamento con missioni di governi nazionali, altre istituzioni internazionali e organizzazioni non governative. E’ a questo insieme di eventi che bisogna quindi   guardare per collocare storicamente la nascita e l’evoluzione dei due tribunali ad hoc.

 

In occasione dell’istituzione dei tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda, le Nazioni Unite si sono mosse con modalità del tutto eccezionali: per la prima volta le regole della Carta dell’Onu relative all’azione del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace sono state interpretate in senso innovativo fino a ricomprendervi il potere di dare vita ad un organo giurisdizionale. Fino ad allora le norme del capitolo VII della Carta dell’Onu erano state utilizzate essenzialmente per vincolare gli Stati in azioni collettive implicanti o non implicanti l’uso della forza.

Sicuramente, una simile estensione dei poteri del Consiglio di Sicurezza non era originariamente prevista dagli estensori dello Statuto dell’Onu. Gli Statuti dei tribunali internazionali ad hoc indicano tra i crimini da perseguire, quelli già presi in considerazione dai Trattati internazionali in materia e catalogano espressamente i crimini di genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra (ratione materiae) e fissano espressamente la competenza dei Tribunali   stessi nei confronti di persone fisiche (ratione personae) che abbiano commesso crimini in periodi definiti di tempo (ratione temporis).

Le risoluzioni con le quali il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite istituisce i Tribunali speciali per l’ex Jugoslavia e il Ruanda affermano il principio secondo il quale il ricorso alla giustizia internazionale è mezzo imprescindibile per ottenere il ristabilimento della pace e della sicurezza. Tuttavia sulla base di questo principio ogni volta che dovesse ripresentarsi una situazione di conflitto e la conseguente commissione di crimini di diritto internazionale, le Nazioni Unite dovrebbero istituire un Tribunale ad hoc per portare i responsabili davanti alla
giustizia. Questo non avviene però sempre e regolarmente; infatti, la limitatezza
dell’area geografica rispetto alla quale il Consiglio di Sicurezza ha ravvisato la
necessità di istituire i Tribunali a fronte delle numerose altre aree del mondo in cui si sono manifestate gravi violazioni del diritto umanitario, solleva il problema di una giustizia selettiva che risponde, secondo gran parte della dottrina, a esigenze politiche più che giuridiche. I tribunali ad hoc non sono, dal punto di vista giuridico, una soluzione ottimale per garantire la punizione di fatti di rilevanza penale, perché si tratta di una giustizia ex post facto, istituita cioè dopo la commissione dei fatti. La giustizia internazionale penale non può essere costruita attraverso eccezioni al principio di “irretroattività della legge penale”.

  Per poter ritenere un soggetto penalmente responsabile occorre che egli sappia non solo che esiste una norma che sancisce un certo comportamento, ma anche che esiste un giudice incaricato di applicarla. Alla giustizia internazionale parzialmente a posteriori è per questo preferibile l’istituzione di un Tribunale penale internazionale permanente. Caso vuole che i principali sponsor dell’TPI, gli Stati Uniti, siano allo stesso tempo coloro che hanno boicottato la Corte Penale Internazionale.

 

1.2 Il problema del fondamento giuridico dei tribunali ad hoc e la sentenza “Tadic”

 

Uno dei temi più dibattuti intorno all’istituzione dei tribunali ad hoc è quello riguardante la loro base giuridica, l’individuazione cioè della norma internazionale dalla quale essi traggono origine.
La Risoluzione 827 del Consiglio di sicurezza che istituisce il tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia indica nel capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (“azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni della pace e agli atti di aggressione” secondo quanto previsto dall’articolo 39) la fonte che legittima il nuovo organo giudiziario[1]. Il Consiglio di sicurezza tenta di giustificare la creazione del Tribunale sbandierandola come una misura indispensabile, nel contesto di escalation di violenza e di crescente sgomento dell’opinione pubblica internazionale, per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La scelta del Consiglio di sicurezza è stata ed è tuttora oggetto di contestazioni da parte di chi ritiene che tale organo non avesse in base allo Statuto il potere di istituire un tribunale, considerando in modo ristretto i poteri attribuiti al Consiglio dal capitolo VII e interpretando letteralmente la Carta dell’Onu[2]. Infatti il capitolo VII, e precisamente agli articoli 41 (misure non implicanti l’uso della forza) e 42 (misure implicanti l’uso della forza) non prevede, quando si costati una minaccia alla pace, una violazione della pace o un’aggressione in base all’articolo 39[3], il potere del Consiglio di istituire tribunali penali internazionali[4].
Peraltro, le decisioni prese dal Consiglio in base a questo capitolo sono vincolanti per tutti i membri, in base all’obbligo di cooperazione generale dell’articolo 25 (capitolo V) e all’obbligo specifico contenuto negli articoli 48 e 49 del capitolo VII[5]. Il Consiglio si è insomma autoinvestito di un potere legislativo che non gli compete, sfruttando il proprio potere vincolante per porre gli Stati di fronte all’obbligo di accettare il fatto compiuto.

Merita attenzione la “sentenza Tadic”[6] ove il Tribunale dell’Aja si è autoconcessa la possibilità di ribadire l’esistenza della propria giurisdizione e la legittimità delle decisioni prese dal Consiglio, attraverso un ragionamento che presenta inquietanti spunti dal punto di vista del diritto internazionale. La difesa di Dusko Tadic aveva eccepito davanti alla camera di prima istanza l’illegittimità dell’azione intrapresa dal Tribunale stesso, sostenendo che si trattava di un organo creato con atto unilaterale del Consiglio di sicurezza e non attraverso la via canonica del trattato internazionale, e che il Consiglio non aveva titolo per prendere una misura che non era contemplata tra quelle degli articoli 41 e 42 della Carta dell’Onu. Le contestazioni della difesa, portate all’attenzione della Camera d’Appello, si muovevano quindi lungo due direttrici fondamentali. Con una prima eccezione si chiedeva alla Camera d’Appello di pronunciarsi sul potere del Consiglio di Sicurezza di istituire un organo sussidiario di carattere giurisdizionale. Si contestava che il Consiglio potesse attribuire ad un organo sussidiario una funzione che la Carta delle Nazioni Unite non conferisce allo stesso Consiglio.

Con una seconda eccezione si chiedeva alla Camera d’Appello di verificare se l’istituzione del Tribunale costituisse una misura riconducibile ad uno dei poteri attribuiti al Consiglio di Sicurezza nell’ambito della Carta, dal momento che una misura di questo genere non è prevista espressamente in alcuna disposizione.

In effetti il Consiglio nella risoluzione 827 non aveva preso posizione sulla base giuridica dell’istituzione del Tribunale, chiedendo al Segretario Generale un rapporto. Nel rapporto del 3 maggio 1993, il Segretario Generale sosteneva che il Tribunale è un organo sussidiario del Consiglio ai sensi dell’art. 29 della Carta delle Nazioni Unite. In realtà l’art. 29 stabilisce che il Consiglio può istituire organi sussidiari che ritiene necessari per lo svolgimento delle sue funzioni, mentre nel caso in esame all’organo sussidiario (il Tribunale) è stata attribuita una funzione, quella giurisdizionale, che la Carta non attribuisce al Consiglio.

 La Camera di primo grado con sentenza del 10 agosto 1995[7], respinge l’eccezione, sottolineando come una tale constatazione avrebbe dovuto essere presentata all’organo di cui si contesta l’operato (il Consiglio di sicurezza), e non davanti al Tribunale. La difesa tuttavia fa appello contro tale decisione. La Camera d’Appello si è soffermata ad analizzare gli artt. 40, 41 e 42 della Carta. Immediatamente è stata esclusa l’applicabilità degli artt. 40 e 42. L’art. 40 attribuisce al Consiglio il potere di adottare misure provvisorie dirette ad impedire l’aggravarsi di una situazione, riferendosi quindi, secondo il Tribunale ad interventi di emergenza più che all’esercizio di un’attività giurisdizionale. L’art. 42, invece, riguarderebbe solo le misure implicanti l’uso della forza e tale non può certo essere considerata l’istituzione di un Tribunale penale.

 La Camera di secondo grado, presieduta dal giudice Antonio Cassese, emette così la sentenza del 2 ottobre 1995[8], contenente le seguenti statuizioni. In primo luogo, innovando rispetto alla giurisprudenza della stessa Corte internazionale di giustizia e cassando in parte la precedente sentenza, il Tribunale afferma la propria competenza ad esercitare il controllo di legittimità sulle decisioni del Consiglio, motivandolo con l’esigenza di salvaguardare la stessa natura giurisdizionale del potere del quale è stato investito, non sussistendo nell’ordinamento internazionale alcun altro organo giudiziario in grado di farlo. In questo modo il Tribunale caratterizza nettamente gli organi giurisdizionali internazionali rispetto a quelli nazionali, descrivendoli come organi che, non essendo ancora inquadrati in un sistema giudiziario organizzato e unificato, sono “auto-sussistenti” e quindi giudici di se stessi”. Si è cioè realizzato il paradosso di affidare il controllo dell’atto di un organo (quello del C.d.S. che istituiva il tribunale), ad un organo istituito attraverso quello stesso atto[9].

Una volta accertata la propria competenza a rispondere sul merito, la Camera d’appello ribadisce che rientra nelle facoltà del Consiglio adottare ogni misura ritenuta idonea allo scopo di garantire la pace e la sicurezza e dichiarando incontestabile il principio “non c’è pace senza giustizia”, per cui la punizione dei colpevoli dei crimini più gravi e la lotta all’impunità sono correttamente stati considerati dal Consiglio passi obbligati per il ristabilimento della pace. La base giuridica riguardo all’istituzione del Tribunale viene individuata nell’articolo 41 del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, riguardante “le misure non implicanti l’uso della forza armata”, il cui elenco sarebbe quindi da considerarsi non esaustivo dato che non si parla di tribunali penali[10]. Le misure contemplate dalla Carta sono l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche, delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre, e la rottura delle relazioni diplomatiche. Quindi, il fatto che l’istituzione di un Tribunale non rientri tra i compiti dati al Consiglio di Sicurezza, non costituisce un problema, poiché l’elenco previsto nella Carta non deve considerarsi esemplificativo. Rientra nella discrezionalità del Consiglio di Sicurezza sia qualificare una situazione come minacciosa per la pace, sia decidere quali misure intraprendere per fronteggiarla (e tale sarebbe la scelta di istituire un tribunale penale come misura non implicante l’uso della forza, non facendo ostacolo a tale libertà l’elenco meramente esemplificativo di misure fornito all’articolo 41 della Carta delle Nazioni Unite)[11].

La tesi della Camera d’Appello, che ha individuato come base giuridica per l’istituzione dei Tribunali penali l’art. 41 della Carta delle Nazioni Unite, era già stata avanzata dalla dottrina, anche se buona parte della dottrina, aveva comunque cercato una base giuridica negli artt. 40 e 42, nonché nell’art. 24.

 

Ad esempio Condorelli offre un nuovo spunto di riflessione utilizzando l’art. 51 della Carta, in cui, a suo parere, “vi si mette in evidenza, ed in termini decisi oltrechè generali (cioè, a ben vedere, indipendentemente dal collegamento con la legittima difesa) che il Consiglio di Sicurezza ha il potere di agire in qualsiasi momento nel modo necessario per mantenere e ristabilire la pace e la sicurezza internazionali. In nessun altro punto della Carta è esplicitato in modo così netto, mediante un linguaggio da riserva automatica, l’altissima discrezionalità di cui gode il Consiglio della scelta della maniera adatta di agire”[12].

La Carella, a questo proposito, sottolinea come, per la repressione dei crimini di guerra, contro l’umanità e la pace, commessi da individui, una norma consuetudinaria di diritto internazionale prevedrebbe il principio della giurisdizione universale, e cioè la facoltà per ogni Stato di esercitare la giurisdizione sugli individui che li abbiano commessi. Tale potere potrebbe tuttavia essere esercitato non solo dagli Stati, ma anche da altri soggetti del diritto internazionale generale, ed in particolare dalle Organizzazioni internazionali[13].

 

1.3 Alcune considerazioni critiche circa la legittimità del Tpi

 

 1.3.1 Introduzione

 

In base al diritto internazionale consolidato in norme consuetudinarie o da convenzioni vincolanti, lo Stato impegnato nel conflitto con un altro Stato (o altro ente di fatto) cui appartengono gli autori dei crimini di diritto internazionale, può sottoporre questi a giudizio e quindi eseguire l’eventuale condanna, durante il conflitto stesso. Come garanzia opera la reciprocità, anche se vi sono palesi rischi di parzialità[14]. Ma si può dire la stessa cosa del TPI?

Il contesto nel quale il Tribunale penale internazionale per i crimini in ex Jugoslavia (TPI) sta operando, è caratterizzato da un assoluto e totale capovolgimento del diritto internazionale. Istituendo tale Tribunale prescindendo dalla sovranità e dal consenso degli Stati coinvolti, il Consiglio di sicurezza ha commesso un abuso dei propri poteri, violando i principi base del patto associativo regolato dalla Carta delle Nazioni Unite.

Il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella Ex Jugoslavia (TPI) è un organismo giudiziario composto di individui provenienti da Stati diversi e dotato del potere di disporre indagini, emanare sentenze destinate ad acquistare forza di giudicato e forza esecutiva in rapporto ai fatti rientranti fra i crimini di guerra e contro l’umanità compiuti nel territorio della ex Jugoslavia a partire da una certa data, con la possibile e inevitabile aggiunta di regole per i rapporti con le giurisdizioni nazionali eventualmente concorrenti.

 

1.3.2 Scopi delle Nazioni Unite e sovrana uguaglianza degli Stati

 

Tra gli scopi delle Nazioni Unite, l'articolo 1, par. 1, della Carta annovera il mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed è a questo fine si devono prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre minacce della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace.

In questa sede occorre inoltre richiamare anche il principio della sovrana uguaglianza degli Stati, indicato all’articolo 2, par. 1, della Carta dell’Onu, che va letto congiuntamente con il paragrafo 4 dello stesso articolo il quale recita “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”; la Carta vieta quindi in qualsiasi modo di attentare all’indipendenza politica degli Stati. Da rammentare inoltre è anche il paragrafo 7 dell’articolo 2 il quale dice: “Nessuna disposizione della presente Carta autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i Membri a sottoporre tali questioni ad una procedura di regolamento in applicazione della presente Carta; questo principio non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive a norma del Capitolo VII.”

Insomma, il vincolo associativo nell’ambito delle Nazioni Unite è di natura puramente convenzionale (cioè trova le sue basi in un accordo), per cui gli obblighi e le restrizioni derivanti dalla Carta istitutiva devono restare nel ristretto ambito pattizio, e debbono essere valutati alla luce dei limiti imposti dal principio di sovranità. Occorre pertanto a questo proposito un’interpretazione restrittiva, che non oltrepassi i dati strutturali dell’ordinamento internazionale, che regola direttamente solo rapporti fra enti indipendenti e sovrani quali sono gli Stati.

Il Tribunale penale internazionale istituito dal Consiglio di Sicurezza con risoluzione 827 del 1993 è deputato a valutare ed eventualmente condannare con sentenze dotate di efficacia di giudicato e forza esecutiva - previe le necessarie istruttorie - fatti costituenti “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”, tali secondo normative internazionalmente stabilite, compiuti a partire da una determinata data (1 gennaio1991), sul territorio della ex Jugoslavia da individui rivestenti la qualità di organi delle parti in conflitto (come ad esempio i militari).

La qualifica “internazionale” sembrerebbe imprecisa in quanto i soggetti sottoponibili a giudizio non sono Stati o comunque soggetti di diritto internazionale, bensì individui, che, almeno a livello di principio, non sono direttamente soggetti a disciplina internazionale. La qualifica apparirebbe impropria altresì perché l’organismo non è composto da Stati, bensì da individui, sia pur provenienti da Stati diversi, prescelti secondo procedure determinate.

La legalità e l’imperatività delle norme giuridiche sono principi che dovrebbero caratterizzare l'affermazione della definizione dei crimini e delle sanzioni, delle procedure giuridiche, dei modi e dei mezzi per creare nuove regole e organi. Questo è particolarmente vero nel caso di norme internazionali e decisioni riguardanti l'individuo e non le attività tra Stati. Le questioni sui diritti umani stanno emergendo almeno nel sistema delle Nazioni Unite, non passano inosservate. Per quanto riguarda i cosiddetti delicta contra gentium , si deve assicurare che i diritti individuali sanciti dalle norme internazionali siano rispettati.

Ciò che colpisce di più dell’iniziativa del Consiglio di Sicurezza, è il fatto che l’istituzione del tribunale, e il conferimento di un potere giurisdizionale non vengono rimessi ad un accordo interstatale. Se fosse stato così, non ci sarebbe stato alcun tipo di problema, come ad esempio è avvenuto nel caso della Sierra Leone, che ha visto la creazione di un Tribunale speciale a seguito di un accordo tra le Nazioni Unite e il governo della Sierra Leone concluso il 16 gennaio 2002. Quest’ultima rappresenta una via più ortodossa e rispettosa della sovranità e del consenso degli Stati per l’istituzione di un Tribunale penale speciale[15].

Altro invece si deve dire se l’istituzione del tribunale avviene solo sulla base della risoluzione del Consiglio di Sicurezza, e quindi sulla base di una decisione che coinvolgerebbe solo alcuni Stati, ad esclusione di quelli direttamente coinvolti, poiché in questo caso si verrebbe a creare la situazione di una decisione autoritativa nei confronti degli Stati esclusi (la risoluzione è stata cioè adottata dai soli 15 membri del Consiglio e non coinvolge gli Stati direttamente coinvolti). Gli Stati più direttamente coinvolti nel processo ad individui autori di crimini internazionali sono normalmente quelli che hanno la disponibilità dell’imputato, sui mezzi d’indagine, e maggiori possibilità di attuazione della condanna, in forza del rapporto organico o di cittadinanza che li lega agli imputati o alle vittime. Si tratta dunque dello Stato di cui è organo o cittadino l’autore del fatto, di cui è cittadina la vittima o nel cui territorio il fatto è stato commesso.

Di tale risoluzione del C.d.S (la 827/1993), che ha il carattere di una decisione, e delle disposizioni emanate dal tribunale (inclusa la sentenza) taluno potrebbe ipotizzare un valore e applicabilità diretti negli ordinamenti interni degli Stati: alcuni hanno prospettato il valore obbligatorio e l’applicabilità diretta della risoluzione del Consiglio di sicurezza recante la creazione del TPI e delle ulteriori decisioni emanate dal Tribunale; altri invece hanno configurato un semplice obbligo degli Stati di dare attuazione all’interno dei rispettivi ordinamenti a tali atti: obbligo la cui violazione sarebbe ulteriormente sanzionabile dal C.d.S, con il ricorso ad altre misure coercitive ex articolo 41 o articolo 42 della Carta.

Bisogna dire e ribadire che le Nazioni Unite sono un’organizzazione internazionale, in cui gli Stati si uniscono sulla base di un accordo per regolare determinate questioni sul piano dei rapporti interstatali. Cardine delle Nazioni Unite è la sovranità statale, che può essere limitata se e solo se vi è previo accordo tra le parti. Mai e poi mai può pensarsi a una dimensione sovranazionale dell’organizzazione, nel senso di derivare dal suo atto costitutivo la possibilità per organi dell’organizzazione di intervenire direttamente con poteri legislativi nell’ordinamento interno degli Stati membri. E’ contraria alla stessa natura e struttura delle Nazioni Unite l’incidenza diretta di carattere giuridico all’interno degli ordinamenti statali, e quindi nei rapporti di tipo interindividuale.

Le stesse attività pratiche che un organo delle Nazioni Unite, a cominciare dal C.d.S, può compiere entro l’ambito delle sovranità statali richiedono sempre il consenso dello Stato o degli Stati interessati. Ciò è una condizione pacifica per le richieste e le eventuali commissioni di inchiesta ex articolo.34 della Carta dell’O.N.U., come pure per l’invio delle forze di pace delle Nazioni Unite all’interno dei territori degli Stati. Lo conferma in maniera inconfutabile l’articolo 43 della Carta, che rimette all’accordo tra Stati membri e Nazioni Unite la concessione a queste del “diritto di passaggio” per le operazioni di cui gli articoli 42 e seguenti.

Qualcosa di diverso deve dirsi rispetto alle operazioni coercitive compiute contro uno Stato. Come risulta dall’articolo 2, par. 7, della Carta, il principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato trova un limite nell’applicazione delle misure ex capitolo VII della Carta, stabilite dal C.d.S. ai fini di mantenere o ripristinare la pace e la sicurezza internazionali. Una considerazione complessiva della disposizione citata dimostra che la deroga in essa prevista tiene conto del fatto che la situazione deve implicare riflessi ed effetti internazionali, cioè nei rapporti fra Stati. A questo proposito si prende atto dell’uso estensivo, se non per meglio dire abusivo, che il C.d.S. compie di questa connotazione, senza trascurare che l’ ‘internazionalizzazione’ di un conflitto o di una situazione è stata creata artificialmente, ad esempio con prematuri ed illeciti riconoscimenti e ammissioni alle Nazioni Unite di entità, la cui statualità non era affatto consolidata - come nel caso delle neo repubbliche ex jugoslave[16].

La parte precettiva (“comando”) della risoluzione del Consiglio di Sicurezza, rivolta allo Stato o agli Stati considerati autori dei comportamenti “incriminati”, al fine della cessazione di questi e della rimozione delle conseguenze, può riguardare fatti interni (ma l’attuazione del precetto consistente nel fare o non fare , spetta di principio allo Stato o agli Stati, cui esso si dirige); le misure (o “sanzioni”) irrogate possono certo tendere lecitamente a conseguire effetti pratici (ad esempio economici oppure militari) sulla vita interna del paese o dei paesi “sanzionati”, ma le misure o sanzioni non potrebbero alterare in maniera forzosa e diretta (cioè senza il consenso spontanei degli Stati “incriminati”) gli elementi tipici della competenza interna: organizzazione dello Stato, rapporto Stato-cittadini, gestione del territorio In tal senso l’occupazione di porzioni del territorio o l’imposizione di “no fly zones”, se non consentite dallo Stato sovrano, sembrano a livello di principio illecite. Ma tali sarebbero senza dubbio, e prima ancora nulle e inoperanti, misure che mirassero ad operare immediatamente sull’ordinamento giuridico dello Stato o degli Stati “incriminati”. Qui si urterebbe contro la sovranità-indipendenza dello Stato, che sta alla base dello stesso principio di non ingerenza nei fatti interni. La dottrina considera ad esempio ultra vires nel loro tenore letterale quelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che dichiarano invalidi atti e norme interni di Stati, adottati in rapporto a situazioni considerate “internazionalmente illegittime”: ad esempio quelle contro Israele per atti tesi a modificare lo status giuridico o i rapporti di proprietà nei territori palestinesi occupati[17]. Conforti[18] riconduce il valore di tali risoluzioni (quelle che riguardano atti e norme interni agli Stati) alla più limitata portata dell’invito agli Stati membri a disconoscere, con i propri organi, gli effetti extraterritoriali di quegli atti e norme. L’esempio di Israele illustra in maniera chiara l’impossibilità per il C.d.S. di operare direttamente nel quadro degli ordinamenti statali.

Sembra da escludere l’efficacia diretta nell’ordinamento degli Stati membri della sentenza del TPI. L’eventuale messa a disposizione e la custodia dell’imputato, e soprattutto l’esecuzione dell’eventuale pena, non potrebbero che avvenire nel quadro del potere sovrano di uno Stato e generalmente almeno con la collaborazione dello Stato o degli Stati “direttamente coinvolti”.

L’obbligo internazionale degli Stati di dare attuazione alle disposizioni emanate dal tribunale penale internazionale, scaturirebbe dal carattere obbligatorio delle decisioni del Consiglio di Sicurezza e dall’obbligo dei membri di conformarvisi: si evoca a tal proposito l’articolo 25 (“I Membri delle Nazioni Unite convengono di accettare ed eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza in conformità alle disposizioni della presente Carta”), che però andrebbe letto e interpretato alla luce del secondo comma dell’articolo 24 (“Nell’adempimento di questi compiti il Consiglio di Sicurezza agisce in conformità ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.”). Quindi il dovere di adeguarsi alle decisioni del C.d.S. sussisterebbe solo se si tratta di obblighi legittimamente e lecitamente posti.

Il significato delle limitazioni date dalla Carta alle misure previste nel capitolo VII è che queste non possono violare a loro volta il diritto internazionale, né essere contrarie ai principi di giustizia: esse hanno natura puramente esecutiva, di misure di polizia, atte a fermare e rimuovere le situazioni pericolose contemplate dall'articolo 39 (il quale recita "Il Consiglio di Sicurezza accerta l'esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa accomodazioni o decide quali misure debbano essere prese in conformità degli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale" ). Alcuni affermano anche che il riferimento al concetto di giustizia che si trova all’art. 1, par. 1 della Carta (un concetto sostanziale che dipende da interpretazioni soggettive) consenta un approccio meno rigido e meno letterale alle regole internazionali. Il riferimento al concetto di giustizia comporta che le Nazioni Unite possano modificare il diritto internazionale, ma solo con le modalità previste dal capitolo VI della Carta (cioè raccomandazioni seguiti da accordi tra Stati). Il pilastro del sistema delle Nazioni Unite era l'azione del Consiglio di Sicurezza che dovrebbe agire in virtù del capitolo VI (soluzione pacifica delle controversie) facendo raccomandazioni seguite da accordi con gli Stati stessi, agendo in conformità alla Carta, che all'articolo 24.2 specifica che il Consiglio non può oltrepassare gli specifici attributi dalla Carta indicategli. Ma dal 1989, questo pilastro è e continua ad essere illegittimamente distrutto. Il diritto internazionale subisce costantemente delle violazioni nelle sue norme basilari. Si è passati dalla forza del diritto al diritto della forza. Il Consiglio di Sicurezza e i suoi organi sussidiari agiscono contro il diritto internazionale e contro la giustizia (nella sua accezione sostanziale).

 

E’ fuori di dubbio che in capo al C.d.S non vi sia nessuno jus puniendi . Lo jus puniendi è attributo della sovranità statale  e non è concepibile fuori di questa[19], perché la sovranità statale è l’unica depositaria dei poteri di supremazia sugli individui. Solo lo Stato, attraverso le proprie norme sulla giurisdizione regola e autolimita il proprio jus puniendi. Quindi le Nazioni Unite, e il C.d.S. in particolare creando il TPI, hanno commesso un’iniziativa illegittima, salvo che non si voglia considerare le prime un super Stato, e il secondo un supergoverno mondiale. Se così fosse, ne seguirebbe che le N.U. sarebbero titolari di uno jus puniendi sugli individui di carattere universale. Quest’opinione fu espressa dal  Segretario Generale Boutros Ghali nel 1993 [20]. Ma anche parte di coloro che sostengono l’esistenza del TPI dissentono da tale opinione, poiché in tal caso l’iniziativa non sarebbe sorretta da uno dei poteri specifici di cui parla l’articolo 24 della Carta. Sottolineerei un punto che solitamente viene tralasciato: nel sistema delle Nazioni Unite l'accettazione di obblighi internazionali da parte degli Stati è espressamente vincolato al rispetto dei dettati costituzionali interni. E questo è un principio fondamentale, come ha affermato un grande studioso austriaco di diritto internazionale, Alfred Verdross: l'ONU non ha sovranità direttamente sugli individui[21]

 

*Pacifico Scamardella. Laurea Magistrale in Giurisprudenza 

Membro del Comitato Scientifico del CIVG

 



[1]           Il Segretario Generale, nel suo Rapporto (U.N. Doc. S/25704 del 3 maggio 1993), argomenta il vantaggio di tale soluzione che si presenta contemporaneamente rapida e vincolante per gli Stati. Inoltre pone alla base della legittimità della decisione del Consiglio l’art. 29 della Carta dell’Onu, che autorizza il Consiglio ad istituire organi sussidiari necessari per l’esercizio delle sue funzioni, tra cui quella ex capitolo VII per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. La costruzione giuridica del Segretario Generale è accettata da DAVID, Le Tribunal international pénal pour l’ex Jougoslavie, in Revue belge de droit international 1992, p. 565 ss.

 

[2]           G. CARELLA,Il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia,in P. PICONE (a

      cura di), Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, pagg. 475 e ss

 

[3]                      L’articolo 39 suppone l’esistenza di situazioni che la Carta non definisce (minaccia, violazione della pace o aggressione), lasciandone l’apprezzamento alla discrezionalità politica del Consiglio.

 

[4]                        B. CONFORTI, Le Nazioni Unite, Padova, 1994, p. 187 ss.; A. BERNARDINI, Il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia: considerazioni giuridiche, in Diritti.dell'uomo cronache e battaglie Gennaio 2001 , 1993, p. 15 ss.

 

[5]    Articolo 25: “I Membri delle Nazioni Unite convengono di accettare e di eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza in conformità alle disposizioni della presente Carta”. Articolo 48: “L’azione necessaria per eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale è intrapresa da tutti i Membri della Nazioni Unite o da alcuni di essi secondo quanto stabilisca il Consiglio di Sicurezza.

      Tali decisioni sono eseguite dai Membri delle Nazioni Unite direttamente o mediante la loro azione nelle organizzazioni internazionali competenti di cui siano Membri”.

      Articolo 49: “I Membri delle Nazioni Unite si associano per prestarsi mutua assistenza nell’eseguire le misure deliberate dal Consiglio di Sicurezza”.

 

[6]           È il primo caso affrontato dal Tribunale per l’ex Jugoslavia. L’atto di accusa contro Dusko Tadic per crimini di guerra e contro l’umanità è stato emesso il 10 febbraio 1995. Tadic, all’epoca detenuto in una prigione tedesca, è stato trasferito all’Aja e quindi sottoposto al processo presso il giudice internazionale, in base alla richiesta di deferimento emessa l’8 novembre 1994. I crimini si riferiscono alla persecuzione della popolazione musulmana dell’area di Prijedor, alla deportazione di civili al campo di Omarska, Keraterm e Trnopolije e ai rastrellamenti, maltrattamenti, stupri ed omicidi di civili fuori e dentro del campo di Omarska. J. ALVAREZ, Nuremberg revisited: the Tadic case, in European Journal International Law 1996, pp.245-264.

 

[7]           Cfr. Decision of the Trial Chamber on the defence motion on jurisdiction, 10 agosto 1995.

 

 

[8]    Cfr. Prosecutor vs Dusko Tadic case no IT-94-1-AR72

 

[9]    Carlo Magnani, Il diritto dell’impero: tra ingerenza umanitaria e tribunali internazionali, La città del Sole Napoli 2001 p.16

 

[10]                   CASSESE in U.N., International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia, op. cit; P. PALCHETTI, Il potere del Consiglio di sicurezza di istituire tribunali penali internazionali, pp. 412-438.

 

[11]    Arcari, Tribunali penali ad hoc, Corte Penale Internazionale e Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in Dal Tribunale per la ex-Jugoslavia alla Corte Penale Internazionale, a cura di Gianmaria Calvetti e Tullio Scovazzi, Giuffrè Editore, Milano 2004 p.7 e ss.

 

 

[12]                   L. CONDORELLI, Legalità, legittimità, sfera di competenza dei Tribunali penali ad hoc creati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in F. LATTANZI – E. SCISO (a cura di), Dai Tribunali internazionali ad hoc a una Corte permanente, Napoli 1996, p.47 e ss.

 

 

[13]                   G.CARELLA, Il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, in P. PICONE (a cura di), Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, Padova 1995, 478.

 

 

 

[14]  Aldo Bernardini, La Jugoslavia assassinata, Napoli 2005 p.16 e ss.

 

[15]  M. Arcari, Tribunali penali ad hoc, Corte penale internazionale e Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in G. Calvetti, T. Scovazzi Dal Tribunale per la ex-Jugoslavia alla corte penale internazionale, Milano 2004, p. 7

 

[16]  A. Bernardini, La Jugoslavia assassinata, Napoli 2005.

 

[17]  Non persuadono quei tentativi intesi ad una ricostruzione di carattere morale, in base alla quale, per potere eccepire il limite della competenza domestica in una data materia, occorrerebbe che lo Stato provasse non tanto di essere libero da obblighi giuridici, bensì di non essere obbligati a presunti e improbabili principi dell’etica sociale internazionale. Il fatto che le N.U. si debbano occupare solo di questioni che hanno ripercussioni internazionali è cosa che già risulta con chiarezza dalle norme statutarie le quali fissano positivamente le competenze degli organi, nonché dalla natura dell’ONU quale ente destinato a promuovere ed attuare la collaborazione internazionale, basato sul principio della sovrana uguaglianza dei suoi membri. Si costata che in tema di diritti umani, il limite della domestic jurisdiction è sensibilmente scemato. Questo perché, come ci hanno insegnato le vicende iugoslave e irachena, con la scusa dell’esportazione di democrazia e diritti umani si sono volute giustificare azioni militari ed economiche volte a piegare gli Stati che si mostravano renitenti agli interessi delle nazioni imperialiste occidentali

 

[18]  Conforti, Scritti di diritto internazionale, Edizioni Scientifica, Napoli 2003 pag 539 e ss.

 

[19]  Romagnosi, La Scienza delle Costituzioni, Bastia, 1848, p.85

 

[20]  vedere doc. S/ 25704 del 3/05/1993, par 18-30

 

[21]  Citato da Aldo Bernardini durante la Conferenza tenutasi All’Aja il 26 Febbraio 2005 a cura dell’ ICDSM (International Committee to Defend Slobodan Milosevic “The Hague Proceedings against Slobodan Milosevic: Emergine Issues in International Law” scaricabile presso il sito www.icdsm.org